1

INTEGRAZIONE SOCIALE

 

INTEGRAZIONE SOCIALE

Nelle scienze umane il termine i. risulta piuttosto articolato nei suoi significati esplicativi e problematico nel campo strettamente pedagogico ed educativo. Dal punto di vista della sociologia l’i. in generale si oppone ai concetti di dispersione,​​ ​​ devianza, anomia, disfunzione, emarginazione,​​ ​​ conflitto, disgregazione, differenziazione.

1. Il processo integrativo è spesso studiato tenendo conto della prospettiva dell’equilibrio sociale più o meno stabile. Quando lo stato di equilibrio appare compromesso si interviene con analisi causali intese a ristabilire le condizioni normali di vita, vale a dire condizioni socialmente riconosciute come adatte e legalmente accettate per la convivenza pacifica. La tensione all’equilibrio non si esaurisce nel ritorno a stati di stabilità sociale, ma anche, secondo le tesi del conflitto sociale costruttivo, nell’instaurazione di una nuova compattezza. I sociologi studiano i processi e i gradi di i. di un sistema sociale. Secondo l’analisi socio-antropologica, norme, valori, cultura, costumi, ed anche le istituzioni come la scuola, condizionano, favoriscono / ritardano il processo di i. In psicologia si hanno definizioni parallele con riferimento esplicito alla unificazione delle parti scomposte in un tutto di ordine superiore, dove regna l’armonia e dove l’ideale trova la sua espressione massima.

2. L’uso corrente del termine i. può essere interpretato come richiesta di superamento della frammentarietà di un sociale vissuto sempre più come carente di rapporti comunitari significativi. Non c’è conflitto tra le generazioni, ma c’è isolamento delle esperienze su cui non vi è riflessione comune. Assistiamo a due effetti socio-psicologici opposti che hanno ripercussioni notevoli nel campo della pedagogia: infatti, si accettano contemporaneamente le teorie dell’i., che mirano alla stabilità e quelle che, sostenendo la legittimità del diverso, non del deviante, tendono a far convivere varie etnie in uno stato di rispetto della pluralità culturale. La scuola in quanto istituzione che educa e socializza tende all’i., all’inserimento del diverso, ma la pedagogia come area di riflessione teorica sull’uomo e per l’uomo guarda in modo critico ad ogni forma di i.s., culturale, psicologica richiamandosi alla ricchezza di ogni persona che deve essere lasciata libera di crescere e che va scoperta nella sua ricchezza individuale. L’​​ ​​ educazione interculturale è la risposta teorica e pratica della pedagogia alla presenza degli appartenenti a culture altre, come immigrati e rifugiati, nella realtà sociale e scolastica italiana.

Bibliografia

Alberoni F.,​​ Contributo allo studio dell’i.s. dell’immigrato,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1960; Sergi N. - F. Carchedi (Edd.),​​ L’immigrazione straniera in​​ Italia. Il tempo dell’i.,​​ Roma, Ediz. Lavoro / Iscos, 1991; Chistolini S. (Ed.),​​ Educazione interculturale. La formazione degli immigrati in Italia,​​ Gran Bretagna,​​ Germania,​​ Roma, Euroma-La Goliardica, 1992; Demetrio D. - G. Favaro,​​ Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini,​​ adulti,​​ comunità nel percorso di i., Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992; Ferrucci F.,​​ Disabilità e politiche sociali, Milano, Angeli, 2005.

S. Chistolini




INTELLIGENZA

 

INTELLIGENZA

L’amplissimo uso del termine i. rende il suo significato molto incerto e sfumato. Anche il campo di ricerca sull’i. è estremamente vasto e complesso con il sovrapporsi di livelli di studio, di punti di vista teorici e di cambiamenti storici. La diversità di opinioni fa pensare che difficilmente sia possibile fornire una definizione autonoma di i. Il concetto è connotato in maniera diversa al variare della fascia d’età (adulti / bambini), dei gruppi (insegnanti / scolari) e del periodo storico (inizio / fine sec.).

1.​​ Le teorie biologiche sull’i.​​ L’approccio biologico all’i. si è sviluppato in due grandi gruppi di teorie. All’interno del primo gruppo alcune teorie si sono impegnate nello studio della localizzazione cerebrale delle funzioni, cioè al problema del controllo dell’attività psichica da parte di zone diverse del cervello. Ad es. la teoria di Luria attribuisce la funzione ideativo-progettuale per programmare, regolare e verificare l’attività mentale al lobo frontale (parte anteriore del telencefalo), la funzione sensoriale per analizzare e recepire informazioni al lobo temporale, parietale e occipitale, la funzione attiva per la regolazione del tono e della veglia alle altre parti del cervello. Altre teorie, invece, si sono dedicate ad analizzare l’apporto specializzato di ciascuno dei due emisferi all’attività mentale in toto. Così si è scoperto che l’emisfero sinistro manifesta funzioni di tipo analitico e logico, mentre quello destro funzioni di tipo più olistico ed espressivo (teorie del doppio emisfero).​​ Altre, applicando sofisticate metodologie di studio (misurazione elettroencefalografica dei potenziali evocati, risonanza magnetica, analisi del flusso ematico, rilevazione dell’emissione di positroni), hanno tentato di approfondire la comprensione della relazione tra attività mentale e cervello attraverso l’esame dei correlati elettrici delle funzioni cerebrali (teorie fondate sull’attività cerebrale).

2.​​ Teorie psicologiche dell’i.​​ Le teorie psicologiche dell’i. si caratterizzano per il fatto che invertono il rapporto di questa con il fondamento biologico. Esse hanno visto due sviluppi:​​ le teorie psicometriche​​ e​​ le teorie cognitiviste.​​ Le prime si sono mosse per alcuni decenni nel tentativo di fornire​​ una mappa geografica delle​​ ​​ abilità​​ e di misurare l’i. Vanno sotto il nome di teorie psicometriche le teorie differenziali che cercano di individuare le varie abilità dell’i, attraverso lo studio delle differenze individuali. Esse, utilizzando soprattutto l’analisi fattoriale, hanno proposto non solo diverse abilità fondamentali dell’i., ma anche diverse organizzazioni all’interno di queste. Tra gli autori si possono ricordare anzitutto​​ ​​ Galton e​​ ​​ Binet: questi, pur continuando nella linea della ricerca previsionale dei risultati scolastici, spostò l’osservazione del comportamento intelligente dai processi percettivi e sensoriali ai processi cognitivi complessi: attenzione, comprensione, immaginazione, ecc. Goddard tradusse negli Stati Uniti i test di Binet, provocandone una grande diffusione oltre le intenzioni. La ricerca sull’i. ebbe un nuovo e forte sviluppo con l’apporto dello psicologo inglese​​ ​​ Spearman. A lui va il merito di aver introdotto l’analisi fattoriale nella ricerca sull’i.​​ ​​ Guilford ha proposto un modello di i. (SOI) costituito da 120 fattori in una versione e da 150 in una successiva. Le abilità fattoriali possono essere raccolte in tre tipi di categorie (contenuti, prodotti e processi) e visualizzate su un cubo. Altri autori hanno proposto invece​​ modelli di i. gerarchicamente strutturati.​​ Essi appartengono a due distinte correnti: una inglese e una americana. Fanno parte della prima​​ ​​ Burt e Vernon, della seconda J. M. Caltell. A partire dalla fine degli anni ’60 si sono sviluppate teorie volte a spiegare le differenze individuali di i. come differenze procedurali (teorie cognitiviste).​​ Questa linea della ricerca successivamente si è suddivisa in vari orientamenti che differiscono fra loro sul piano soprattutto metodologico e quindi teorico. Si parla di teorie della​​ correlazione dei processi​​ e di teorie delle​​ componenti fondamentali.​​ Nell’indagine sull’i. le prime hanno cercato di correlare compiti semplici che nella ricerca cognitivista erano stati oggetto di attenta analisi (richiamo, rotazione mentale di immagini) e test utilizzati per la misurazione dell’i. Le seconde si sono orientate verso l’approccio diretto tentando di isolare i processi mentali che avvengono in una prestazione richiesta da un test. Possono essere considerate cognitiviste anche tutte le teorie che ricorrono all’analogia con il computer per descrivere e simulare attività cognitive (teorie dell’i. artificiale come approccio all’i.).

