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ISTITUTO

 

ISTITUTO

I latini usarono la parola​​ institutio​​ nel senso di educazione e istruzione. Con questo significato la usarono​​ ​​ Quintiliano (Institutiones oratoriae),​​ s.​​ ​​ Girolamo, Lattanzio e​​ ​​ Vives (Institutio foeminae christianae).​​ Il termine indicò anche il luogo nel quale veniva impartita l’educazione, regola e modo di vivere nei diversi ordini religiosi. Importante fu l’Institut de France,​​ che raggruppava le cinque accademie create con la legge del 23 agosto 1795, ed aveva il compito di raccogliere le scoperte e di perfezionare le scienze e le lettere. Di grande interesse per lo sviluppo della pedagogia europea contemporanea fu l’Institut Jean-Jacques Rousseau des Sciences de l’Éducation,​​ fondato il 21 ottobre 1912 a Ginevra in occasione del secondo centenario della nascita di Rousseau. I suoi fondatori furono​​ ​​ Claparède e P. Bovet e intorno ad esso lavorarono medici, psicologi e pedagogisti di chiara fama, come​​ ​​ Ferriè­re,​​ ​​ Dottrens, P. Rosselló,​​ ​​ Piaget e molti altri. In esso si formarono varie generazioni di professionisti dell’educazione di tutti i paesi europei. Altri importanti i. a carattere pedagogico sono stati il​​ Zentral Institut für Erziehung und Unterricht​​ creato a Berlino nel 1915 e l’I. pedagogico di Vienna (1868), l’I. pedagogico J. A. Comenio di Praga (1919), l’I. di Psicologia e Pedagogia di Tilburg in Olanda (1915), l’Institute of International Education​​ di New York e l’I. Superiore di Pedagogia di Torino (1941).

Bibliografia

L’I. educativo assistenziale,​​ Roma, Amministrazione per le Attività Assistenziali, 1969;​​ The world of learning,​​ London, Europa Publications, 1986;​​ Annuario DEA delle università e i. di studio e ricerca in Italia,​​ Roma, DEA, 1988.

B. Delgado




ISTITUZIONE e giovani

 

ISTITUZIONE: e giovani

Per i. si intende un insieme di modelli di comportamento che caratterizzano un determinato gruppo sociale e che gli permettono di rispondere ai​​ ​​ bisogni e alle aspirazioni orientati verso il raggiungimento degli scopi sociali.

1.​​ Presupposti.​​ L’i. assume accezioni diverse (organizzazione, associazione, complesso di valori, modelli di comportamento) ma non si confonde con esse. Anzi, le presuppone, poiché richiede: un determinato livello di​​ organizzazione​​ per il perseguimento sistematico dei fini predefiniti;​​ l’associazione​​ di persone che svolgono funzioni socialmente rilevanti, per esempio nella scuola, negli ospedali, nei partiti, nelle cooperative, ecc.; un complesso di​​ ​​ valori, usi, costumi e norme che regolano una sfera dell’esistenza sociale; un​​ modello​​ o schema di​​ ​​ comportamento socialmente riconosciuto.

2. Prospettive di base.​​ Due prospettive di base sono all’origine del concetto: una che proviene da una forte associazione tra natura umana e cultura e un’altra dall’associazione tra valori / fini e cultura. La prima, di orientamento funzionalista, intende l’i. nel quadro dell’analogia tra società e organismi viventi. Le i. sono forme complesse di mediazione simbolica orientate alla regolamentazione di funzioni generali della vita sociale (riproduzione,​​ ​​ socializzazione, produzione, governo, controllo, ecc.). Esse costituiscono il modo con cui la vita sociale trova continuazione nel tempo in quanto la società organizza le strutture orientate alla soddisfazione dei bisogni sociali. Il concetto è collegato a quello di ruolo e di status: mentre il ruolo è connesso al comportamento che si attende da una persona che occupa una determinata posizione nella società, lo status sociale costituisce la condizione dell’insieme dei soggetti che assumono ruoli specializzati. L’i. è quindi composta da una struttura complessa di ruoli specializzati o modelli di comportamento che si associano attorno ad un’attività fondamentale o ad un bisogno sociale. La seconda prospettiva associa il concetto di i. a quello di cultura, nel senso che gli atti che si compiono sono caratterizzati da motivazioni profonde o disposizioni del bisogno indotte dall’interiorizzazione di valori e di norme. La cultura tende a orientare il soggetto verso determinati valori la cui significatività trova consenso nella società. Essi rappresentano mete da raggiungere, provocano le motivazioni, suscitano i bisogni che attivano il soggetto all’azione: la regolarità delle azioni dà origine a modelli di comportamento che vengono spesso istituzionalizzati per dare una risposta organizzata ed efficiente ai suoi bisogni.

3.​​ I.​​ e attori sociali.​​ L’i. richiede un minimo di consenso attorno ai valori costituiti a partire dai processi di socializzazione e di interiorizzazione dei valori e dalle pratiche comuni come le norme sociali, i costumi e la moralità. Attraverso tali processi gli attori sociali tendono ad assimilare le forme consolidate delle rappresentazioni, dei modelli di comportamento, dei ruoli e delle regole che costituiscono l’i. Se, da una parte, i soggetti della socializzazione vengono condizionati dai modelli istituzionali esistenti, come quelli familiari, educativi, economici e politici, dall’altra, essi tendono ad innovarli, a dare significato a particolari aspetti della cultura da cui derivano nuovi riferimenti valoriali e modelli di comportamento che orientano sia il cambiamento delle i. che l’insorgere di altre più adatte a rispondere ai bisogni emergenti.

