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INSEGNAMENTO

 

INSEGNAMENTO

L’attività volta a promuovere l’acquisizione di​​ ​​ conoscenze,​​ ​​ abilità,​​ ​​ atteggiamenti e​​ ​​ competenze negli altri per mezzo di opportuni sistemi di rappresentazione e di​​ ​​ comunicazione. Dal lat.​​ insignare,​​ imprimere segni, il termine è stato ben presto utilizzato per indicare la rappresentazione delle informazioni e delle conoscenze​​ in signo sensibili,​​ cioè secondo un sistema di segni sensibili (in signo ponere).​​ D’altra parte​​ insignare​​ significa anche indicare, far segno. L’azione di i. può quindi essere letta sia come azione che mira a rendere sensibili, percepibili le conoscenze, le competenze, i​​ ​​ valori che si intendono proporre all’azione di​​ ​​ apprendimento degli allievi, sia come indicazione del loro significato, del loro grado di plausibilità e del loro valore soggettivo e collettivo (​​ insegnante).

1.​​ Alcuni concetti chiave.​​ S.​​ ​​ Tommaso d’Aquino afferma che: «Il maestro non causa il lume intellettuale del discepolo, né direttamente le specie intelligibili, ma con il suo i. stimola il discepolo perché, applicando la capacità del proprio intelletto, formi i concetti dei quali, dal di fuori, offre i segni» (Tommaso d’Aquino, 1965, 119-121). E ancora: «Il maestro, nei riguardi del discepolo, non fa altro che proporgli dei segni o indicargli qualcosa con parole o con gesti [...]. L’insegnante esercita una funzione esteriore, come il medico che risana; e come la natura interiore è la principale causa della guarigione, così il lume interiore dell’intelletto è la principale causa del sapere» (Ibid.,​​ 113). Non solo l’attivazione dei processi di apprendimento, dunque, ma anche il loro controllo non può essere di conseguenza e in generale che solo indiretto: esso è infatti mediato dai sistemi di segni adottati, includendo tra questi anche i sistemi di relazione instaurati. È il principio fondamentale su cui si fonda la cosiddetta «didattica mediale», espressione che si riferisce all’uso valido e produttivo di adeguati​​ media​​ (ambienti e strumenti) di comunicazione culturale per raggiungere gli​​ ​​ obiettivi didattici intesi. Il primo e fondamentale sistema di segni è il contesto o ambiente di apprendimento stesso considerato nella sua totalità: edifici, aule e loro attrezzature e relativo stato di manutenzione e di pulizia; materiali e strumenti didattici disponibili ed effettivamente utilizzati; sistemi e modalità di relazione attivate e atmosfera generale presente sul piano della comunicazione interpersonale; caratteristiche personali, culturali e professionali dei docenti; attività didattiche progettate e sviluppate; forme linguistiche e conversazioni adottate; ecc. È quello che possiamo chiamare il​​ medium​​ comunicativo fondamentale che costituisce la cornice di sfondo entro cui sono lette, interpretate e valutate le singole azioni didattiche. In questo contesto o ambiente di base vengono via via predisposti e valorizzati sistemi di segni e​​ media​​ particolari.

2.​​ Diversità dei media usati nell’i.​​ I sistemi di segni principali attraverso cui possiamo rappresentare i contenuti della comunicazione culturale sono dati dalle parole (dette o scritte) e dalle immagini (statiche o dinamiche) (Pellerey, 1990), più o meno strettamente intrecciate tra di loro. L’esperienza soggettiva di quanto è segno o può farsi segno può essere diretta oppure mediata. In questo secondo caso si ha l’interposizione di un ulteriore sistema rappresentativo: è il caso del cinema, della televisione, del computer, ma anche del testo scritto, delle opere d’arte riprodotte a stampa, ecc. Nell’esperienza diretta la percezione, l’attribuzione di significato e l’appropriazione delle conoscenze e delle competenze rappresentate sono guidate e sorrette dall’interazione con una o più persone presenti. Nel secondo caso, invece, la percezione, l’attribuzione di significato e l’appropriazione dei contenuti sono nelle sole mani del soggetto. Nel primo caso si costituisce un sistema di interazioni triangolare in cui oltre alla rappresentazione e all’azione di comprensione e appropriazione del soggetto esiste una meta-comunicazione tra insegnante e allievi che sovrintende alla loro interazione. Nel secondo caso l’interazione è bipolare: tra soggetto e rappresentazione. Non solo, esiste una profonda differenza strutturale tra l’i. sviluppato tramite l’uso dell’interazione orale e quello che valorizza testi scritti,​​ ​​ audiovisivi, computer. Nella conversazione, nell’incontro diretto orale, la validità e correttezza della comunicazione vengono immediatamente e con continuità guidate e controllate dall’insegnante. Nell’uso di testi scritti, come in tutte le altre forme di comunicazione indiretta, anche artistica, ci si affida all’interpretazione. Nella lettura di testi scritti a carattere espositivo, per es., dominano la riflessione, l’analisi, la ricerca del senso, la logica, la ricerca di coerenza. Anche psicologicamente l’uso della parola è profondamente diverso dall’uso di altri mezzi comunicativi. Il parlare, infatti, nasce dal nostro profondo, dalla nostra intimità, anche se col tempo subisce evoluzioni e perfezionamenti; lo scrivere è un processo guidato da norme consapevolmente inventate, anche se ormai lo si percepisce come naturale, in quanto profondamente interiorizzato. E questo vale per molte altre tecnologie di comunicazione, come il cinema, la televisione, il computer, soprattutto usato come strumento multimediale.

3.​​ Modelli di i.​​ L’attività pratica che si svolge nell’insegnare coinvolge tre variabili essenziali: l’insegnante, lo studente, il contenuto di i. A queste tre variabili occorre evidentemente aggiungere il contesto nel quale tale attività si svolge. Il prevalere dell’una o dell’altra di queste variabili favorisce la costituzione di una tipologia di modalità di i. Gli elementi che possono essere individuati per caratterizzare tali prevalenze possono essere così sintetizzati: l’approccio teorico-filosofico che viene privilegiato; l’inquadramento psicologico che tende e specificare le modalità di sviluppo dei processi di apprendimento; l’impostazione curricolare che viene adottata. Utilizzando questo quadro di riferimento si possono distinguere almeno quattro modelli base di i.: a) il modello classico nel quale prevale il contenuto e in maniera minore l’insegnante, considerato esperto e modello; b) il modello tecnologico che esalta la scelta e l’organizzazione didattica dei contenuti; c) il modello personalistico, che sottolinea la centralità dell’alunno, attivo costruttore delle sue conoscenze; d) il modello interattivo, che focalizza l’attenzione sull’interscambio tra insegnante e alunno; è durante questa interazione che si costruiscono le conoscenze. Ovviamente nessuno di questi modelli esaurisce la complessità del lavoro di i., per cui il docente dovrà impostare la sua attività strutturando un suo personale approccio, tenuto conto dei suoi orientamenti ideali e dei vincoli istituzionali entro cui egli è tenuto a svolgere la sua professione.

4.​​ Analisi e valutazione dell’i.​​ L’analisi dell’i. può essere sviluppata a partire da approcci disciplinari molteplici. Dal punto di vista della psicologia comportamentale sono state sviluppate tecniche di analisi e modificazione del comportamento insegnante, in particolare esaminando gli scambi verbali intercorrenti tra docente e allievi. Classico è stato il lavoro pionieristico di Flanders (1970). Da un punto di vista più didattico si possono ricordare i lavori di Dussault et al. (1976). Tecniche osservative sistematiche e partecipanti hanno cercato di esplorare più dall’interno il contesto specifico dell’i. La microsociologia ha utilizzato recentemente metodi etnografici e narrazioni, o storie di vita, dei docenti per risalire dai comportamenti esterni ai pensieri e ai sentimenti che animano docenti e allievi durante le interazioni didattiche. La macrosociologia si è interessata, invece, spesso utilizzando il concetto di sistema, al complesso dell’i., visto come insieme strutturato di relazioni interpersonali e istituzionali, di reciproche influenze, di ruoli, di organizzazione dei tempi, degli spazi e delle persone. D’altra parte l’attività di i. ha come scopo fondamentale quello di promuovere un’acquisizione significativa, stabile e fruibile di conoscenze, abilità e atteggiamenti da parte degli studenti. Di conseguenza la qualità dell’i. si misura dai risultati che esso riesce a raggiungere nonostante la diversità di preparazione, di capacità, di motivazione che presentano gli allievi. Tuttavia occorre evitare forme ingenue di valutazione dei risultati dell’i. scolastico o professionale che si basano solo sui livelli finali di apprendimento. Ciò che caratterizza la bontà di un sistema di i. è il guadagno conoscitivo che riesce a raggiungere, cioè la differenza tra stato di preparazione iniziale e risultati finali raggiunti, ovviamente tenendo conto dei vari condizionamenti sociali, economici e culturali sempre presenti. La tendenza a valutare efficacia ed efficienza dell’i. solo sulla base di standard finali raggiunti e riduzione di costi finanziari valorizzando una metafora economicista, può risultare gravemente dannosa nel contesto scolastico, in quanto può indurre facilmente sia a forme più o meno esplicite di selezione, sia ad abbassamento generalizzato dei livelli finali di conoscenza.