3.​​ Teorie contestuali.​​ Un altro approccio, che affonda le sue radici nella teoria evoluzionista e nell’antropologia culturale del sec. scorso, ha provato a comprendere l’i. a partire da un’indagine che cercasse di scindere la componente genetica dalla componente ambientale. L’argomento, così genericamente definito, si è precisato in due ambiti di ricerca. Da una parte si è cercato di scoprire le limitazioni imposte dall’ereditarietà sul potenziale intellettivo dell’individuo e i mutamenti prodotti dalle condizioni ambientali (teorie sull’ereditarietà dell’i.).​​ Dall’altra si è voluto capire se l’i. sia culturalmente segnata fino al punto da doversi parlare di i. diverse a seconda delle diversità culturali oppure se vi siano elementi universali ed altri culturali (teorie sulle differenze culturali d’i.).​​ Le due posizioni oggi sono meno distanti di un tempo. Si riconosce infatti l’importanza e la pervasività di tutte e due le dimensioni sulle differenze individuali di i.

4.​​ Le teorie interattive dei sistemi.​​ Alle teorie dell’i. che accentuano il ruolo dei processi cognitivi e contestuale, si oppongono le teorie che rimarcano la caratteristica dell’interazione tra le due dimensioni (teorie interazioniste).​​ All’interno di queste possono essere collocate la teoria dell’i. multipla di H. Gardner e quella tripolare di R. J. Sternberg. Secondo il primo, l’i. non è un costrutto o un’entità unitaria, bensì un insieme di sette costrutti intellettivi (da cui i. multiple). Si parla di i. linguistica, i. logica matematica, i. spaziale, i. musicale, i. fisico-motoria, i. interpersonale, i. intrapersonale. R. J.​​ Sternberg, in particolare, descrive l’i. come una struttura in interazione con il contesto secondo tre diverse modalità: adattamento all’ambiente, adattamento dell’ambiente a se stesso, selezione di un nuovo contesto quando questo non si adatta alla mente. I livelli di novità o di automaticità sono elementi caratteristici di un’i. che, nel suo interagire con l’ambiente, utilizza tre componenti di elaborazione cognitiva: processi metacomponenziali, processi di acquisizione e processi di prestazione.

5.​​ Le teorie dello sviluppo.​​ Da ultimo si segnalano le​​ teorie dello sviluppo dell’i.​​ In questa prospettiva che attraversa tutte le teorie precedenti, si rilevano due orientamenti diversi: sociali e psicologico-cognitivisti. Le teorie sociali sottolineano l’incidenza dell’apporto esterno allo sviluppo dell’i. (cfr.​​ ​​ Vygotskij e Feuerstein). Nelle teorie psicologico-cognitiviste si distinguono due / tre approcci: cognitivista computazionale, neo-piagetiano e post-formalista. Il primo, applicando la metafora computazionale allo sviluppo, vede l’i. come uno sviluppo di processi, conoscenze dichiarative e processi di autocontrollo metacognitivo. Il secondo riprende aspetti piagetiani integrandoli con prospettive della scienza cognitiva. Il terzo studia lo sviluppo dell’i. oltre i limiti del pensiero logico formale a cui si era fermato​​ ​​ Piaget. Le teorie della i. hanno avuto grande incidenza sulle pratiche educative. In particolare l’approccio post-formalista risulta molto interessante per l’educazione degli​​ ​​ adulti e per iniziative di​​ ​​ educazione permanente.

Bibliografia

Sternberg R.​​ J. et al.,​​ People’s conceptions of​​ intelligence,​​ in «Journal​​ of Personality and​​ Social​​ Psychology»​​ 41 (1981) 37-55;​​ Sternberg R. J. - D. K. Detterman,​​ What is intelligence? Contemporary viewpoints on its nature and definition,​​ Norwood, Ablex,​​ 1986;​​ Fodor J.​​ A.,​​ La mente modulare,​​ Bologna, Il Mulino, 1988;​​ Sternberg R. J.,​​ Metaphors of mind. Conceptions of nature of intelligence,​​ Cambridge, Cambridge University Press,​​ 1990;​​ Id.,​​ Thinking and problem solving,​​ San Diego, Academic Press,​​ 1994;​​ Neisser U.​​ et al.,​​ Intelligence: knowns and unknowns,​​ in «American Psychologist»​​ 51 (1996) 77-101.

M. Comoglio




INTELLIGENZA ARTIFICIALE

 

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

L’i.a. è una disciplina teorico-pratica nella quale operano sia scienziati che filosofi. Nel suo aspetto squisitamente informatico, essa comprende la teoria e le tecniche per lo sviluppo di algoritmi che consentano alle macchine (tipicamente ai calcolatori) di mostrare un’abilità e / o attività intelligente, almeno in domini specifici. L’i.a. viene definita come la capacità del computer di eseguire compiti comunemente associati con i processi intellettuali propri dell’uomo quali il ragionamento, la scoperta dei significati, la generalizzazione e l’apprendimento dall’esperienza fatta (​​ intelligenza). Il termine è anche usato per parlare del ramo della scienza informatica che si occupa dello sviluppo di sistemi dotati di queste capacità. In campo pedagogico-didattico l’interesse per l’i.a. è legato ai Sistemi Esperti realizzati per l’apprendimento di campi di conoscenza con l’assistenza di un tutore elettronico facente parte del sistema.

1.​​ La storia dell’i.a.​​ Le ricerche sull’i.a. sono iniziate subito dopo lo sviluppo del computer negli anni ’40. I primi ricercatori hanno capito che era possibile far eseguire al computer l’automatizzazione dei processi del pensiero e con il passare degli anni fu dimostrato come il computer potesse essere programmato per eseguire compiti logicamente molto complessi come la soluzione di problemi, la dimostrazione di teoremi e il gioco degli scacchi. Negli anni ’60 le ricerche sull’i.a. pongono l’accento sulla rappresentazione della conoscenza. Dal 1972 al 1982 circa, il gruppo di Roger Schank, all’Università di Yale, ha prodotto numerosi programmi di simulazione della comprensione umana del linguaggio. L’i.a. nell’ultimo decennio tratta dell’individuazione dei modelli (corretta descrizione del problema da risolvere) e degli algoritmi (procedura effettiva per risolvere il modello).

