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ISIDORO DI SIVIGLIA

 

ISIDORO DI SIVIGLIA

n. a Cartagena nel 562? - m. nel 636 a Siviglia, erudito, arcivescovo di Siviglia.

1. Attraverso le sue opere ed i suoi discepoli svolge un grande lavoro nella restaurazione culturale e spirituale della sua epoca, che darà luogo al cosiddetto «rinascimento isidoriano». Dopo le invasioni nordiche I. continua a trascrivere nel suo​​ scriptorium​​ di Siviglia buona parte degli umanisti classici, quelli dell’antichità cristiana, e i testi propedeutici elaborati per l’insegnamento da dotti e compilatori dell’epoca ellenistica. Nell’insieme monumentale delle sue opere raccoglie, classifica e ricolloca nell’universo isidoriano gli autori dell’antichità, avvalendosi di un metodo di lavoro​​ etimologico.​​ Ricerca gli elementi più semplici del sapere nella composizione-scomposizione delle parole; lavora sull’origine, le differenze, le antinomie, le omonimie, il significato. Salva così per i posteri il linguaggio scritto e orale, elemento di base di ogni cultura. Nell’apporto pedagogico di I. si evidenziano, soprattutto, le​​ Sentenze​​ o​​ Etimologie,​​ che rappresentano il primo tentativo di sistematizzazione del dogma e della morale cattolici. Nei XX libri delle​​ Origini​​ o​​ Etimologie,​​ I. riorganizza​​ enciclopedicamente​​ il sapere del suo tempo. I primi quattro libri sono dedicati al​​ trivium​​ e al​​ quadrivium,​​ una sintesi delle​​ ​​ arti liberali che avrà fortuna nelle scuole dell’alto​​ ​​ Medioevo.

2. Il contributo pedagogico di I. oltrepassa però i limiti dell’enciclopedia. Partendo dalla concezione cristiana, indica il fine dell’educazione in una teologia della salvezza. La formazione umana deve dare senso a tutte le​​ conoscenze,​​ che il processo educativo orienterà verso la​​ ​​ virtù. Questa, a sua volta, tende alla​​ ​​ saggezza cristiana. I doveri del saggio sono quelli di apprendere ed insegnare. Il​​ ​​ maestro, come dirà il IV Concilio di Toledo (633) presieduto dallo stesso I., sarà dotto, virtuoso, capace di adattarsi ad ogni tipo di intelligenza. Con le sue opere, I. realizza «una​​ praelectio​​ monumentale, una isagoge, un portico che consentirà l’ingresso prima alla rinascita carolingia e poi ai tre secoli seguenti» (P. Riché).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ San I. de Sevilla. Etimologías. Introducción de M ª C. Diez Diez, Madrid, BAC, 2000. b)​​ Studi:​​ Riché P.,​​ Éducation et culture dans l’Occident barbare, Paris, Seuil,​​ 31962; Fontaine J.,​​ San I. de Sevilla. Génesis y originalidad de la cultura hispánica en tiempos de los visigodos,​​ Madrid,​​ Encuentro, 2002; Arce Martínez J.,​​ San I.,​​ Doctor Hispaniae, Sevilla, Fundación El Monte, 2002.

Á. Galino - Á. del Valle




ISLAMISMO

 

ISLAMISMO

Il termine (dall’arabo​​ islàm, sottomissione e abbandono a Dio) designa comunemente la fede (imān) e la religione (dīn) monoteista basata sulla predicazione di Maometto, considerato dai musulmani l’ultimo e definitivo profeta inviato da Dio (in arabo​​ Allāh).

1.​​ L’importanza del sapere religioso.​​ Un numero impressionante di versi coranici sottolinea la suprema importanza del sapere (‘ilm)​​ e la grande considerazione di Dio, nel senso di «sapere rivelato» (cfr. C 96,1-5; 58,11). Le raccolte canoniche delle tradizioni (hadith)​​ assegnano una posizione di prestigio a coloro che esaltano l’‘ilm.​​ Secondo alcune tradizioni, è dovere di ogni musulmano, uomo o donna, vecchio o giovane, acquisire il sapere: «La ricerca del sapere è obbligatoria per ogni musulmano» (Muhammad Ali,​​ A manual of hadith,​​ London, 1983, 39). L’individuo che ha familiarità con il «sapere rivelato» (‘alim)​​ è rispettato nell’Islam, e trasmettere tale sapere è una nobile occupazione. È risaputo che sin dalle origini la civiltà islamica ha dato notevoli contributi ai vari filoni dell’erudizione.

2.​​ Luoghi ed istituzioni.​​ Gli studi religiosi​​ ​​ incentrati intorno al Corano​​ ​​ furono portati avanti sia all’interno che intorno alla moschea, sede delle cinque preghiere liturgiche giornaliere. Qui si insegnava a recitare, leggere e scrivere il Corano, e anche i comandi rivelati e la dottrina della fede. Comparvero degli specialisti religiosi, gli Ulema, per recitare il Corano e imparare a memoria le Tradizioni. In breve tempo, quando dall’essenza di queste due fonti fondamentali fu ricavata la​​ sharî ‘a​​ (legge), gli Ulema divennero uomini le cui attività si focalizzavano sull’applicazione della legge e l’insegnamento delle capacità necessarie per farlo. Con il trascorrere del tempo, le moschee della congregazione (Jami’ masjid)​​ nelle cittadine e città più grandi divennero centri con un programma di studi più diversificato e complesso. La scuola coranica (maktab)​​ è l’istituzione ed il luogo in cui i bambini di quattro o cinque anni di età imparano a leggere e scrivere. Scopo principale di tale conoscenza è permettere al credente di leggere e recitare perlomeno alcune parti del Corano in modo corretto, un elemento essenziale del culto islamico, e rendere edotti sugli elementi di base e direttamente pertinenti alla legge religiosa. L’insegnante, tradizionalmente, era pagato ad intervalli, quando gli studenti progredivano nell’apprendimento del Corano. Dato che i moderni sistemi scolastici hanno sostituito oggi quello tradizionale, la scuola coranica è diventata un’istituzione in larga misura pre-scolastica o parallela a livello educativo per i bambini più piccoli. Un​​ madrasa​​ («un luogo dove studiare») è una scuola tradizionale di studi superiori, che presuppone la preparazione del​​ maktab.​​ Il​​ madrasa​​ in origine era più una residenza che un luogo separato di studi, dato che l’istruzione veniva impartita nella moschea stessa, con gli studenti seduti intorno al maestro. I​​ madrasa-s,​​ nel senso di scuole o​​ college​​ separati istituzionalmente, presero avvio in molte parti del mondo musulmano nell’XI sec., quando le autorità secolari lottarono per ottenere il controllo sulle istituzioni religiose. Tra i più famosi vi erano i madrasa «Nizamiyya» fondati dal visir Nizam al-Mulk (morto nel 1092) in Iraq e Persia, e l’Università al-Azhar fondata come scuola della moschea al Cairo nel 972, che sarebbe ben presto diventata il centro più famoso ed influente a livello mondiale della cultura musulmana. Persino questi​​ madrasa-s,​​ separati a livello di istituzione, erano comunque ospitati per lo più nei locali di una moschea. Anche nei conventi sufi (khanqah; tekke)​​ vi era molto spesso un​​ madrasa.​​ In vaste parti del mondo musulmano tradizionale, infatti, lo studio del Corano, delle tradizioni e della legge andavano di pari passo con l’iniziazione al cammino sufi di avvicinamento a Dio nella pratica (tariqa)​​ e nel pensiero (ma’rifa).​​ C’erano inoltre molte persone istruite che impartivano lezioni in uno o due filoni del sapere nelle loro case o nelle case di nobili. In molti stati musulmani medievali, i​​ madrasa-s​​ erano interamente finanziati dallo stato tramite concessione di terre e sotto forma di salari regolarmente pagati al corpo insegnante. Comunque, nella maggior parte dei casi, tanto allora quanto oggi, essi erano mantenuti dal sostegno pubblico, spesso sotto forma di donazioni pie (awqaf),​​ che comprendevano possedimenti di vario tipo che producevano rendite, ma anche sotto forma di denaro contante, abiti, attrezzature, ecc. che venivano offerti regolarmente e periodicamente. I​​ matktab-s​​ e i​​ madrasa-s​​ sono sempre stati aperti a tutti. Il sapere religioso nelle società islamiche non è mai stato prerogativa solo delle classi più elevate o di alcune famiglie: gli Ulema persino oggi continuano ad appartenere ad uno spaccato della società, più in particolare la classe dei piccoli uomini d’affari, degli artigiani e di quelle professioni con redditi più bassi. Grazie alle borse di studio e ad uno stile di vita molto semplice, l’istruzione del​​ madrasa​​ è accessibile ai figli della gente comune.

