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insegnamento della RELIGIONE

 

RELIGIONE: insegnamento della

Designa la disciplina scolastica e la corrispondente attività didattica, che, nei sistemi educativi pubblici, ha per oggetto materiale lo studio del fatto religioso nella sua dimensione e valenza culturale, e per obiettivo formale la formazione cognitiva, critica ed etica dell’alunno in quanto persona e cittadino. Invece nelle scuole cattoliche la proposta religiosa conserva anche il carattere di una iniziazione ai contenuti della tradizione religiosa di appartenenza.

1.​​ Premesse.​​ L’insegnamento della r. (i.r.), pur con legittimazioni e identità disciplinari variabili da paese a paese, è parte integrante dell’organico delle materie di studio nella quasi totalità dei sistemi scolastici occidentali. Nell’ultimo trentennio l’i.r. ha assunto progressivamente un profilo scolastico specifico che lo distingue sia dalla​​ ​​ catechesi ecclesiale propriamente detta, come anche dalla più generica​​ ​​ educazione religiosa. Tale profilo scolastico, tuttavia, è lungi dal presentarsi con caratteri uniformi e univoci nelle varie aree culturali e nei diversi sistemi scolastici nazionali. Ogni Paese infatti, stando anche solo all’interno dell’area occidentale, ha una sua configurazione culturale segnata dal prevalere storico dell’una o dell’altra confessione, da determinati assetti di rapporto Stato-Chiesa e Chiesa-scuola, da una propria tipologia di leggi e istituzioni scolastiche (pubbliche, confessionali, miste, a gestione statale o regionale o locale), per cui risulta assai improbabile, almeno a breve termine, un’armonizzazione dei diversi profili disciplinari di i.r. ereditati dalla tradizione. La stessa denominazione della disciplina risente inevitabilmente delle peculiarità semantiche e confessionali di ciascuna area linguistica:​​ Religionsunterricht​​ (Germania, Austria, Svizzera tedesca),​​ Culture religieuse​​ o​​ Enseignement du fait religieux​​ (Francia, dove​​ Enseignement religieux​​ sopravvive solo come sinonimo di catechesi),​​ Cours de religion,​​ éthique non confessionnelle​​ (Belgio),​​ Instruction religieuse​​ (Lussemburgo),​​ Levensbeschouwing,​​ o educazione alle visioni della vita (Olanda),​​ Enseñanza religiosa escolar​​ (Spagna),​​ Ensino de moral e religion catolica​​ (Portogallo),​​ Religious education​​ o​​ Multifaith education​​ o ancora​​ Teaching on Religion​​ (Regno Unito),​​ Religious instruction​​ (Irlanda),​​ Religious instruction and education​​ (Malta)… In casi particolari, in area tedesca, si parla di​​ Bibelunterricht,​​ di​​ Ethikunterricht,​​ di​​ LER​​ (=​​ studio dei problemi della vita, dell’etica e della r.). Nell’area dei Paesi europei post-comunisti le situazioni sono manifestamente ancora più fluide e frammentate, per ragioni che attengono al riassetto giuridico ancor recente delle libertà di r., al diverso posizionarsi delle Chiese orientali con lo Stato e la società civile, alla insufficiente (sinora) distinzione tra iniziazione religiosa intraecclesiale e i.r. nello spazio laico e democratico della scuola pubblica.

2.​​ Legittimazione.​​ Quali motivi vengono addotti oggi – dalle leggi di riforma scolastica, dalle nuove normative concordatarie, dai programmi ufficiali di r. – per giustificare l’i.r. nella scuola pubblica gestita dallo Stato? La​​ ​​ scuola pubblica è oggi l’agenzia educativa di cui la società pluralistica si serve come luogo di elaborazione critica e sistematica della cultura, quella religiosa non esclusa, in vista della formazione umana e civile della personalità attraverso quel canale, non unico ma privilegiato, che è 1’​​ ​​ istruzione. In coerenza con questo ruolo prioritariamente cognitivo-critico della scuola, e tenuto conto dei crescenti tassi di multiculturalità delle odierne società, l’i.r. non potrà fondarsi sulla sola​​ legittimazione teologico-pastorale​​ (cioè come momento e strumento dell’attività missionaria delle chiese), meno ancora su presupposti di tipo​​ ideologico​​ (per es., la r. vista come «fondamento e coronamento dell’istruzione scolastica» del vecchio sistema italiano), o di tipo​​ politico-diplomatico​​ (come nel caso di una particolare confessione cristiana che funge da r. di Stato), ma si fonda sempre più diffusamente su una​​ legittimazione pedagogico-scolastica,​​ che fa perno normalmente su una serie di argomentazioni come queste: a) dal punto di vista​​ storico-culturale,​​ se la r. (in particolare, in Europa, il cristianesimo) è un dato di fatto nella storia e nel presente al punto da costituire parte integrante – anzi, una delle «radici» – del patrimonio culturale occidentale, la scuola deve rendere possibile a tutti gli alunni una trattazione storica, critica, minimamente sistematica, di questo fatto religioso; b) dal punto di vista​​ antropologico,​​ se è proprio dell’uomo interrogarsi sul senso fondamentale della vita e se la r. tenta di dare risposte coerenti a tale ricerca, la scuola aiuta i giovani a crescere abilitandoli a porsi correttamente il problema religioso e a misurarsi criticamente con le risposte provenienti dalle tradizioni religiose e da altri sistemi di significato non religiosi; c) dal punto di vista​​ educativo-scolastico,​​ se la scuola ambisce a formare l’uomo nell’integralità delle sue dimensioni e in particolare intende educare la capacità di giudizio critico e di decisione responsabile, essa non può ignorare il ruolo che la r. ha svolto nel promuovere storicamente tali diritti umani e offre agli alunni quella competenza religiosa ed etica che contribuisce a darsi una capacità di giudizio e di scelta, per situarsi criticamente e costruttivamente nella società, per smascherare i falsi assoluti, per opporsi ad ogni uso strumentale della persona; d) dal punto di vista​​ giuridico-istituzionale​​ se lo Stato riconosce e garantisce il diritto alla cultura di tutti i cittadini senza discriminazione, e se la cultura religiosa è riconosciuta oggettivamente – per contenuti di sapere e per valori etici che può veicolare – una parte irrinunciabile e qualificante della cultura umana, lo Stato dovrà regolare giuridicamente anche l’insegnamento della cultura religiosa nella sua scuola, e conseguentemente, tale insegnamento dovrà disporre di condizioni paritarie a quelle riservate alle altre discipline dell’ordinamento scolastico. A questa​​ legittimazione scolastica, per cui l’i.r. è sollecitato come componente intrinseca della scuola, non contraddice né la corresponsabilità delle chiese assai spesso coinvolte con lo Stato nel gestire l’attività didattica, né l’esigenza di​​ confessionalità​​ dei contenuti materiali dell’insegnamento stesso, come nel caso di un i.r. disciplinato da normativa concordataria. L’aggancio immancabile dell’i.r. – del suo insegnante come dei suoi alunni – ad una concreta tradizione confessionale può risultare anzi un’opportuna misura di trasparenza oltre che di realismo didattico. Tuttavia le condizioni di crescente pluralismo religioso nelle attuali società obbligano ormai ogni progetto di i.r. non solo ad aprirsi ad obiettivi educativi di dialogo ecumenico, ma a confrontarsi costruttivamente con le r. non cristiane, con altre filosofie di vita.