2.​​ I campi dell’i.a.​​ Sono stati fatti progressi nello sviluppo di programmi che abilitano il computer a capire comandi nel linguaggio naturale e lo rendono capace di tradurre. L’abilità di identificare forme grafiche o immagini è associata anch’essa all’i.a. perché implica sia impegno cognitivo che astrazione. Anche la robotica è governata dall’i.a. tramite l’abilità di riconoscimento di modelli. L’applicazione dell’i.a. nella scuola e nella formazione è un campo di notevole interesse.

3.​​ Le applicazioni pedagogico-didattiche dell’i.a.​​ I Sistemi Esperti sono forse il maggior successo dell’i.a. e si prospetta che in futuro avranno una vastissima applicazione. Sono formati da una notevole base di dati che è la raccolta della conoscenza di persone esperte in un dato campo; da un’interfaccia amichevole che permette allo studente di specificare il problema da risolvere e di chiarificarlo man mano che il sistema pone domande. Il Sistema Esperto, dopo un certo numero di interazioni con lo studente, se ne fa un modello e gli propone i problemi da risolvere e le informazioni in modo adeguato alle sue conoscenze e al suo modo di ragionare.

Bibliografia

Russell S. J. - P. Norvig,​​ Artificial Intelligence: a modern approach, Upper Saddle River (NJ), Pearson Education,​​ 22003;​​ Negnevitsky M.,​​ Artificial Intelligence: a guide to intelligent systems, Harlow (England), Addison Wesley, 2005.

C. Cangià




INTELLIGENZA EMOTIVA

 

INTELLIGENZA EMOTIVA​​ 

Il costrutto di i.e. deriva dai precedenti concetti di i. sociale e i. personale. Nel delineare la sua teoria dell’i. multiple, Gardner (1983) descrisse due forme di i. personale: l’i. intrapersonale, che è la capacità di accedere alla propria vita affettiva, e l’i. interpersonale, che è la capacità di leggere gli stati d’animo, le intenzioni e i desideri degli altri.

1. Queste abilità fondamentali dell’i. personale sono centrali nel costrutto di i.e., che Salovey e Mayer (1990) definirono originariamente come «la capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni». Questa definizione implica l’idea che il sistema affettivo funziona in parte come sistema di elaborazione delle informazioni e delle percezioni. Salovey e Mayer affermarono infatti che i processi sottostanti l’i.e. vengono attivati quando l’informazione affettiva entra per prima nel sistema percettivo. Le emozioni in questo senso non solo non disturbano l’efficace approccio razionale alla risoluzione dei problemi, ma al contrario forniscono importanti conoscenze sulla relazione della persona con il mondo esterno. Possedere questa «sensibilità» consente di affrontare il quotidiano in modo più efficace. Essere emotivamente intelligenti quindi, aiuta a gestire al meglio la vita privata, il lavoro e più in generale i rapporti con gli altri. L’i.e. non è determinata geneticamente ma si apprende e può essere migliorata nel corso di tutta la vita. L’i.e. si può sviluppare attraverso un adeguato allenamento, diretto soprattutto a cogliere le emozioni e i sentimenti, propri e altrui. Oltre alla consapevolezza e all’apprezzamento dei propri sentimenti soggettivi, l’i.e. comprende la percezione e la considerazione dei comportamenti emotivi non-verbali, le sensazioni corporee evocate dall’attivazione emozionale. Vi sono però differenze individuali nella capacità delle persone di elaborare ed usare tali informazioni. Mayer e Salovey (2000) hanno sottolineato in maniera più decisa «la capacità di pensare sui sentimenti». Individui con elevati livelli di i.e. riescono facilmente ad identificare e descrivere i sentimenti in sé stessi e negli altri, a regolare efficacemente gli stati di attivazione emozionale in sé stessi e negli altri.

2. A partire dal 1995 D. Goleman ha reso popolare il concetto di i.e. descrivendola come un insieme di capacità: motivare sé stessi, persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare. D. Goleman (1999) ha enfatizzato soprattutto le differenze individuali degli aspetti psicologici e funzionali delle emozioni. Uno dei limiti di Goleman è costituito dal fatto che la sua rassegna scientifica, pur essendo piuttosto corposa, è confinata prevalentemente alle ricerche in ambito neuropsicologico e sociale, mentre trascura il vasto contributo delle scienze cognitive e comportamentali. Vengono infatti lasciati in un secondo piano gli importantissimi contributi di autori quali Bandura, Seligman, Lazarus e vengono completamente ignorati gli studi di A. Beck ed A. Ellis sui processi cognitivi e sul rapporto tra pensiero ed emozioni. Un altro limite riscontrato nella divulgazione che Goleman ha elaborato del concetto di i.e. sta nel fatto che non ne ha dato una chiara definizione mentre ha fatto solo una descrizione delle strategie atte a potenziarla. Tale mancanza di dettagli ha favorito il proliferare di programmi di formazione e «crescita personale» dove si trovano mescolati vari approcci che utilizzano l’etichetta di «i.e.», ma che sono ben lontani da ciò che P. Salovey e J. D. Mayer intendevano con tale espressione.

3. Le abilità che compongono l’i.e. sono indicate dai diversi autori con terminologie differenti. Il costrutto di Peter Salovey e John Mayer si articola in 16 abilità, raggruppabili in 4 categorie: percezione, valutazione ed espressione delle emozioni; uso delle emozioni per facilitare il pensiero; comprensione e analisi delle emozioni; regolazione consapevole delle emozioni per promuovere la crescita personale. Goleman distingue due principali categorie: le competenze personali, riferite alla capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale e le competenze sociali, relative alla maniera con cui comprendiamo gli altri e ci rapportiamo positivamente con essi.​​ Entrambe sono caratterizzate da abilità specifiche.

Bibliografia

Gardner​​ H.,​​ Frames of mind: The theory of multiple intelligences, New York, Basic, 1983; Salovey P. - J. D. Mayer,​​ Emotional intelligence, in «Imagination, Cognition and Personality» (1990) 9, 185-211; Goleman​​ D.,​​ Emotional intelligence: why it can matter more than IQ, New York, Bantam Books, 1995; Id.,​​ Working with emotional intelligence, London, Bloomsbury, 1998; Mayer J. D. - P. Salovey - D. R. Caruso, «Models of emotional intelligence», in R. J. Sternberg​​ (Ed.),​​ Handbook of intelligence, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, 396-420; Goleman D.,​​ Social intelligence: the new science of social relationships,​​ New York, Bantam Books, 2006 (trad. it.:​​ I. sociale, Milano, BUR, 2007); Waterhouse L.,​​ Multiple intelligences,​​ the Mozart effect,​​ and emotional intelligence: a critical review, in «Educational Psychologist» 41 (2006) 207-225.

A. La Marca




INTERAZIONE EDUCATIVA

 

INTERAZIONE EDUCATIVA

L’i.e. si presenta come un processo molto complesso in cui possiamo globalmente distinguere aspetti contenutistici (per es. temi riguardanti l’apprendimento) e relazionali, cioè fenomeni legati al rapporto interpersonale. Entrambe le dimensioni sono interdipendenti e vengono a costituire, nella loro reciproca dinamica, l’i.e.