4. L’i. educativa.​​ Soprattutto durante il periodo evolutivo giovanile, essa svolge una particolare funzione nei processi di socializzazione e interiorizzazione delle norme, delle rappresentazioni e dei valori sociali, il che rinforza il consenso attorno alle i. Essa fornisce ai soggetti un bagaglio culturale che li rende integrati nella società a cui appartengono, ma coglie anche le loro nuove domande e l’emergere di nuovi valori e bisogni che tendono ad innovarla e a renderla sempre attuale. Mentre le generazioni adulte tendono a esprimere la loro adesione alle i. in forma più accentuata, i​​ ​​ giovani avvertono più spesso l’eventuale rigidità e resistenza delle i. al cambiamento. Risultato di un consenso, le i. si formano e si trasformano con gli uomini e con le situazioni; esse si rinnovano o decadono a seconda della loro capacità di rispondere ai bisogni emergenti.

5.​​ La nascita o il cambiamento delle i.​​ Si attua attraverso il​​ processo di istituzionalizzazione​​ che può evolversi sia in forma naturale che positiva. Nel primo caso esso è il frutto della lenta elaborazione di un quadro di riferimenti valoriali dove vengono codificate le regole, sedimentate le nuove rappresentazioni (usi, costumi e tradizioni) e giuridicamente riconosciuti gli atteggiamenti collettivi. Nel senso positivo la normativa giuridica precede la formazione di una nuova i. che si sviluppa in base ad un costume esistente. Si deve infine considerare che il processo di istituzionalizzazione si presta al controllo sociale sia da parte del sistema politico che educativo, attraverso meccanismi che tendono a rinforzare le i. stabilite e a controllare i processi di socializzazione promossi dalla scuola, dalla famiglia e dai mezzi di comunicazione.

Bibliografia

Freund J.,​​ Théorie du besoin,​​ in «L’Année Sociologique»​​ (1971) 13-64; Gallino L.,​​ La società. Perché cambia,​​ come funziona,​​ Torino, Paravia, 1980; Garelli F., «I.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.),​​ Dizionario di pastorale giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989, 468-474; Moscato M. T., «Istituzionalizzazione», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. IV. Brescia, La Scuola, 1990, 6253-6257; Toscano M. A. (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli,​​ 71993.

G. Caliman




ISTITUZIONI EDUCATIVE

 

ISTITUZIONI EDUCATIVE

L’insieme delle organizzazioni sociali con specifiche strutture, quadri di riferimento culturali, procedure e modelli di comportamento, a vario titolo riferibili all’aiuto sociale e personale di formazione. Per questo nel linguaggio pedagogico si parla anche di i. formative. Nel linguaggio sociologico e in quello della comunicazione sociale si usa frequentemente la terminologia «agenzie educative» o «agenzie formative».

1.​​ I.e. e responsabilità socio-educativa.​​ Le i.e. rappresentano l’organizzazione concreta, socialmente riconosciuta e per lo più giuridicamente regolata, della responsabilità educativa, sia personale che comunitaria. In questa linea esse vengono ad essere il modo sociale di corrispondere fattivamente al diritto / dovere che ogni persona / cittadino ha di crescere, di svilupparsi e di formarsi (e da cui derivano i diritti all’educazione, all’istruzione e allo studio). Le i.e. sono l’ambito in cui, di fatto e di diritto, si realizza l’educazione intenzionale, vale a dire la mole di interventi mirati e organizzati al conseguimento delle finalità educative (​​ fine dell’educazione). In tal senso rappresentano l’espressione più cospicua dell’educazione formale, rispetto a tutto il mondo dell’educazione non formale, occasionale, informale, ecc.

2. I.e. e sviluppo sociale.​​ La storia delle i.e. è parte rilevante della storia dell’educazione e della pedagogia. L’approccio socio-educativo ne fa l’oggetto diretto della sua indagine. A motivo della loro intrinseca inserzione nella vicenda storica sociale, si può affermare che c’è una storia e una geografia delle i.e. Come le altre i. sociali, anche le i.e. sono soggette ad un processo storico di complessificazione, di mutamento e di specializzazione, parallelo e concomitante al grado di sviluppo della vita sociale. Così, in società primitive, si ha la preponderanza educativa dell’i. familiare patriarcale o del clan, accanto all’educazione informale nel vissuto della realtà comunitaria; anche se non mancano forme speciali d’iniziazione, come ad es. «la scuola della foresta» in certe tribù africane o l’educazione cavalleresca nel medioevo europeo. In società intermedie – come nelle società a prevalenza agricola e rurale o dove comunque predominano mentalità e modelli comportamentali pre-industriali – accanto alla famiglia prendono rilievo educativo le chiese, in quanto i.e. oltre che etico-religiose, e a mano a mano si diffonde la scuola d’iniziativa privata e pubblica. In società di prima industrializzazione e ad incipiente prevalenza urbana, la scuola, divisa in ordini e gradi sempre più vasti e articolati, prende la dominanza sulle altre i.e., andando verso forme di istituzionalizzazione di massa, più o meno direttamente controllabili dal potere politico statale, locale o periferico.

