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INDICATORI

 

INDICATORI

Il termine i. – dal lat.​​ in-dico​​ (rendo noto, manifesto), ingl.​​ indicator, fr.​​ indicateur, sp.​​ indicador, ted.​​ anzeiger,​​ weiser​​ – connota qualsiasi fatto, condotta, comportamento utilizzabile come segno più manifesto e descrivibile di un altro più complesso o astratto.

1. Autorevoli studi europei dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) analizzano da tempo gli i. dell’educazione e dell’istruzione ad uso di educatori, responsabili politici, studenti e genitori. Le informazioni riguardano prestazioni, risorse, livello di partecipazione, organizzazione di sistemi scolastici, criteri per valutare competenze di base, numerosità delle classi, durata dell’anno scolastico, prestazioni dei sistemi d’istruzione a livello quantitativo e qualitative (OECD, 2006).​​ Gli i. mirano a fornire​​ (Oakes, 1986) dati predittivi, politicamente rilevanti, confrontabili, stabili, comprensibili, attuabili, economicamente sostenibili, statisticamente validi e affidabili sul sistema scolastico (obiettivi, profitto,​​ problem solving) e sul rendimento (Cuttance, 1994; Odden, 1990), con lo scopo di controllare eziologicamente lo stato presente e il mutamento futuro (punti forti e deboli), per decisioni di sviluppo politico e amministrativo (Wyatt et al., 1989).

2. Nella​​ ricerca pedagogica​​ gli i. sono importanti per osservare, misurare, valutare, elaborare i dati. La validazione sperimentale ne verifica la corrispondenza rispetto al costrutto, alla popolazione, al campione (Calonghi, 1976). Per es., per valutare la capacità critica, si descrive il costrutto e le operazioni mentali di verifica con criteri interni (logico-formali) o esterni (realtà); tali condotte osservabili costituiscono gli i.; nella fascia evolutiva della preadolescenza gli i. possono riguardare la verifica di errori (Boncori, 1989; 1995) in sequenze di seriazioni e classificazioni, con materiale non verbale (per es. ordinamento in figure variamente classificate e disposte) o verbale (per es. ordinamento di frasi in un racconto). Nella​​ pratica educativa​​ si parla di obiettivi comportamentali​​ come i., espressi concretamente​​ come condotte o attività (Mager, 1986), evolutivamente e culturalmente coerenti: ad es., gli i. della socializzazione nella preadolescenza includono segni riguardanti modalità di raggruppamento sociale «tipo gang»,​​ con​​ segni critici​​ di maturazione (Bruner et al., 1966)​​ adatti a questa fascia evolutiva e sperimentalmente validati (Boncori, 1992; 1994). Istanze educative per la disponibilità di validi i. per l’osservazione e la valutazione contribuiscono allo sviluppo di​​ banche di obiettivi​​ (Buckley & Harris, 1970), con i. validati per diverse aree e fasce evolutivo-culturali e scolastiche.

Bibliografia

Bruner J. S. et al.,​​ Studies in cognitive growth,​​ New York, Wiley, 1966; Buckley S. - J. Harris,​​ The banking of multiple-choice questions,​​ in «British Journal Medical Education» 4 (1970) 42-52; Calonghi L.,​​ Valutare,​​ Brescia, La Scuola, 1976; Oakes J.,​​ Education indicators: A guide for policymakers, Santa Monica, CA, Rand Corporation, 1986; Boncori G.,​​ Test di pensiero critico «Caccia all’errore 12»,​​ Roma, Kappa, 1989; Odden A., «Making sense of education indicators - The missing ingredients», in T. J. Wyatt T. J. - A. Ruby (Edd.),​​ Education indicators for quality,​​ accountability and better practice, Ibid.,​​ 1990, 33-50; Boncori G., «Obiettivi educativi», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica, vol.​​ V, Brescia, La Scuola, 1992, 8345-8357; Cuttance, P.,​​ Monitoring educational quality through performance indicators for school practice, in «School Effectiveness and School Improvement» 5 (1994) 2, 101-126; Boncori L., «I.», in M. Laeng, cit., 5987-5989; Boncori G.,​​ Guida all’osservazione pedagogica,​​ Brescia, La Scuola, 1994; OECD,​​ Uno sguardo sull’educazione: Gli i. dell’OCSE -​​ ediz. 2006.