1.​​ Termini e definizione.​​ I termini usati per trattare l’interagire educativo dal punto di vista relazionale sono molti. Troviamo ad es., rapporto educativo, relazione pedagogica, contatto educativo, piattaforma comunicativa, atto pedagogico, i.e., atmosfera pedagogica. Sebbene questi termini siano spesso usati indistintamente, nel presentare la comunicazione educativa dal punto di vista relazionale preferiamo adottare quelli di i. e comunicazione educativa, in quanto essi considerano più esplicitamente la situazione interpersonale come processo nel quale intervengono i diversi partners, sia pure su un piano di non parità. Per quello che riguarda la definizione dell’i. o comunicazione educativa possiamo intenderla come ricerca dei mezzi e delle strategie da porre in atto per la concretizzazione del comportamento educativo nel suo aspetto relazionale e sociale. È importante rilevare, inoltre, che le relazioni positive nell’ambito educativo sono il risultato della totalità interazionale, cioè delle qualità processuali verbali e non verbali dei partners in comunicazione, dei fattori istituzionali (per es., il tipo di ambiente educativo) e dei fattori situazionali (per es., l’inizio dell’anno scolastico). L’esperienza emozionale dei partecipanti relativamente a questa struttura totale viene a costituire il clima o l’atmosfera umana nella i.e.

2.​​ La dimensione relazionale dell’educazione.​​ L’importanza di considerare nell’educazione la dimensione relazionale viene attualmente confermata dagli studi sulla socializzazione della persona in divenire, sull’esperienza degli educatori circa il ruolo favorevole di un clima interumano positivo nei processi di apprendimento e sul riconoscimento del fatto che il modo di relazionarsi nell’educazione ha delle conseguenze non soltanto per la formazione dei giovani, ma anche per la stabilità o la riforma della vita sociale. Sin dalle prime riflessioni sull’educazione, il rapporto educativo è stato trattato come un fenomeno pedagogico di primaria importanza. Storicamente si possono distinguere due tipi di contributi da parte dei pedagogisti: a) riflessioni sporadiche, in cui il rapporto educatore / educando è considerato con un certo grado di pregnanza e di rilevanza. In questa visione sono contenute riflessioni occasionali sul rapporto educativo (per es. secondo​​ ​​ Rousseau,​​ ​​ Herbart,​​ ​​ Makarenko), e sugli stili educativi come tipici modi d’interagire; b) trattazioni sistematiche, in cui l’i.e. è interpretata come modello di base dell’agire educativo secondo i principi di una teoria pedagogica (per es. Dilthey,​​ ​​ Buber). Lo studio della realtà educativa ha ricevuto, intorno alla metà di questo secolo, notevoli impulsi dalle ricerche empiriche. In merito a questi influssi le diverse scienze dell’educazione hanno assunto, nello studio della realtà educativa, oltre all’ermeneutica intuitiva, anche metodi empirici di ricerca. Conseguentemente a questa innovazione metodologica, le relazioni interpersonali nell’educazione iniziano ad essere viste come un fenomeno interazionale da studiare come una totalità pluridimensionale interdipendente, con un ulteriore chiarimento sui diversi fenomeni della comunicazione educativa.

3.​​ Le dimensioni della i.e.​​ L’i.e. fa riferimento a strutture, disposizioni organizzative, comunicazioni verbali e non verbali. Essa può essere letta secondo tre fondamentali dimensioni: la dimensione di controllo (C), la dimensione emozionale (E), la dimensione di trasparenza-congruenza-autenticità (A).

3.1. La​​ dimensione C​​ concerne quei comportamenti dell’educatore che stabiliscono i confini di competenza all’interno del rapporto. Al polo negativo di tale dimensione collochiamo l’educatore autoritario che impone una disciplina rigida, si occupa poco dei bisogni degli altri, ha una concezione piuttosto ristretta del comportamento socialmente accettabile, utilizza forme verbali direttive (ordini, confronti, moralizzazioni, domande accusatorie, colpevolizzazioni, promesse-ricatti), usa il suo potenziale di gratificazione in modo direttivo-repressivo. Al polo positivo abbiamo l’educatore autorevole che incoraggia negli altri la responsabilità sociale, la stima di sé, l’iniziativa individuale, la partecipazione attiva alle attività comuni, pur mantenendo la guida, la direzione e un ragionevole controllo. Dispone del proprio potenziale di gratificazione in modo sociale-integrativo favorendo la corresponsabilità e la collaborazione. Nel comunicare fa uso di forme verbali (inviti, proposte, parafrasi, chiarificazioni, informazioni) che riflettono il valore e la dignità degli interlocutori e ne stimolano l’autodeterminazione, il libero impegno, la corresponsabilizzazione.

3.2. Mentre la​​ dimensione C​​ riguarda il comportamento di guida dell’educatore, la​​ dimensione E​​ fa riferimento al suo comportamento socio-affettivo ed include quell’insieme di modalità relazionali tramite le quali l’educatore metacomunica all’altro in che modo lo percepisce e lo valuta. Al polo negativo di questa dimensione troviamo l’educatore freddo, distaccato, svalutante e rifiutante. Al polo positivo l’educatore caloroso, incoraggiante, valorizzante, sensibile ai bisogni individuali. Le qualità processuali proprie della​​ dimensione E​​ sono: l’accettazione incondizionata, la stima, il rispetto, la gentilezza, la cordialità, la bontà.

3.3. La​​ dimensione A​​ concerne il grado di congruenza insito nel comportamento relazionale dell’educatore. Al polo positivo di tale dimensione collochiamo l’educatore costruttivamente autentico, che è in contatto con le proprie esperienze e che è capace di comunicarle adeguatamente valutandone l’opportunità per l’andamento dell’interazione. Al polo negativo di questa dimensione abbiamo, invece, l’educatore difensivo, che interagisce a partire dal ruolo, strategico, che trattiene le informazioni o le manipola, irresponsabilmente schietto, che esprime le sue esperienze senza calcolare gli effetti della propria autopresentazione.

4.​​ Atteggiamenti dell’educatore. Affinché si crei un’atmosfera favorevole per la crescita individuale e di gruppo si richiede all’educatore di interagire, prevalentemente, secondo le polarità positive delle tre dimensioni considerate. Dal punto di vista del controllo è importante che egli realizzi una guida autorevole attuando interventi regolativi e orientativi legittimati non dal suo status o ruolo, ma da un’esigenza oggettiva. In particolare ciò si esplica nel promuovere la partecipazione attiva alla gestione della vita comune, nell’accrescere nelle persone in formazione le capacità per relazionarsi responsabilmente verso le proprie scelte immediate e future, nel favorire l’autodirezionalità. Dal punto di vista socio-affettivo è importante che l’educatore abbia cura dell’individualità di ciascuna persona e la rispetti, nutra fiducia nelle possibilità e nelle potenzialità che questa ha di apprendere e di svilupparsi, affini la sua sensibilità nel coglierne i sentimenti e i pensieri. Dal punto di vista della congruenza è importante che l’educatore si impegni a rendere il più possibile nota l’intera situazione educativa, si introduca nella comunicazione in modo diretto e chiaro e si assuma la responsabilità delle proprie imperfezioni e dei propri limiti. È auspicabile, infine, che l’educatore sia aperto all’esperienza, ossia sia disposto a cambiare conformemente al mutare dei bisogni e delle situazioni, anziché aderire rigidamente a piani predeterminati. Quando l’educatore, nel contesto in cui opera, si rapporta secondo le polarità positive delle​​ dimensioni C,​​ E ed A, si instaura un clima di autorevolezza e​​ partnership, per cui le persone sviluppano sentimenti positivi verso se stesse e verso la situazione interattiva e si sentono più disposte e motivate ad esporsi, a partecipare e a collaborare. Occorre precisare che sebbene siano individuabili nelle polarità positive delle dimensioni menzionate, i comportamenti relazionali ottimali, lo stesso educatore può avere, come è facile prevedere, efficacia diversa con persone diverse. Per ogni persona, infatti, il modo di percepire l’educatore e di reagire nei suoi confronti dipenderà necessariamente dalla propria organizzazione cognitiva ed emotiva. Tuttavia, nonostante tali innegabili differenze nella percezione degli atteggiamenti educativi, la maggior parte delle persone trae giovamento dal contatto con educatori autorevoli, competenti, incoraggianti, empatici ed autentici.