Bibliografia

Tommaso d’Aquino (s.),​​ De magistro,​​ Roma, Armando, 1965; De Giacinto S.,​​ Struttura dell’i.,​​ Napoli, Morano, 1967; Flanders N. A.,​​ Analysis teaching behavior,​​ Reading, Addison-Wesley, 1970; Lapp D. et al.,​​ Teaching and learning. Philosophical,​​ psychological,​​ curricular applications,​​ New York, Macmillan, 1975; Dussault G. et al.,​​ L’analisi dell’i.,​​ Roma, Armando, 1976; Joyce B.,​​ Models of teaching,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall,​​ 21986; Ballanti G.,​​ Modelli di apprendimento e schemi di i.,​​ Teramo, Lisciani & Giunti, 1988;​​ Not L.,​​ L’enseignement répondant,​​ Paris, PUF,​​ 1989; Scurati C. (Ed.),​​ Realtà e forme dell’i.,​​ Brescia, La Scuola, 1990; Mastromarino R.,​​ L’azione didattica,​​ Roma, Armando, 1991;​​ Gimeno Sacristán J. - A. I. Pérez Gómez,​​ Comprender y transformar la enseñanza,​​ Madrid, Morata,​​ 1992; Calidoni P.,​​ I. e ricerca in classe,​​ Brescia, La Scuola, 2004; Bottero E.,​​ Il metodo d’i., Milano, Angeli, 2007.

M. Pellerey




INSEGNAMENTO A DISTANZA

 

INSEGNAMENTO A DISTANZA

Sistema didattico organizzato mediante l’uso di diversi mezzi di comunicazione nel quale gli atti di i. sono eseguiti separatamente dagli atti di​​ ​​ apprendimento.

1. Più specificatamente l’i. a d. è una forma di istruzione in cui si ha: a) una quasi permanente separazione tra docente e discente, e questo la diversifica dall’i, tradizionale faccia a faccia; b) una organizzazione educativa che progetta e prepara i materiali didattici, che li fornisce sistematicamente agli studenti, che li assiste nel loro apprendimento con sistemi di accertamento delle loro acquisizioni, e questo la diversifica da uno studio personale e da programmi di auto-apprendimento; c) un uso integrato di sistemi di comunicazione (come posta, telefono, telematica) e di supporti vari (come stampa, audio, video, programmi informatici, programmi multimediali); d) una comunicazione a due vie tra studente e organizzazione didattica che attiva, anche se con modalità che implicano una separazione spaziale e temporale, una forma di dialogo didattico; e) una forma di i. individuale, che solo può implicare anche incontri, seminari e attività di apprendimento in gruppo. Negli ultimi anni è stata coniata l’espressione​​ ​​ e-learning​​ per indicare forme di apprendimento basate su collegamenti in rete tramite Internet e sull’uso di materiali di tipo digitale.

2. L’i. a d. ha avuto i suoi prodromi in varie forme di istruzione per corrispondenza. Si è sviluppato poi con la diffusione del sistema postale al fine di favorire lo studio e l’apprendimento di competenze professionali soprattutto dove le distanze e le condizioni soggettive impedivano la partecipazione ad attività di studio collettivo tradizionale. Oggi esso è assai diffuso in tutti i continenti, soprattutto nel campo universitario e della formazione professionale. In Italia si hanno alcune organizzazioni private e, più recentemente, sulla base anche di alcune iniziative universitarie, soprattutto nel campo dell’aggiornamento, sono state emanate norme per l’attivazione di corsi universitari a distanza. Sono presenti anche iniziative di formazione permanente basate su​​ e-learning.

Bibliografia

Sarramona J.,​​ Tecnología de la enseñanza a distancia,​​ Barcelona, CEAC,​​ 1975; Bertoldi F.,​​ Formazione a distanza. La seconda didattica,​​ Roma, Armando, 1980; Pellerey M., «Verso un sistema di orientamento e formazione a distanza», in ISFOL,​​ Quaderni di formazione,​​ 6, 1983, 21-228; Vertecchi B. (Ed.),​​ Insegnare a distanza,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1988; Keegan D.,​​ Principi di istruzione a distanza,​​ Ibid., 1994; Willis B. (Ed.),​​ Distance education: strategies and tools,​​ Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1994; Trentin G.,​​ Dalla formazione a distanza all’apprendimento in rete, Milano, Angeli, 2004; De Vita A.,​​ E-learning: parole e concetti. Glossario ragionato della formazione e del lavoro in rete, Ibid., 2004; Crispiani P.,​​ E-learning. Formazione,​​ modelli,​​ proposte, Roma, Armando, 2006.

M. Pellerey




insegnamento della GEOGRAFIA

 

GEOGRAFIA: insegnamento della

La g. (etimologicamente: scrittura o descrizione della terra) è una disciplina complessa e in continuo divenire, non solo descrittiva ma anche esplicativa della terra vista in stretta relazione con l’uomo che è osservatore e attore, per cui il suo oggetto di studio riguarda il fatto antropofisico, l’habitat​​ umano, la biosfera, l’ecosistema, quindi la sinergia uomo-ambiente dalla scala locale a quella mondiale. Data la vastità del suo ambito di studio si parla della pluridimensionalità della scienza geografica, che esige un modo nuovo di affrontarla. Oggi l’insegnamento della g. non può non prendere in considerazione le cosiddette nuove scienze «sistemiche»: ecologia, scienze della terra, cosmologia.

1.​​ L’insegnamento della g. nella storia dell’educazione e della pedagogia.​​ La g. è strettamente collegata all’insegnamento della​​ ​​ storia, in quanto la collocazione dei fatti e degli avvenimenti va fatta nel luogo e nel tempo del loro accadimento. Proprio per questa sua funzione di localizzazione di genti e Paesi, l’insegnamento della g. è sempre esistito fin dall’antichità, sebbene in modo limitato e non scientifico, spesso subordinato alla storia. L’importanza dello studio della g. è stata rilevata in particolare da​​ ​​ Comenio,​​ ​​ Locke,​​ ​​ Rousseau e​​ ​​ Kant. Dal punto di vista didattico la g. ha cominciato ad avere un’attenta considerazione nella pedagogia contemporanea. La g. però è una delle materie di studio, che ha riscosso minor interesse per l’apprendimento, perché il suo insegnamento non raramente veniva limitato a un noioso inventario di nomenclature e di dati da studiare a memoria.

2.​​ Finalità e obiettivi dell’insegnamento della g.​​ La finalità ultima dell’insegnamento della g. consiste nel formare cittadini attivi e responsabili del mondo, che sappiano convivere armonicamente con il loro ambiente e modificarlo in modo creativo e responsabile guardando al futuro. Si tratta di dare all’uomo la coscienza della dimensione spaziale della sua esistenza, ossia una​​ coscienza geografica​​ che esprime la consapevolezza dei legami tra l’ambiente fisico e i sistemi soprattutto politico-economici, e delle conseguenti responsabilità dei gruppi umani e di ogni singolo cittadino nei confronti del territorio sia locale che mondiale. Perciò non solo è importante conoscere le caratteristiche di un territorio, ma anche e nello stesso tempo, sapere, servendosi degli approcci sia sincronici che diacronici, quando-come-perché si è arrivati ad una determinata configurazione territoriale così pure sapere perché, dove e in che misura è possibile modificare / riorganizzare un territorio, e con quale impegno e responsabilità. È una disciplina la cui rilevante valenza formativa si coglie oggi più che mai, proprio in questa considerazione metodologica: descrizione e ricerca delle cause immediate e remote del fatto antropofisico nonché dell’attuale biosfera.

3.​​ Contenuti e metodi dell’insegnamento della g.​​ Per tale insegnamento, come per la storia, bisogna trovare un adeguato dosaggio e combinazione circa i contenuti relativi ad alcune apparenti dicotomie: g. fisica e g. antropica, g. regionale e g. nazionale, g. nazionale e g. continentale, g. continentale e g. mondiale. Il criterio didattico è quello di partire dall’ambiente dell’alunno, dal vicino al lontano, in cerchi concentrici, in adeguamento alle diverse età degli alunni. Lo studio della g. deve essere un avviamento al metodo scientifico con un appropriato linguaggio della g. A tale scopo, attraverso l’osservazione diretta, la lettura delle carte, la consultazione di dati statistici ecc., bisogna sviluppare l’attitudine razionale alla ricerca delle cause, degli effetti e delle correlazioni esistenti fra i vari fatti e fenomeni, allo studio dei processi evolutivi, alla comparazione. È disponibile oggi un ampio ventaglio di​​ ​​ mezzi didattici per la g.: oltre ai classici strumenti materiali (carte geografiche, atlanti, cartelloni plastici, mappamondo, ecc.) c’è la possibilità di un continuo arricchimento grazie alla diffusione dei mass-media, ai viaggi sempre più facilitati (con possibilità di fotografare e di fare riprese dal vivo) e agli elaboratori elettronici.

Bibliografia

Baldacci O.,​​ Perché la g.,​​ Brescia, La Scuola, 1980; Haubrich H. (Ed.),​​ International focus on geographical education,​​ Braunschweig, Georg-Eckert-Institut für Internationale Schulbuchforschung, 1982;​​ Bordman D. (Ed.),​​ New directions in geographical education,​​ London, The Falmer Press, 1985; De Vecchis G. (Ed.),​​ The teaching of geography in a changing Europe,​​ Roma, Domograph, 1991; Souto González X.,​​ Didáctica de la geografía: problemas sociales y conocimiento del medio, Barcelona, Ediciones del Serbal, 1999.

H.-C.A. Chang​​ 




insegnamento della LINGUA MATERNA

 

LINGUA MATERNA:​​ insegnamento della

L’orientamento didattico che si offre oggi all’insegnante di l. rappresenta sostanzialmente il frutto di due diversi indirizzi: una mutata concezione della l., posta in evidenza specialmente dalla linguistica descrittiva, e una più sentita aderenza alle istanze psicologiche del processo di apprendimento. La prima esigenza, quella linguistica, ha certamente contribuito a destare nell’insegnante un vivo senso della mutabilità delle strutture della l. e insieme del valore primario, per l’insegnamento, della contemporaneità, ossia dei modelli linguistici offerti dai parlanti e dagli scrittori odierni. La seconda ha invece fatto sì che il metodo didattico si adeguasse più efficacemente a certi obiettivi pratici di educazione linguistica e a certi ritmi che sono peculiari del discente proprio nella sua graduale conquista dello strumento linguistico.