G. Boncori




INDIVIDUALISMO

 

INDIVIDUALISMO

Il termine i. indica in modo generico una qualche forma di attenzione preminente alla soggettività individuale, sia da parte del soggetto stesso, come forma di comportamento egocentrico, sia nell’ambito della filosofia sociale, come forma di interpretazione della socialità umana. In questa seconda accezione, essa è diffusissima nella nostra cultura.

1. La​​ ​​ società viene vista, in questa concezione, dalla prospettiva del singolo individuo: essa si riduce perciò a una somma di individui. Ognuno di questi individui è portato a cercare il suo interesse personale, l’appagamento dei suoi bisogni, potenzialmente illimitati. Egli vede gli altri esclusivamente nella prospettiva del suo vantaggio personale e li tratta come mezzi da utilizzare, o come ostacoli da superare nel perseguimento dei suoi intenti. È chiaro che una simile radicale contrapposizione di egoismi tenderebbe, per sua natura, a sfociare in una guerra di tutti contro tutti. Se questo non si verifica, è soltanto perché sarebbe troppo contrario all’interesse di ognuno. È infatti interesse di tutti i singoli addivenire a una certa composizione consensuale e quasi contrattuale (il cosiddetto «contratto sociale») di queste pretese contrastanti. La società nasce (non una sola volta, in un lontanissimo «illo tempore»,​​ ma in ogni singolo presente storico) da questa tregua d’armi tra gli interessi conflittuali dei singoli, in forza di un interesse comune. La società nasce quindi dall’egoismo dei singoli individui, è conforme ai loro veri interessi. L’egoismo del singolo, per trasformarsi in forza di coesione sociale, ha solo bisogno di essere «razionale», cioè di riconoscere l’impossibilità di portare avanti, nella loro illimitatezza, tutte le sue pretese e il vantaggio di accettare dei limiti, in cambio della cosiddetta «certezza del diritto». L’egoismo razionale (o meglio la razionalità dell’egoismo) è così l’unica virtù sociale, l’unica vera qualità moralmente positiva dell’uomo. Naturalmente non viene chiusa del tutto la porta alle più diverse forme di solidarietà disinteressata, ispirate a sentimenti di pietà e di filantropia; ma si tratta di un​​ optional​​ di lusso che viene lasciato alla gratuita generosità dei singoli, senza altri obblighi che non siano quelli legati alle libere scelte etiche degli individui.

2. La filosofia sociale esattamente opposta a quella dell’i. è il collettivismo (​​ marxismo pedagogico). La prospettiva, in questa visione, è del tutto diversa: chi analizza il fatto sociale si pone dalla parte della società stessa, considerata come un assoluto, rispetto al quale i singoli individui non hanno né esistenza, né dignità autonoma. L’individuo è solo «parte» della società, proprio nel senso in cui l’ingranaggio è parte della macchina e la cellula parte dell’organismo; egli non esiste che come «parte»: è mezzo nei confronti della società-fine. Solo la società-stato è il vero soggetto della storia, il beneficiario ultimo del Grande Progresso Illimitato di cui questa storia è fatta. La dedizione incondizionata al «collettivo», qualunque esso sia di fatto, è la sola virtù sociale, l’unica forma di positività etica.

3. Accanto a queste due concezioni del sociale, chiaramente caratterizzate da una certa unilateralità, ne esiste una terza, che sembra salvare meglio di queste due sia il valore e la dignità della persona, sia la sua costitutiva vocazione sociale. Questa concezione è molto più vicina delle precedenti alla visione cristiana dell’uomo e, come tale, è stata di fatto ripetutamente proposta dall’insegnamento sociale della chiesa. Essa si fonda sul primato della persona umana nei confronti di tutte le cose, e quindi anche delle istituzioni da essa stessa create per la sua autorealizzazione e per la strutturazione della sua convivenza. La persona umana ha quindi lo statuto di «fine», e non può mai essere considerata mezzo nei confronti di nulla. Ma proprio questa stessa dignità e non-strumentalizzabilità di «ogni» persona vieta al singolo individuo di guardare alla società-convivenza (e quindi alla società in quanto insieme di persone) come a un mezzo. La vocazione sociale costituisce l’uomo nella verità del suo essere: non è il segno della sua indigenza, ma del suo destino di essere spirituale, fatto per realizzarsi nell’apertura disinteressata agli altri.