3.​​ Metodi.​​ Per quanto riguarda i metodi di trasmissione del sapere, non si nota una differenza tra i livelli elementare ed avanzato. Le materie che erano insegnate nei​​ madrasa-s​​ consistevano nel commento al Corano, nella tradizione e nella legge islamica (per es.​​ manqul:​​ le scienze trasmesse), ma anche nella filosofia, medicina, scienze naturali, lingue e musica (per es.​​ ma’qul:​​ le scienze razionali). Fino a non molto tempo fa gli studenti sedevano in cerchio intorno al proprio insegnante, che leggeva loro ad alta voce e spiegava un testo scritto dagli insegnanti stessi, oppure commentava il testo di un autore precedente. Di norma gli studenti non dovevano prendere appunti durante la lezione. Una volta imparato a memoria il materiale spiegato, essi ottenevano dall’insegnante una licenza (ijaza)​​ che li autorizzava a trasmettere ciò che avevano appreso ad altri. Occorre sottolineare il carattere orale di questo metodo di trasmissione del sapere: ancora nel XX sec. il sapere acquisito unicamente sulla base di testi scritti, era considerato inaffidabile. L’insegnante e le opere studiate contavano più del nome dell’istituzione e del contenuto in quanto tale, tant’è vero che esisteva la consuetudine di viaggiare da un insegnante all’altro. Come indica un manuale pedagogico del XIII sec.: «Riconosci che (il tuo maestro) è padre della tua anima e causa della sua creazione e essenza della sua vita, così come il tuo genitore è padre del tuo corpo e della sua esistenza» (cit. in F. Robinson,​​ Atlas of the Islamic World since 1500,​​ 34). I​​ madrasa-s​​ si rivelarono un modello per le università europee. Dai​​ madrasa-s​​ di Fatimid in Egitto, ad es., si diffusero delle tradizioni come quella di indossare le toghe nere da​​ college​​ e la divisione in facoltà pre- e post-laurea. I testi del passato non menzionano praticamente alcun insegnante di sesso femminile; alcune donne, specialmente di nobile retaggio, acquisirono un’istruzione islamica di alto livello, ma solo in tempi più recenti vennero fondati dei​​ madrasa-s​​ per ragazze, soprattutto nel sud e sud-est asiatico.

4.​​ Situazione contemporanea.​​ L’istruzione istituzionalizzata dei​​ madrasa-s,​​ come si ritrova nella maggior parte del mondo musulmano di oggi, sembrerebbe aver perso molto di quel tipo di qualità personale dell’insegnamento che nel passato incoraggiava la ricerca individuale. Ciò che praticamente non è cambiato è la tendenza conservatrice insita nel sistema dei​​ madrasa-s.​​ Compito dell’educazione dei​​ madrasa-s​​ dovrebbe essere quello di indicare la via in una formula definitiva, che lo studente deve tentare di mantenere «pura» fino all’Ultimo Giorno, di trasmetterla ed interpretarla. Si imparano così molte enunciazioni fisse a memoria, senza la necessità di comprenderle e l’enfasi è posta più sull’imparare come le cose dovrebbero essere alla luce della rivelazione che sul riflettere criticamente sugli eventi passati e futuri ed imparare da essi. La premura di conservare ciò che potrebbe andare perduto ha molta più importanza del tentativo di scoprire quali aspetti della verità sono ancora nascosti. Agli studenti «sono insegnate materie che non hanno praticamente alcun peso sulla loro vita quotidiana, perché sono apparentemente preparati ed addestrati per diffondere il «messaggio divino» in una società moderna e cosmopolita senza i moderni strumenti del sapere» (Mushirul Haq,​​ Islam in Secular India,​​ Simla, 1972, 40). L’esistenza di​​ madrasa-s​​ privati ha creato una dicotomia nel sistema scolastico: da una parte ci sono le istituzioni secolari moderne,​​ college​​ ed università, dove i figli e le figlie dell’élite possono permettersi un’istruzione moderna, dall’altra ci sono i​​ madrasa-s​​ gestiti privatamente che attraggono i figli delle classi inferiori oppresse. Molti comitati e conferenze sono stati organizzati da vari governi per aiutare a migliorare questi​​ madrasa-s​​ ed integrarli nel più ampio sistema scolastico nazionale. Ma il divario tra l’istruzione secolare e l’insegnamento teologico si è continuamente allargato. Il sistema dei​​ madrasa-s​​ è intimamente collegato al problema dell’identità della comunità musulmana. Come sistema integrato e globale, l’Islam ha una propria concezione della storia, della società, dell’economia e della cultura, una visione che è stata forzatamente propugnata dagli Ulema e dai loro​​ madrasa-s.​​ Ciò spiega la lotta tra i modernisti progressisti che vogliono reinterpretare, ricostruire e ridefinire i principi dell’Islam ed i conservatori Ulema, il prodotto di questi​​ madrasa-s,​​ che tenacemente si aggrappano ai modelli tradizionalisti di vario tipo a spese di una rielaborazione creativa della società musulmana e del pensiero religioso islamico nel mondo contemporaneo.

Bibliografia

Moreno M. M.,​​ L’I. e l’educazione,​​ Milano, Istituto Editoriale Galileo, 1951; Ritton A. S.,​​ Materials on Muslim education in the Middle Ages,​​ London, Luzac, 1957; Eickelmann D.,​​ The art of memory: Islamic knowledge and its social reproduction,​​ in «Comparative Studies in Society and History» 20 (1978) 485-516; Al-Attas M. Al-Naquib,​​ Aims and objectives of Islamic education,​​ Jeddah, King Abdulaziz University, 1979; Makdisi G.,​​ The rise of colleges,​​ Edinburgh, University Press, 1981; Rahman F.,​​ Islam and modernity. Transformation of an intellectual tradition,​​ Chicago / London, University of Chicago Press, 1982; Robinson F.,​​ Atlas of the Islamic world since 1500,​​ Oxford, Phaidon, 1982; Schreiner P. et al.,​​ Le cinque grandi religioni del mondo.​​ Induismo,​​ Buddismo,​​ I.,​​ Cristianesimo, Brescia, La Scuola, 2002.

C. W. Troll




ISOCRATE

 

ISOCRATE

Vissuto ad Atene tra il 436 e il 338 a.C., retore greco.

1.​​ Contesto.​​ I. riveste una particolare importanza in una fase significativa per la definitiva strutturazione della cultura e della pedagogia dell’antica​​ ​​ Grecia. Inizialmente​​ logografo​​ (scrittore di discorsi), nel 393 apre ad Atene la sua scuola di retorica, che gli attira grande fama e con la quale influisce in modo determinante sulla scuola del periodo ellenistico e su tutta la successiva corrente umanistica. Fu alunno dei sofisti Prodico e Gorgia, ma non fu, probabilmente, estraneo all’influsso di​​ ​​ Socrate.