Bibliografia

Franta H.,​​ Atteggiamenti dell’educatore, Roma, LAS, 1977; Lumbelli L. et al.,​​ Educazione come discorso: quando dire è fare educazione, Bologna, Il Mulino, 1981; Franta H.,​​ Relazioni sociali nella scuola. Promozione di un clima umano positivo,​​ Torino, SEI, 1985; Id.,​​ Atteggiamenti dell’educatore, Ibid., 1995; Zucchermaglio C.,​​ Discutendo si impara: i. sociale e conoscenza a scuola, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995; Franta H. - A. R. Colasanti,​​ L’arte dell’incoraggiamento. Insegnamento e personalità degli allievi, Roma, Carocci, 1999; Bastianoni P.,​​ Interazioni in comunità: vita quotidiana e interventi educativi, Ibid., 2000; Bazzanella C. (Ed.),​​ Sul dialogo. Contesti e forme di i. verbale, Milano, Guerini, 2002; Trombetta C.,​​ Psicologia dell’educazione e pedagogia. Contributo storico-critico, Milano, Angeli, 2002; Villamira M. A.,​​ Comunicazione e i. Aspetti del comportamento interpersonale e sociale, Ibid., 2002; Perricone Briulotta G.,​​ Manuale di psicologia dell’educazione. Una prospettiva ecologica per lo studio e l’intervento sul processo educativo, Milano, McGraw-Hill, 2005; Petruccelli F.,​​ Introduzione alla psicologia dell’educazione, Milano, Angeli, 2005; Myhill D. - S. Jones - R. Hopper,​​ Talking,​​ listening,​​ learning: effective talk in the primary classroom, Maidenhead, Open University Press, 2006.

H. Franta - A. R.Colasanti




INTERAZIONISMO SIMBOLICO

 

INTERAZIONISMO SIMBOLICO

L’i.s. è uno degli approcci più utilizzati per l’interpretazione del processo di​​ ​​ socializzazione.

1.​​ Storia e sviluppo della teoria.​​ La teoria dell’i.s. ritrova le sue​​ origini​​ nel pensiero di alcuni Autori a cavallo del XX sec. come James (1890) e Cooley (1902). L’interesse si sviluppò notevolmente tra il 1920 e il 1950 per l’apporto di G. H. Mead (1934), H. Blumer, H. Gerth e C. W. Mills (1953). Diminuì invece tra gli anni ’50 e ’60 per riprendere poi nell’ultimo ventennio con Thomas (1966), Goffman (1969), Meltzer (1967 e 1973), Blasi (1972), Stryker (1985), Reynolds (1990).

2.​​ Postulati e principi teorici.​​ Tre sono le premesse essenziali che stanno alla base della teoria: a) Gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose sulla base dei significati che tali cose hanno per loro. b) Il significato di tali cose deriva dall’i. sociale che ognuno ha con gli altri: l’importanza del fattore relazionale è tale che la concezione che gli altri hanno del soggetto influisce sulla sua stessa autopercezione (gli «altri significativi»). c) Questi significati sono elaborati e trasformati in un processo simbolico e interpretativo messo in atto dalla persona nell’affrontare le situazioni della vita. Su questi postulati si fondano dei​​ principi-guida:​​ a)​​ La personalità dell’individuo​​ si forma attraverso un processo in cui l’Io è il soggetto e il «me» (self) ne può costituire l’oggetto. Il «self» è l’individuo stesso in quanto è oggetto di autopercezione. Esso si sviluppa attraverso un continuo confronto di stimoli esterni e che l’«io» filtra e interpreta sulla base di immagini e di significati che egli viene costruendosi sulla realtà. b)​​ La realtà esterna​​ è costituita sostanzialmente da due elementi complementari: l’«altro generalizzato»​​ e​​ «l’altro significativo».​​ L’«altro generalizzato»​​ è interpretato come l’insieme delle attese della comunità (attese di ruolo) nei confronti del soggetto (Mead), o come Superego (​​ Freud), o come l’uditorio interno con cui l’individuo interagisce (Gerth e Mills). Esso è memoria, personificazione interiore di tratti della società. L’«altro significativo»​​ è l’adulto che riveste una particolare importanza e funzione nei confronti dell’Io. Sulla base di queste relazioni ne rinforza l’identità e riveste una particolare rilevanza nell’orientare o condizionare il comportamento dell’individuo. I fattori che ne condizionano la significatività sono l’immagine che il soggetto ha di sé, la posizione sociale, l’età, il sesso, l’attaccamento, la stima, l’affinità percepita, l’autorità esercitata, le risorse a disposizione, il grado di intimità. c) L’Io quindi agisce sulla base delle​​ rappresentazioni simboliche​​ della realtà e delle «definizioni delle situazioni» elaborate. Ciò è espresso dal postulato di W. I. Thomas: «Se gli uomini definiscono delle situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». d)​​ Il processo è interattivo​​ perché l’attività individuale è possibile solo con l’appartenenza ad una comunità significante, per cui possiamo attribuire lo stesso significato agli stessi segni. Alla teoria si rimprovera il rischio di lasciare fuori dal suo ambito interpretativo gli aspetti oggettivi e strutturali della società.

Bibliografia

Blumer H.,​​ Symbolic interactionism,​​ Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1969; Meltzer N. - J. W. Petras - L. T. Reynolds,​​ L’i.s.,​​ Milano, Angeli, 1980; Ciacci M. (Ed.),​​ I.s., Bologna, Il Mulino, 1983; Wallace A. R. - A. Wolf,​​ La teoria sociologica contemporanea,​​ Ibid., 1995; Goffman E.,​​ Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, Einaudi, 2003; Perrotta R.,​​ Cronici,​​ specchi e maschere. I.s. e comunicazione, Bologna, CLUEB, 2005; Blumer H.,​​ La metodologia dell’i.s., Roma, Armando, 2006; Goffman E.,​​ Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Torino, Einaudi, 2006.

R. Mion




INTERDISCIPLINARITÀ

 

INTERDISCIPLINARITÀ

Il termine i. è relativamente recente; non si sono ancora stabilizzate né la sua dizione e ortografia (alcuni infatti scrivono e dicono «interdisciplinarietà») né il suo contenuto semantico. Oltre che di i., oggi, si parla anche di multidisciplinarità o pluridisciplinarità e di transdisciplinarità, ma anche in questo caso non si è concordi nel definire le reciproche differenze.