3.​​ Il​​ carattere complesso delle i.e.​​ Oltre che per la complessificazione, per così dire contestuale e storica, le i.e. risultano complesse in se stesse: per l’incrociarsi di strutture, finalità, modi, compiti non tutti dello stesso segno; per le molteplici relazioni non sempre omogenee e coincidenti che intercorrono tra loro: ad es. tra scuola e famiglia; tra famiglia e gruppi, associazioni, movimenti, tra famiglie e chiese; per i diseguali rapporti con gli altri sotto-sistemi sociali e le loro i.: ad es. con il mondo economico, politico, culturale; con l’organizzazione politica, i partiti, i sindacati; con il mondo imprenditoriale, il mercato internazionale, l’occupazione e la capacità di spesa familiare; con gli organi della comunicazione sociale e le nuove strumentazioni informatizzate; con le diverse forze organizzate del territorio: anch’esse tutte coinvolte in profondi processi di mutamento e di innovazione. Le i.e. danno luogo a complessi giochi d’interazioni e di relazioni interne ed esterne. Vi s’intersecano una molteplicità d’interventi di tipo giuridico, economico, legislativo, politico, culturale, religioso, ecc. Vi sono persone che agiscono ed interagiscono: con problemi quindi di comunicazione e di rapporto. Vi è un’«anima», uno stile, dei metodi diversificati. Ogni i.e. ha poi la sua particolare «cultura». Accanto a quelli propriamente formativi, vi vengono di solito perseguiti fini di altro tipo; sono attraversate da bisogni, interessi, valori diversificati.

4.​​ Diffusività della funzione educativa nella società contemporanea.​​ I processi storico-sociali attuali – che fanno parlare non solo di società post-industriale, ma anche di info-società, di società della conoscenza e della comunicazione – mettono in questione l’idea stessa di i.e. Esse perdono i loro esatti confini e la funzione sociale di educazione e di formazione viene compartecipata, in maniera diffusa, da altre i. e forme di vita sociali. In tal senso non solo viene meno il cosiddetto «scuolacentrismo», vale a dire la centralità e la quasi esclusività formativa della scuola, ma si va oltre lo stesso «policentrismo formativo», vale a dire l’ammissione e la legittimità di molteplici luoghi e centri di formazione (famiglia, scuola, chiese, sistema della comunicazione sociale, gruppi, movimenti, ecc.). La prospettiva di un​​ ​​ sistema formativo integrato coinvolge sul terreno del diritto / compito sociale e soggettivo di istruzione, formazione e educazione l’intero corpo sociale istituzionalmente organizzato. Accanto alla​​ ​​ famiglia, alla​​ ​​ Chiesa, alla​​ ​​ scuola, nelle sue varie ed articolate forme storiche, vengono ad assumere vasta rilevanza educativa, nonostante abbiano propriamente altre finalità, le i. connesse con l’organizzazione dell’informazione, della comunicazione sociale, dello spettacolo, del gioco, dello sport, del tempo libero, della prevenzione e della salute pubblica; o anche all’organizzazione della propaganda economica e politica; o ancora ai movimenti ed alle associazioni ideologiche e religiose; per non parlare delle molteplici forme di educazione informale, che si determinano nell’insieme delle interazioni sociali, nelle dinamiche dei gruppi spontanei e dei gruppi di pari in particolare. Si va ben oltre la stessa idea degli anni settanta che parlava di «scuola parallela», riferendosi soprattutto ai mass-media. Scuola, famiglia e Chiesa non sono più le uniche e totali agenzie d’educazione e di socializzazione. Esse si praticano e si realizzano in vasta misura anche nel gioco interattivo dei nuovi media e nella multiforme «navigazione» telematica e «virtuale».

5.​​ Le i.e. nella crisi e nell’innovazione della vita e delle i. sociali.​​ Dopo il​​ Rapporto Faure sulle strategie dell’educazione​​ (1973), si è preso a parlare un po’ enfaticamente di «società educante», ma anche di società poco «educativa».​​ In effetti,​​ le i.e. tradizionali risentono delle crisi, delle mutazioni e delle innovazioni che attraversano le i. sociali e le società storiche nel loro insieme, a tutti i livelli della vita sociale a fronte di quella che è stata detta con parola alla moda «globalizzazione», «post-modernità», «iper-modernità», «modernità liquida». Allo stesso tempo portano ancora il peso d’incrostazioni storiche, di privilegi in disuso, di chiusure particolaristiche. La stessa contestazione dell’autoritarismo e del burocraticismo della scuola (contro cui negli anni sessanta e settanta si sono mossi i movimenti della descolarizzazione) o l’autoritarismo della famiglia e delle chiese (giudicate spesso arretrate, integralistiche, indottrinanti, se non addirittura oppressive, soffocanti, autoritarie), sembrano sopravanzati dal timore diffuso della loro insignificanza e incapacità educativa. Le i.e. tradizionali, appaiono infatti, variamente, ma pesantemente coinvolte nelle complesse problematiche del pubblico e del privato, del personale e del politico, dei ruoli e dell’identità personale, relazionale, culturale, vitale che affetta tutti e ciascuno, persone, gruppi, associazioni, i. sociali a livello locale, nazionale, internazionale, mondiale.