2.​​ L’ideale del retore.​​ Pur continuando la tradizione sofistica, porta a perfezione​​ «l’arte della parola»,​​ la retorica, non solo per la forma letteraria, ma anche per l’importanza e la dignità da lui riconosciuta alla parola nella vita dell’umanità e nella cultura: essa ci distingue dagli animali; nulla d’importante avviene senza la parola. In ciò I. si differenzia sia dalla scuola platonica, che riduceva la retorica a strumento della dialettica, sia dalla scuola dei​​ ​​ Sofisti in cui la parola era svilita a strumento, quasi neutro, di convincimento per qualsiasi opinione. Il retore, per I., non poteva prescindere dal mettere la parola al servizio dei più grandi valori umani e farne mezzo di comunicazione di questi stessi valori sia nell’ambito personale che in quello politico. Senza giungere alla pretesa della conoscenza assoluta della​​ verità​​ (e in ciò si distingue dalla scuola di​​ ​​ Platone), I. non può accontentarsi del gioco utilitaristico delle​​ opinioni​​ al modo dei Sofisti. La​​ doxa​​ (opinione) cui guarda riveste per lui la dignità del bene raggiungibile nell’onestà della ricerca umana, attraverso l’uso della parola. La retorica è, così, inseparabilmente connessa con l’etica.

3.​​ La formazione del retore.​​ In questa linea I. si propone come educatore, formatore di altri maestri di retorica, di politici, più ampiamente di uomini saggi. Questo, in sintesi, per lui il paradigma dell’uomo formato,​​ come lo descrive nel suo​​ Panathenaikòs​​ (30-33): dignità, accortezza, equità, giusta valutazione delle situazioni, cortesia, costanza e autodominio, ponderatezza, giusta considerazione di sé, disinteresse. In questo compito educativo I. si distingue sia dalla superficialità imputata ai Sofisti, sia dall’astrattezza dell’utopia di Platone, per un vivo senso di serietà / eticità e di concretezza, rispondente alla realtà della vita. Si fondono quindi per un risultato unitario due ambiti di educazione: quella tecnica dell’arte della parola e quella più intima e comprensiva della formazione umana. La scuola di retorica di I. presuppone la scuola primaria e secondaria (fino ai 14 anni), ormai comunemente accolte nelle città greche, con i contenuti indicati per la pedagogia greca nel binomio​​ ginnastica​​ e​​ musica​​ (nel senso «letterario» del termine), cui aggiunge la​​ matematica​​ e l’eristica,​​ quale parziale contatto con la dialettica filosofica. Per l’apprendimento dell’arte del discorso la scuola di I. esige alcune​​ doti di natura,​​ indispensabili per il retore. Il suo insegnamento contempla una parte​​ teorica,​​ non molto sviluppata; dà invece grande spazio all’esercizio.​​ Esso comprende in particolare lo studio e l’imitazione di modelli, attuando il binomio modello-imitazione (paràdeigma​​ e​​ mìmesis).​​ In concreto I. presentava i suoi stessi discorsi come modelli. Importante era la partecipazione (discussione, dialogo) dei discepoli alla formazione stessa del discorso. Il contatto personale determinava un clima di familiarità e di amicizia, che costituiva un elemento qualificante della scuola di I. e rendeva possibile attuare uno dei requisiti da lui ribaditi: la funzione di modello del maestro (e, a raggio più ampio, del retore). Questo clima permise pure che le relazioni con i suoi illustri discepoli si protraessero, in molti casi, anche dopo gli anni (3 o 4) della scuola, quando essi si trovavano nel disimpegno di importanti responsabilità nella vita pubblica. Oltre all’aspetto tecnico e metodologico, e con importanza formativa anche maggiore, I. si preoccupava della scelta dei temi, mai banali o leggeri, ma, contro ogni formalismo, in accordo con il valore e la dignità della parola e con la dimensione etica. In tal modo lo stesso impegno di ricerca e di elaborazione della parola diventava approfondimento di valori e orientamento di vita, preparando anche alla missione sociale legata alla professione del retore e facendone un testimone dei valori che doveva difendere.

4.​​ Le due scuole.​​ Abbiamo accentuato la diversificazione della retorica di I. e della sua pedagogia sia nei riguardi dei Sofisti, che nei riguardi di Platone. Sarebbe però unilaterale fermarsi a una pura contrapposizione. L’apporto specifico di I. si apprezza in un più completo quadro della cultura e della​​ ​​ paideia​​ greca; in esso prende valore la continuità con l’azione culturale svolta dai Sofisti, che in lui assume una più incisiva valenza pedagogica, e l’integrazione con la dimensione filosofica di Platone. Va infatti richiamata l’importanza delle due scuole che si affrontano in questo quarto sec. e delle due dimensioni,​​ filosofica​​ e​​ retorica / letteraria,​​ che caratterizzeranno sempre lo sviluppo successivo della cultura greca.

5.​​ Incidenza e risonanza.​​ L’importanza dell’azione di I. si misura anche dall’influsso che ha esercitato sulla​​ paideia​​ greca del successivo periodo ellenistico e su tutta la tradizione della scuola umanistica. Il suo impegno, non riuscito, per un’unione panellenica di tutte le città greche e per la salvaguardia dell’eredità culturale della Grecia, lo portò a promuovere il superamento della contrapposizione tra greci e barbari proprio in nome della cultura: greci si è più per la cultura che per il sangue. Per questo, sia pur con qualche enfasi, I. fu detto padre dell’umanesimo. È indubitabile il successo avuto dal suo ideale di​​ paideia,​​ che resterà punto di riferimento anche nella formazione dell’orator​​ dell’humanitas​​ romana.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ I.,​​ Orazioni,​​ a cura di A. Argentari e C. Gatti, Torino, UTET, 1965. b)​​ Studi:​​ Cecchi S.,​​ La pedagogia di I.,​​ in «Rivista di Studi Classici» (1959) 3; Cloché P.,​​ I. et son temps, Paris, Les Belles Lettres, 1963; Proussis C. M., «L’oratore: I.», in​​ Gli ideali educativi. Saggi di storia del pensiero pedagogico,​​ Brescia, La Scuola, 1972; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ Roma, Studium, 1994; Masaracchia A.,​​ I. Retorica e politica, Roma, GEI, 1995;​​ Saïd S. - M. Trédé - A. Le Boulluec,​​ Histoire de la littérature grecque,​​ Paris, P.U.F., 1997.

M. Simoncelli




ISPETTORE

 

ISPETTORE

Persona che su incarico ufficiale svolge funzioni sia di controllo e monitoraggio delle attività, del funzionamento e delle attrezzature / strutture delle scuole, sia di sostegno tecnico ai processi formativi.

1. Da un punto di vista comparativo, più cresce la centralizzazione del sistema formativo (​​ amministrazione scolastica) e maggiore diviene la probabilità che la funzione ispettiva sia concepita come controllo. Se invece prevale la tendenza al decentramento e all’autonomia, essa si sposta verso il sostegno e la consulenza. In alcuni Paesi la valutazione delle prestazioni dei docenti durante un’ispezione può pesare sulla promozione. La categoria è di solito articolata in un ruolo di livello nazionale, federale o statale e in un secondo, più ampio, di carattere regionale, dipartimentale o locale. Altri due tipi di distribuzione si fondano sulle materie o sui livelli scolastici. Inoltre, i sistemi centralizzati intendono l’i. come parte integrante del ministero e come un funzionario dello Stato; altri gli riconoscono un certo grado di indipendenza. Una tendenza in atto mira ad attribuire all’i. un ruolo centrale nello sviluppo della qualità della scuola.