1.​​ Chiarificazione dei termini.​​ Riteniamo anzitutto che l’i. vada distinta dalla multidisciplinarità o pluridisciplinarità. Esiste un fenomeno assai comune nell’ambito della ricerca scientifica, che consiste nell’utilizzazione funzionale di una scienza da parte di un’altra. La prima (scienza principale) si serve, per una migliore conoscenza del suo oggetto, delle competenze (metodi e risultati) dell’altra scienza (scienza ausiliaria), senza tuttavia che si arrivi ad un vero dialogo e a una reciproca collaborazione tra esse. Questo fenomeno, detto anche comunicazione unidirezionale tra scienze, nella logica aristotelica assumeva il nome di​​ subalternazione.​​ Oggi, quando alcuni parlano di​​ multidisciplinarità​​ (o pluridisciplinarità), sembra proprio che intendano questo tipo di rapporto. La multidisciplinarità, così intesa, per noi, non è ancora i., anche se può diventarne la premessa. Dall’i. distinguiamo anche la​​ transdisciplinarità,​​ però solo nel senso che la consideriamo come un suo possibile e auspicabile punto di arrivo. L’i. si verifica quando, tra due o più scienze, si ha non solo la semplice utilizzazione delle competenze di una di esse (cioè la multidisciplinarità), ma anche un vero dialogo o scambio reciproco di informazioni tra scienze differenti. Questo comporta la messa a confronto delle loro ottiche diverse, lo sforzo di mutua integrazione fra queste, la consapevolezza della parzialità dei risultati di ciascuna e nello stesso tempo della loro indispensabilità nella comprensione di un problema o di una realtà complessa, in breve, quella che si potrebbe definire un’effettiva collaborazione «interdisciplinare». La collaborazione interdisciplinare, che può avvenire anche tra scienze di ambiti differenti, quando ha successo, può arrivare a produrre costrutti transdisciplinari, nel senso che riesce a produrre metodi di ricerca, concetti e modelli di realtà, proficuamente utilizzabili da più scienze, ciascuna, però, nell’ambito del suo oggetto specifico e col suo metodo. Naturalmente sia l’i. che la transdisciplinarità trovano la loro giustificazione solo all’interno di una teoria epistemologica (​​ epistemologia pedagogica).

2.​​ L’i. nell’ambito della pedagogia.​​ In campo pedagogico-didattico l’i. fu di moda negli anni Settanta-Ottanta; però il modo di intenderla non fu sempre corretto, soprattutto quando la si contrapponeva alla disciplinarità. L’esigenza dell’i. è sentita da quei pedagogisti, i quali, ritenendo necessario ricorrere ad una molteplicità di discipline scientifiche per una conoscenza adeguata della realtà educativa e per la costruzione di programmazioni pedagogiche e didattiche, preferiscono parlare di​​ ​​ scienze dell’educazione invece che di​​ ​​ pedagogia. Il mondo dell’educazione, infatti, si presenta così complesso da esigere di essere studiato da una pluralità di scienze. Ognuna di esse lo affronta da un angolo di visuale diverso da quello delle altre, utilizzando un metodo di ricerca, un modello conoscitivo e un linguaggio tecnico propri. Però nessuna di esse è in grado, da sola, di offrire una soluzione globale dei problemi teorici e pratici dell’educazione; d’altra parte i contributi specifici di ciascuna sono indispensabili al fine di evitare pericolose unilateralità sia a livello teorico che pratico. Quindi l’i. e la transdisciplinarità tra le scienze dell’educazione diventa una necessità, anche se poi la loro realizzazione concreta presenta notevoli difficoltà e richiede previamente che si realizzino determinate condizioni.

3.​​ Condizioni per il dialogo interdisciplinare in funzione della collaborazione transdisciplinare tra le scienze dell’educazione.​​ È necessaria anzitutto, da parte dei due o più​​ partner​​ del dialogo, l’accettazione leale dell’approccio multidisciplinare alla realtà educativa. Inoltre, si deve tener sempre presente che il dialogo interdisciplinare non avviene sul piano astratto dei vari tipi di scienza in quanto tali, ma su quello concreto delle loro realizzazioni storiche, cioè fra teorie di discipline appartenenti a scienze differenti, e che ciascuna di queste teorie è, per sua natura, sempre soggetta a processi di falsificazione. In terzo luogo è necessario che i rappresentanti delle differenti scienze dell’educazione, oltre a conoscere bene il linguaggio scientifico della propria specialità, devono poter comprendere in modo sufficiente anche quello dell’altra o delle altre con cui entrano in rapporto interdisciplinare. Infine si richiede che ciascuna delle scienze dell’educazione definisca chiaramente l’oggetto e il metodo specifici della sua indagine sul campo comune dell’educazione, fornendo i risultati o le informazioni che è riuscita ad ottenere. Il campo comune di tutte le scienze dell’educazione è la vita umana nella sua realtà esistenziale, visto come un tutto unitario, durante i suoi processi di crescita verso la maturazione, mediante quel complesso di attività e istituzioni che chiamiamo educazione. Ognuna delle scienze dell’educazione lo considera da un suo angolo di visuale, cioè secondo quel modello di realtà predefinito in base agli strumenti metodologici che essa ritiene di poter utilizzare. Però perché il dialogo tra le scienze dell’educazione passi dal piano della comunicazione a quello dell’effettiva collaborazione, occorre un’ulteriore condizione: la creazione di costrutti mentali i quali, oltre ad essere propri e specifici di una di esse, possano essere contemporaneamente accettati e utilizzati anche dall’altra o dalle altre. Questi costrutti mentali sono «transdisciplinari», perché conservano la loro valenza semantica e la loro forza dimostrativa in due o più scienze differenti, però in modo diverso in ciascuna. Se le scienze dell’educazione riuscissero a elaborare tali costrutti, allora il dialogo si trasformerebbe in vera collaborazione su problemi di interesse comune, avente come scopo la costruzione di sintesi pedagogiche, unitarie, frutto dei contributi di scienze diverse ma tutte interessate alla soluzione dei problemi educativi. Sembra che la teoria epistemologica delle «tradizioni di ricerca» di L. Laudan, ipotizzando la possibilità che gruppi di teorie appartenenti a scienze diverse abbiano in comune un’ontologia e una metodologia di ricerca, costituisca un valido fondamento epistemologico sia dell’i. che della transdisciplinarità. Il problema si complica maggiormente nel caso della​​ ​​ pedagogia cristiana, dove deve attuarsi un dialogo interdisciplinare tra scienze dell’educazione e​​ ​​ teologia dell’educazione. Approcci intrinsecamente e subito transdisciplinari, come la fenomenologia e l’ermeneutica, sono stati invocati e adoperati per superare la specializzazione disciplinare e i suoi limiti, specie dopo gli anni ’80. Peraltro la necessità dell’i. trova oggi una ragione in più a fronte dell’accresciuta complessificazione dell’esistenza che fa parlare di «inter-problematicità».

Bibliografia

Antiseri D.,​​ I fondamenti epistemologici del lavoro interdisciplinare,​​ Roma, Armando, 1972; Schilling H.,​​ Teologia e scienze dell’educazione. Problemi epistemologici,​​ Ibid., 1974; Laudan L.,​​ Il processo scientifico. Prospettive per una teoria,​​ Ibid., 1979; Groppo G., «Teologia e scienze umane: dalla conflittualità al dialogo», in D. Valentini (Ed.),​​ La teologia. Aspetti innovativi,​​ Roma, LAS, 1989, 53-78; Agazzi E.,​​ Cultura scientifica e i.,​​ Brescia, La Scuola, 1994;​​ Torres Santomé J.,​​ Globalización e interdisciplinariedad: el curriculum integral, Madrid, Morata,​​ 42000.