6.​​ I.e.,​​ educazione permanente e educazione integrale.​​ Se per un verso viene evidenziato il carattere di «tesoro» che l’educazione viene ad assumere per sapere, saper fare, saper essere, saper vivere insieme con gli altri in questi non semplici inizi del sec. XXI, come vuole il Rapporto Delors (1997), per altro verso viene ad essere ratificata da molte parti una vera e propria «emergenza educativa», a cui l’intera società dovrebbe corrispondere. A fronte di tale problematicità, la pedagogia contemporanea, oltre ad affermare la necessaria integrazione e coerenza tra le i.e., spinge anche a guadagnare una prospettiva formativa di educazione permanente, invitando a dislocare le opportunità dell’apprendimento lungo tutto l’arco dell’esistenza e nelle diverse età della vita, con alternanza e ricorrenza di periodi di studio e di lavoro (=​​ Lifelong education). Invita a saper approfittare di tutte le occasioni sociali di formazione, quelle dell’educazione formale, ma anche quelle dell’educazione non formale e informale (=​​ on going education). Stimola ad arrivare a forme d’individualizzazione e d’apprendimento padroneggiato e al contempo invita a praticare forme di apprendimento cooperativo. In una prospettiva di educazione alla convivenza democratica, sprona a superare una visione culturo-centrica e socio-centrica della formazione, puntando su un’educazione integrale, di tutte le dimensioni dell’esistenza (=​​ Lifewide education), liberatrice, interculturale, capace di sostenere forme di vita personalizzate e responsabilizzate, eque e solidali, critiche ed innovative, in un contesto vitale pluralistico, cangiante, multi-culturale, fortemente e costantemente innovativo.

7.​​ Riforma delle i.e. e riforma sociale.​​ Risulta subito evidente che tale compito eccede le possibilità della ricerca e della riflessione pedagogica, così come l’azione educativa isolata. Non è solo questione di cambio di didattica rispetto ai nuovi modi di apprendere legati alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Occorre anche un serio e preciso impegno socio-politico di riforma culturale e sociale, in modo che sviluppo personale e sviluppo sociale progrediscano e si attuino congruentemente. Ad un livello più alto, forse si richiede anche che l’intera comunità sociale prenda coscienza dell’esigenza di mettersi «in stato di formazione». Infatti, all’accelerato processo di mutamento e di cambio sociale dovrebbe corrispondere il considerare la formazione come tratto caratterizzante della vita, della cultura e dello sviluppo sociale nella sua globalità, e non solo come obiettivo della generazione adulta nei confronti della generazione in crescita, a cui si deputano le i.e. Peraltro saranno pure da precisare ambiti e criteri di intervento e di esercizio concreto della responsabilità educativa, sia all’interno delle singole i.e., sia a livello di coordinazione tra esse, sia infine a livello di società nazionale, internazionale e mondiale: un lavoro culturale a cui possono dare il loro specifico contributo le scienze dell’educazione, impegnandosi per una cultura educativa adeguata al tempo presente e a quello futuro.

Bibl:​​ Faure E. (Ed.),​​ Rapporto sulle strategie dell’educazione,​​ Roma, Armando / UNESCO, 1973; Cresson E. - P. Flynn,​​ Insegnare e apprendere. Verso la società cognitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1996; Delors J. (Ed.),​​ Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; Scanzio F. (Ed.),​​ La società dell’apprendimento, Roma, Edizioni associate, 1998; Morin E.,​​ I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001; Angelini G.,​​ Educare si deve ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002.

C.​​ Nanni




ISTRUZIONE

 

ISTRUZIONE

Sistema organizzato da parte della comunità nazionale o locale per promuovere la trasmissione e / o l’elaborazione culturale, la​​ ​​ formazione tecnica e professionale e l’educazione alla convivenza e alla partecipazione sociale. Sollecita e guida l’acquisizione di conoscenze o di abilità in altri attraverso l’organizzazione di opportuni percorsi formativi. Dal lat.​​ instruere,​​ «preparare, costruire, insegnare», derivato da​​ struere,​​ «collocare a strati, connettere». L’origine lat. del termine sottolinea il ruolo che l’i. ha nel promuovere non solo l’acquisizione di conoscenze e di abilità in senso generico, ma soprattutto nel favorire una loro organizzazione interna coerente e permanente. Spesso si identifica il grado di i. di una persona con il livello di studi raggiunto, tuttavia sarebbe più opportuno tener conto dell’effettivo risultato conseguito non solo nello studio scolastico e accademico, ma anche in attività di approfondimento e in esperienze di apprendimento meno formali.