2. In​​ ​​ Italia già con la L. Casati n. 3725 / 1859 l’i. occupava una posizione importante ed è stato concepito secondo il modello centralistico. Un notevole cambiamento si è prodotto con i decreti delegati del 1974 che hanno seguito due principi: da una parte hanno riorganizzato la funzione ispettiva in un quadro unitario; dall’altra l’hanno pensata come l’attività di esperti professionali ai fini dell’accertamento tecnico-didattico, l’aggiornamento e la sperimentazione: questa impostazione è stata consacrata nel Testo Unico in materia di istruzione (D.L.vo n. 297 / 94). Il DPR n. 347 / 00 e la normativa seguente sulla riorganizzazione del Ministero non hanno abolito la figura dell’i. tecnico, ma sono accusati di aver iniziato un processo che potrebbe portare alla sua sparizione di fatto, perché avrebbero introdotto il concetto di «dirigente con funzioni tecniche» che non sarebbe la stessa cosa dell’i. tecnico. Pertanto la funzione ispettiva tecnica andrebbe ridefinita da un punto di vista organizzativo e funzionale in un rapporto unitario con la dirigenza amministrativa e scolastica e cercando di valorizzare la sua terzietà autonoma.

Bibliografia

Vincenzi V., «I.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. IV, Brescia, La Scuola, 1990, 6239-6240; Watson J. K. P., «School inspectors and supervision», in T. Husen - T. N. Postletwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press,​​ 21994, 5247-5252;​​ Gli i. tecnici: una risorsa per l’autonomia delle scuole, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998; Capaldo N. - L. Rondanini,​​ Gestire e organizzare la scuola dell’autonomia, Trento, Erickson, 2002.

G. Malizia




ISTITUTO

 

ISTITUTO

I latini usarono la parola​​ institutio​​ nel senso di educazione e istruzione. Con questo significato la usarono​​ ​​ Quintiliano (Institutiones oratoriae),​​ s.​​ ​​ Girolamo, Lattanzio e​​ ​​ Vives (Institutio foeminae christianae).​​ Il termine indicò anche il luogo nel quale veniva impartita l’educazione, regola e modo di vivere nei diversi ordini religiosi. Importante fu l’Institut de France,​​ che raggruppava le cinque accademie create con la legge del 23 agosto 1795, ed aveva il compito di raccogliere le scoperte e di perfezionare le scienze e le lettere. Di grande interesse per lo sviluppo della pedagogia europea contemporanea fu l’Institut Jean-Jacques Rousseau des Sciences de l’Éducation,​​ fondato il 21 ottobre 1912 a Ginevra in occasione del secondo centenario della nascita di Rousseau. I suoi fondatori furono​​ ​​ Claparède e P. Bovet e intorno ad esso lavorarono medici, psicologi e pedagogisti di chiara fama, come​​ ​​ Ferriè­re,​​ ​​ Dottrens, P. Rosselló,​​ ​​ Piaget e molti altri. In esso si formarono varie generazioni di professionisti dell’educazione di tutti i paesi europei. Altri importanti i. a carattere pedagogico sono stati il​​ Zentral Institut für Erziehung und Unterricht​​ creato a Berlino nel 1915 e l’I. pedagogico di Vienna (1868), l’I. pedagogico J. A. Comenio di Praga (1919), l’I. di Psicologia e Pedagogia di Tilburg in Olanda (1915), l’Institute of International Education​​ di New York e l’I. Superiore di Pedagogia di Torino (1941).

Bibliografia

L’I. educativo assistenziale,​​ Roma, Amministrazione per le Attività Assistenziali, 1969;​​ The world of learning,​​ London, Europa Publications, 1986;​​ Annuario DEA delle università e i. di studio e ricerca in Italia,​​ Roma, DEA, 1988.

B. Delgado




ISTITUZIONE e giovani

 

ISTITUZIONE: e giovani

Per i. si intende un insieme di modelli di comportamento che caratterizzano un determinato gruppo sociale e che gli permettono di rispondere ai​​ ​​ bisogni e alle aspirazioni orientati verso il raggiungimento degli scopi sociali.

1.​​ Presupposti.​​ L’i. assume accezioni diverse (organizzazione, associazione, complesso di valori, modelli di comportamento) ma non si confonde con esse. Anzi, le presuppone, poiché richiede: un determinato livello di​​ organizzazione​​ per il perseguimento sistematico dei fini predefiniti;​​ l’associazione​​ di persone che svolgono funzioni socialmente rilevanti, per esempio nella scuola, negli ospedali, nei partiti, nelle cooperative, ecc.; un complesso di​​ ​​ valori, usi, costumi e norme che regolano una sfera dell’esistenza sociale; un​​ modello​​ o schema di​​ ​​ comportamento socialmente riconosciuto.

2. Prospettive di base.​​ Due prospettive di base sono all’origine del concetto: una che proviene da una forte associazione tra natura umana e cultura e un’altra dall’associazione tra valori / fini e cultura. La prima, di orientamento funzionalista, intende l’i. nel quadro dell’analogia tra società e organismi viventi. Le i. sono forme complesse di mediazione simbolica orientate alla regolamentazione di funzioni generali della vita sociale (riproduzione,​​ ​​ socializzazione, produzione, governo, controllo, ecc.). Esse costituiscono il modo con cui la vita sociale trova continuazione nel tempo in quanto la società organizza le strutture orientate alla soddisfazione dei bisogni sociali. Il concetto è collegato a quello di ruolo e di status: mentre il ruolo è connesso al comportamento che si attende da una persona che occupa una determinata posizione nella società, lo status sociale costituisce la condizione dell’insieme dei soggetti che assumono ruoli specializzati. L’i. è quindi composta da una struttura complessa di ruoli specializzati o modelli di comportamento che si associano attorno ad un’attività fondamentale o ad un bisogno sociale. La seconda prospettiva associa il concetto di i. a quello di cultura, nel senso che gli atti che si compiono sono caratterizzati da motivazioni profonde o disposizioni del bisogno indotte dall’interiorizzazione di valori e di norme. La cultura tende a orientare il soggetto verso determinati valori la cui significatività trova consenso nella società. Essi rappresentano mete da raggiungere, provocano le motivazioni, suscitano i bisogni che attivano il soggetto all’azione: la regolarità delle azioni dà origine a modelli di comportamento che vengono spesso istituzionalizzati per dare una risposta organizzata ed efficiente ai suoi bisogni.

3.​​ I.​​ e attori sociali.​​ L’i. richiede un minimo di consenso attorno ai valori costituiti a partire dai processi di socializzazione e di interiorizzazione dei valori e dalle pratiche comuni come le norme sociali, i costumi e la moralità. Attraverso tali processi gli attori sociali tendono ad assimilare le forme consolidate delle rappresentazioni, dei modelli di comportamento, dei ruoli e delle regole che costituiscono l’i. Se, da una parte, i soggetti della socializzazione vengono condizionati dai modelli istituzionali esistenti, come quelli familiari, educativi, economici e politici, dall’altra, essi tendono ad innovarli, a dare significato a particolari aspetti della cultura da cui derivano nuovi riferimenti valoriali e modelli di comportamento che orientano sia il cambiamento delle i. che l’insorgere di altre più adatte a rispondere ai bisogni emergenti.

4. L’i. educativa.​​ Soprattutto durante il periodo evolutivo giovanile, essa svolge una particolare funzione nei processi di socializzazione e interiorizzazione delle norme, delle rappresentazioni e dei valori sociali, il che rinforza il consenso attorno alle i. Essa fornisce ai soggetti un bagaglio culturale che li rende integrati nella società a cui appartengono, ma coglie anche le loro nuove domande e l’emergere di nuovi valori e bisogni che tendono ad innovarla e a renderla sempre attuale. Mentre le generazioni adulte tendono a esprimere la loro adesione alle i. in forma più accentuata, i​​ ​​ giovani avvertono più spesso l’eventuale rigidità e resistenza delle i. al cambiamento. Risultato di un consenso, le i. si formano e si trasformano con gli uomini e con le situazioni; esse si rinnovano o decadono a seconda della loro capacità di rispondere ai bisogni emergenti.