G. Groppo




INTERESSE

 

INTERESSE

L’i. si colloca nell’area della​​ ​​ motivazione di cui è l’espressione culminante. Nella sua componente affettiva, viene inteso come una reazione positiva dell’individuo ad oggetti e a situazioni di piacevolezza reale o supposta. La componente cognitiva rappresenta il contenuto dell’i., che può essere generico o specifico; il primo si riferisce alle aree di i. (sociale, religiosa, artistica, sportiva); il secondo ad una situazione specifica (lettura, pesca, recita). Le due componenti sono dosate in modo differente in rapporto ad oggetti e situazioni e condizionano la stabilità e l’intensità dell’i.

1. L’i. è radicato nel bisogno, che esprime la carenza dell’organismo che induce il soggetto a ridurre il bisogno allo scopo di raggiungere l’equilibrio fisiologico o psichico e quindi uno stato di benessere. La carenza può essere di natura fisiologica o psicologica e quindi produce un bisogno fisiologico o psichico. I due tipi di bisogni sono disposti in una struttura gerarchica che va dai bisogni fisiologici e culmina con quei spirituali. La spinta dell’organismo alla riduzione del bisogno è generica e può essere soddisfatta in vari modi. Il soggetto, in contatto con l’ambiente, polarizzerà le sue scelte su un determinato oggetto (ad es. il genere di bibita) oppure su una determinata situazione (ad es. la lettura) e attraverso ripetute scelte trasformerà la generica spinta in i. Gli i. sono affini ad altri costrutti motivazionali come preferenze e valori e a causa di questa base motivazionale comune non è facile separarli nettamente. I teorici sono in grado soltanto di stabilire la loro successione, come già indicato prima, partendo dai bisogni, proseguendo con gli i. e approdando ai valori. Infatti Savickas (1999), seguendo Donald Super vede nei valori all’apice della struttura gerarchica dei tre costrutti motivazionali in quanto questi ultimi esprimono il significato dell’esistenza umana.

2. Considerata la forza motivante dell’i.​​ ​​ Decroly ha pensato di fondare l’apprendimento su di esso; ha infatti proposto di organizzare le attività scolastiche intorno a «centri di i.» e basare contenuti e metodi sui «veri bisogni» degli alunni. Le sue proposte hanno avuto una grande eco nell’educazione e l’attenzione degli insegnanti si è spostata dalla materia all’alunno. Passato il periodo di Decroly, l’i. nell’apprendimento scolastico è stato assimilato alla motivazione allo studio nella sua duplice componente intrinseca ed estrinseca con il cosiddetto approccio profondo e superficiale, corrispondente alla motivazione intrinseca (apprendere contenuti di studio per la crescita e soddisfazione personale) ed estrinseca (studiare puramente per vantaggi sociali come lode e premio). In pratica tutti i questionari sull’apprendimento includono le scale che rilevano i due tipi di motivazione.

3. L’i. ha avuto anche una vasta applicazione nello sviluppo e nella scelta professionale per cui gli i. generali si possono trasformare in i. professionali; in questo ambito essi assumono la denominazione dalle aree professionali (i. scientifici, tecnici, amministrativi). Sprini e collaboratori (2005) hanno tracciato la storia degli strumenti destinati a rilevare gli i. professionali dal loro uso in Italia (dagli anni ’50 in poi). L’opera segna un valido contributo all’affermarsi di tali strumenti (questionari e inventari) nel contesto italiano. L’indicazione su quali strumenti conviene adottare attualmente nell’orientamento è offerta da Boncori (2006) nel suo aggiornato manuale. I dati ottenuti da tali strumenti contribuiscono alla comprensione dello sviluppo professionale dei giovani nell’ambito di alcune teorie della scelta professionale (​​ orientamento). Essi infatti guidano la scelta e contribuiscono alla stabilità nel corso o nell’attività lavorativa oltre che alla soddisfazione professionale (Dawis, 1991). Quando negli anni ’50 si sono diffusi i questionari per «misurare» gli i. è sorto il problema del rapporto tra gli i. espressi (verbalmente) e quelli misurati. Gli i. misurati sono stati considerati «profondi» in quanto manifestavano una struttura motivazionale stabile, mentre gli i. espressi avevano una struttura più fluida e malleabile. Il rapporto fra i due tipi tuttora non è chiaro (Spokane e Decker, 1999), ma attualmente nell’esame di un progetto professionale vengono presi in considerazione entrambi. Particolarmente Holland ha assunto i due tipi di i. nel suo​​ Self-Directed Search​​ con «Sogni ad occhi aperti» (Holland, Powell e Fritzsche, 2003). In sintesi, Savickas (1999) coglie molto bene il significato degli i. notando che essi lanciano un ponte tra la persona e l’ambiente per creare un rapporto vitale tra le due «sponde». Il rapporto tra la persona e l’ambiente (lavorativo) si manifesta nelle attività che soddisfano i bisogni, realizzano i valori, stimolano lo sviluppo, potenziano l’adattamento contestuale e realizzano l’identità della medesima persona. L’interazione tra la persona e l’ambiente professionale nella teoria della scelta professionale di Holland è stata presente dall’inizio della sua elaborazione.

Bibliografia

Dawis R. V.,​​ «Vocational interests, values, and preferences»,​​ in M. D. Dunnette - L. M. Eough (Edd.),​​ Handbook of industrial and organizational psychology,​​ vol. 2, Palo Alto, Consulting Psychologists Press,21991; Savickas M. L. - A. R. Spokane (Edd.),​​ Vocational interests: Meaning,​​ measurement,​​ and counseling use,​​ Palo Alto, Davies-Black, 1999; Savickas M. L., «The psychology of interests», in Ibid., 19-56; Spokane A. R. - A. R. Decker, «Expressed and measured interests», in Ibid., 211-233; Holland J. L. - A. B. Powell - B. A. Fritzsche,​​ SDS Self-directed search,​​ Firenze, O.S.,​​ 2003; Sprini G. et al.​​ (Edd.),​​ Gli i. e la loro misurazione, Milano, Angeli, 2005; Boncori L.,​​ I test in psicologia: Fondamenti teorici e applicazioni,​​ Bologna, Il Mulino, 2006.

K. Poláček




INTERIORITÀ

 

INTERIORITÀ

Il termine i. viene per lo più inteso nel senso di ciò che è «dentro» l’uomo, la vita spirituale, la​​ ​​ coscienza, la convinzione personale, l’autenticità, in contrapposizione alla vita esteriore dell’individuo nei suoi rapporti sociali con gli altri.

1. La nozione, già propria di​​ ​​ Socrate, di​​ ​​ Platone e dello stoicismo, divenne fondamentale nel​​ ​​ cristianesimo con s.​​ ​​ Agostino, il quale affermò che l’uomo ha dentro di sé la sua più profonda verità:​​ «in interiore homine habitat veritas»​​ (De vera religione,​​ 39, 72). L’uomo interiore coincide per s. Agostino con l’homo spiritualis,​​ perché per il suo spirito è veramente ad immagine di Dio e aderisce alla Verità​​ «nulla interposita persona»​​ (quaest.​​ 51, 4). Con quest’espressione, che ha le sue radici nella Scrittura, s’intende​​ il principio dell’i. – l’homo interior –, che s. Agostino ha intuito in se stesso e ha poi formulato mirabilmente nei suoi scritti, dalle​​ Confessioni​​ alla​​ Città di Dio.​​ In essi si sottolinea la centralità del cuore come luogo intimo della persona, il punto in cui convergono tutte le sue potenze e da cui si dipartono tutte le attività (cfr., tra l’altro,​​ Epist.​​ 147). Il cuore in questo modo è il concetto più sintetico per designare la persona nella sua i. e aprirsi allo spirito di vita di Dio (cfr.​​ Le Confessioni​​ X, 6-8).