1.​​ I. ed educazione pubblica.​​ In Italia nel dopoguerra si è preferito usare l’espressione​​ Ministero della Pubblica I.​​ al posto della più diffusa e precedente «Ministero dell’Educazione Nazionale», per rispettare meglio la Costituzione ed evitare equivoci circa il ruolo dello Stato nella definizione dei programmi e nella gestione pubblica delle scuole. Questa distinzione, molto ragionevole nella sua impostazione originaria, ha condotto a poco a poco a un equivoco: che la​​ ​​ scuola non abbia un compito educativo generale della persona, ma solo un compito istruttivo nei settori culturali e / o professionali. Tuttavia questa opposizione appare teoricamente e operativamente fuorviante in quanto non si può dare educazione senza i., né i. senza educazione, nel senso che ogni trasmissione culturale e formazione professionale porta in sé esperienze e aperture valoriali e, inoltre, la vita stessa che si conduce nell’istituzione destinata all’i. è inevitabilmente segnata da sollecitazioni educative. La promozione culturale e professionale della persona è cioè inscindibilmente legata a una sua crescita etica e sociale. Inoltre l’i. attivata come servizio pubblico promosso dallo Stato italiano mira non solo alla formazione culturale e professionale, ma anche personale, sociale ed etica degli alunni.

2.​​ I.​​ ed educazione.​​ La polemica sopra accennata può essere superata se si considera da una parte il ruolo dello Stato, dall’altra quello della​​ ​​ comunità educante scolastica e, infine, quello del singolo docente. Certamente lo Stato non è titolare di un progetto educativo totalizzante: la famiglia in particolare ha nei processi educativi un ruolo primario. Tuttavia, proprio perché i​​ ​​ valori e i principi che guidano la convivenza civile e democratica sono decisi dalla comunità nazionale su basi consensuali, essi costituiscono l’orizzonte educativo in cui con coerenza la comunità educativa scolastica ha il compito e la responsabilità di elaborare un progetto educativo che interpreti e completi quanto indicato dalla Costituzione, dalle leggi e dai programmi scolastici ufficiali. I processi istruttivi, quanto a contenuti e obiettivi, in cui lo Stato ha competenza specifica, vanno quindi assunti, riletti e adattati alla popolazione scolastica concreta (​​ programmazione educativa / scolastica).

3.​​ I processi istruttivi di base.​​ Lo sviluppo dell’i, è stato un obiettivo fondamentale che lo Stato italiano è tenuto a perseguire. Essa è un diritto-dovere dei cittadini al fine di partecipare a pieno titolo alla vita democratica, sociale, economica e produttiva della nazione. L’i. obbligatoria è diventata quindi un problema centrale per lo sviluppo non solo sociale e culturale, ma anche economico e finanziario. Nell’Ottocento si è individuato un livello minimo di tre anni di i. obbligatoria. Tale livello è stato progressivamente innalzato a otto anni, secondo il dettato costituzionale. Sono in atto iniziative parlamentari per portare a dieci anni tale obbligo oppure fino al compimento dei sedici anni. La tendenza però è verso il prolungamento fino ai diciotto anni. La condizione di fattibilità e di validità formativa di tali progetti è data dal livello di flessibilità e di articolazione del​​ ​​ sistema formativo, piuttosto che dalla uniformità e dalla unicità dei percorsi educativi scolastici.

4.​​ Per una teoria dell’i.​​ Teorie generali sulla scuola e sui suoi compiti educativi si sono succedute nel tempo. Si possono citare le ampie elaborazioni sviluppate da​​ ​​ Herbart, da​​ ​​ Willmann, da​​ ​​ Hessen. Negli anni cinquanta si è manifestata una diffusa nuova sensibilità per lo studio dei processi istruttivi. Tale sensibilità era particolarmente sollecitata dalle trasformazioni sociali, economiche ma soprattutto tecnologiche che si succedevano con ritmo crescente. Una scuola di massa protratta nel tempo e adatta a formare cittadini competenti e capaci di partecipazione esigeva un ripensamento non solo dell’impianto disciplinare, ma soprattutto di come andavano considerate e valorizzate le varie​​ ​​ discipline da includere nel curricolo di studi. Una proposta influente venne da Bruner (1967), che sintetizzò efficacemente i risultati di studi e ricerche degli anni cinquanta e sessanta. Si trattava di individuare i nuclei portanti, le idee generatrici, i principi di sviluppo che costituiscono la struttura portante delle varie discipline e concentrare 1’​​ ​​ insegnamento su questi elementi essenziali, più che disperdersi in una molteplicità sconnessa di nozioni e conoscenze particolari. In realtà gli sviluppi concreti dei programmi di studio italiani varati negli anni settanta e ottanta hanno seguito un orientamento diverso, non solo moltiplicando le discipline di studio, ma anche esagerando nella indicazione dei loro contenuti. E. Morin (2000) ha insistito sulla necessità di favorire lo sviluppo di una «testa ben fatta, piuttosto che una testa ben piena», rispettando l’adagio tradizionale di insegnare «non multa sed multum». Questa indicazione pur accettata in linea teorica, non ha trovato in genere molto spazio pratico. Ha prevalso la richiesta degli studiosi delle differenti discipline di dare spazi adeguati e autonomi a ciascuna di esse, rimandando a ipotetiche operazioni di scelta e organizzazione concreta dell’impianto generale formativo affidate ai Collegi dei docenti e ai Consigli di classe. L’indicazione comeniana di insegnare tutto a tutti è stata presa troppo alla lettera in tempi e realtà culturali assai diversi.