2. Rispetto al concetto tradizionale di fissità e trascendenza della norma grammaticale, la linguistica attuale, pur riconoscendo l’esistenza di una norma che governi l’uso della l., rifugge tuttavia dall’attribuire un valore assoluto alle leggi linguistiche. Anche la fonologia e la morfologia, che pure rappresentano le strutture più fortemente obiettivate del linguaggio, non sono tuttavia prive di una certa suscettibilità di variazione individuale e di evoluzione nel tempo. Tali norme linguistiche (fonologiche, morfologiche, lessicali, e soprattutto sintattiche e stilistiche), di conseguenza, non possono avere valore assoluto, ricavate come sono da una fase stabilizzata della l., per essere applicate ad atti espressivi mutevoli insieme ai sentimenti degli individui, alle esigenze dell’ambiente, allo svolgimento della cultura. In pratica, il problema si traduce nella difficoltà di determinare i canoni della correttezza linguistica, soprattutto sotto l’aspetto più cruciale della ortodossia grammaticale. Non c’è forse problema più scottante, oggi, nell’insegnamento della grammatica. In fondo, si tratta di scegliere tra una presunta «autorità», trascendente la l. stessa, e l’uso socialmente dominante. Da tutto ciò consegue per l’insegnante l’impreteribile necessità di aggiornarsi sui contributi della scienza linguistica sia per attingerne criteri di sano progressivismo, sia anche per evitare affrettate iconoclastie nei riguardi delle formule tradizionali. Accanto allo studio filologico, che nutrirà particolarmente la sua cultura letteraria, egli dovrà aprirsi non meno alle nuove visioni della linguistica sincronica, che lo rendano idoneo ad intendere e equamente valutare i contributi della l. contemporanea. In secondo luogo, va notato che l’accettazione dell’istanza psicologica da parte della didattica linguistica ha rivoluzionato le tradizionali concezioni metodologiche. Per cui l’orientamento attuale della didattica linguistica viene a presentare due evidenti contrassegni: a)​​ aderenza ai fattori psicologici dell’apprendimento​​ quale si verifica soprattutto nell’allievo giovane; b)​​ funzionalità di obiettivi,​​ per cui più non si concepisce un insegnamento tendente ad imbottire i cervelli di definizioni astratte e di nomenclature grammaticali, ma si vuole dare all’allievo l’immediata capacità di far buon​​ uso​​ della l. che gli si insegna.

3. Possiamo ridurre a due le finalità della l.m.: a) assicurare al giovane uno​​ strumento perfetto di autoespressione,​​ curando la capacità espressiva sia nel suo aspetto formale, e perciò assicurando le due doti della​​ sincerità​​ (adeguazione fra mente e parola, quindi rifuggente dalla retorica – espressione che supera il contenuto dell’esperienza personale – e dalla inespressione – forma inadeguata al contenuto –) e dell’originalità​​ (esistente qualora l’eloquio sia specchio fedele dell’animo individuale); sia nel suo aspetto materiale, curando quindi la​​ ricchezza​​ dell’eloquio (vocabolario sufficientemente nutrito) e la​​ consapevolezza​​ linguistica (possesso cosciente delle esigenze grammaticali); b) ad uno scopo di maggior perfezione linguistica e spirituale, si rende però necessario lo studio della​​ ​​ letteratura che deve trasmettere al giovane quei valori culturali e quella perfezione di sentire che sono incastonati nelle creazioni culturali del genio nazionale.

4. Ma perché tali finalità possano essere veramente raggiunte, oltre ad un solido contenuto di programma scolastico, si richiede l’applicazione di una​​ metodologia didattica​​ «razionale». La vera coscienza riflessa di un problema del «metodo» nell’insegnamento linguistico è di data recente: la riposizione critica del problema la troviamo in Comenio (​​ Komenský),​​ ​​ Rousseau,​​ ​​ Pestalozzi,​​ ​​ Fröbel, e poi soprattutto nei pedagogisti del sec. XIX e nei contemporanei. Un’impronta particolare è stata lasciata in questo campo da un maestro ginevrino del secolo scorso, il francescano p.​​ ​​ Girard, e da un didatta italiano del nostro secolo,​​ ​​ Lombardo-Radice. I risultati di questa revisione critica si possono riassumere in un solo principio: ritornare al​​ metodo «naturale»,​​ le cui leggi essenziali sono implicite nel metodo​​ materno​​ per la coltura del linguaggio infantile. Il metodo «naturale» – considerato come procedimento ideale – è un metodo​​ vivo,​​ ossia sostanziato di «parlare» e schivo dalle definizioni astratte e dalla fredda nomenclatura;​​ globale e concreto,​​ in quanto rispondente ai bisogni e agli interessi reali del giovane e fondato sull’intuizione o sulla percezione di entità globali (il discorso, la frase, totalità insomma aventi senso compiuto) e non sulla analisi di elementi semplici staccati dal tutto organico a cui appartengono;​​ graduale,​​ che cioè manuduce il giovane lungo le tappe progressive del suo sviluppo espressivo senza forzarlo.

5. Da un punto di vista​​ tecnico,​​ due sono sostanzialmente le garanzie di efficacia didattica nell’insegnamento delle l., e particolarmente di quella nazionale: a) creare un «ambiente linguistico» favorevole alla libera e corretta espressione; ciò richiede di far sorgere nella classe un ambiente di​​ spontaneità familiare,​​ misto quindi di confidenza e di serietà, che permetta agli allievi di parlare con moderata libertà per manifestare bisogni e interessi reali di vita (oralmente o per iscritto); e di assumere il parlare e lo scrivere spontaneo come​​ contenuto​​ del proprio insegnamento, che dovrà essere nella scuola primaria in gran parte spicciolo od occasionale; b) funzionalizzare il metodo per​​ tendere a perfezionare l’«uso» della l.​​ In pratica, ciò significa: orientare la grammatica, la conversazione, la lettura e il vocabolario al perfezionamento della composizione (orale e scritta). Pertanto, nel primo stadio dell’insegnamento linguistico tutto deve diventare​​ avviamento al comporre.​​ Soltanto in seguito, mediante un progredito studio della letteratura, si tenderà all’affidamento della coscienza linguistica​​ e all’assimilazione di valori culturali ed estetici.

Bibliografia

a) Natura della l.: Bloomfield L.,​​ Language,​​ London, Allen and Unwin, 1933; De​​ Saussure F.,​​ Cours de linguistique générale,​​ Paris, Payot, 1949 (trad. it.​​ Bari, Laterza, 1970); Devoto G., «Essenza della l.», in​​ La didattica della l. it.,​​ Genova, Centro Didattico Naz. per la Scuola Elem., 1955. b) Psicologia del linguaggio: Bruner J.,​​ Lo sviluppo del linguaggio nel bambino,​​ Roma, Armando, 1991; Freddi G.,​​ Il bambino e la l.,​​ Padova, Liviana, 1991; Vygotsky S. L.,​​ Pensiero e linguaggio,​​ Bari, Laterza, 1992; Titone R.,​​ La psicolinguistica ieri e oggi,​​ Roma, LAS, 1964 / 1993. c) Didattica della l.: Titone R.,​​ L’insegnamento delle materie linguistiche e artistiche,​​ Ibid., 1963; Tulasiewicz W. - A. Adams,​​ Teaching the mother tongue in a multilingual Europe, London, Continuum International Publishing Group,​​ 2005.

R. Titone




insegnamento della LINGUA STRANIERA

 

LINGUA STRANIERA:​​ insegnamento della

La questione didattica dipende molto dai presupposti teorici che si danno.

1. Gli ultimi sviluppi del concetto di didattica delle l. hanno posto in evidenza la necessità di una fondazione scientifica multi e inter-disciplinare. Le basi interdisciplinari di questa nuova scienza sono costituite da una varietà di saperi di natura linguistica, psicologica, sociologica, antropologica ed etnologica, pedagogica, cibernetica e informatica, e di metodologia della ricerca psicopedagogica, ma altresì da una visione storica dell’evoluzione dei metodi glottodidattici lungo i secoli. La visione storica è tuttavia il punto di partenza, in quanto permette di vagliare le esperienze e le concezioni in base alla loro efficacia a posteriori, e di formulare ipotesi fondate come guida a nuove esperienze e a nuove teorie. Oltre i documenti su antichissime tradizioni didattiche risalenti ai Sumeri e agli Egizi, ai Greci e ai Romani nell’ambito di una scuola plurilingue, nella storia ricorrono i nomi di grandi pionieri della teoria glottodidattica, come il celebre pedagogista boemo​​ ​​ Comenio (sec. XVII) e i maestri delle scuole di Port-Royal, fino alla rivoluzione della fine del sec. XIX e della prima metà del nostro sec.

2. Il primo problema posto dalla pedagogia interlinguistica e interculturale è quello della definizione delle finalità dell’apprendimento delle l., soprattutto nelle prospettive della società contemporanea, ma anche in funzione di uno sviluppo integrale dell’uomo fin dalla prima infanzia. Sul piano della componente linguistica in senso sistemico e sociale, si è proposto negli anni ’50 il problema dell’analisi comparativa e contrastiva (somiglianze e differenze) delle l. coinvolte nel processo di apprendimento; un confronto tra le caratteristiche strutturali della prima l. e della seconda l., in funzione di una prevenzione degli errori soprattutto di interferenza. Nella stessa prospettiva della linguistica descrittiva si sono posti vari problemi: quello del contatto tra l. e culture diverse (sociologia del biplurilinguismo), delle varietà dei codici intrasistemici (le microlingue, ossia l. per scopi e livelli diversi, livelli di apprendimento graduati secondo l’età e la scolarizzazione, usi professionali e scientifici, varietà linguistiche secondo i contesti sociali e comunicativi, ecc.), dell’apprendimento della grammatica​​ vs.​​ l’acquisizione di abilità automatizzate, ecc. Sul piano della psicologia (​​ psicolinguistica) dei processi di apprendimento di una seconda l., si sono studiati i fenomeni psicologici del​​ ​​ bilinguismo, nelle sue diverse forme individuali e sociali, e, più profondamente, i fattori governanti un’acquisizione ottimale di una seconda l. (di ordine senso-motorio, cognitivo, affettivo, sociale, culturale, morale). Su questo terreno si sono confrontate tendenze teoriche di diverso orientamento: dalla teoria comportamentistica a quella cognitivista, a quella affettivo-clinica, e finalmente al tentativo di un superamento delle unilateralità e dei riduzionismi grazie alla sussunzione di una visione integrale e integrata quale la teoria «umanistico-personalistica», postulante il coinvolgimento – sia a livello finalistico che causale – di tutte le componenti della personalità del discente (v. il Modello olodinamico di Titone, che postula la compresenza e convergenza di tre livelli essenziali della operatività umana: il livello tattico, strategico ed egodinamico).