3.​​ Profilo giuridico e disciplinare dell’i.r. cattolica in Italia.​​ La revisione concordataria (18 febbraio 1984) e l’Intesa tra il Ministro PI e il Presidente della CEI (14 dicembre 1985) hanno consegnato alla scuola italiana una figura relativamente inedita della r. come disciplina scolastica. Essa viene legittimata in base alla riconosciuta rilevanza culturale del cristianesimo nella storia e nel costume del popolo italiano. Come disciplina scolastica si colloca «nel quadro delle finalità della scuola», va impartita «in conformità alla dottrina della chiesa cattolica» e «nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori» (art. 9.2 dell’Accordo). È disciplina​​ istituzionalmente curricolare,​​ in quanto contribuisce a determinare il normale quadro orario settimanale delle lezioni, ma è al tempo stesso​​ soggettivamente facoltativa,​​ sia perché è fruibile per libera scelta annuale espressa dai genitori o dallo studente, sia perché pone l’alunno che non se ne avvale nello «stato di non obbligo» a seguire corsi scolastici alternativi. È disciplina​​ confessionale​​ quanto ai contenuti materiali (afferenti al cristianesimo cattolico e alla sua visione delle altre r.) e quanto all’insegnante titolare (dichiarato idoneo dall’autorità ecclesiastica), ma​​ non è confessionale​​ quanto agli obiettivi educativi (l’i.r. contribuisce infatti, secondo i programmi ufficiali, a «formare l’uomo e il cittadino»), né quanto alla composizione della classe essendo l’i.r. aperto a tutte le tipologie di alunni (cattolici e non, praticanti e non, alunni in ricerca, ecc.). I​​ contenuti culturali​​ suggeriti dai programmi di i.r. (1987, rielaborati nel 2002), pur facendo perno sul fatto cristiano e sulla sua interpretazione teologica (lo stesso nucleo centrale del cristianesimo è riproposto infatti nei due cicli scolastici con dimensioni e accenti proporzionati alle età) appartengono a una mappa di aree molto più vasta di quella strettamente dogmatica: attingono dall’area antropologica, storica, linguistica, etica oltre che dall’area biblico-teologica. La struttura di tali contenuti, enunciati in modo poco più che allusivo sotto forma di OA (= obiettivi di apprendimento), adotta un’articolazione che non è più quella della sistematica teologica o catechistica, ma non è nemmeno ancora quella propriamente didattica, che resta da costruire prima in sede di libri di testo e ulteriormente nella programmazione didattica locale. La figura dell’insegnante di r.​​ è inquadrata da tratti che ha in comune con gli altri insegnanti del sistema pubblico, specialmente dopo gli esami di concorso e l’immissione in ruolo della categoria (2004), e da tratti specifici, talora problematici, quali il giudizio di idoneità e i titoli di qualificazione professionale, definiti dall’Intesa 1985 tra Ministero PI e CEI.

4.​​ Identità degli i.r. in Europa.​​ All’interno di ciascun sistema nazionale l’istruzione religiosa scolastica è entrata in questi anni in stato di fibrillazione assai generalizzata, sia per il mutevole atteggiamento culturale nei confronti del religioso da parte della società in generale e degli alunni in particolare, sia per gli assestamenti provocati un po’ ovunque dalle riforme scolastiche in corso, sia per l’evolversi inquieto dei rapporti istituzionali tra Stati e Chiese, dei rapporti ecumenici tra confessioni cristiane, dei rapporti interreligiosi tra queste e le crescenti presenze non cristiane. L’esistenza di una cospicua rete di scuole confessionali pubbliche (cattoliche, evangeliche, anglicane, e talora anche coraniche), che godono in genere di una effettiva​​ ​​ libertà di insegnamento perché sovvenzionate in tutto o in parte dallo Stato, contribuisce a sdrammatizzare non poco il problema dell’i.r. Vasta e complessa la tipologia degli i.r. attivati. Dal punto di vista della​​ base legale,​​ il corso di r. può godere di una garanzia costituzionale (come in Germania), o essere oggetto di legislazione parlamentare (Austria, Belgio, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Scandinavia), o dipendere da convenzioni concordatarie tra Stato e confessioni religiose (Croazia, Italia Lussemburgo, Malta, Polonia, Slovacchia, Spagna...), o infine essere escluso come disciplina dalla scuola pubblica (come nei casi del sistema separatista francese o sloveno). Anche sotto il​​ profilo disciplinare​​ gli i.r. si presentano estremamente diversificati: da materia ordinaria obbligatoria con facoltà di scelta di un’alternativa, a materia opzionale con obbligo di scelta tra più offerte confessionali e non, da materia facoltativa senza incidenza determinante nel curricolo dell’alunno, ad attività nettamente extra-curricolare. Infine, dal punto di vista del carattere confessionale, si hanno i.r. di tipo transconfessionale intesi come informazione oggettiva e comparata sulle tradizioni religiose presenti nel Paese (Multifaith religious education:​​ in Olanda, Regno Unito, Paesi scandinavi); di tipo materialmente confessionale ma formalmente aconfessionali o comunque non catechistici (nei Paesi dell’area linguistica tedesca, in Belgio e nei Paesi soggetti a normativa concordataria); di tipo monoconfessionale (nei Paesi dell’Est europeo, in Irlanda, nel caso francese con l’aumônerie scolaire);​​ infine di tipo etico non confessionale o «morale laica» (come materia alternativa in Belgio, Germania, Lussemburgo, Spagna…). Si moltiplicano nell’area tedesca a confessione cristiana mista i casi di insegnamento bi-confessionale. Un tratto emergente che sembra ormai accomunare di fatto i vari modelli di i.r. attuati nel continente è la tendenza a privilegiare il conseguimento di obiettivi (cognitivi, critici, etici) di tipo preconfessionale, transconfessionale e interreligioso ed insieme aperto alla specifica comprensione confessionale o teologica della chiesa di riferimento. Emergono infatti nella scala delle urgenze educative istanze come l’educazione alla cittadinanza democratica, l’apertura al problema religioso, la ricognizione di forme e significati dell’esperienza religiosa universale, l’iniziazione al linguaggio dei simboli, l’esplorazione della dimensione profonda del vissuto umano, il confronto tra visioni di vita diverse.

Bibliografia

Butturini E.,​​ La r. a scuola: dall’Unità ad oggi,​​ Brescia, Queriniana, 1987; Trenti Z.,​​ La r. come disciplina scolastica. La scelta ermeneutica,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Pajer F. (Ed.),​​ L’insegnamento scolastico della r. nella nuova Europa,​​ Ibid., 1991; Prenna L.,​​ Assicurata ma facoltativa, Roma, AVE, 1997; Trenti Z. et al.,​​ Religio. Enciclopedia tematica dell’educazione religiosa, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1998; Trenti Z. (Ed.),​​ Manuale dell’insegnante di r., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2004; Genre E. - F. Pajer,​​ L’Unione Europea e la sfida delle r. Verso una nuova presenza della​​ r. nella scuola, Torino, Claudiana, 2005.