4. L’i., nella forma della​​ expedient morality, è alla base del vissuto morale infantile. Aprire gradualmente il​​ ​​ bambino a quelle forme di riconoscimento dell’altro e di altruismo che caratterizzano la maturità morale è compito importante dell’educazione sociale.

Bibliografia

Maritain J.,​​ La persona e il bene comune,​​ Brescia, Morcelliana, 1968; Utz A. F.,​​ Ethique sociale,​​ Bale​​ / Roma, Herder, 1970; Vandeplans-Holper C.,​​ Sviluppo sociale e morale,​​ Roma, Armando, 1977; Maffettone S.,​​ Verso un’etica pubblica,​​ Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984; Gil Villa F.,​​ I. y cultura moral, Madrid, Centro de Investigaciones Sociológicas, 2001.

G. Gatti




INDIVIDUALIZZAZIONE

 

INDIVIDUALIZZAZIONE

L’i. consiste nell’adeguare gli interventi educativo-didattici alle caratteristiche individuali del soggetto, per aiutarlo a crescere nel miglior modo possibile.

1. È un principio che afferma la necessità di rispettare, nel contesto dell’azione educativo-didattica, le differenze sia interindividuali che intraindividuali in rapporto a interessi, capacità, ritmi, difficoltà, attitudini, carattere, inclinazioni, esperienze precedenti di vita e di apprendimento. In ciò è evidente l’apporto della​​ ​​ psicologia differenziale. L’i. s’impone come problema nella scuola democratica che deve essere scuola di tutti e di ciascuno, e diventa un principio maggiormente significativo in sede didattica richiedendo di conoscere in profondità ciascun alunno, e di rispondere adeguatamente alle sue esigenze formative in termini di integrazione, recupero e sviluppo. L’i. non si effettua solo verso il basso, ma anche verso l’alto, per cui una​​ ​​ didattica differenziale deve includere necessariamente un’attenzione anche ai​​ ​​ superdotati. Il discorso relativo alla didattica differenziale e alla pedagogia speciale rientra nella prospettiva di questa. È un principio che va applicato in senso personalizzante, promotore cioè della formazione integrale della personalità. Per questo nell’ambito iberoamericano si parla del principio della personalizzazione inclusiva dei due principi dell’i. e della socializzazione.

2. L’i. può andare dall’applicazione circoscritta di una semplice tecnica didattica fino alla completa riorganizzazione dell’insegnamento e della struttura scolastica; inoltre può avvalersi di mezzi tecnologici e dell’assistenza tutoriale. Una corretta i. deve effettuarsi piuttosto in gruppi eterogenei che omogenei. La pedagogia contemporanea ha sostenuto fortemente la necessità di un’i. soprattutto didattica. Essa presenta un vasto panorama di esperienze, espedienti, realizzazioni al riguardo. Oggi, con l’impiego degli elaboratori elettronici, la didattica, anche dal punto di vista dell’i., trova realizzazioni interessanti e significative. La recente normativa scolastica italiana esige di elaborare e quindi realizzare, per ogni alunno, il cosiddetto​​ ​​ Piano di studi personalizzato.

Bibliografia

García Hoz V.,​​ Educación personalizada,​​ Madrid, CISC, 1970;​​ Gronlund N. E.,​​ Individualizing classroom instruction,​​ New York, Macmillan, 1974; Titone R.,​​ Metodologia didattica,​​ Roma, LAS,​​ 31975,163-236; 390-423; Baldacci M.,​​ L’istruzione individualizzata,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; Tenuta U.,​​ I.,​​ autonomia e flessibilità nell’azione educativa e didattica, Brescia, La Scuola, 1998; Jaligot A. - G. Wiel,​​ Construire des stratégies de nouveau départ. Organiser des parcours scolaires personnalisés, Lyon, Chronique Social, 2004.