3. Dalla deduzione da questi fondamenti scientifici di natura intersistemica, e dal risultato induttivo delle ricerche sperimentali e / o operative, si è giunti a definire la configurazione di orientamenti (approcci) e metodi (sistemi procedurali) validi e più efficaci che nel passato, destinati a conferire sicurezza di intervento da parte dell’insegnante e di partecipazione da parte dello studente. Due problemi derivati sono in corso di studio in molti Paesi: quello della scelta e della validazione di adeguate tecniche glottodidattiche (da quelle di natura verbale a quelle più recenti di natura iconica: audiovisive, cibernetiche / computazionali, drammatiche / teatrali); un secondo, ma non ultimo in importanza, è il problema dell’adeguata formazione dell’insegnante di l., sul piano della competenza linguistica e su quello della capacità professionale-didattica. Infine, nella prospettiva di una ottimale collocazione dell’apprendimento di una l2 sulla scala della scolarizzazione e dello sviluppo psico-sociale del discente, si vanno oggi tentando in molti Paesi esperienze di insegnamento della l2 a livelli precoci, dalla scuola materna alla scuola elementare (si vedano gli esperimenti anche italiani, fin dal 1960).

Bibliografia

Titone R.,​​ Glottodidattica: un profilo storico,​​ Bergamo, Minerva Italica, 1980; Id.,​​ Theoretical models and research methods in the study of second language acquisition,​​ Toronto, CISC, 1988; Id.,​​ Introduzione alla glottodidattica: le l.s.,​​ Torino, SEI, 1990; Serra Borneto C. (Ed.),​​ C’era una volta il metodo. Tendenze attuali nella didattica delle l.s., Roma, Carocci, 1998; Cangià C.,​​ L’altra glottodidattica.​​ Bambini e l.s. fra teatro e computer, Firenze, Giunti, 1998.

R. Titone




insegnamento della RELIGIONE

 

RELIGIONE: insegnamento della

Designa la disciplina scolastica e la corrispondente attività didattica, che, nei sistemi educativi pubblici, ha per oggetto materiale lo studio del fatto religioso nella sua dimensione e valenza culturale, e per obiettivo formale la formazione cognitiva, critica ed etica dell’alunno in quanto persona e cittadino. Invece nelle scuole cattoliche la proposta religiosa conserva anche il carattere di una iniziazione ai contenuti della tradizione religiosa di appartenenza.

1.​​ Premesse.​​ L’insegnamento della r. (i.r.), pur con legittimazioni e identità disciplinari variabili da paese a paese, è parte integrante dell’organico delle materie di studio nella quasi totalità dei sistemi scolastici occidentali. Nell’ultimo trentennio l’i.r. ha assunto progressivamente un profilo scolastico specifico che lo distingue sia dalla​​ ​​ catechesi ecclesiale propriamente detta, come anche dalla più generica​​ ​​ educazione religiosa. Tale profilo scolastico, tuttavia, è lungi dal presentarsi con caratteri uniformi e univoci nelle varie aree culturali e nei diversi sistemi scolastici nazionali. Ogni Paese infatti, stando anche solo all’interno dell’area occidentale, ha una sua configurazione culturale segnata dal prevalere storico dell’una o dell’altra confessione, da determinati assetti di rapporto Stato-Chiesa e Chiesa-scuola, da una propria tipologia di leggi e istituzioni scolastiche (pubbliche, confessionali, miste, a gestione statale o regionale o locale), per cui risulta assai improbabile, almeno a breve termine, un’armonizzazione dei diversi profili disciplinari di i.r. ereditati dalla tradizione. La stessa denominazione della disciplina risente inevitabilmente delle peculiarità semantiche e confessionali di ciascuna area linguistica:​​ Religionsunterricht​​ (Germania, Austria, Svizzera tedesca),​​ Culture religieuse​​ o​​ Enseignement du fait religieux​​ (Francia, dove​​ Enseignement religieux​​ sopravvive solo come sinonimo di catechesi),​​ Cours de religion,​​ éthique non confessionnelle​​ (Belgio),​​ Instruction religieuse​​ (Lussemburgo),​​ Levensbeschouwing,​​ o educazione alle visioni della vita (Olanda),​​ Enseñanza religiosa escolar​​ (Spagna),​​ Ensino de moral e religion catolica​​ (Portogallo),​​ Religious education​​ o​​ Multifaith education​​ o ancora​​ Teaching on Religion​​ (Regno Unito),​​ Religious instruction​​ (Irlanda),​​ Religious instruction and education​​ (Malta)… In casi particolari, in area tedesca, si parla di​​ Bibelunterricht,​​ di​​ Ethikunterricht,​​ di​​ LER​​ (=​​ studio dei problemi della vita, dell’etica e della r.). Nell’area dei Paesi europei post-comunisti le situazioni sono manifestamente ancora più fluide e frammentate, per ragioni che attengono al riassetto giuridico ancor recente delle libertà di r., al diverso posizionarsi delle Chiese orientali con lo Stato e la società civile, alla insufficiente (sinora) distinzione tra iniziazione religiosa intraecclesiale e i.r. nello spazio laico e democratico della scuola pubblica.

2.​​ Legittimazione.​​ Quali motivi vengono addotti oggi – dalle leggi di riforma scolastica, dalle nuove normative concordatarie, dai programmi ufficiali di r. – per giustificare l’i.r. nella scuola pubblica gestita dallo Stato? La​​ ​​ scuola pubblica è oggi l’agenzia educativa di cui la società pluralistica si serve come luogo di elaborazione critica e sistematica della cultura, quella religiosa non esclusa, in vista della formazione umana e civile della personalità attraverso quel canale, non unico ma privilegiato, che è 1’​​ ​​ istruzione. In coerenza con questo ruolo prioritariamente cognitivo-critico della scuola, e tenuto conto dei crescenti tassi di multiculturalità delle odierne società, l’i.r. non potrà fondarsi sulla sola​​ legittimazione teologico-pastorale​​ (cioè come momento e strumento dell’attività missionaria delle chiese), meno ancora su presupposti di tipo​​ ideologico​​ (per es., la r. vista come «fondamento e coronamento dell’istruzione scolastica» del vecchio sistema italiano), o di tipo​​ politico-diplomatico​​ (come nel caso di una particolare confessione cristiana che funge da r. di Stato), ma si fonda sempre più diffusamente su una​​ legittimazione pedagogico-scolastica,​​ che fa perno normalmente su una serie di argomentazioni come queste: a) dal punto di vista​​ storico-culturale,​​ se la r. (in particolare, in Europa, il cristianesimo) è un dato di fatto nella storia e nel presente al punto da costituire parte integrante – anzi, una delle «radici» – del patrimonio culturale occidentale, la scuola deve rendere possibile a tutti gli alunni una trattazione storica, critica, minimamente sistematica, di questo fatto religioso; b) dal punto di vista​​ antropologico,​​ se è proprio dell’uomo interrogarsi sul senso fondamentale della vita e se la r. tenta di dare risposte coerenti a tale ricerca, la scuola aiuta i giovani a crescere abilitandoli a porsi correttamente il problema religioso e a misurarsi criticamente con le risposte provenienti dalle tradizioni religiose e da altri sistemi di significato non religiosi; c) dal punto di vista​​ educativo-scolastico,​​ se la scuola ambisce a formare l’uomo nell’integralità delle sue dimensioni e in particolare intende educare la capacità di giudizio critico e di decisione responsabile, essa non può ignorare il ruolo che la r. ha svolto nel promuovere storicamente tali diritti umani e offre agli alunni quella competenza religiosa ed etica che contribuisce a darsi una capacità di giudizio e di scelta, per situarsi criticamente e costruttivamente nella società, per smascherare i falsi assoluti, per opporsi ad ogni uso strumentale della persona; d) dal punto di vista​​ giuridico-istituzionale​​ se lo Stato riconosce e garantisce il diritto alla cultura di tutti i cittadini senza discriminazione, e se la cultura religiosa è riconosciuta oggettivamente – per contenuti di sapere e per valori etici che può veicolare – una parte irrinunciabile e qualificante della cultura umana, lo Stato dovrà regolare giuridicamente anche l’insegnamento della cultura religiosa nella sua scuola, e conseguentemente, tale insegnamento dovrà disporre di condizioni paritarie a quelle riservate alle altre discipline dell’ordinamento scolastico. A questa​​ legittimazione scolastica, per cui l’i.r. è sollecitato come componente intrinseca della scuola, non contraddice né la corresponsabilità delle chiese assai spesso coinvolte con lo Stato nel gestire l’attività didattica, né l’esigenza di​​ confessionalità​​ dei contenuti materiali dell’insegnamento stesso, come nel caso di un i.r. disciplinato da normativa concordataria. L’aggancio immancabile dell’i.r. – del suo insegnante come dei suoi alunni – ad una concreta tradizione confessionale può risultare anzi un’opportuna misura di trasparenza oltre che di realismo didattico. Tuttavia le condizioni di crescente pluralismo religioso nelle attuali società obbligano ormai ogni progetto di i.r. non solo ad aprirsi ad obiettivi educativi di dialogo ecumenico, ma a confrontarsi costruttivamente con le r. non cristiane, con altre filosofie di vita.