5.​​ La nascita o il cambiamento delle i.​​ Si attua attraverso il​​ processo di istituzionalizzazione​​ che può evolversi sia in forma naturale che positiva. Nel primo caso esso è il frutto della lenta elaborazione di un quadro di riferimenti valoriali dove vengono codificate le regole, sedimentate le nuove rappresentazioni (usi, costumi e tradizioni) e giuridicamente riconosciuti gli atteggiamenti collettivi. Nel senso positivo la normativa giuridica precede la formazione di una nuova i. che si sviluppa in base ad un costume esistente. Si deve infine considerare che il processo di istituzionalizzazione si presta al controllo sociale sia da parte del sistema politico che educativo, attraverso meccanismi che tendono a rinforzare le i. stabilite e a controllare i processi di socializzazione promossi dalla scuola, dalla famiglia e dai mezzi di comunicazione.

Bibliografia

Freund J.,​​ Théorie du besoin,​​ in «L’Année Sociologique»​​ (1971) 13-64; Gallino L.,​​ La società. Perché cambia,​​ come funziona,​​ Torino, Paravia, 1980; Garelli F., «I.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.),​​ Dizionario di pastorale giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989, 468-474; Moscato M. T., «Istituzionalizzazione», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. IV. Brescia, La Scuola, 1990, 6253-6257; Toscano M. A. (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli,​​ 71993.

G. Caliman




ISTITUZIONI EDUCATIVE

 

ISTITUZIONI EDUCATIVE

L’insieme delle organizzazioni sociali con specifiche strutture, quadri di riferimento culturali, procedure e modelli di comportamento, a vario titolo riferibili all’aiuto sociale e personale di formazione. Per questo nel linguaggio pedagogico si parla anche di i. formative. Nel linguaggio sociologico e in quello della comunicazione sociale si usa frequentemente la terminologia «agenzie educative» o «agenzie formative».

1.​​ I.e. e responsabilità socio-educativa.​​ Le i.e. rappresentano l’organizzazione concreta, socialmente riconosciuta e per lo più giuridicamente regolata, della responsabilità educativa, sia personale che comunitaria. In questa linea esse vengono ad essere il modo sociale di corrispondere fattivamente al diritto / dovere che ogni persona / cittadino ha di crescere, di svilupparsi e di formarsi (e da cui derivano i diritti all’educazione, all’istruzione e allo studio). Le i.e. sono l’ambito in cui, di fatto e di diritto, si realizza l’educazione intenzionale, vale a dire la mole di interventi mirati e organizzati al conseguimento delle finalità educative (​​ fine dell’educazione). In tal senso rappresentano l’espressione più cospicua dell’educazione formale, rispetto a tutto il mondo dell’educazione non formale, occasionale, informale, ecc.

2. I.e. e sviluppo sociale.​​ La storia delle i.e. è parte rilevante della storia dell’educazione e della pedagogia. L’approccio socio-educativo ne fa l’oggetto diretto della sua indagine. A motivo della loro intrinseca inserzione nella vicenda storica sociale, si può affermare che c’è una storia e una geografia delle i.e. Come le altre i. sociali, anche le i.e. sono soggette ad un processo storico di complessificazione, di mutamento e di specializzazione, parallelo e concomitante al grado di sviluppo della vita sociale. Così, in società primitive, si ha la preponderanza educativa dell’i. familiare patriarcale o del clan, accanto all’educazione informale nel vissuto della realtà comunitaria; anche se non mancano forme speciali d’iniziazione, come ad es. «la scuola della foresta» in certe tribù africane o l’educazione cavalleresca nel medioevo europeo. In società intermedie – come nelle società a prevalenza agricola e rurale o dove comunque predominano mentalità e modelli comportamentali pre-industriali – accanto alla famiglia prendono rilievo educativo le chiese, in quanto i.e. oltre che etico-religiose, e a mano a mano si diffonde la scuola d’iniziativa privata e pubblica. In società di prima industrializzazione e ad incipiente prevalenza urbana, la scuola, divisa in ordini e gradi sempre più vasti e articolati, prende la dominanza sulle altre i.e., andando verso forme di istituzionalizzazione di massa, più o meno direttamente controllabili dal potere politico statale, locale o periferico.

3.​​ Il​​ carattere complesso delle i.e.​​ Oltre che per la complessificazione, per così dire contestuale e storica, le i.e. risultano complesse in se stesse: per l’incrociarsi di strutture, finalità, modi, compiti non tutti dello stesso segno; per le molteplici relazioni non sempre omogenee e coincidenti che intercorrono tra loro: ad es. tra scuola e famiglia; tra famiglia e gruppi, associazioni, movimenti, tra famiglie e chiese; per i diseguali rapporti con gli altri sotto-sistemi sociali e le loro i.: ad es. con il mondo economico, politico, culturale; con l’organizzazione politica, i partiti, i sindacati; con il mondo imprenditoriale, il mercato internazionale, l’occupazione e la capacità di spesa familiare; con gli organi della comunicazione sociale e le nuove strumentazioni informatizzate; con le diverse forze organizzate del territorio: anch’esse tutte coinvolte in profondi processi di mutamento e di innovazione. Le i.e. danno luogo a complessi giochi d’interazioni e di relazioni interne ed esterne. Vi s’intersecano una molteplicità d’interventi di tipo giuridico, economico, legislativo, politico, culturale, religioso, ecc. Vi sono persone che agiscono ed interagiscono: con problemi quindi di comunicazione e di rapporto. Vi è un’«anima», uno stile, dei metodi diversificati. Ogni i.e. ha poi la sua particolare «cultura». Accanto a quelli propriamente formativi, vi vengono di solito perseguiti fini di altro tipo; sono attraversate da bisogni, interessi, valori diversificati.

4.​​ Diffusività della funzione educativa nella società contemporanea.​​ I processi storico-sociali attuali – che fanno parlare non solo di società post-industriale, ma anche di info-società, di società della conoscenza e della comunicazione – mettono in questione l’idea stessa di i.e. Esse perdono i loro esatti confini e la funzione sociale di educazione e di formazione viene compartecipata, in maniera diffusa, da altre i. e forme di vita sociali. In tal senso non solo viene meno il cosiddetto «scuolacentrismo», vale a dire la centralità e la quasi esclusività formativa della scuola, ma si va oltre lo stesso «policentrismo formativo», vale a dire l’ammissione e la legittimità di molteplici luoghi e centri di formazione (famiglia, scuola, chiese, sistema della comunicazione sociale, gruppi, movimenti, ecc.). La prospettiva di un​​ ​​ sistema formativo integrato coinvolge sul terreno del diritto / compito sociale e soggettivo di istruzione, formazione e educazione l’intero corpo sociale istituzionalmente organizzato. Accanto alla​​ ​​ famiglia, alla​​ ​​ Chiesa, alla​​ ​​ scuola, nelle sue varie ed articolate forme storiche, vengono ad assumere vasta rilevanza educativa, nonostante abbiano propriamente altre finalità, le i. connesse con l’organizzazione dell’informazione, della comunicazione sociale, dello spettacolo, del gioco, dello sport, del tempo libero, della prevenzione e della salute pubblica; o anche all’organizzazione della propaganda economica e politica; o ancora ai movimenti ed alle associazioni ideologiche e religiose; per non parlare delle molteplici forme di educazione informale, che si determinano nell’insieme delle interazioni sociali, nelle dinamiche dei gruppi spontanei e dei gruppi di pari in particolare. Si va ben oltre la stessa idea degli anni settanta che parlava di «scuola parallela», riferendosi soprattutto ai mass-media. Scuola, famiglia e Chiesa non sono più le uniche e totali agenzie d’educazione e di socializzazione. Esse si praticano e si realizzano in vasta misura anche nel gioco interattivo dei nuovi media e nella multiforme «navigazione» telematica e «virtuale».