F. Pajer




insegnamento della STORIA

 

STORIA: insegnamento della

Il problema si è posto esplicitamente a partire dai sec. XVII-XVIII, quando la s. entrò in molte scuole, come materia d’insegnamento. Prima non era stata assente del tutto nel processo educativo, ma aveva risposto ad esigenze di ordine religioso-morale, peraltro ancora presenti anche in seguito, soprattutto a scopo edificante. Sotto questo profilo, l’insegnamento della s. guarda prioritariamente ai contenuti e alla loro funzione, senza una sensibilità didattica. L’importante era conoscere certi dati e derivarne, se non comportamenti, almeno atteggiamenti coerenti, anche in maniera automatica, senza una consapevolezza personale. Per questo già​​ ​​ Rousseau si opporrà a un insegnamento della s., prima dell’adolescenza. Con i sec. XIX-XX l’attenzione si è spostata sul senso della s. (obiettività, fini, funzioni...) e sul suo impatto con il processo d’​​ ​​ apprendimento. Si è così distinto tra scienze della natura e dello spirito (Dilthey), si è giunti, nel sec. XX, ad analizzarne lo statuto epistemologico, ampliandone i contenuti e i metodi (Nouvelle​​ Histoire), a riconsiderarne l’uso (revisioni internazionali dei manuali), a valutarne la comprensibilità per l’alunno e a delinearne conseguenti orientamenti didattici.​​ 

1.​​ Posizioni contemporanee:​​ pur perdurando un’impostazione tradizionale della manualistica e dell’insegnamento della s., centrati su cronologia e avvenimenti politici, che richiedono solo memorizzazione, senza alcun coinvolgimento, si sta diffondendo una nuova mentalità docente, che, da un lato, presuppone una miglior formazione storica degli insegnanti e, dall’altro, una loro più attenta sensibilità psicologico-educativa. I problemi da risolvere restano gli stessi (già noti ai latini:​​ quis,​​ quid,​​ ubi,​​ quibus auxiliis,​​ cur,​​ quomodo,​​ quando),​​ ma i nuovi indirizzi storici, che hanno evidenziato la complessità della disciplina e le sue reali stratificazioni (fattuale, sociale, congiunturale e strutturale: rispettivamente di breve, media e lunga durata), hanno aperto orizzonti prima sconosciuti sul senso, contenuti e modalità dell’insegnamento della s. Anzitutto ha preso corpo l’ipotesi della necessità di un più diretto e personale coinvolgimento dell’allievo, tenuto conto delle sue previe condizioni e possibilità. In ogni caso, appare indispensabile far prendere coscienza, al più presto, della classica distinzione tra i contenuti della s. («res​​ gestae»)​​ e le modalità dell’approccio («historia rerum gestarum»):​​ entrambi variabili con il tempo, a causa di nuovi dati e fattori, secondo gli interessi della società e dello stesso storico, dei quali va preso atto e che sono comunque presenti e condizionanti.

2.​​ Ricadute didattiche:​​ il dibattito si è allargato, a partire dai primi decenni del sec. XX, e successivamente approfondito. Ora, senza entrare nel merito delle discussioni o di posizioni psicologiche che hanno avuto larga risonanza (​​ Piaget), si possono individuare due filoni fondamentali di elaborazione: quello che bada alle difficoltà dell’alunno e quello che, anche per superarle, mira a una gestione più efficace dell’insegnamento della s. Nella prima linea, si sono approfonditi, in particolare, i quesiti riguardanti le condizioni dell’apprendimento storico (processi cognitivi e implicanze affettive), la scabrosità del lessico e dei relativi codici; nella seconda, si è evidenziata l’esigenza di esplicitare la relatività dei dati storici, l’articolata complessità della dimensione spazio-temporale-sociale (contestualità, sviluppo, condizionamenti) e l’opportunità di puntare sull’interdisciplinarità, in rapporto con le cosiddette scienze sociali. Inoltre l’insegnamento della s. si è aperto, da un lato, al ricorso a nuove fonti, orali, per es., e, molto spesso, al processo «regressivo»,​​ con un cammino che va dal locale al remoto.

3. Concludendo, grazie soprattutto all’apporto di storici, l’insegnamento della s. è oggi in fase di rinnovamento, teso, da una parte, a sottolineare un protagonismo democratico («è l’uomo che fa la s.»), radicato nella «coscienza storica», senza tuttavia dimenticare i pesanti condizionamenti, cui quella è sottoposta, in quanto «l’uomo è un prodotto storico», a sua volta, almeno in buona parte.

Bibliografia

Burston W. H.,​​ Principles of history teaching,​​ London, Methuen, 1976; Guarracino S. - D. Ragazzini,​​ S. e insegnamento della s. Problemi e metodi,​​ Milano, Feltrinelli, 1980; Guarracino S., «La didattica della s.: le nuove tendenze», in​​ Gli strumenti della ricerca,​​ vol. 2:​​ Questioni di metodo; Tranfaglia M. (Ed.),​​ Il mondo contemporaneo,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1981, vol. X, 968-988; Riccabone P.,​​ Didattica della s. e dell’educazione civica,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Benigno L. et al.,​​ La s. insegnata,​​ Milano, Mondadori, 1986; Gallia A.,​​ La s. scienza dell’uomo,​​ Roma, Studium, 1990; Tomassucci Fontana L., «Didattica della s.», in M. Laeng (Ed.),​​ Atlante della pedagogia,​​ vol. 2, Napoli, Tecnodid, 1991, 77-138.

B. A. Bellerate




insegnamento delle SCIENZE

 

SCIENZE: insegnamento delle

Facendo riferimento alle voci​​ ​​ scienza e​​ ​​ educazione e​​ ​​ educazione scientifica, la presente ha per oggetto l’insegnamento effettivo, vale a dire i programmi e curricoli di s. nelle scuole, prendendo ad es. quelle italiane.

1. A livello di prescuola per l’infanzia, o scuola materna, non ci sono programmi ma solo orientamenti. Vengono tuttavia poste le basi delle prime conoscenze dei numeri, delle forme geometriche, degli oggetti naturali quali minerali, piante e animali. È importante fin dalla prima età educare alla pulizia e igiene, all’economia contro lo spreco, e al rispetto degli esseri viventi. Piccole coltivazioni e allevamenti possono avviare alla responsabilità.