3.​​ Profilo giuridico e disciplinare dell’i.r. cattolica in Italia.​​ La revisione concordataria (18 febbraio 1984) e l’Intesa tra il Ministro PI e il Presidente della CEI (14 dicembre 1985) hanno consegnato alla scuola italiana una figura relativamente inedita della r. come disciplina scolastica. Essa viene legittimata in base alla riconosciuta rilevanza culturale del cristianesimo nella storia e nel costume del popolo italiano. Come disciplina scolastica si colloca «nel quadro delle finalità della scuola», va impartita «in conformità alla dottrina della chiesa cattolica» e «nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori» (art. 9.2 dell’Accordo). È disciplina​​ istituzionalmente curricolare,​​ in quanto contribuisce a determinare il normale quadro orario settimanale delle lezioni, ma è al tempo stesso​​ soggettivamente facoltativa,​​ sia perché è fruibile per libera scelta annuale espressa dai genitori o dallo studente, sia perché pone l’alunno che non se ne avvale nello «stato di non obbligo» a seguire corsi scolastici alternativi. È disciplina​​ confessionale​​ quanto ai contenuti materiali (afferenti al cristianesimo cattolico e alla sua visione delle altre r.) e quanto all’insegnante titolare (dichiarato idoneo dall’autorità ecclesiastica), ma​​ non è confessionale​​ quanto agli obiettivi educativi (l’i.r. contribuisce infatti, secondo i programmi ufficiali, a «formare l’uomo e il cittadino»), né quanto alla composizione della classe essendo l’i.r. aperto a tutte le tipologie di alunni (cattolici e non, praticanti e non, alunni in ricerca, ecc.). I​​ contenuti culturali​​ suggeriti dai programmi di i.r. (1987, rielaborati nel 2002), pur facendo perno sul fatto cristiano e sulla sua interpretazione teologica (lo stesso nucleo centrale del cristianesimo è riproposto infatti nei due cicli scolastici con dimensioni e accenti proporzionati alle età) appartengono a una mappa di aree molto più vasta di quella strettamente dogmatica: attingono dall’area antropologica, storica, linguistica, etica oltre che dall’area biblico-teologica. La struttura di tali contenuti, enunciati in modo poco più che allusivo sotto forma di OA (= obiettivi di apprendimento), adotta un’articolazione che non è più quella della sistematica teologica o catechistica, ma non è nemmeno ancora quella propriamente didattica, che resta da costruire prima in sede di libri di testo e ulteriormente nella programmazione didattica locale. La figura dell’insegnante di r.​​ è inquadrata da tratti che ha in comune con gli altri insegnanti del sistema pubblico, specialmente dopo gli esami di concorso e l’immissione in ruolo della categoria (2004), e da tratti specifici, talora problematici, quali il giudizio di idoneità e i titoli di qualificazione professionale, definiti dall’Intesa 1985 tra Ministero PI e CEI.

4.​​ Identità degli i.r. in Europa.​​ All’interno di ciascun sistema nazionale l’istruzione religiosa scolastica è entrata in questi anni in stato di fibrillazione assai generalizzata, sia per il mutevole atteggiamento culturale nei confronti del religioso da parte della società in generale e degli alunni in particolare, sia per gli assestamenti provocati un po’ ovunque dalle riforme scolastiche in corso, sia per l’evolversi inquieto dei rapporti istituzionali tra Stati e Chiese, dei rapporti ecumenici tra confessioni cristiane, dei rapporti interreligiosi tra queste e le crescenti presenze non cristiane. L’esistenza di una cospicua rete di scuole confessionali pubbliche (cattoliche, evangeliche, anglicane, e talora anche coraniche), che godono in genere di una effettiva​​ ​​ libertà di insegnamento perché sovvenzionate in tutto o in parte dallo Stato, contribuisce a sdrammatizzare non poco il problema dell’i.r. Vasta e complessa la tipologia degli i.r. attivati. Dal punto di vista della​​ base legale,​​ il corso di r. può godere di una garanzia costituzionale (come in Germania), o essere oggetto di legislazione parlamentare (Austria, Belgio, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Scandinavia), o dipendere da convenzioni concordatarie tra Stato e confessioni religiose (Croazia, Italia Lussemburgo, Malta, Polonia, Slovacchia, Spagna...), o infine essere escluso come disciplina dalla scuola pubblica (come nei casi del sistema separatista francese o sloveno). Anche sotto il​​ profilo disciplinare​​ gli i.r. si presentano estremamente diversificati: da materia ordinaria obbligatoria con facoltà di scelta di un’alternativa, a materia opzionale con obbligo di scelta tra più offerte confessionali e non, da materia facoltativa senza incidenza determinante nel curricolo dell’alunno, ad attività nettamente extra-curricolare. Infine, dal punto di vista del carattere confessionale, si hanno i.r. di tipo transconfessionale intesi come informazione oggettiva e comparata sulle tradizioni religiose presenti nel Paese (Multifaith religious education:​​ in Olanda, Regno Unito, Paesi scandinavi); di tipo materialmente confessionale ma formalmente aconfessionali o comunque non catechistici (nei Paesi dell’area linguistica tedesca, in Belgio e nei Paesi soggetti a normativa concordataria); di tipo monoconfessionale (nei Paesi dell’Est europeo, in Irlanda, nel caso francese con l’aumônerie scolaire);​​ infine di tipo etico non confessionale o «morale laica» (come materia alternativa in Belgio, Germania, Lussemburgo, Spagna…). Si moltiplicano nell’area tedesca a confessione cristiana mista i casi di insegnamento bi-confessionale. Un tratto emergente che sembra ormai accomunare di fatto i vari modelli di i.r. attuati nel continente è la tendenza a privilegiare il conseguimento di obiettivi (cognitivi, critici, etici) di tipo preconfessionale, transconfessionale e interreligioso ed insieme aperto alla specifica comprensione confessionale o teologica della chiesa di riferimento. Emergono infatti nella scala delle urgenze educative istanze come l’educazione alla cittadinanza democratica, l’apertura al problema religioso, la ricognizione di forme e significati dell’esperienza religiosa universale, l’iniziazione al linguaggio dei simboli, l’esplorazione della dimensione profonda del vissuto umano, il confronto tra visioni di vita diverse.

Bibliografia

Butturini E.,​​ La r. a scuola: dall’Unità ad oggi,​​ Brescia, Queriniana, 1987; Trenti Z.,​​ La r. come disciplina scolastica. La scelta ermeneutica,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Pajer F. (Ed.),​​ L’insegnamento scolastico della r. nella nuova Europa,​​ Ibid., 1991; Prenna L.,​​ Assicurata ma facoltativa, Roma, AVE, 1997; Trenti Z. et al.,​​ Religio. Enciclopedia tematica dell’educazione religiosa, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1998; Trenti Z. (Ed.),​​ Manuale dell’insegnante di r., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2004; Genre E. - F. Pajer,​​ L’Unione Europea e la sfida delle r. Verso una nuova presenza della​​ r. nella scuola, Torino, Claudiana, 2005.

F. Pajer




insegnamento della STORIA

 

STORIA: insegnamento della

Il problema si è posto esplicitamente a partire dai sec. XVII-XVIII, quando la s. entrò in molte scuole, come materia d’insegnamento. Prima non era stata assente del tutto nel processo educativo, ma aveva risposto ad esigenze di ordine religioso-morale, peraltro ancora presenti anche in seguito, soprattutto a scopo edificante. Sotto questo profilo, l’insegnamento della s. guarda prioritariamente ai contenuti e alla loro funzione, senza una sensibilità didattica. L’importante era conoscere certi dati e derivarne, se non comportamenti, almeno atteggiamenti coerenti, anche in maniera automatica, senza una consapevolezza personale. Per questo già​​ ​​ Rousseau si opporrà a un insegnamento della s., prima dell’adolescenza. Con i sec. XIX-XX l’attenzione si è spostata sul senso della s. (obiettività, fini, funzioni...) e sul suo impatto con il processo d’​​ ​​ apprendimento. Si è così distinto tra scienze della natura e dello spirito (Dilthey), si è giunti, nel sec. XX, ad analizzarne lo statuto epistemologico, ampliandone i contenuti e i metodi (Nouvelle​​ Histoire), a riconsiderarne l’uso (revisioni internazionali dei manuali), a valutarne la comprensibilità per l’alunno e a delinearne conseguenti orientamenti didattici.​​ 

1.​​ Posizioni contemporanee:​​ pur perdurando un’impostazione tradizionale della manualistica e dell’insegnamento della s., centrati su cronologia e avvenimenti politici, che richiedono solo memorizzazione, senza alcun coinvolgimento, si sta diffondendo una nuova mentalità docente, che, da un lato, presuppone una miglior formazione storica degli insegnanti e, dall’altro, una loro più attenta sensibilità psicologico-educativa. I problemi da risolvere restano gli stessi (già noti ai latini:​​ quis,​​ quid,​​ ubi,​​ quibus auxiliis,​​ cur,​​ quomodo,​​ quando),​​ ma i nuovi indirizzi storici, che hanno evidenziato la complessità della disciplina e le sue reali stratificazioni (fattuale, sociale, congiunturale e strutturale: rispettivamente di breve, media e lunga durata), hanno aperto orizzonti prima sconosciuti sul senso, contenuti e modalità dell’insegnamento della s. Anzitutto ha preso corpo l’ipotesi della necessità di un più diretto e personale coinvolgimento dell’allievo, tenuto conto delle sue previe condizioni e possibilità. In ogni caso, appare indispensabile far prendere coscienza, al più presto, della classica distinzione tra i contenuti della s. («res​​ gestae»)​​ e le modalità dell’approccio («historia rerum gestarum»):​​ entrambi variabili con il tempo, a causa di nuovi dati e fattori, secondo gli interessi della società e dello stesso storico, dei quali va preso atto e che sono comunque presenti e condizionanti.