5.​​ Le i.e. nella crisi e nell’innovazione della vita e delle i. sociali.​​ Dopo il​​ Rapporto Faure sulle strategie dell’educazione​​ (1973), si è preso a parlare un po’ enfaticamente di «società educante», ma anche di società poco «educativa».​​ In effetti,​​ le i.e. tradizionali risentono delle crisi, delle mutazioni e delle innovazioni che attraversano le i. sociali e le società storiche nel loro insieme, a tutti i livelli della vita sociale a fronte di quella che è stata detta con parola alla moda «globalizzazione», «post-modernità», «iper-modernità», «modernità liquida». Allo stesso tempo portano ancora il peso d’incrostazioni storiche, di privilegi in disuso, di chiusure particolaristiche. La stessa contestazione dell’autoritarismo e del burocraticismo della scuola (contro cui negli anni sessanta e settanta si sono mossi i movimenti della descolarizzazione) o l’autoritarismo della famiglia e delle chiese (giudicate spesso arretrate, integralistiche, indottrinanti, se non addirittura oppressive, soffocanti, autoritarie), sembrano sopravanzati dal timore diffuso della loro insignificanza e incapacità educativa. Le i.e. tradizionali, appaiono infatti, variamente, ma pesantemente coinvolte nelle complesse problematiche del pubblico e del privato, del personale e del politico, dei ruoli e dell’identità personale, relazionale, culturale, vitale che affetta tutti e ciascuno, persone, gruppi, associazioni, i. sociali a livello locale, nazionale, internazionale, mondiale.

6.​​ I.e.,​​ educazione permanente e educazione integrale.​​ Se per un verso viene evidenziato il carattere di «tesoro» che l’educazione viene ad assumere per sapere, saper fare, saper essere, saper vivere insieme con gli altri in questi non semplici inizi del sec. XXI, come vuole il Rapporto Delors (1997), per altro verso viene ad essere ratificata da molte parti una vera e propria «emergenza educativa», a cui l’intera società dovrebbe corrispondere. A fronte di tale problematicità, la pedagogia contemporanea, oltre ad affermare la necessaria integrazione e coerenza tra le i.e., spinge anche a guadagnare una prospettiva formativa di educazione permanente, invitando a dislocare le opportunità dell’apprendimento lungo tutto l’arco dell’esistenza e nelle diverse età della vita, con alternanza e ricorrenza di periodi di studio e di lavoro (=​​ Lifelong education). Invita a saper approfittare di tutte le occasioni sociali di formazione, quelle dell’educazione formale, ma anche quelle dell’educazione non formale e informale (=​​ on going education). Stimola ad arrivare a forme d’individualizzazione e d’apprendimento padroneggiato e al contempo invita a praticare forme di apprendimento cooperativo. In una prospettiva di educazione alla convivenza democratica, sprona a superare una visione culturo-centrica e socio-centrica della formazione, puntando su un’educazione integrale, di tutte le dimensioni dell’esistenza (=​​ Lifewide education), liberatrice, interculturale, capace di sostenere forme di vita personalizzate e responsabilizzate, eque e solidali, critiche ed innovative, in un contesto vitale pluralistico, cangiante, multi-culturale, fortemente e costantemente innovativo.

7.​​ Riforma delle i.e. e riforma sociale.​​ Risulta subito evidente che tale compito eccede le possibilità della ricerca e della riflessione pedagogica, così come l’azione educativa isolata. Non è solo questione di cambio di didattica rispetto ai nuovi modi di apprendere legati alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Occorre anche un serio e preciso impegno socio-politico di riforma culturale e sociale, in modo che sviluppo personale e sviluppo sociale progrediscano e si attuino congruentemente. Ad un livello più alto, forse si richiede anche che l’intera comunità sociale prenda coscienza dell’esigenza di mettersi «in stato di formazione». Infatti, all’accelerato processo di mutamento e di cambio sociale dovrebbe corrispondere il considerare la formazione come tratto caratterizzante della vita, della cultura e dello sviluppo sociale nella sua globalità, e non solo come obiettivo della generazione adulta nei confronti della generazione in crescita, a cui si deputano le i.e. Peraltro saranno pure da precisare ambiti e criteri di intervento e di esercizio concreto della responsabilità educativa, sia all’interno delle singole i.e., sia a livello di coordinazione tra esse, sia infine a livello di società nazionale, internazionale e mondiale: un lavoro culturale a cui possono dare il loro specifico contributo le scienze dell’educazione, impegnandosi per una cultura educativa adeguata al tempo presente e a quello futuro.

Bibl:​​ Faure E. (Ed.),​​ Rapporto sulle strategie dell’educazione,​​ Roma, Armando / UNESCO, 1973; Cresson E. - P. Flynn,​​ Insegnare e apprendere. Verso la società cognitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1996; Delors J. (Ed.),​​ Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; Scanzio F. (Ed.),​​ La società dell’apprendimento, Roma, Edizioni associate, 1998; Morin E.,​​ I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001; Angelini G.,​​ Educare si deve ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002.

C.​​ Nanni




ISTRUZIONE

 

ISTRUZIONE

Sistema organizzato da parte della comunità nazionale o locale per promuovere la trasmissione e / o l’elaborazione culturale, la​​ ​​ formazione tecnica e professionale e l’educazione alla convivenza e alla partecipazione sociale. Sollecita e guida l’acquisizione di conoscenze o di abilità in altri attraverso l’organizzazione di opportuni percorsi formativi. Dal lat.​​ instruere,​​ «preparare, costruire, insegnare», derivato da​​ struere,​​ «collocare a strati, connettere». L’origine lat. del termine sottolinea il ruolo che l’i. ha nel promuovere non solo l’acquisizione di conoscenze e di abilità in senso generico, ma soprattutto nel favorire una loro organizzazione interna coerente e permanente. Spesso si identifica il grado di i. di una persona con il livello di studi raggiunto, tuttavia sarebbe più opportuno tener conto dell’effettivo risultato conseguito non solo nello studio scolastico e accademico, ma anche in attività di approfondimento e in esperienze di apprendimento meno formali.

1.​​ I. ed educazione pubblica.​​ In Italia nel dopoguerra si è preferito usare l’espressione​​ Ministero della Pubblica I.​​ al posto della più diffusa e precedente «Ministero dell’Educazione Nazionale», per rispettare meglio la Costituzione ed evitare equivoci circa il ruolo dello Stato nella definizione dei programmi e nella gestione pubblica delle scuole. Questa distinzione, molto ragionevole nella sua impostazione originaria, ha condotto a poco a poco a un equivoco: che la​​ ​​ scuola non abbia un compito educativo generale della persona, ma solo un compito istruttivo nei settori culturali e / o professionali. Tuttavia questa opposizione appare teoricamente e operativamente fuorviante in quanto non si può dare educazione senza i., né i. senza educazione, nel senso che ogni trasmissione culturale e formazione professionale porta in sé esperienze e aperture valoriali e, inoltre, la vita stessa che si conduce nell’istituzione destinata all’i. è inevitabilmente segnata da sollecitazioni educative. La promozione culturale e professionale della persona è cioè inscindibilmente legata a una sua crescita etica e sociale. Inoltre l’i. attivata come servizio pubblico promosso dallo Stato italiano mira non solo alla formazione culturale e professionale, ma anche personale, sociale ed etica degli alunni.