H.-C. A. Chang




INDOTTRINAMENTO

 

INDOTTRINAMENTO

Interiorizzazione di idee, valori, modelli di comportamento, come esito di propaganda, informazione, insegnamento, istruzione, catechesi, a fini o con esiti di conformismo acritico o di settarismo culturale, politico, religioso.

1. Il termine ha normalmente un significato peggiorativo, collegato con forme di «lavaggio del cervello» (come si pratica presso certe sette o gruppi fondamentalistici o sotto regimi autoritari) o con forme di «omologazione» (come effetto della propaganda politica o mass-mediale). Il pericolo o l’intenzione dell’i., è molto sentito dalla mentalità moderna, sensibile al problema delle libertà democratiche.

2. In sede pedagogica il tema è connesso con questioni, quali l’incidenza educativa della​​ ​​ comunicazione di massa, la cosiddetta laicità della scuola, 1’​​ ​​ insegnamento della religione, il rapporto tra educazione, pedagogia e​​ ​​ ideologia, e più largamente si riverbera sul​​ ​​ rapporto educativo in genere. Il rischio dell’i. attraversa l’insegnamento sia a livello di intenzione sia a livello di contenuto sia a livello di metodo. In termini generali si può affermare che l’i. può essere evitato se l’insegnamento sarà veramente tale, cioè offerta di quel tanto di informazioni e di strategie di apprendimento adeguate alla reale domanda degli allievi e alle loro effettive capacità, in modo tale che sia loro possibile continuare a ricercare e ad istruirsi da sé in libertà. Informazione corretta, sistemazione riflessa e critica, stimolazione integrativa sembrano essere i tratti di un insegnamento che eviti l’i., ma parallelamente anche il vuoto di informazioni (che lascia nell’ignoranza e nel pregiudizio), il meccanicismo e lo specialismo (che non permettono la formazione di quadri culturali di riferimento), o stili didattici che non stimolano o non lasciano liberi di apprendere.

Bibliografia

Reboul O.,​​ L’i.,​​ Roma, Armando, 1979; Morin E.,​​ La testa ben fatta, Milano, Cortina, 2000.

C. Nanni




INDUISMO

 

INDUISMO

Tra le religioni attualmente esistenti, l’I. è quella più antica, poiché esiste da quattromila anni. L’I. non è una religione organizzata e neppure un’unica religione, poiché si presenta come «un mosaico di religioni», da una religione della natura al politeismo o al monoteismo, dal panteismo al monismo; non ha un fondatore, né un’autorità centrale, né impone credenze, dogmi o pratiche religiose. Gli elementi comuni che caratterizzano un indù sono: fede nell’autorità infallibile dei​​ Veda;​​ fede in Dio, in una forma o in un’altra; fede nella concezione ciclica del mondo e della storia; fede nel​​ karma-samsara​​ (trasmigrazione delle anime); fede nello​​ mukti​​ o​​ moksha​​ (la liberazione definitiva dell’anima); osservanza della​​ varnasrama-dharma​​ (legge della casta e degli stadi di vita); qualche rito cultuale. Per comprendere il sistema di educazione (moderna ed antica) dell’India ci si deve riferire sempre al contesto religioso, che ha come scopo ultimo lo​​ moksha,​​ e anche ad alcuni concetti e categorie della vita sociale e del sistema di valori dell’I.:​​ varna​​ (quattro caste),​​ purusartha​​ (quattro scopi dell’esistenza umana) e​​ asrama​​ (quattro stadi della vita).

1.​​ L’educazione e le quattro caste.​​ La società induista è divisa in quattro caste:​​ brahmina,​​ ksotriya,​​ vaisya​​ e​​ sudra.​​ Esiste anche una quinta casta (pancama),​​ gli intoccabili o «paria». Anche l’educazione si basò su questa divisione delle caste; essa divenne monopolio delle tre caste superiori, mentre l’ultima casta (inclusi gli intoccabili e le donne) ne fu esclusa. Nel periodo vedico l’educazione consisteva principalmente nello studio dei​​ Veda.