2. Nella scuola primaria o elementare si sviluppa la conoscenza dei regni della natura e del corpo umano, del pianeta Terra, della Luna e delle stelle, alimentando i «perché» infantili col ricorso al ragionamento e non solo alla fantasia. Vengono insegnate l’aritmetica delle quattro operazioni e la geometria intuitiva. Si avvia alla conoscenza delle più generali leggi fisiche e chimiche (come le leggi della leva, o le proprietà delle sostanze semplici e composte). È possibile avviare all’osservazione delle stagioni, dei fenomeni meteorologici, dei processi naturali su acquari e terrari, eseguendo anche confronti tra situazioni in cui siano modificate alcune variabili. Oltre a ribadire il rispetto degli esseri viventi, si deve insegnare la stretta solidarietà esistente tra tutti gli esseri, con i cicli dell’acqua e del carbonio, le catene alimentari, i sistemi ecologici e la conservazione dell’ambiente, la difesa dagli inquinamenti.

3. Nella scuola media o secondaria inferiore si passa dalle «nozioni» alla «s.». In matematica si espongono la geometria euclidea e l’algebra che abituano al pensiero rigoroso; nel campo naturalistico si configura la s. come sapere logico-sperimentale, presentando nelle grandi linee le varie s. (fisica, chimica, s. biologiche, geografia fisica, astronomia) e gli aspetti merceologici e tecnologici delle loro applicazioni. Viene sviluppata la «descrittiva» botanica e zoologica, ma senza cadere nel verbalismo classificatorio. Assume grande importanza la «domanda» ragionata, e l’impostazione della ricerca mediante ipotesi da sottoporre a controllo.​​ 

4. Nella scuola secondaria superiore, a cominciare dal biennio che si salda in continuità con la media, matematica e s. vengono presentate nella loro sistematicità, completando la cultura media fino alle soglie del livello universitario. In matematica si arriva fino al primo approccio intuitivo al calcolo infinitesimale, svolto oggi anche con soluzioni grafiche mediante approccio numerico-informatico, e con lo svolgimento della fisica nelle sue varie parti (meccanica, termodinamica, acustica e ottica, elettrologia, fisica atomica e nucleare). È importante che si sottolinei la rilevanza basilare della fisica, ma senza cadere nel riduzionismo «fisicalistico» e nel meccanicismo, oggi superato dalla fisica quantistica e indeterministica. La fisica si completa con cenni all’astrofisica e alle grandi ipotesi cosmologiche.

5. La visione corretta di diversi «livelli» della realtà è confermata dalla chimica generale, inorganica e organica, riconoscendo il ruolo-chiave della biochimica nel collegare il mondo fisico a quello della vita. La biologia generale, la genetica, l’embriologia, l’anatomia e fisiologia vegetale e animale anche comparata, con gli agganci alla nuova teoria «sintetica» dell’evoluzione, devono dare una visione unitaria dei fenomeni vitali. Il ruolo dell’uomo e i problemi dell’equilibrio delle specie, i fenomeni demografici e il controllo «naturale» delle nascite rientrano nel quadro.

Bibliografia

Laeng M., «Didattica dell’insegnamento scientifico», in​​ Questioni di metodologia e didattica,​​ Brescia, La Scuola, 1974, 327-367; Blezza F.,​​ Didattica scientifica,​​ Udine, Del Bianco, 1994; Laeng M.,​​ Insegnare s., Brescia, La Scuola, 1998; Nicolini P. (Ed.),​​ Conoscere il corpo, Milano, Angeli, 2000.

M. Laeng




INSEGNAMENTO SOCIALE DELLA CHIESA

 

INSEGNAMENTO SOCIALE​​ DELLA CHIESA

Con i.s.d.C. si intende l’insieme delle indicazioni e delle proposte riguardanti la presenza e l’azione sociale dei cristiani, degli uomini di buona volontà, nel corso dell’ultimo sec., a seguito degli interventi (encicliche, lettere, discorsi, ecc.) papali, conciliari, episcopali circa la «questione sociale». Rispetto al passato, in cui prevaleva la dizione «Dottrina sociale della Chiesa» l’i.s.d.C. post-conciliare non solo ha approfondito meglio il suo rapporto con 1’​​ evangelizzazione e la​​ ​​ catechesi, ma ha definito meglio la propria natura e funzione nella missione della Chiesa e il suo rapporto con il mondo, la società, la cultura.

1.​​ L’i.s.d.C. elemento essenziale della nuova evangelizzazione e della catechesi.​​ Con le ultime encicliche sociali l’i.s.d.C. è definitivamente ascritto all’ambito della teologia morale (cfr.​​ Sollicitudo rei socialis​​ [SRS], n. 41). Ciò autorizza Giovanni Paolo II ad affermare anche che l’i.s.d.C. è componente essenziale della «nuova evangelizzazione» (cfr.​​ Centesimus annus​​ [CA], n. 5). Uno studio più approfondito della natura dell’i.s.d.C. e della catechesi porta proprio a concludere che tra i due c’è un’implicazione reciproca​​ e che l’i.s.d.C. è anche elemento essenziale dell’educazione alla fede. Se nell’azione catechetica e nei suoi sussidi didattici viene a mancare la recezione costante ed aggiornata dell’i.s.d.C. e il riferimento all’esperienza di vita da cui questo erompe e a cui rimanda, non si educa adeguatamente ad una fede matura. Detto diversamente, occorre che l’i.s.d.C. venga «veicolato» o «mediato» nella catechesi. Esso deve, in certo modo, «nascere» una seconda volta: essere cioè «ritrascritto» per le diverse categorie di persone – specie giovani e adulti – nei vari contesti ecclesiali di catechesi, non esclusi i centri di ascolto, i movimenti e le associazioni di apostolato. In particolare, va inserito nella dinamica della «Parola totale» (annuncio, celebrazione, servizio) e «ridetto» come messaggio per la fede, come «materia» sacramentale per la preghiera, come compito per un servizio animato dalla Carità di Cristo.

2.​​ La natura e il senso culturale dell’i.s.d.C.​​ «La dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via” tra​​ capitalismo liberista​​ e​​ collettivismo marxista,​​ e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una​​ categoria a sé.​​ Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di​​ interpretare​​ tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per​​ orientare,​​ quindi, il comportamento cristiano» (SRS, n. 41). L’i.s.d.C. è cioè un sapere​​ teorico-pratico,​​ che non si limita alla contemplazione della realtà sociale e dei suoi problemi; non si limita neppure all’indagine sulle cause dei mali e ad esprimere giudizi etici. È sapere formulato col fine di trasformare la realtà sociale, di modo che questa possa essere più​​ conforme al disegno di Dio,​​ secondo il quale tutte le realtà terrene debbono essere poste al servizio della crescita in pienezza della persona. È sapere, pertanto, che nascendo dall’esercizio del ministero di evangelizzazione della Chiesa in campo sociale, non solo «denuncia» i mali e le ingiustizie, ma simultaneamente e principalmente «annuncia» l’opera di salvezza di Gesù Cristo, le vie di azione, le modalità più consone, le progettualità germinali più adatte per liberare ed umanizzare il lavoro, l’economia, la politica, la comunità mondiale, la famiglia, i mezzi di comunicazione sociale, l’ecologia, rispettandone l’autonomia, destinandoli ultimamente a Cristo stesso, per mezzo del quale e in vista del quale sono stati creati (Col 1,3.12-20), partecipando alla sua incarnazione, redenzione e ricapitolazione (Col 1,15).