5.​​ Forme di i.​​ La teoria dell’i. distingue in genere varie forme concrete di i. Molte di queste si connettono con quanto passa sotto il titolo di​​ ​​ metodi didattici e di​​ ​​ didattica. Tuttavia alcune distinzioni possono essere prese in considerazione in questo contesto. La prima concerne la distinzione tra i. diretta e i. indiretta. Come gli aggettivi indicano chiaramente, il primo tipo di i. mira direttamente ed esplicitamente a insegnare concetti e abilità specifici. Esso si presenta in genere come diretto all’intera classe e centrato sull’intervento espositivo e valutativo dell’insegnante, che espone i vari argomenti, pone domande o interroga gli alunni, sollecita l’esercizio, corregge gli errori, riassume gli argomenti sviluppati, verifica le acquisizioni raggiunte dai singoli. Un insegnamento indiretto si presenta in genere come basato su una ricerca guidata dal docente, che partendo da problemi chiaramente individuati, sollecita l’indagine autonoma sia dei singoli sia di piccoli gruppi opportunamente organizzati. L’insegnante sostiene il lavoro individuale o di gruppo, facilitando la ricerca delle informazioni, la loro verifica e valorizzazione, il confronto tra le conclusioni via via raggiunte, l’organizzazione finale delle conoscenze acquisite.

Bibliografia

Willmann O.,​​ Didattica come teoria della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1962; Bruner J. S.,​​ Verso una teoria dell’i.,​​ Roma, Armando, 1967; Bertoldi F.,​​ Teoria sistemica dell’i.,​​ Brescia, La Scuola, 1977; Vertecchi B.,​​ La qualità dell’i.,​​ Torino, Loescher, 1978; Tornatore L. et al.,​​ Insegnamento: contenuti e metodi,​​ Milano, ISEDI, 1978; Bottani N.,​​ La ricreazione è finita: dibattito sulla qualità dell’i.,​​ Bologna, Il Mulino, 1986; Ravaglioli F.,​​ Fisionomia dell’i. attuale,​​ Roma, Armando, 1986; Laporta R. (Ed.),​​ Le ragioni dell’i.,​​ Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1987; Cedrone C. (Ed.),​​ Centralità e qualità dell’i.,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; Morin E.,​​ La testa ben fatta, Milano, Cortina, 2000; Sandulli A. M.,​​ Il sistema nazionale di i., Bologna, Il Mulino, 2004; Bertagna G.,​​ Il pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di i. e formazione professionale di pari dignità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

M. Pellerey




ISTRUZIONE DIRETTA

 

ISTRUZIONE DIRETTA

In genere con i.d. (direct instruction)​​ viene inteso un metodo didattico in cui l’insegnante è il protagonista principale, colui che dirige, modella, controlla, riceve e fornisce​​ feedback​​ correttivi e aiuta a raggiungere il comportamento desiderato di fatti e di sequenze di azioni. Il termine, che è apparso nella letteratura educativa alla fine del secolo scorso, è usato con altri termini simili come:​​ systematic teaching,​​ explicit instruction,​​ explicit teaching,​​ active teaching,​​ effective teaching.

1. Tutti questi termini insistono sul fatto che «se vuoi che lo studente impari qualcosa, insegnaglielo direttamente». Il metodo ha conseguito un’ampia diffusione e secondo Rosenshine (1995) può assumere diversi aspetti: l’i. condotta dall’insegnante, le procedure per un insegnamento efficace, quelle utilizzate per insegnare delle strategie cognitive, quelle usate per l’i. di processi di aritmetica e lettura e la situazione di apprendimento condotta dall’insegnante mentre gli studenti assistono passivamente. L’i.d. non ha una definizione ufficiale e definitiva. Per Duffy e Roehler, essa significa «una particolare attenzione alla scuola, una sequenza precisa del contenuto, un elevato impegno e coinvolgimento degli studenti, un attento e costante controllo, un​​ feedback​​ correttivo dato agli studenti» (1986, 35). Nonostante i vari significati e usi del termine, si può dire globalmente che il metodo dell’i.d. si propone l’obiettivo di insegnare allo studente come fare qualcosa e come apprendere in modo significativo qualche contenuto.

2. L’i.d. richiede fondamentalmente lo svolgimento di alcune funzioni (Rosenshine, 1986; Rosenshine-Meister, 1995): a) la revisione e il controllo del lavoro eseguito nella lezione precedente (ri-insegnamento se necessario) o la presentazione di quello che deve essere appreso, sia esso un contenuto o un processo mentale in piccoli passi; b) la pratica guidata dall’insegnante attraverso un pensare ad alta voce (modeling)​​ con verifica della​​ ​​ comprensione, suggerimenti per superare le difficoltà che si incontrano, domande e risposte; c) il​​ feedback,​​ le correzioni e le ripetizioni se è necessario; d) la presentazione di prestazioni esemplari del compito; e) la pratica indipendente in cui lo studente mette in atto ciò che ha imparato mentre l’insegnante sorveglia e controlla l’esecuzione; f) la revisione settimanale o mensile.