2.​​ I.​​ ed educazione.​​ La polemica sopra accennata può essere superata se si considera da una parte il ruolo dello Stato, dall’altra quello della​​ ​​ comunità educante scolastica e, infine, quello del singolo docente. Certamente lo Stato non è titolare di un progetto educativo totalizzante: la famiglia in particolare ha nei processi educativi un ruolo primario. Tuttavia, proprio perché i​​ ​​ valori e i principi che guidano la convivenza civile e democratica sono decisi dalla comunità nazionale su basi consensuali, essi costituiscono l’orizzonte educativo in cui con coerenza la comunità educativa scolastica ha il compito e la responsabilità di elaborare un progetto educativo che interpreti e completi quanto indicato dalla Costituzione, dalle leggi e dai programmi scolastici ufficiali. I processi istruttivi, quanto a contenuti e obiettivi, in cui lo Stato ha competenza specifica, vanno quindi assunti, riletti e adattati alla popolazione scolastica concreta (​​ programmazione educativa / scolastica).

3.​​ I processi istruttivi di base.​​ Lo sviluppo dell’i, è stato un obiettivo fondamentale che lo Stato italiano è tenuto a perseguire. Essa è un diritto-dovere dei cittadini al fine di partecipare a pieno titolo alla vita democratica, sociale, economica e produttiva della nazione. L’i. obbligatoria è diventata quindi un problema centrale per lo sviluppo non solo sociale e culturale, ma anche economico e finanziario. Nell’Ottocento si è individuato un livello minimo di tre anni di i. obbligatoria. Tale livello è stato progressivamente innalzato a otto anni, secondo il dettato costituzionale. Sono in atto iniziative parlamentari per portare a dieci anni tale obbligo oppure fino al compimento dei sedici anni. La tendenza però è verso il prolungamento fino ai diciotto anni. La condizione di fattibilità e di validità formativa di tali progetti è data dal livello di flessibilità e di articolazione del​​ ​​ sistema formativo, piuttosto che dalla uniformità e dalla unicità dei percorsi educativi scolastici.

4.​​ Per una teoria dell’i.​​ Teorie generali sulla scuola e sui suoi compiti educativi si sono succedute nel tempo. Si possono citare le ampie elaborazioni sviluppate da​​ ​​ Herbart, da​​ ​​ Willmann, da​​ ​​ Hessen. Negli anni cinquanta si è manifestata una diffusa nuova sensibilità per lo studio dei processi istruttivi. Tale sensibilità era particolarmente sollecitata dalle trasformazioni sociali, economiche ma soprattutto tecnologiche che si succedevano con ritmo crescente. Una scuola di massa protratta nel tempo e adatta a formare cittadini competenti e capaci di partecipazione esigeva un ripensamento non solo dell’impianto disciplinare, ma soprattutto di come andavano considerate e valorizzate le varie​​ ​​ discipline da includere nel curricolo di studi. Una proposta influente venne da Bruner (1967), che sintetizzò efficacemente i risultati di studi e ricerche degli anni cinquanta e sessanta. Si trattava di individuare i nuclei portanti, le idee generatrici, i principi di sviluppo che costituiscono la struttura portante delle varie discipline e concentrare 1’​​ ​​ insegnamento su questi elementi essenziali, più che disperdersi in una molteplicità sconnessa di nozioni e conoscenze particolari. In realtà gli sviluppi concreti dei programmi di studio italiani varati negli anni settanta e ottanta hanno seguito un orientamento diverso, non solo moltiplicando le discipline di studio, ma anche esagerando nella indicazione dei loro contenuti. E. Morin (2000) ha insistito sulla necessità di favorire lo sviluppo di una «testa ben fatta, piuttosto che una testa ben piena», rispettando l’adagio tradizionale di insegnare «non multa sed multum». Questa indicazione pur accettata in linea teorica, non ha trovato in genere molto spazio pratico. Ha prevalso la richiesta degli studiosi delle differenti discipline di dare spazi adeguati e autonomi a ciascuna di esse, rimandando a ipotetiche operazioni di scelta e organizzazione concreta dell’impianto generale formativo affidate ai Collegi dei docenti e ai Consigli di classe. L’indicazione comeniana di insegnare tutto a tutti è stata presa troppo alla lettera in tempi e realtà culturali assai diversi.

5.​​ Forme di i.​​ La teoria dell’i. distingue in genere varie forme concrete di i. Molte di queste si connettono con quanto passa sotto il titolo di​​ ​​ metodi didattici e di​​ ​​ didattica. Tuttavia alcune distinzioni possono essere prese in considerazione in questo contesto. La prima concerne la distinzione tra i. diretta e i. indiretta. Come gli aggettivi indicano chiaramente, il primo tipo di i. mira direttamente ed esplicitamente a insegnare concetti e abilità specifici. Esso si presenta in genere come diretto all’intera classe e centrato sull’intervento espositivo e valutativo dell’insegnante, che espone i vari argomenti, pone domande o interroga gli alunni, sollecita l’esercizio, corregge gli errori, riassume gli argomenti sviluppati, verifica le acquisizioni raggiunte dai singoli. Un insegnamento indiretto si presenta in genere come basato su una ricerca guidata dal docente, che partendo da problemi chiaramente individuati, sollecita l’indagine autonoma sia dei singoli sia di piccoli gruppi opportunamente organizzati. L’insegnante sostiene il lavoro individuale o di gruppo, facilitando la ricerca delle informazioni, la loro verifica e valorizzazione, il confronto tra le conclusioni via via raggiunte, l’organizzazione finale delle conoscenze acquisite.

Bibliografia

Willmann O.,​​ Didattica come teoria della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1962; Bruner J. S.,​​ Verso una teoria dell’i.,​​ Roma, Armando, 1967; Bertoldi F.,​​ Teoria sistemica dell’i.,​​ Brescia, La Scuola, 1977; Vertecchi B.,​​ La qualità dell’i.,​​ Torino, Loescher, 1978; Tornatore L. et al.,​​ Insegnamento: contenuti e metodi,​​ Milano, ISEDI, 1978; Bottani N.,​​ La ricreazione è finita: dibattito sulla qualità dell’i.,​​ Bologna, Il Mulino, 1986; Ravaglioli F.,​​ Fisionomia dell’i. attuale,​​ Roma, Armando, 1986; Laporta R. (Ed.),​​ Le ragioni dell’i.,​​ Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1987; Cedrone C. (Ed.),​​ Centralità e qualità dell’i.,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; Morin E.,​​ La testa ben fatta, Milano, Cortina, 2000; Sandulli A. M.,​​ Il sistema nazionale di i., Bologna, Il Mulino, 2004; Bertagna G.,​​ Il pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di i. e formazione professionale di pari dignità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

M. Pellerey




ISTRUZIONE DIRETTA

 

ISTRUZIONE DIRETTA

In genere con i.d. (direct instruction)​​ viene inteso un metodo didattico in cui l’insegnante è il protagonista principale, colui che dirige, modella, controlla, riceve e fornisce​​ feedback​​ correttivi e aiuta a raggiungere il comportamento desiderato di fatti e di sequenze di azioni. Il termine, che è apparso nella letteratura educativa alla fine del secolo scorso, è usato con altri termini simili come:​​ systematic teaching,​​ explicit instruction,​​ explicit teaching,​​ active teaching,​​ effective teaching.