2.​​ Ricadute didattiche:​​ il dibattito si è allargato, a partire dai primi decenni del sec. XX, e successivamente approfondito. Ora, senza entrare nel merito delle discussioni o di posizioni psicologiche che hanno avuto larga risonanza (​​ Piaget), si possono individuare due filoni fondamentali di elaborazione: quello che bada alle difficoltà dell’alunno e quello che, anche per superarle, mira a una gestione più efficace dell’insegnamento della s. Nella prima linea, si sono approfonditi, in particolare, i quesiti riguardanti le condizioni dell’apprendimento storico (processi cognitivi e implicanze affettive), la scabrosità del lessico e dei relativi codici; nella seconda, si è evidenziata l’esigenza di esplicitare la relatività dei dati storici, l’articolata complessità della dimensione spazio-temporale-sociale (contestualità, sviluppo, condizionamenti) e l’opportunità di puntare sull’interdisciplinarità, in rapporto con le cosiddette scienze sociali. Inoltre l’insegnamento della s. si è aperto, da un lato, al ricorso a nuove fonti, orali, per es., e, molto spesso, al processo «regressivo»,​​ con un cammino che va dal locale al remoto.

3. Concludendo, grazie soprattutto all’apporto di storici, l’insegnamento della s. è oggi in fase di rinnovamento, teso, da una parte, a sottolineare un protagonismo democratico («è l’uomo che fa la s.»), radicato nella «coscienza storica», senza tuttavia dimenticare i pesanti condizionamenti, cui quella è sottoposta, in quanto «l’uomo è un prodotto storico», a sua volta, almeno in buona parte.

Bibliografia

Burston W. H.,​​ Principles of history teaching,​​ London, Methuen, 1976; Guarracino S. - D. Ragazzini,​​ S. e insegnamento della s. Problemi e metodi,​​ Milano, Feltrinelli, 1980; Guarracino S., «La didattica della s.: le nuove tendenze», in​​ Gli strumenti della ricerca,​​ vol. 2:​​ Questioni di metodo; Tranfaglia M. (Ed.),​​ Il mondo contemporaneo,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1981, vol. X, 968-988; Riccabone P.,​​ Didattica della s. e dell’educazione civica,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Benigno L. et al.,​​ La s. insegnata,​​ Milano, Mondadori, 1986; Gallia A.,​​ La s. scienza dell’uomo,​​ Roma, Studium, 1990; Tomassucci Fontana L., «Didattica della s.», in M. Laeng (Ed.),​​ Atlante della pedagogia,​​ vol. 2, Napoli, Tecnodid, 1991, 77-138.

B. A. Bellerate




insegnamento delle SCIENZE

 

SCIENZE: insegnamento delle

Facendo riferimento alle voci​​ ​​ scienza e​​ ​​ educazione e​​ ​​ educazione scientifica, la presente ha per oggetto l’insegnamento effettivo, vale a dire i programmi e curricoli di s. nelle scuole, prendendo ad es. quelle italiane.

1. A livello di prescuola per l’infanzia, o scuola materna, non ci sono programmi ma solo orientamenti. Vengono tuttavia poste le basi delle prime conoscenze dei numeri, delle forme geometriche, degli oggetti naturali quali minerali, piante e animali. È importante fin dalla prima età educare alla pulizia e igiene, all’economia contro lo spreco, e al rispetto degli esseri viventi. Piccole coltivazioni e allevamenti possono avviare alla responsabilità.

2. Nella scuola primaria o elementare si sviluppa la conoscenza dei regni della natura e del corpo umano, del pianeta Terra, della Luna e delle stelle, alimentando i «perché» infantili col ricorso al ragionamento e non solo alla fantasia. Vengono insegnate l’aritmetica delle quattro operazioni e la geometria intuitiva. Si avvia alla conoscenza delle più generali leggi fisiche e chimiche (come le leggi della leva, o le proprietà delle sostanze semplici e composte). È possibile avviare all’osservazione delle stagioni, dei fenomeni meteorologici, dei processi naturali su acquari e terrari, eseguendo anche confronti tra situazioni in cui siano modificate alcune variabili. Oltre a ribadire il rispetto degli esseri viventi, si deve insegnare la stretta solidarietà esistente tra tutti gli esseri, con i cicli dell’acqua e del carbonio, le catene alimentari, i sistemi ecologici e la conservazione dell’ambiente, la difesa dagli inquinamenti.

3. Nella scuola media o secondaria inferiore si passa dalle «nozioni» alla «s.». In matematica si espongono la geometria euclidea e l’algebra che abituano al pensiero rigoroso; nel campo naturalistico si configura la s. come sapere logico-sperimentale, presentando nelle grandi linee le varie s. (fisica, chimica, s. biologiche, geografia fisica, astronomia) e gli aspetti merceologici e tecnologici delle loro applicazioni. Viene sviluppata la «descrittiva» botanica e zoologica, ma senza cadere nel verbalismo classificatorio. Assume grande importanza la «domanda» ragionata, e l’impostazione della ricerca mediante ipotesi da sottoporre a controllo.​​ 

4. Nella scuola secondaria superiore, a cominciare dal biennio che si salda in continuità con la media, matematica e s. vengono presentate nella loro sistematicità, completando la cultura media fino alle soglie del livello universitario. In matematica si arriva fino al primo approccio intuitivo al calcolo infinitesimale, svolto oggi anche con soluzioni grafiche mediante approccio numerico-informatico, e con lo svolgimento della fisica nelle sue varie parti (meccanica, termodinamica, acustica e ottica, elettrologia, fisica atomica e nucleare). È importante che si sottolinei la rilevanza basilare della fisica, ma senza cadere nel riduzionismo «fisicalistico» e nel meccanicismo, oggi superato dalla fisica quantistica e indeterministica. La fisica si completa con cenni all’astrofisica e alle grandi ipotesi cosmologiche.

5. La visione corretta di diversi «livelli» della realtà è confermata dalla chimica generale, inorganica e organica, riconoscendo il ruolo-chiave della biochimica nel collegare il mondo fisico a quello della vita. La biologia generale, la genetica, l’embriologia, l’anatomia e fisiologia vegetale e animale anche comparata, con gli agganci alla nuova teoria «sintetica» dell’evoluzione, devono dare una visione unitaria dei fenomeni vitali. Il ruolo dell’uomo e i problemi dell’equilibrio delle specie, i fenomeni demografici e il controllo «naturale» delle nascite rientrano nel quadro.

Bibliografia

Laeng M., «Didattica dell’insegnamento scientifico», in​​ Questioni di metodologia e didattica,​​ Brescia, La Scuola, 1974, 327-367; Blezza F.,​​ Didattica scientifica,​​ Udine, Del Bianco, 1994; Laeng M.,​​ Insegnare s., Brescia, La Scuola, 1998; Nicolini P. (Ed.),​​ Conoscere il corpo, Milano, Angeli, 2000.

M. Laeng




INSEGNAMENTO SOCIALE DELLA CHIESA

 

INSEGNAMENTO SOCIALE​​ DELLA CHIESA

Con i.s.d.C. si intende l’insieme delle indicazioni e delle proposte riguardanti la presenza e l’azione sociale dei cristiani, degli uomini di buona volontà, nel corso dell’ultimo sec., a seguito degli interventi (encicliche, lettere, discorsi, ecc.) papali, conciliari, episcopali circa la «questione sociale». Rispetto al passato, in cui prevaleva la dizione «Dottrina sociale della Chiesa» l’i.s.d.C. post-conciliare non solo ha approfondito meglio il suo rapporto con 1’​​ evangelizzazione e la​​ ​​ catechesi, ma ha definito meglio la propria natura e funzione nella missione della Chiesa e il suo rapporto con il mondo, la società, la cultura.

1.​​ L’i.s.d.C. elemento essenziale della nuova evangelizzazione e della catechesi.​​ Con le ultime encicliche sociali l’i.s.d.C. è definitivamente ascritto all’ambito della teologia morale (cfr.​​ Sollicitudo rei socialis​​ [SRS], n. 41). Ciò autorizza Giovanni Paolo II ad affermare anche che l’i.s.d.C. è componente essenziale della «nuova evangelizzazione» (cfr.​​ Centesimus annus​​ [CA], n. 5). Uno studio più approfondito della natura dell’i.s.d.C. e della catechesi porta proprio a concludere che tra i due c’è un’implicazione reciproca​​ e che l’i.s.d.C. è anche elemento essenziale dell’educazione alla fede. Se nell’azione catechetica e nei suoi sussidi didattici viene a mancare la recezione costante ed aggiornata dell’i.s.d.C. e il riferimento all’esperienza di vita da cui questo erompe e a cui rimanda, non si educa adeguatamente ad una fede matura. Detto diversamente, occorre che l’i.s.d.C. venga «veicolato» o «mediato» nella catechesi. Esso deve, in certo modo, «nascere» una seconda volta: essere cioè «ritrascritto» per le diverse categorie di persone – specie giovani e adulti – nei vari contesti ecclesiali di catechesi, non esclusi i centri di ascolto, i movimenti e le associazioni di apostolato. In particolare, va inserito nella dinamica della «Parola totale» (annuncio, celebrazione, servizio) e «ridetto» come messaggio per la fede, come «materia» sacramentale per la preghiera, come compito per un servizio animato dalla Carità di Cristo.