Bibliografia

Duffy G. G. - L. R. Roehler,​​ The subtleties of instructional mediation,​​ in «Educational Leadership» 43 (1986) 23-27; Rosenshine B.​​ V.,​​ Synthesis of research on explicit teaching,​​ in «Educational Leadership» 43 (1986) 145-153; Rosenshine B.​​ V.​​ - C. Meister, «Direct instruction», in L. W. Anderson (Ed.),​​ International encyclopedia of teaching and teacher education,​​ Oxford, Pergamon Press, 1995, 143-149.

M. Comoglio




ISTRUZIONE PROGRAMMATA

 

ISTRUZIONE PROGRAMMATA

L’i.p. è una delle tecniche didattiche che hanno riscosso maggior successo a livello mondiale a partire dagli anni ’50. La letteratura sull’argomento è vastissima. L’i.p. è legata ai nomi di S. L. Pressey che, a partire dal 1924, inventò, insieme ai suoi collaboratori, un dispositivo di autoistruzione (teaching machines),​​ e di altri due statunitensi,​​ ​​ B. F. Skinner e N. Crowder. Essa, di difficile definizione, può essere considerata come una tecnica dell’autoapprendimento che comporta una programmazione strutturata, costruita cioè con particolari sequenze programmate in progressione logica e con massima graduazione delle difficoltà, che consentono allo studente di procedere secondo il proprio ritmo verificando immediatamente l’esattezza o meno delle risposte date. Le sequenze si distinguono in​​ lineari​​ e​​ ramificate​​ e possono presentarsi sotto forma di libro, fascicoli, schede, dischetti, quindi con supporto meccanico o elettronico.

1.​​ Skinner e i programmi «lineari».​​ Skinner è l’esponente del programma chiamato «lineare» che viene costruito in base a quattro principi: a) della partecipazione attiva per cui provoca una risposta da «costruire» da parte dell’alunno come completamento di un’informazione o un’asserzione; b) dei piccoli passi (step by step)​​ secondo cui ogni passo corrisponde a un riquadro (frame)​​ e ad una unità di contenuto ridottissima (item)​​ c) del​​ feedback continuo,​​ ossia della conoscenza immediata dei risultati mediante il confronto con la risposta-modello; d) del rispetto del ritmo di apprendimento di ciascun alunno. Skinner, secondo la teoria del rinforzo, crede che le risposte ripetutamente giuste rinforzino / gratifichino l’apprendimento e perciò, non volendo che l’alunno sia indotto in errore, i programmi devono essere costruiti in modo da assicurare almeno un successo del 90%.

2.​​ Crowder e i programmi «ramificati» o «intrinseci».​​ Crowder, pur accettando i principi della risposta attiva e della conferma immediata delle risposte giuste, propone, a differenza dei programmi lineari, un modello di programmazione articolata e flessibile, ossia programmi plurisequenziali chiamati «ramificati» (branching programs)​​ o «intrinseci» (intrinsic programs)​​ corrispondenti alle risposte scelte. L’individualizzazione avviene non solo secondo il ritmo di ciascuno, ma anche permettendo a ciascuno un percorso differenziato in base ai risultati che egli man mano consegue. Di qui il cosiddetto «libro mischiato» (scrambled book)​​ il quale, pur avendo la numerazione ordinaria delle pagine, prevede un ordine di lettura personale secondo la sequenza dipendente dalle proprie scelte. Infatti, in ogni​​ frame,​​ accanto alle alternative della scelta multipla, viene indicata la pagina del rinvio. A seconda del modo di indicare la risposta-modello si parla di​​ libri a programmi verticali,​​ cioè con la risposta esatta posta accanto all’unità successiva, o di​​ testo orizzontale,​​ che pone la risposta esatta nella pagina successiva.

3.​​ La tecnica.​​ La tecnica dell’i.p. non si presta allo stesso modo per tutte le materie di studio. I programmi skinneriani, di unisequenzialità assoluta, si prestano maggiormente per introdurre gli alunni negli argomenti nuovi, soprattutto elementari e fondamentali, quelli crowderiani per l’autoapprendimento delle conoscenze complesse, mentre quelli di Pressey, di linearità a scelta multipla, sono più indicati per il riepilogo, l’esercizio o il recupero e non come materiale di autoapprendimento vero e proprio. Il computer, di uso sempre più diffuso oggi, facilita enormemente la costruzione e l’impiego di tali programmi. La logica dell’i.p., con la sua rigorosa programmazione delle sequenze di apprendimento, è il prototipo della tecnologia dell’insegnamento, nel senso che per ogni unità si programmano minuziosamente i microelementi di​​ obiettivo,​​ contenuto,​​ strategia didattica,​​ controllo.​​ Tale tecnica, perciò, rappresenta una perfetta realizzazione di​​ ​​ algoritmi didattici: accertamento delle condizioni di ingresso, definizione dei compiti / obiettivi, riordinamento sequenziale dei contenuti, prove di verifica. La tecnica dell’i.p., senza dubbio, contribuisce alla strutturazione logica dei contenuti didattici, all’individualizzazione, ad una nuova concezione della valutazione, alla chiarezza e all’essenzialità dell’informazione fornita. Se ha riscosso tanto successo ciò è dovuto proprio a queste caratteristiche a cui la didattica deve prestare attenzione, pur non risolvendone tutti i problemi. Infatti lascia scoperte importanti aree: la promozione del pensiero divergente, la creatività, la socializzazione. Essa va quindi integrata con il metodo della ricerca (che incoraggia l’iniziativa culturale), con la creatività, con l’assunzione di responsabilità, ecc.