2.​​ L’educazione e i quattro scopi della vita dell’uomo.​​ L’unico​​ summum bonum​​ della vita umana, secondo la​​ Sanatana Dharma​​ è lo​​ moksha:​​ lo stato di felicità assoluta (la realizzazione di Dio). L’educazione deve servire proprio a questo fine. I saggi, le scritture e i sistemi filosofici indicano numerose vie (morga)​​ e metodi (sadhana​​ o​​ yoga)​​ per arrivarvi e ogni branca della conoscenza deve servire a questo scopo. La conoscenza suprema, secondo le​​ Upanishad,​​ consiste nella conoscenza intuitivo-esperienziale del​​ Brahman.​​ Ma dato che l’uomo è una combinazione di materia e spirito, è necessario soddisfare i bisogni di entrambe le componenti per avere una vita felice. Per soddisfare i bisogni materiali, l’individuo deve cercare di fornirsi dei mezzi necessari:​​ artha​​ (ricchezza e fama); deve trarre dalla vita anche godimenti psico-fisici:​​ kama​​ (piacere e amore); però i beni materiali e i piaceri psico-fisici devono essere regolati secondo le norme morali:​​ dharma.​​ Così,​​ artha kama,​​ dharma​​ e​​ moksha​​ sono i quattro scopi della vita e l’educazione è diretta ad aiutare l’individuo a raggiungerli.

3. L’educazione e i quattro stadi della vita dell’uomo.​​ La vita dell’individuo è divisa in quattro stadi (a’srama): brahmacarya​​ (periodo di studi sacri),​​ grhastha​​ (vita di famiglia),​​ vanaprastha​​ (vita di eremita) e​​ sannyasa​​ (vita di perfetta rinuncia). Con il rito di iniziazione (upanayana),​​ verso i dieci anni di età, si è introdotti nel periodo di​​ brahmacarya​​ sotto la guida di un​​ guru​​ per essere istruiti nei​​ Veda​​ e ricevere l’educazione. Durante questo periodo lo studente lascia la sua casa e si trasferisce alla casa del​​ guru​​ o all’asram​​ (scuola o eremitaggio del​​ guru).​​ Il​​ guru​​ ha un ruolo assoluto e indispensabile; egli è colui che distrugge l’ignoranza (avidyā) – causa di tutti i mali – e rivela al discepolo la conoscenza sacra; è colui che proclama la giusta legge (dharma)​​ per la sua realizzazione finale. Questo periodo, che dura più o meno per altri dodici anni, è uno stadio di intensa vita religiosa (con quattro voti di castità, povertà, austerità e studi sacri) e disciplina monastica. Gli studi sacri consistono principalmente nell’imparare a memoria i​​ Veda,​​ ma questo periodo si riduce generalmente a pochi giorni simbolici. Nel secondo stadio, l’accento è sul matrimonio e sui diritti e doveri del capofamiglia. Durante questo periodo, anche se lo sforzo è prevalentemente fisico, il capofamiglia non deve esimersi dagli studi dei​​ Veda. Vanaprastha​​ è il periodo dedicato totalmente allo studio, meditazione, preghiera, insegnamento e a scrivere dei libri a beneficio dell’umanità intera. L’ultimo stadio (sannyasa)​​ è quello della «rinuncia totale», di «unione con Dio».

4.​​ Neo-I. e educazione.​​ I protagonisti del neo-I. (Dayanand, Vivekananda,​​ ​​ Gandhi,​​ ​​ Tagore e​​ ​​ Aurobindo) sono stati ispirati dagli ideali religiosi, però allo stesso tempo hanno cercato di unire questi ideali con il progresso materiale. Dayanand, per es., fondò nel 1875 la​​ Arya Samaj,​​ che aveva come scopo educativo la liberazione della società indù dai vari pregiudizi e superstizioni. Per realizzare questo scopo la​​ Arya Samaj​​ gestisce varie scuole e collegi dove grande importanza è data allo studio delle scienze naturali e applicate.

Bibliografia

Altekar A. S.,​​ Education in Ancient India,​​ Benares, Kishore,​​ 31948; Kabir H.,​​ Indian philosophy of education,​​ London, Asia Publishing House, 1961; Nanavaty J. J., «Hindu Education», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ vol. 4, Oxford, Pergamon Press, 1985, 2257-2261; Mookerji R. K.,​​ Ancient Indian education.​​ Brahmanical and Buddhist,​​ Delhi, Motilal Banarsidass, 1989.

S. Thuruthiyil