2. All’educazione interessa il concetto di i. È lì che l’uomo trova la capacità di rientrare dentro di sé, di andare al di là delle realtà che vede, di comprendere il senso delle azioni che compie e di esprimere la propria identità con libertà senza sottostare alla schiavitù dei giudizi e apprezzamenti della società. Prima di estrinsecarsi nelle sue azioni l’uomo vale per le sue decisioni interiori: egli è profondamente ciò che nella sua i. vuole, odia ed ama. Gli eventi umani non sono se non la proiezione materiale e temporale delle decisioni interiori dell’uomo. L’i. è dunque una chiave fondamentale dell’esistenza umana e una dimensione centrale dell’educazione. Essa, a un livello d’i. più superficiale, condurrà la persona in formazione ad avere un effettivo dominio e libertà sia su quanto le sopraggiunge dall’esterno e possiede un’esistenza indipendente dalla conoscenza che essa ne può avere, sia su quanto tocca la sua coscienza psicologica (idee, sentimenti, ecc.). L’educazione aiuterà la persona a prendere distanza riguardo ad entrambi, a sentirsi libera interiormente, a relativizzarli e a superarli con piena​​ ​​ autonomia, nonostante la forza dei sentimenti e delle emozioni. Ognuno porta in sé, nel suo intimo più profondo, fin dall’inizio del suo esistere, un germe di positività,​​ «l’uomo nascosto nell’intimo del cuore»​​ (1 Pt 3,4). Questo seme (ossia l’io ideale)​​ è ciò che l’uomo nel suo interno vuole e ama. Un’autentica educazione non può assolutamente prescindere da questo seme, che indica la direzione del cammino formativo da seguire. Proprio per questo ha grande valore nell’educazione il principio di s. Agostino:​​ «noli foras ire»​​ (De vera religione,​​ 39, 72). Tutto questo richiede una stretta collaborazione tra spiritualità e pedagogia per la cura e lo sviluppo dei sensi interiori, sui quali la tradizione cristiana ha offerto in ogni epoca un notevole apporto.

3. Il pericolo più insidioso è il soggettivismo radicale, cioè la coscienza che tende a diventare individualista, prendendo i propri sentimenti ed emozioni come misura delle proprie azioni senza nessuna legittimazione oggettiva. Oggi diventa quindi importante e irrinunciabile dedicare una particolare attenzione alla formazione della coscienza personale e un’educazione all’i., fondata sul senso della propria libertà e sulla attenzione rispettosa (seppure non senza confronto e diritto di reciprocità) dell’alterità delle cose, del tempo, degli ideali, della cultura, della società, delle istituzioni, degli altri, di Dio.

Bibliografia

Alessi A.,​​ Filosofia della religione,​​ Roma, LAS, 1991; Agostino,​​ Le Confessioni.​​ Introduzione e commento di H. U. von Balthasar, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1993; Martini C. M.,​​ Cambiare il cuore,​​ Milano, Bompiani, 1993; Goya B.,​​ Psicologia e vita spirituale. Sinfonia a due mani, Bologna, EDB, 1999; Bianchi E.,​​ Lessico della vita interiore. Le parole della spiritualità, Milano, BUR, 2004.

V. Gambino




INTERIORIZZAZIONE

 

INTERIORIZZAZIONE

Il termine i. si riferisce al processo attraverso cui si acquisiscono dall’esterno sistemi di convinzioni, norme,​​ ​​ valori, atteggiamenti, e modelli di comportamento, assorbendoli e integrandoli progressivamente nella propria struttura di personalità. In tal modo il soggetto trasforma la regolazione esterna del proprio agire ad opera degli agenti di socializzazione, in autoregolazione ed autocontrollo, per cui egli si adegua alle norme e alle richieste della società non per pressioni esterne dirette o anticipate (es. attesa della ricompensa, paura della punizione) ma perché è convinto intimamente della validità dei valori a cui ispira la sua condotta.

1. La​​ ​​ psicologia evolutiva pone particolare attenzione al processo di i. e al costrutto della coscienza ad esso collegato, al fine di comprendere i dinamismi attraverso cui la persona impara ad autogovernarsi. In proposito i diversi approcci teorici (cognitivo-evolutivo, psicanalitico, dell’apprendimento sociale) hanno posizioni differenti sul ruolo più o meno attivo che la persona ha nella dialettica con l’ambiente sociale; essi, comunque, individuano in genere nell’identificazione uno dei meccanismi centrali dell’i. (Arto, 1984, cap. 3). Dagli anni ’90 in poi, grazie anche alle ricerche che hanno evidenziato il ruolo attivo del bambino fin dalle sue prime esperienze relazionali, si è affermata una concezione di i. non più intesa come un processo unidirezionale di trasmissione intergenerazionale ad opera degli agenti di socializzazione, ma come un processo bidirezionale, transazionale di reciproco cambiamento, in cui il bambino, interpretando, valutando, accettando o meno le influenze ricevute, è considerato co-costruttore delle linee guida della condotta (Killen - Smetana, 2006).

2. L’i. riguarda, dunque, quelle forme di regolazione dell’agire, che all’inizio dipendono da controlli estrinseci, e che la persona fa proprie man mano che comprende (e nella misura in cui comprende) quali condotte vengono rinforzate, o meno, e impara ad anticipare le conseguenze delle sue azioni. A partire dal controllo esterno, si può individuare nel processo d’i. un’evoluzione verso l’autonomia nel regolare il proprio agire: la persona, infatti, si autoregola dapprima limitandosi ad introiettare, cioè a rappresentarsi internamente, i moniti degli educatori, poi facendo propria la condotta dei modelli con cui si identifica, ed infine integrando pienamente ciò con cui si è identificata, dando cioè un significato ed un valore personale alla regolazione del suo agire (Deci - Ryan, 2004).

3. Per promuovere tale evoluzione nell’i., è importante che nell’ambiente educativo sia presente una guida autorevole, grazie alla quale l’educando possa imparare ad assumersi la responsabilità del proprio agire comprendendo il senso dei limiti e delle richieste con cui inevitabilmente deve fare i conti e sentendosi sostenuto emotivamente nelle frustrazioni sperimentate, invece di sentirsi oppresso e umiliato da un controllo autoritario, o sentirsi disorientato in un contesto antiautoritario e permissivo che non gli offre una struttura di riferimento per orientarsi nella crescita (Franta, 1988). Risulta, dunque, fondamentale favorire un clima relazionale positivo in cui l’educando venga sia incoraggiato ad essere autonomo e a partecipare alle decisioni da prendere, sia aiutato a comprendere e a riflettere sul danno che può arrecare agli altri una sua eventuale azione antisociale.

Bibliografia

Arto A.,​​ Crescita e maturazione morale,​​ Roma, LAS, 1984; Franta H.,​​ Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa,​​ Ibid., 1988; Deci E. L. - R. M. Ryan (Edd.)​​ Handbook of​​ self-determination​​ research, Rochester, N. Y., University of Rochester Press,​​ 22004; Killen M. - J. Smetana (Edd.),​​ Handbook of moral development, Mahwah, N. J., Lawrence Erlbaum Associates, 2006.

C. Messana