3.​​ L’apporto alla catechesi.​​ Ciò premesso, è facile comprendere come l’i.s.d.C. aiuta, in definitiva, gli educatori alla fede e la loro opera di catechesi nel far crescere i credenti nell’adesione al​​ mistero totale di Cristo,​​ nel vivere la​​ totalità esistenziale della fede,​​ della speranza e della carità​​ anche con riferimento al sociale. In particolare, l’i.s.d.C. dà un apporto fondamentale all’opera di catechesi in quanto: a) educa all’approccio alla storia,​​ al​​ coinvolgimento in essa,​​ ove Gesù Cristo e il suo Spirito sono già all’opera, per associarsi alla loro azione trasformatrice; b) abilita, quindi, al​​ discernimento​​ e alla​​ profezia,​​ ossia all’individuazione negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni degli uomini di ciò che indica la presenza o il disegno di Dio in se stesso e di ciò che lo contrasta (cfr.​​ Gaudium et spes,​​ n. 11); e, inoltre, a vivere le realtà sociali rimanendo​​ uniti​​ a Gesù Cristo e, pertanto, purificandole, consolidandole ed elevandole in Lui: il discernimento e la profezia, mentre sono avviati innanzitutto dall’ascolto della Parola di Dio, si avvalgono anche dell’apporto delle scienze umane e sociali per la conoscenza della questione sociale, e vanno attuati vivendo nella comunione ecclesiale; c) presenta, per conseguenza, i​​ tratti​​ ​​ sia pure sintetici e bisognosi di ulteriori mediazioni – di quella​​ ricapitolazione in Cristo,​​ che i credenti sono chiamati a concretare, specie tramite la grazia e una liberazione integrale, in un determinato periodo storico e in un determinato contesto socio-culturale, collaborando con gli altri uomini di buona volontà; d) indica​​ principi di riflessione​​ (ad es. la persona umana è immagine di Dio, della Comunità trinitaria),​​ criteri di giudizio​​ (ad es. il primato dell’uomo sul capitale, uso critico dei mezzi forniti dalle scienze sociali per l’analisi della situazione),​​ metodi e direttive di azione​​ (ad es. la lotta per la giustizia, la via della non violenza, l’opzione preferenziale per i poveri),​​ atteggiamenti di vita,​​ abbozzi di umanesimi e di culture​​ (dello sviluppo, della pace, dell’ecologia, dell’economia, della politica), fondamentali ed​​ omogenei​​ con un’esistenza umana, cristiana, ecclesiale, che voglia essere a servizio della «nuova creazione», già inaugurata da Cristo (2 Cor 5,17; Gal 6,15; CA, n. 62); e) suggerisce, in definitiva, le​​ modalità​​ essenziali del​​ compimento umano in Dio con riferimento al sociale;​​ e, congiuntamente, in un contesto culturale che propone solo etiche «deboli» e post-moderne, ovvero semplici etiche dialogiche o della legalità, del consenso, delle reciproche garanzie, di legittima difesa, tutte debitrici di una prospettiva di «terza persona», sollecita un’«etica di prima persona», cioè un’etica le cui norme e i cui precetti sono individuati guardando all’adempimento del bene e della crescita in pienezza della persona​​ reale​​ e​​ concreta,​​ e non a partire dal punto di vista di un «osservatore imparziale».

4.​​ Oltre i pregiudizi.​​ Tra i vari pregiudizi sull’i.s.d.C. due in modo particolare resistono. Innanzitutto, il pregiudizio che l’i.s.d.C. sia qualcosa di superfluo o di facoltativo o di secondario per il credente, al punto che non raramente viene prima la scelta del partito, dell’associazione e del movimento e poi si afferma che l’i.s.d.C. è dalla propria parte. Ora, ciò equivale a porre le premesse di una sua inevitabile strumentalizzazione. Dovrebbe al contrario essere l’i.s.d.C. ad orientare nella scelta del partito, dell’associazione o del movimento in campo sociale e politico. Ma non solo. Una volta operata l’adesione a questo o a quel partito, a questa o a quell’associazione, l’i.s.d.C. dovrebbe continuare ad essere punto di riferimento ineludibile per giudicare della bontà di ciò che è teorizzato e fatto all’interno dei partiti, delle associazioni e dei movimenti. La ragione di tutto ciò risiede nel fatto che l’i.s.d.C. appartiene al credente quale​​ patrimonio​​ teorico-pratico, sapienziale, che egli ha in dotazione in quanto cristiano e in quanto membro della comunità ecclesiale, il cui compito è anche quello dell’evangelizzazione del sociale. Esso inerisce al credente come uno «specifico» e come una «vocazione» che l’accompagnano ovunque, in ogni campo dell’agire sociale. In secondo luogo, oggi continua a sussistere anche il pregiudizio che l’i.s.d.C. non serve a cambiare progetti societari, sistemi, strutture ed istituzioni. Esso, al più, offrirebbe l’indicazione di​​ correttivi​​ che possono lenire i mali delle società e dei mercati, senza però modificarli dal di dentro, nei loro meccanismi e nella loro impostazione di fondo. Sicuramente l’i.s.d.C. non propone questo o quel sistema politico, economico o ideologico concreto, alternativo a quelli esistenti. Non è il suo compito. Tuttavia, esso, segnalando come cogenti quei principi e quelle direttive di azione di cui si è già detto, offre quanto è necessario per riformare o per sostituire, se ne è il caso, sistemi ed istituzioni antiumani. Detto altrimenti, l’i.s.d.C. è tutt’altro che astratto. Esso viene, infatti, a porsi come​​ fondamento e motivazione​​ per l’azione (cfr. CA, n. 57). Se accolto, entra a​​ costituire​​ l’intenzionalità più profonda dell’agire, nonché le modalità della sua attuazione, in modo così decisivo e radicale da comandare irresistibilmente il cambio delle ideologie, dei sistemi, delle istituzioni, la loro umanizzazione globale.

5.​​ Per un uso pedagogico dell’i.s.d.C.​​ Purtroppo spesso l’i.s.d.C. rimane lettera morta perché parecchi credenti o non lo conoscono ancora o non hanno la competenza per tradurlo in linguaggio politico e culturale. Anche da questo punto di vista, allora, occorre che nella catechesi, nelle università, nei vari centri culturali, nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali o di ispirazione cristiana, si sviluppi un’intensa e costante opera formativa avente come riferimento irrinunciabile l’i.s.d.C. Così, da un punto di vista più pratico, occorre avviare alla conoscenza dell’i.s.d.C., non certo tramite semplici sunti, volgarizzazioni, articoli di giornale o di rotocalchi. È indispensabile la lettura specie degli ultimi testi delle encicliche, che potrà essere più fruttuosa se avviene tramite «laboratori» pastorali-catechetici, tramite gruppi e comunità educativi, ove l’indagine sui problemi cui rinvia l’i.s.d.C. e il dibattito sulla loro soluzione si svolgono a più voci e sulla base di competenze diverse, integrantisi fra loro. Ciò verso cui si deve, però, puntare, in ogni caso, è la creazione nel credente di una sensibilità che gli consenta di vivere la dimensione sociale della propria fede e del Vangelo con la stessa Carità di Gesù Cristo.