2.​​ La natura e il senso culturale dell’i.s.d.C.​​ «La dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via” tra​​ capitalismo liberista​​ e​​ collettivismo marxista,​​ e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una​​ categoria a sé.​​ Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di​​ interpretare​​ tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per​​ orientare,​​ quindi, il comportamento cristiano» (SRS, n. 41). L’i.s.d.C. è cioè un sapere​​ teorico-pratico,​​ che non si limita alla contemplazione della realtà sociale e dei suoi problemi; non si limita neppure all’indagine sulle cause dei mali e ad esprimere giudizi etici. È sapere formulato col fine di trasformare la realtà sociale, di modo che questa possa essere più​​ conforme al disegno di Dio,​​ secondo il quale tutte le realtà terrene debbono essere poste al servizio della crescita in pienezza della persona. È sapere, pertanto, che nascendo dall’esercizio del ministero di evangelizzazione della Chiesa in campo sociale, non solo «denuncia» i mali e le ingiustizie, ma simultaneamente e principalmente «annuncia» l’opera di salvezza di Gesù Cristo, le vie di azione, le modalità più consone, le progettualità germinali più adatte per liberare ed umanizzare il lavoro, l’economia, la politica, la comunità mondiale, la famiglia, i mezzi di comunicazione sociale, l’ecologia, rispettandone l’autonomia, destinandoli ultimamente a Cristo stesso, per mezzo del quale e in vista del quale sono stati creati (Col 1,3.12-20), partecipando alla sua incarnazione, redenzione e ricapitolazione (Col 1,15).

3.​​ L’apporto alla catechesi.​​ Ciò premesso, è facile comprendere come l’i.s.d.C. aiuta, in definitiva, gli educatori alla fede e la loro opera di catechesi nel far crescere i credenti nell’adesione al​​ mistero totale di Cristo,​​ nel vivere la​​ totalità esistenziale della fede,​​ della speranza e della carità​​ anche con riferimento al sociale. In particolare, l’i.s.d.C. dà un apporto fondamentale all’opera di catechesi in quanto: a) educa all’approccio alla storia,​​ al​​ coinvolgimento in essa,​​ ove Gesù Cristo e il suo Spirito sono già all’opera, per associarsi alla loro azione trasformatrice; b) abilita, quindi, al​​ discernimento​​ e alla​​ profezia,​​ ossia all’individuazione negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni degli uomini di ciò che indica la presenza o il disegno di Dio in se stesso e di ciò che lo contrasta (cfr.​​ Gaudium et spes,​​ n. 11); e, inoltre, a vivere le realtà sociali rimanendo​​ uniti​​ a Gesù Cristo e, pertanto, purificandole, consolidandole ed elevandole in Lui: il discernimento e la profezia, mentre sono avviati innanzitutto dall’ascolto della Parola di Dio, si avvalgono anche dell’apporto delle scienze umane e sociali per la conoscenza della questione sociale, e vanno attuati vivendo nella comunione ecclesiale; c) presenta, per conseguenza, i​​ tratti​​ ​​ sia pure sintetici e bisognosi di ulteriori mediazioni – di quella​​ ricapitolazione in Cristo,​​ che i credenti sono chiamati a concretare, specie tramite la grazia e una liberazione integrale, in un determinato periodo storico e in un determinato contesto socio-culturale, collaborando con gli altri uomini di buona volontà; d) indica​​ principi di riflessione​​ (ad es. la persona umana è immagine di Dio, della Comunità trinitaria),​​ criteri di giudizio​​ (ad es. il primato dell’uomo sul capitale, uso critico dei mezzi forniti dalle scienze sociali per l’analisi della situazione),​​ metodi e direttive di azione​​ (ad es. la lotta per la giustizia, la via della non violenza, l’opzione preferenziale per i poveri),​​ atteggiamenti di vita,​​ abbozzi di umanesimi e di culture​​ (dello sviluppo, della pace, dell’ecologia, dell’economia, della politica), fondamentali ed​​ omogenei​​ con un’esistenza umana, cristiana, ecclesiale, che voglia essere a servizio della «nuova creazione», già inaugurata da Cristo (2 Cor 5,17; Gal 6,15; CA, n. 62); e) suggerisce, in definitiva, le​​ modalità​​ essenziali del​​ compimento umano in Dio con riferimento al sociale;​​ e, congiuntamente, in un contesto culturale che propone solo etiche «deboli» e post-moderne, ovvero semplici etiche dialogiche o della legalità, del consenso, delle reciproche garanzie, di legittima difesa, tutte debitrici di una prospettiva di «terza persona», sollecita un’«etica di prima persona», cioè un’etica le cui norme e i cui precetti sono individuati guardando all’adempimento del bene e della crescita in pienezza della persona​​ reale​​ e​​ concreta,​​ e non a partire dal punto di vista di un «osservatore imparziale».

4.​​ Oltre i pregiudizi.​​ Tra i vari pregiudizi sull’i.s.d.C. due in modo particolare resistono. Innanzitutto, il pregiudizio che l’i.s.d.C. sia qualcosa di superfluo o di facoltativo o di secondario per il credente, al punto che non raramente viene prima la scelta del partito, dell’associazione e del movimento e poi si afferma che l’i.s.d.C. è dalla propria parte. Ora, ciò equivale a porre le premesse di una sua inevitabile strumentalizzazione. Dovrebbe al contrario essere l’i.s.d.C. ad orientare nella scelta del partito, dell’associazione o del movimento in campo sociale e politico. Ma non solo. Una volta operata l’adesione a questo o a quel partito, a questa o a quell’associazione, l’i.s.d.C. dovrebbe continuare ad essere punto di riferimento ineludibile per giudicare della bontà di ciò che è teorizzato e fatto all’interno dei partiti, delle associazioni e dei movimenti. La ragione di tutto ciò risiede nel fatto che l’i.s.d.C. appartiene al credente quale​​ patrimonio​​ teorico-pratico, sapienziale, che egli ha in dotazione in quanto cristiano e in quanto membro della comunità ecclesiale, il cui compito è anche quello dell’evangelizzazione del sociale. Esso inerisce al credente come uno «specifico» e come una «vocazione» che l’accompagnano ovunque, in ogni campo dell’agire sociale. In secondo luogo, oggi continua a sussistere anche il pregiudizio che l’i.s.d.C. non serve a cambiare progetti societari, sistemi, strutture ed istituzioni. Esso, al più, offrirebbe l’indicazione di​​ correttivi​​ che possono lenire i mali delle società e dei mercati, senza però modificarli dal di dentro, nei loro meccanismi e nella loro impostazione di fondo. Sicuramente l’i.s.d.C. non propone questo o quel sistema politico, economico o ideologico concreto, alternativo a quelli esistenti. Non è il suo compito. Tuttavia, esso, segnalando come cogenti quei principi e quelle direttive di azione di cui si è già detto, offre quanto è necessario per riformare o per sostituire, se ne è il caso, sistemi ed istituzioni antiumani. Detto altrimenti, l’i.s.d.C. è tutt’altro che astratto. Esso viene, infatti, a porsi come​​ fondamento e motivazione​​ per l’azione (cfr. CA, n. 57). Se accolto, entra a​​ costituire​​ l’intenzionalità più profonda dell’agire, nonché le modalità della sua attuazione, in modo così decisivo e radicale da comandare irresistibilmente il cambio delle ideologie, dei sistemi, delle istituzioni, la loro umanizzazione globale.

5.​​ Per un uso pedagogico dell’i.s.d.C.​​ Purtroppo spesso l’i.s.d.C. rimane lettera morta perché parecchi credenti o non lo conoscono ancora o non hanno la competenza per tradurlo in linguaggio politico e culturale. Anche da questo punto di vista, allora, occorre che nella catechesi, nelle università, nei vari centri culturali, nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali o di ispirazione cristiana, si sviluppi un’intensa e costante opera formativa avente come riferimento irrinunciabile l’i.s.d.C. Così, da un punto di vista più pratico, occorre avviare alla conoscenza dell’i.s.d.C., non certo tramite semplici sunti, volgarizzazioni, articoli di giornale o di rotocalchi. È indispensabile la lettura specie degli ultimi testi delle encicliche, che potrà essere più fruttuosa se avviene tramite «laboratori» pastorali-catechetici, tramite gruppi e comunità educativi, ove l’indagine sui problemi cui rinvia l’i.s.d.C. e il dibattito sulla loro soluzione si svolgono a più voci e sulla base di competenze diverse, integrantisi fra loro. Ciò verso cui si deve, però, puntare, in ogni caso, è la creazione nel credente di una sensibilità che gli consenta di vivere la dimensione sociale della propria fede e del Vangelo con la stessa Carità di Gesù Cristo.

Bibliografia

Toso M.,​​ Umanesimo sociale. Viaggio nella dottrina sociale della Chiesa e dintorni, Roma, LAS,​​ 22002; Id.,​​ Welfare society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici,​​ Roma, LAS,​​ 22003; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,​​ Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004; Id.,​​ Dizionario della dottrina sociale della Chiesa, a cura di S. Ecc. G. Crepaldi e E. Colom, Roma, LAS, 2005.

M. Toso




INSEGNANTE

 

INSEGNANTE

Dal lat.​​ insignare:​​ indicare (da «indice», mostrare con il dito della mano)​​ mediante segni,​​ marcare qualcosa con un contrassegno, significare, esprimere: corrisponde all’azione di tradurre in rappresentazione – in «segni» – la realtà che non è possibile, conveniente o sicuro, conoscere adeguatamente attraverso l’esperienza diretta, e pertanto richiede l’intervento efficace di una mediazione –​​ ​​ l’insegnamento, che sostituisce la realtà con l’indicazione dei corrispondenti segni convenzionali – e di un mediatore – appunto, l’i. Espressione attestata già nell’XI sec., si generalizza nell’uso con la diffusione, a partire dal XVII, del​​ Collegium,​​ la scuola burocratica dell’età moderna che si è prolungata nei sistemi contemporanei di educazione formale. Si dà una stretta correlazione fra sviluppo organizzativo dell’istituzione scolastica e definizione amministrativa del «ruolo» dell’i., fino a farlo coincidere sic et simpliciter con il​​ «personale che,​​ all’interno delle scuole,​​ è incaricato dell’educazione​​ degli alunni»​​ (Recommandation concernant la condition du personnel enseignant,​​ Unesco, 1966).