Bibliografia

Gavini G.,​​ Manuel de formation aux techniques de l’enseignement programmé,​​ Paris, 1965; Skinner B. F.,​​ The technology of teaching,​​ New York, 1968; Pocztar J.,​​ The theory and practice of programmed instruction.​​ A guide for teachers,​​ Paris, ESF, 1972; Vaccaroni F., «L’i.p.: aspetti, problemi, prospettive», in E. Bernacchi Cavallini et al.,​​ Il​​ modo nuovo di fare scuola,​​ Milano, Fabbri, 1978,141-193;​​ Ferrández A. - J. Sarramona - L. Tarín,​​ Tecnología didáctica. Teoría y práctica de la programación escolar,​​ Barcelona, CEAC,​​ 41979.

H.-C. A. Chang




ISTRUZIONE SUPERIORE

 

ISTRUZIONE SUPERIORE

Considerando il​​ ​​ sistema formativo articolato per livelli di i., si parla di i.s. con riferimento al terzo livello che comprende la formazione postsecondaria e l’i. universitaria destinata ai soggetti di età 20-24 anni. Secondo le statistiche annuali dell’Unesco, la registrazione dei dati quantitativi (istituzioni, insegnanti, studenti) relativamente all’i. al terzo livello va riferita alle​​ ​​ università, alle istituzioni equivalenti alle università, ad altre istituzioni di terzo livello non universitarie.

1. Le università italiane sono per lo più statali e godono di autonomia amministrativa e didattica. Il Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica svolge un ruolo di supervisione, ha compiti di indirizzo e di programmazione, non di gestione diretta delle risorse. L’accesso all’università è possibile per tutti coloro i quali escono dalla scuola secondaria di secondo ciclo (o grado), avendo conseguito il diploma di Stato di maturità, o titolo equivalente (licenza liceale europea, baccalaureato internazionale, diploma secondario straniero riconosciuto). Tuttavia chiunque abbia superato il venticinquesimo anno di età può iscriversi ai corsi universitari anche senza il completamento della scuola secondaria (L. 910 / 1962). La durata dei corsi varia da tre (es. facoltà umanistiche) a sei anni (es. medicina) ed al termine viene rilasciato il titolo di dottore ed il diploma di laurea nella disciplina specifica. Importanti cambiamenti sono stati introdotti con il d. m. 509 / 1999 di riforma della didattica universitaria, sintetizzata nella formula «3+2», e con il d. m. 270 / 2004 che ha modificato alcune delle norme precedenti. Gli obiettivi della riforma sono: creare un sistema di studi articolato su​​ due livelli​​ di laurea; permettere agli atenei di definire in​​ autonomia​​ gli ordinamenti didattici dei corsi di studio; facilitare la​​ mobilità​​ degli studenti;​​ ridurre i tempi​​ di conseguimento del titolo e gli abbandoni; dare​​ contenuti​​ professionalizzanti​​ ai corsi di studio. Lo spazio europeo dell’i.s. delineato nella Dichiarazione di Bologna (1999) promuove l’allargamento e l’intensificazione dei rapporti tra i Paesi dell’Unione europea, partendo dal nucleo fondamentale dato dalla conoscenza. I Consigli Europei di Lisbona (2000) e Barcellona (2002) delineano le strategie politiche per una economia competitiva, dinamica, basata su informazione, formazione e coesione sociale, da attuare entro il 2010.

2. Fanno parte dell’ordinamento universitario le​​ Scuole dirette a fini speciali​​ (es.: Educatori di comunità; Educatrici professionali; Assistenti sociali) e le​​ Scuole per diplomi universitari​​ (es.: Abilitazione alla vigilanza nelle scuole elementari) trasformate in corsi di laurea con la riforma universitaria del 1999. Tra le altre istituzioni che forniscono una formazione superiore postsecondaria, con rilascio di una laurea di primo livello, vi sono gli​​ Istituti di i.s. artistica​​ (es.: Accademie di Belle Arti); il precedente​​ Istituto superiore di educazione fisica​​ (ISEF) è stato trasformato in​​ Istituto universitario di scienze motorie​​ (IUSM). Gli studi post-laurea prevedono il​​ Dottorato di ricerca,​​ le​​ Scuole di specializzazione,​​ i​​ Corsi di perfezionamento,​​ i​​ Master di I e di II livello.

Bibliografia

Chistolini S., «Sistemi educativi nei paesi della Comunità Europea», in M. Laeng (Ed.),​​ Atlante della pedagogia: I luoghi,​​ vol. 3, Napoli, Tecnodid, 1993, 245-462; Segre M.,​​ Accademia e società: conversazioni con Joseph Agassi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; Alma Laurea,​​ Condizione occupazionale dei laureati. Pre e post riforma. VIII Indagine 2005, Bologna, Alma Laurea, 2006; Tognon G. (Ed.),​​ Una dote per il merito. Idee per la ricerca e l’università italiane, Bologna, Il Mulino, 2006.

S. Chistolini