Bibliografia

Toso M.,​​ Umanesimo sociale. Viaggio nella dottrina sociale della Chiesa e dintorni, Roma, LAS,​​ 22002; Id.,​​ Welfare society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici,​​ Roma, LAS,​​ 22003; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,​​ Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004; Id.,​​ Dizionario della dottrina sociale della Chiesa, a cura di S. Ecc. G. Crepaldi e E. Colom, Roma, LAS, 2005.

M. Toso




INSEGNANTE

 

INSEGNANTE

Dal lat.​​ insignare:​​ indicare (da «indice», mostrare con il dito della mano)​​ mediante segni,​​ marcare qualcosa con un contrassegno, significare, esprimere: corrisponde all’azione di tradurre in rappresentazione – in «segni» – la realtà che non è possibile, conveniente o sicuro, conoscere adeguatamente attraverso l’esperienza diretta, e pertanto richiede l’intervento efficace di una mediazione –​​ ​​ l’insegnamento, che sostituisce la realtà con l’indicazione dei corrispondenti segni convenzionali – e di un mediatore – appunto, l’i. Espressione attestata già nell’XI sec., si generalizza nell’uso con la diffusione, a partire dal XVII, del​​ Collegium,​​ la scuola burocratica dell’età moderna che si è prolungata nei sistemi contemporanei di educazione formale. Si dà una stretta correlazione fra sviluppo organizzativo dell’istituzione scolastica e definizione amministrativa del «ruolo» dell’i., fino a farlo coincidere sic et simpliciter con il​​ «personale che,​​ all’interno delle scuole,​​ è incaricato dell’educazione​​ degli alunni»​​ (Recommandation concernant la condition du personnel enseignant,​​ Unesco, 1966).

1.​​ I.​​ e società.​​ L’istituzionalizzazione dell’i. è un dato ricorrente e precoce, anche se non disponiamo a tutt’oggi di una ricostruzione storico-sistematica della sua figura. A seconda dei sistemi sociali e delle epoche storiche, ha potuto variare il tipo dei contenuti dell’insegnamento, l’età, il numero, il ceto dei soggetti destinatari, ma si danno analogie strette per quanto concerne il​​ riconoscimento ufficiale​​ della funzione affidata e la​​ regolamentazione pubblica​​ dell’attività svolta. La legittimazione sociale –​​ licenza di,​​ abilitazione a​​ – emerge in relazione ad alcune condizioni esterne ed interne: fra le prime,​​ la presa di coscienza dell’identità culturale,​​ per es. a seguito di eventi immigratori / emigratori, occupazione di altri territori umanizzati, minacce di acculturazione forzata per invasioni subite; fra le seconde, contesti di integrazione orientati alla​​ produzione di una cultura generale unificante,​​ conseguenti a processi di urbanizzazione, di differenziazione istituzionale e centralizzazione del potere politico, insieme all’insorgere di amministrazioni burocratiche sia pure embrionali. Mentre nasce la scuola, con il compito di assimilare, nel quadro di un progetto storico di egemonia, le culture particolari di ceto, di monopolizzare la produzione culturale e di determinare le credenziali per accedere al mercato culturale –​​ ​​ titoli di studio e mobilità sociale – gli i. vengono definiti come titolari della «funzione docente»: compito specialistico, tendenzialmente esclusivo, che pone termine all’insegnamento come attività complementare incorporata nelle pratiche di socializzazione, propria di figure quali il sacerdote-i., il filosofo-i. e l’uomo di cultura in genere. L’i. può così essere definito attraverso i vincoli che delimitano l’esercizio della sua funzione (o, per il verso opposto, in correlazione alla​​ ​​ libertà d’insegnamento): i controlli imposti possono essere di tipo​​ soggettivo, quali – epoca per epoca – la dipendenza servile dal committente, la fiducia personale, la prestazione di un giuramento, l’accertamento della competenza, in senso sostanziale ed in senso formale, fino a comprendere l’organizzazione di appositi istituti di formazione («scuole normali»); di tipo​​ oggettivo, quando riguardano i contenuti dell’insegnamento – oggi i​​ ​​ programmi di studio – selezionati in base agli interessi delle autorità committenti (in genere le chiese e gli stati) e dei loro progetti simbolici, nel quadro spazio-temporale definito da regole prescrittive e costitutive che vincolano​​ ​​ compiti educativi, determinati da uno status giuridico di grado esecutivo, in condizioni d’esercizio non di rado precarie e con emolumenti di sopravvivenza.​​ Questa intrinseca corrispondenza tra i. e istituzione può contribuire a spiegare le difficoltà che si frappongono regolarmente ai propositi di innovazione nel campo dell’insegnamento: da una parte, stante l’assimilazione fra scuola e i., può sembrare plausibile – come nelle diagnosi ancora attuali della​​ Rand Corporation​​ (1984), della​​ Carnegie Foundation​​ (1986), dell’Holmes Group​​ (1986) – proporre che solo una rinnovata formazione degli i. possa costituire la leva della riforma scolastica; dall’altra, i cambiamenti introdotti attraverso lo sviluppo organizzativo del sistema scolastico – orari, raggruppamenti degli alunni, team teaching, partecipazione dei genitori e di altri soggetti esterni... – incontrano resistenze, ostacoli e barriere nella «zona grigia» dell’istituzione rappresentata dalla «cultura antropologica» degli i. L’intreccio dei fattori soggettivi e strutturali fanno delle riforme scolastiche un impegno proibitivo, che richiede una strategia globale e combinata, articolata in tempi medio-lunghi, in un contesto di stabilità politica. Mentre rinviamo lo svolgimento di questi motivi alla voce​​ ​​ innovazione scolastica, qui occorre giustificare le ragioni della codificazione istituzionale dell’i., che abbiamo disegnato – al negativo – attraverso i vincoli imposti all’esercizio della sua attività, ma che può aver luogo – anche al positivo – attraverso i processi di idealizzazione della sua rappresentazione sociale. Ebbene, non è difficile collegare la necessità, universalmente avvertita e praticata, della legittimazione pubblica della figura dell’i. alla sua​​ rilevanza sociale e culturale:​​ secondo quanto mostrano, convincentemente, gli studi integrati di biologia, etologia, psicanalisi ed antropologia culturale, l’inettitudine dell’uomo alla nascita è correlata all’attitudine pedagogica,​​ che fa della «genericità» originaria uno straordinario potenziale di affermazione sull’ambiente, a condizione di una laboriosa e prolungata dipendenza dall’adulto e della necessaria declinazione dell’aggressività interna al gruppo in senso di appartenenza e condivisione pratica di norme e di valori. La convergenza di questi apporti multidisciplinari conclude con il riconoscimento dell’insegnamento come​​ funzione costitutiva del sociale e del culturale.​​ Pertanto,​​ collocato sulla soglia obbligata e determinante della sopravvivenza della cultura al momento del cambio generazionale, l’i. non può – suo malgrado – non essere oggetto ambivalente di attese esagerate e di sospetti inconfessabili: di qui la prassi universale della minuta codificazione del ruolo, fino alla sua burocratizzazione «esemplare», che plasma l’aria di famiglia degli i., in particolare i loro sempre denunciati comportamenti individualistici ed isolazionisti.