1.​​ I.​​ e società.​​ L’istituzionalizzazione dell’i. è un dato ricorrente e precoce, anche se non disponiamo a tutt’oggi di una ricostruzione storico-sistematica della sua figura. A seconda dei sistemi sociali e delle epoche storiche, ha potuto variare il tipo dei contenuti dell’insegnamento, l’età, il numero, il ceto dei soggetti destinatari, ma si danno analogie strette per quanto concerne il​​ riconoscimento ufficiale​​ della funzione affidata e la​​ regolamentazione pubblica​​ dell’attività svolta. La legittimazione sociale –​​ licenza di,​​ abilitazione a​​ – emerge in relazione ad alcune condizioni esterne ed interne: fra le prime,​​ la presa di coscienza dell’identità culturale,​​ per es. a seguito di eventi immigratori / emigratori, occupazione di altri territori umanizzati, minacce di acculturazione forzata per invasioni subite; fra le seconde, contesti di integrazione orientati alla​​ produzione di una cultura generale unificante,​​ conseguenti a processi di urbanizzazione, di differenziazione istituzionale e centralizzazione del potere politico, insieme all’insorgere di amministrazioni burocratiche sia pure embrionali. Mentre nasce la scuola, con il compito di assimilare, nel quadro di un progetto storico di egemonia, le culture particolari di ceto, di monopolizzare la produzione culturale e di determinare le credenziali per accedere al mercato culturale –​​ ​​ titoli di studio e mobilità sociale – gli i. vengono definiti come titolari della «funzione docente»: compito specialistico, tendenzialmente esclusivo, che pone termine all’insegnamento come attività complementare incorporata nelle pratiche di socializzazione, propria di figure quali il sacerdote-i., il filosofo-i. e l’uomo di cultura in genere. L’i. può così essere definito attraverso i vincoli che delimitano l’esercizio della sua funzione (o, per il verso opposto, in correlazione alla​​ ​​ libertà d’insegnamento): i controlli imposti possono essere di tipo​​ soggettivo, quali – epoca per epoca – la dipendenza servile dal committente, la fiducia personale, la prestazione di un giuramento, l’accertamento della competenza, in senso sostanziale ed in senso formale, fino a comprendere l’organizzazione di appositi istituti di formazione («scuole normali»); di tipo​​ oggettivo, quando riguardano i contenuti dell’insegnamento – oggi i​​ ​​ programmi di studio – selezionati in base agli interessi delle autorità committenti (in genere le chiese e gli stati) e dei loro progetti simbolici, nel quadro spazio-temporale definito da regole prescrittive e costitutive che vincolano​​ ​​ compiti educativi, determinati da uno status giuridico di grado esecutivo, in condizioni d’esercizio non di rado precarie e con emolumenti di sopravvivenza.​​ Questa intrinseca corrispondenza tra i. e istituzione può contribuire a spiegare le difficoltà che si frappongono regolarmente ai propositi di innovazione nel campo dell’insegnamento: da una parte, stante l’assimilazione fra scuola e i., può sembrare plausibile – come nelle diagnosi ancora attuali della​​ Rand Corporation​​ (1984), della​​ Carnegie Foundation​​ (1986), dell’Holmes Group​​ (1986) – proporre che solo una rinnovata formazione degli i. possa costituire la leva della riforma scolastica; dall’altra, i cambiamenti introdotti attraverso lo sviluppo organizzativo del sistema scolastico – orari, raggruppamenti degli alunni, team teaching, partecipazione dei genitori e di altri soggetti esterni... – incontrano resistenze, ostacoli e barriere nella «zona grigia» dell’istituzione rappresentata dalla «cultura antropologica» degli i. L’intreccio dei fattori soggettivi e strutturali fanno delle riforme scolastiche un impegno proibitivo, che richiede una strategia globale e combinata, articolata in tempi medio-lunghi, in un contesto di stabilità politica. Mentre rinviamo lo svolgimento di questi motivi alla voce​​ ​​ innovazione scolastica, qui occorre giustificare le ragioni della codificazione istituzionale dell’i., che abbiamo disegnato – al negativo – attraverso i vincoli imposti all’esercizio della sua attività, ma che può aver luogo – anche al positivo – attraverso i processi di idealizzazione della sua rappresentazione sociale. Ebbene, non è difficile collegare la necessità, universalmente avvertita e praticata, della legittimazione pubblica della figura dell’i. alla sua​​ rilevanza sociale e culturale:​​ secondo quanto mostrano, convincentemente, gli studi integrati di biologia, etologia, psicanalisi ed antropologia culturale, l’inettitudine dell’uomo alla nascita è correlata all’attitudine pedagogica,​​ che fa della «genericità» originaria uno straordinario potenziale di affermazione sull’ambiente, a condizione di una laboriosa e prolungata dipendenza dall’adulto e della necessaria declinazione dell’aggressività interna al gruppo in senso di appartenenza e condivisione pratica di norme e di valori. La convergenza di questi apporti multidisciplinari conclude con il riconoscimento dell’insegnamento come​​ funzione costitutiva del sociale e del culturale.​​ Pertanto,​​ collocato sulla soglia obbligata e determinante della sopravvivenza della cultura al momento del cambio generazionale, l’i. non può – suo malgrado – non essere oggetto ambivalente di attese esagerate e di sospetti inconfessabili: di qui la prassi universale della minuta codificazione del ruolo, fino alla sua burocratizzazione «esemplare», che plasma l’aria di famiglia degli i., in particolare i loro sempre denunciati comportamenti individualistici ed isolazionisti.

2.​​ I.​​ e professione.​​ Come abbiamo anticipato, si può leggere la questione degli i. dall’altro verso, quello della libertà dell’insegnamento, compreso dalla letteratura pedagogico-sociale sotto il titolo della​​ «professionalizzazione»​​ dell’i. Secondo gli indicatori propri di questo «ideal-tipo» del lavoro sociale, messi a punto dal​​ ​​ funzionalismo – prestigio, formazione di livello accademico, frequentazione della ricerca scientifica per l’innovazione teorico-pratica, specifica deontologia altruistica nei rapporti con i clienti corrispondente all’autogoverno dell’attività, supportato da un associazionismo diffuso, unificato e sensibile all’immagine esterna della categoria – per l’i. si può arrivare a parlare, eventualmente, di «semiprofessione» oppure di «professionalità in senso ristretto». Difatti, nessuno di quei tratti si può considerare caratterizzante della categoria (anche se è innegabile che al suo interno si distinguono da sempre delle élites professionalizzanti): ma sono i requisiti stessi della professionalità ad essere messi in discussione. Una prima serie di obiezioni – ad opera della sociologia conflittualista ed interazionista – riguarda il giudizio sulla professionalizzazione dei servizi sociali, criticata innanzitutto per i suoi esiti – non sempre positivi – per una migliore qualità delle prestazioni al pubblico, ma anche contestata per l’accaparramento delle conoscenze presso i tecnici, «mutilante» per la gente comune, resa sempre più dipendente, sospettata per i legami con il potere politico e infine disvelata nei dispositivi di mercato adottati per accreditarsi presso il pubblico. Eppure il «mito» della professionalizzazione (Bourdoncle) resiste, almeno fra i pedagogisti: dapprima attraverso l’osservazione delle​​ effettive operazioni​​ di cui consiste il lavoro di aula e di scuola – evidenza di comportamenti di tipo interattivo, contestuale, di improvvisazione riflessiva – che manifestano un «sapere professionale» complesso e sofisticato, per quanto inconscio e sottovalutato dagli stessi i. Inoltre, l’indagine sulle pratiche d’insegnamento ha portato ad identificare un tipo di professionalità a carattere «morale», specifica dell’i. (Goodlad, Fenstermacher). Oggi, sullo sfondo del «ritorno» della filosofia pratica, assistiamo all’affermazione di una​​ epistemologia dell’azione come forma di conoscenza propria,​​ fuori del paradigma «applicazionista», che ha indotto un radicale rinnovamento degli studi, che guardano all’i.​​ esperto​​ come fonte della ricerca didattica (Tochon), nella prospettiva di una diversa funzione della teoria, con implicazioni di considerevole portata per la professionalizzazione e la​​ ​​ formazione degli i.

Bibliografia

Prandstraller C.,​​ Sociologia delle professioni,​​ Roma, Città Nuova, 1980;​​ Damiano E.,​​ Società e modi dell’educazione.​​ Verso una teoria della scuola,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1984; Goodlad J. I. - R. Soder - K. A. Sirotnick,​​ The moral dimensions of teaching, San Francisco, Jossey-Bass, l990; Schoen D. A.,​​ The reflective turn: case studies in and on educational practice, New York, Teachers College Press, l991;​​ Bourdoncle R.,​​ La professionalisation des enseignants. Les limites d’un mythe,​​ in «Revue Française de Pédagogie» (1993) 105, 83-120; Tochon F. V.,​​ L’enseignant expert,​​ Paris, Nathan, 1993; Gauthier C.,​​ Pour une théorie de la pédagogie. Recherches contemporaines sur le savoir des enseignants, Paris / Bruxelles, De Boeck Université, 1997; Cenerini A. - R. Drago,​​ Professionalità e codice deontologico degli i., Trento, Erickson, 2000;​​ Recherche sur la pensée des enseignants: un paradigme à maturité, in «Revue Française de Pédagogie» (2000) 133, 129-157; Campbell E.,​​ The ethical teacher, Maidenhead-Philadelphia, Open University Press, 2003; Damiano E.,​​ L’i.​​ Identificazione di una professione,​​ Brescia, La Scuola, 2004; Santoni Rugiu A.,​​ Maestre e maestri.​​ La difficile storia degli i. elementari, Roma, Carocci, 2006; Damiano E.,​​ L’i. etico. Saggio sull’insegnamento come azione morale, Assisi, La Cittadella, 2007.

E. Damiano