1. Tutti questi termini insistono sul fatto che «se vuoi che lo studente impari qualcosa, insegnaglielo direttamente». Il metodo ha conseguito un’ampia diffusione e secondo Rosenshine (1995) può assumere diversi aspetti: l’i. condotta dall’insegnante, le procedure per un insegnamento efficace, quelle utilizzate per insegnare delle strategie cognitive, quelle usate per l’i. di processi di aritmetica e lettura e la situazione di apprendimento condotta dall’insegnante mentre gli studenti assistono passivamente. L’i.d. non ha una definizione ufficiale e definitiva. Per Duffy e Roehler, essa significa «una particolare attenzione alla scuola, una sequenza precisa del contenuto, un elevato impegno e coinvolgimento degli studenti, un attento e costante controllo, un​​ feedback​​ correttivo dato agli studenti» (1986, 35). Nonostante i vari significati e usi del termine, si può dire globalmente che il metodo dell’i.d. si propone l’obiettivo di insegnare allo studente come fare qualcosa e come apprendere in modo significativo qualche contenuto.

2. L’i.d. richiede fondamentalmente lo svolgimento di alcune funzioni (Rosenshine, 1986; Rosenshine-Meister, 1995): a) la revisione e il controllo del lavoro eseguito nella lezione precedente (ri-insegnamento se necessario) o la presentazione di quello che deve essere appreso, sia esso un contenuto o un processo mentale in piccoli passi; b) la pratica guidata dall’insegnante attraverso un pensare ad alta voce (modeling)​​ con verifica della​​ ​​ comprensione, suggerimenti per superare le difficoltà che si incontrano, domande e risposte; c) il​​ feedback,​​ le correzioni e le ripetizioni se è necessario; d) la presentazione di prestazioni esemplari del compito; e) la pratica indipendente in cui lo studente mette in atto ciò che ha imparato mentre l’insegnante sorveglia e controlla l’esecuzione; f) la revisione settimanale o mensile.

Bibliografia

Duffy G. G. - L. R. Roehler,​​ The subtleties of instructional mediation,​​ in «Educational Leadership» 43 (1986) 23-27; Rosenshine B.​​ V.,​​ Synthesis of research on explicit teaching,​​ in «Educational Leadership» 43 (1986) 145-153; Rosenshine B.​​ V.​​ - C. Meister, «Direct instruction», in L. W. Anderson (Ed.),​​ International encyclopedia of teaching and teacher education,​​ Oxford, Pergamon Press, 1995, 143-149.

M. Comoglio




ISTRUZIONE PROGRAMMATA

 

ISTRUZIONE PROGRAMMATA

L’i.p. è una delle tecniche didattiche che hanno riscosso maggior successo a livello mondiale a partire dagli anni ’50. La letteratura sull’argomento è vastissima. L’i.p. è legata ai nomi di S. L. Pressey che, a partire dal 1924, inventò, insieme ai suoi collaboratori, un dispositivo di autoistruzione (teaching machines),​​ e di altri due statunitensi,​​ ​​ B. F. Skinner e N. Crowder. Essa, di difficile definizione, può essere considerata come una tecnica dell’autoapprendimento che comporta una programmazione strutturata, costruita cioè con particolari sequenze programmate in progressione logica e con massima graduazione delle difficoltà, che consentono allo studente di procedere secondo il proprio ritmo verificando immediatamente l’esattezza o meno delle risposte date. Le sequenze si distinguono in​​ lineari​​ e​​ ramificate​​ e possono presentarsi sotto forma di libro, fascicoli, schede, dischetti, quindi con supporto meccanico o elettronico.

1.​​ Skinner e i programmi «lineari».​​ Skinner è l’esponente del programma chiamato «lineare» che viene costruito in base a quattro principi: a) della partecipazione attiva per cui provoca una risposta da «costruire» da parte dell’alunno come completamento di un’informazione o un’asserzione; b) dei piccoli passi (step by step)​​ secondo cui ogni passo corrisponde a un riquadro (frame)​​ e ad una unità di contenuto ridottissima (item)​​ c) del​​ feedback continuo,​​ ossia della conoscenza immediata dei risultati mediante il confronto con la risposta-modello; d) del rispetto del ritmo di apprendimento di ciascun alunno. Skinner, secondo la teoria del rinforzo, crede che le risposte ripetutamente giuste rinforzino / gratifichino l’apprendimento e perciò, non volendo che l’alunno sia indotto in errore, i programmi devono essere costruiti in modo da assicurare almeno un successo del 90%.

2.​​ Crowder e i programmi «ramificati» o «intrinseci».​​ Crowder, pur accettando i principi della risposta attiva e della conferma immediata delle risposte giuste, propone, a differenza dei programmi lineari, un modello di programmazione articolata e flessibile, ossia programmi plurisequenziali chiamati «ramificati» (branching programs)​​ o «intrinseci» (intrinsic programs)​​ corrispondenti alle risposte scelte. L’individualizzazione avviene non solo secondo il ritmo di ciascuno, ma anche permettendo a ciascuno un percorso differenziato in base ai risultati che egli man mano consegue. Di qui il cosiddetto «libro mischiato» (scrambled book)​​ il quale, pur avendo la numerazione ordinaria delle pagine, prevede un ordine di lettura personale secondo la sequenza dipendente dalle proprie scelte. Infatti, in ogni​​ frame,​​ accanto alle alternative della scelta multipla, viene indicata la pagina del rinvio. A seconda del modo di indicare la risposta-modello si parla di​​ libri a programmi verticali,​​ cioè con la risposta esatta posta accanto all’unità successiva, o di​​ testo orizzontale,​​ che pone la risposta esatta nella pagina successiva.

3.​​ La tecnica.​​ La tecnica dell’i.p. non si presta allo stesso modo per tutte le materie di studio. I programmi skinneriani, di unisequenzialità assoluta, si prestano maggiormente per introdurre gli alunni negli argomenti nuovi, soprattutto elementari e fondamentali, quelli crowderiani per l’autoapprendimento delle conoscenze complesse, mentre quelli di Pressey, di linearità a scelta multipla, sono più indicati per il riepilogo, l’esercizio o il recupero e non come materiale di autoapprendimento vero e proprio. Il computer, di uso sempre più diffuso oggi, facilita enormemente la costruzione e l’impiego di tali programmi. La logica dell’i.p., con la sua rigorosa programmazione delle sequenze di apprendimento, è il prototipo della tecnologia dell’insegnamento, nel senso che per ogni unità si programmano minuziosamente i microelementi di​​ obiettivo,​​ contenuto,​​ strategia didattica,​​ controllo.​​ Tale tecnica, perciò, rappresenta una perfetta realizzazione di​​ ​​ algoritmi didattici: accertamento delle condizioni di ingresso, definizione dei compiti / obiettivi, riordinamento sequenziale dei contenuti, prove di verifica. La tecnica dell’i.p., senza dubbio, contribuisce alla strutturazione logica dei contenuti didattici, all’individualizzazione, ad una nuova concezione della valutazione, alla chiarezza e all’essenzialità dell’informazione fornita. Se ha riscosso tanto successo ciò è dovuto proprio a queste caratteristiche a cui la didattica deve prestare attenzione, pur non risolvendone tutti i problemi. Infatti lascia scoperte importanti aree: la promozione del pensiero divergente, la creatività, la socializzazione. Essa va quindi integrata con il metodo della ricerca (che incoraggia l’iniziativa culturale), con la creatività, con l’assunzione di responsabilità, ecc.

Bibliografia

Gavini G.,​​ Manuel de formation aux techniques de l’enseignement programmé,​​ Paris, 1965; Skinner B. F.,​​ The technology of teaching,​​ New York, 1968; Pocztar J.,​​ The theory and practice of programmed instruction.​​ A guide for teachers,​​ Paris, ESF, 1972; Vaccaroni F., «L’i.p.: aspetti, problemi, prospettive», in E. Bernacchi Cavallini et al.,​​ Il​​ modo nuovo di fare scuola,​​ Milano, Fabbri, 1978,141-193;​​ Ferrández A. - J. Sarramona - L. Tarín,​​ Tecnología didáctica. Teoría y práctica de la programación escolar,​​ Barcelona, CEAC,​​ 41979.

H.-C. A. Chang