2.​​ I.​​ e professione.​​ Come abbiamo anticipato, si può leggere la questione degli i. dall’altro verso, quello della libertà dell’insegnamento, compreso dalla letteratura pedagogico-sociale sotto il titolo della​​ «professionalizzazione»​​ dell’i. Secondo gli indicatori propri di questo «ideal-tipo» del lavoro sociale, messi a punto dal​​ ​​ funzionalismo – prestigio, formazione di livello accademico, frequentazione della ricerca scientifica per l’innovazione teorico-pratica, specifica deontologia altruistica nei rapporti con i clienti corrispondente all’autogoverno dell’attività, supportato da un associazionismo diffuso, unificato e sensibile all’immagine esterna della categoria – per l’i. si può arrivare a parlare, eventualmente, di «semiprofessione» oppure di «professionalità in senso ristretto». Difatti, nessuno di quei tratti si può considerare caratterizzante della categoria (anche se è innegabile che al suo interno si distinguono da sempre delle élites professionalizzanti): ma sono i requisiti stessi della professionalità ad essere messi in discussione. Una prima serie di obiezioni – ad opera della sociologia conflittualista ed interazionista – riguarda il giudizio sulla professionalizzazione dei servizi sociali, criticata innanzitutto per i suoi esiti – non sempre positivi – per una migliore qualità delle prestazioni al pubblico, ma anche contestata per l’accaparramento delle conoscenze presso i tecnici, «mutilante» per la gente comune, resa sempre più dipendente, sospettata per i legami con il potere politico e infine disvelata nei dispositivi di mercato adottati per accreditarsi presso il pubblico. Eppure il «mito» della professionalizzazione (Bourdoncle) resiste, almeno fra i pedagogisti: dapprima attraverso l’osservazione delle​​ effettive operazioni​​ di cui consiste il lavoro di aula e di scuola – evidenza di comportamenti di tipo interattivo, contestuale, di improvvisazione riflessiva – che manifestano un «sapere professionale» complesso e sofisticato, per quanto inconscio e sottovalutato dagli stessi i. Inoltre, l’indagine sulle pratiche d’insegnamento ha portato ad identificare un tipo di professionalità a carattere «morale», specifica dell’i. (Goodlad, Fenstermacher). Oggi, sullo sfondo del «ritorno» della filosofia pratica, assistiamo all’affermazione di una​​ epistemologia dell’azione come forma di conoscenza propria,​​ fuori del paradigma «applicazionista», che ha indotto un radicale rinnovamento degli studi, che guardano all’i.​​ esperto​​ come fonte della ricerca didattica (Tochon), nella prospettiva di una diversa funzione della teoria, con implicazioni di considerevole portata per la professionalizzazione e la​​ ​​ formazione degli i.

Bibliografia

Prandstraller C.,​​ Sociologia delle professioni,​​ Roma, Città Nuova, 1980;​​ Damiano E.,​​ Società e modi dell’educazione.​​ Verso una teoria della scuola,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1984; Goodlad J. I. - R. Soder - K. A. Sirotnick,​​ The moral dimensions of teaching, San Francisco, Jossey-Bass, l990; Schoen D. A.,​​ The reflective turn: case studies in and on educational practice, New York, Teachers College Press, l991;​​ Bourdoncle R.,​​ La professionalisation des enseignants. Les limites d’un mythe,​​ in «Revue Française de Pédagogie» (1993) 105, 83-120; Tochon F. V.,​​ L’enseignant expert,​​ Paris, Nathan, 1993; Gauthier C.,​​ Pour une théorie de la pédagogie. Recherches contemporaines sur le savoir des enseignants, Paris / Bruxelles, De Boeck Université, 1997; Cenerini A. - R. Drago,​​ Professionalità e codice deontologico degli i., Trento, Erickson, 2000;​​ Recherche sur la pensée des enseignants: un paradigme à maturité, in «Revue Française de Pédagogie» (2000) 133, 129-157; Campbell E.,​​ The ethical teacher, Maidenhead-Philadelphia, Open University Press, 2003; Damiano E.,​​ L’i.​​ Identificazione di una professione,​​ Brescia, La Scuola, 2004; Santoni Rugiu A.,​​ Maestre e maestri.​​ La difficile storia degli i. elementari, Roma, Carocci, 2006; Damiano E.,​​ L’i. etico. Saggio sull’insegnamento come azione morale, Assisi, La Cittadella, 2007.

E. Damiano




INSUCCESSO SCOLASTICO

 

INSUCCESSO SCOLASTICO

Si tratta di un concetto​​ relativo​​ in quanto il modo di accostare il problema cambia tra i Paesi in relazione alla tradizione educativa, alle caratteristiche dei programmi, ai tipi di valutazione adottati e alla focalizzazione prevalente, se sull’educando o sull’istituzione scolastica. Comunque, esistono alcuni​​ ​​ indicatori​​ abbastanza comuni dell’i. come i tassi di abbandono, le percentuali di ripetenza e i flussi di passaggio da un livello scolastico all’altro. In ogni caso in questa sede ci si limiterà a trattare degli aspetti quantitativi e dei fattori del fenomeno, mentre per le strategie di intervento si rinvia alla voce​​ ​​ decondizionamento.

1.​​ Dati di base.​​ Le organizzazioni internazionali hanno denunciato a più riprese la​​ gravità​​ della situazione in​​ Europa; riporto solo due dati che hanno il vantaggio dell’oggettività riconosciuta e del riferimento a tutti i Paesi dell’UE (Commission of the European Communities, 2006). Uno dei​​ benchmarks​​ (macroindicatori) del programma di Lisbona riguarda l’abbandono scolastico e formativo: nel 2000 la media europea si collocava al 17,7% e, sebbene nel 2005 si noti un miglioramento perché la percentuale si abbassa al 14,9%, tuttavia il dato è ritenuto troppo elevato e soprattutto mal distribuito tra i diversi Stati e si teme che nel 2010 non possa essere raggiunto l’obiettivo del 10%; per il periodo 2000-05 l’Italia​​ può vantare una considerevole riduzione, dal 25,3% al 21,9%, anche se rimane molto lontana dalla media europea. L’altro macro-obiettivo consiste del numero degli alunni minori di 15 anni con bassa abilità di lettura-scrittura: l’UE faceva registrare nel 2000 una percentuale del 19,4% e nel triennio a cui si riferiscono le misurazioni disponibili (2000-03) non solo non si è verificato un miglioramento, ma anzi si osserva un peggioramento, anche se leggero, in quanto il dato dell’UE è salito al 19,8%; a sua volta l’Italia presenta un aumento ancora superiore dal 18,9% al 23,9%. Per il nostro Paese aggiungo solo due dati: uno che sottolinea il peso del capitale culturale sull’i.s. – dei diplomati che possono vantare un padre laureato, i tre quarti circa (73,4%) sono iscritti all’università, mentre la percentuale scende a poco più del 40% (42,6%) per i figli dei diplomati, a intorno a un quarto (26,9%) per i ragazzi con padre in possesso di licenza media e a neppure un quinto (17,7%) per i giovani il cui genitore può contare unicamente su una licenza elementare; l’altro che evidenzia come la struttura prevalentemente generalista dell’educazione, determinata da un continuo processo di licealizzazione dell’educazione tecnica e professionale, non ha condotto al successo e ha lasciato il 33% dei giovani in età fuori del percorso formativo (Sugamiele, 2006).

2.​​ I fattori dell’i.​​ Un gruppo di interpretazioni fa riferimento ai condizionamenti​​ genetici.​​ L’i. dipenderebbe da carenze intrinseche all’individuo riguardanti specificamente l’​​ ​​ intelligenza iscritta nell’eredità genetica, carenze che possono essere scoperte attraverso​​ ​​ test ed essere misurate dal quoziente intellettuale. Tale spiegazione è stata criticata principalmente per due motivi: anzitutto, essa finisce per ridurre l’intelligenza a semplice punteggio; in secondo luogo, se è vero che ogni persona possiede uno specifico patrimonio genetico, è altrettanto vero che ciascuna matura una propria identità sulla base dell’esperienza, dell’​​ ​​ apprendimento e dell’ambiente. Altre teorie si richiamano allo sviluppo​​ psico-affettivo​​ dell’individuo. La costruzione della personalità andrebbe di pari passo con il suo iter scolastico che presenterebbe i seguenti passaggi critici: l’educazione prescolastica, la primaria, la secondaria e l’educazione superiore. Ciascuna transizione richiede l’adattamento a nuove situazioni; gli alunni non rispondono tutti egualmente agli stimoli esterni e alcuni incontrano problemi che incidono sul loro comportamento scolastico. Queste difficoltà possono consistere nel rifiuto totale della scuola che secondo alcuni autori sarebbe da attribuirsi a una reazione contro la madre e alla difficoltà di accettare l’autorità paterna; è frequente anche riscontrare un atteggiamento di passività e di rassegnazione. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza il legame tra l’i.s. e particolari situazioni psico-affettive come la separazione dalla famiglia, il fenomeno della rivalità con i fratelli, i problemi fisici ed emotivi connessi con la pubertà. Una serie di interpretazioni fa riferimento alla diversa importanza che l’alunno attribuisce al successo scolastico: tale relazione è certamente segnata dall’appartenenza di classe, ma non va ridotta ad essa, perché le persone non possono essere concepite come la pura incarnazione del proprio ceto. Le spiegazioni che si ispirano all’​​ ​​ interazionismo concentrano l’attenzione sul funzionamento della singola scuola. È centrale la costruzione personale e soggettiva degli eventi da parte degli insegnanti e degli alunni. L’interazione delle varie parti coinvolte nella formazione è alla base dei processi sociali e relazionali che condizionano l’i. dell’allievo. In particolare tale approccio ha chiamato in causa le attese degli insegnanti, le reti di comunicazione che si instaurano nelle classi, i metodi di valutazione e le condizioni di apprendimento. Sul piano​​ sociologico​​ si è assistito al passaggio dall’interpretazione trionfalista e ingenua della teoria della deprivazione culturale (l’i. sarebbe da attribuirsi a tratti culturali negativi della famiglia), al pessimismo radicale della teoria della riproduzione (che riconosce alla scuola unicamente il ruolo di perpetuare l’ordine sociale), per giungere con la riproduzione contraddittoria e le concezioni del neo-weberianesimo a un recupero della funzione positiva della scuola che si accompagna contemporaneamente alla denuncia del suo contributo al mantenimento delle disparità esistenti nel sistema sociale. I capisaldi di una nuova impostazione vanno cercati nell’autonomia relativa della scuola, nella sua funzione «controfunzionale» rispetto agli eccessi del capitalismo (perché trasmette «meta-capacità» cioè abilità generali di dominare il ritmo accelerato del cambio tecnologico e perché è ispirata ai valori di libertà, di eguaglianza e di partecipazione propri dello Stato democratico) e nella sua capacità di fornire ai ceti emergenti uno strumento di lotta per legittimare, tramite i titoli conseguiti, la loro emancipazione. Più recentemente è stato osservato che i processi di emarginazione dei giovani vanno attribuiti tra l’altro al fatto che la scuola, come la modernità, considera solo gli individui e le entità collettive, ma non ne vede le relazioni sociali che li costituiscono (Donati, 2006).

Bibliografia

Eurydice,​​ Measures to combat failure at school: a challenge for the construction of Europe,​​ Luxembourg, Office for Official Publications of the European Communities, 1994; Besozzi E.,​​ Società,​​ cultura,​​ educazione: teorie,​​ contesti e processi, Roma, Carocci, 2006; Commission of the European Communities,​​ Progress towards the Lisbon Objectives in education and training.​​ Report 2006, Brussels, 2006;​​ Asensio J. Mª.,​​ Cómo prevenir el fracaso escolar, Barcelona, CEAC,​​ 2006; Donati P., «Come combattere disagio giovanile e dispersione scolastica», in S. Versari (Ed.),​​ Cercasi un senso disperatamente, Napoli, Tecnodid, 2006, 57-78; Schizzerotto A. - C. Barone,​​ Sociologia dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006; Sugamiele D.,​​ Dati utili per l’attuazione del sistema educativo di istruzione e formazione, in «Presenza Confap» 21 (2006) 1-2, 7-52.

G. Malizia




INTEGRAZIONE SOCIALE

 

INTEGRAZIONE SOCIALE

Nelle scienze umane il termine i. risulta piuttosto articolato nei suoi significati esplicativi e problematico nel campo strettamente pedagogico ed educativo. Dal punto di vista della sociologia l’i. in generale si oppone ai concetti di dispersione,​​ ​​ devianza, anomia, disfunzione, emarginazione,​​ ​​ conflitto, disgregazione, differenziazione.

1. Il processo integrativo è spesso studiato tenendo conto della prospettiva dell’equilibrio sociale più o meno stabile. Quando lo stato di equilibrio appare compromesso si interviene con analisi causali intese a ristabilire le condizioni normali di vita, vale a dire condizioni socialmente riconosciute come adatte e legalmente accettate per la convivenza pacifica. La tensione all’equilibrio non si esaurisce nel ritorno a stati di stabilità sociale, ma anche, secondo le tesi del conflitto sociale costruttivo, nell’instaurazione di una nuova compattezza. I sociologi studiano i processi e i gradi di i. di un sistema sociale. Secondo l’analisi socio-antropologica, norme, valori, cultura, costumi, ed anche le istituzioni come la scuola, condizionano, favoriscono / ritardano il processo di i. In psicologia si hanno definizioni parallele con riferimento esplicito alla unificazione delle parti scomposte in un tutto di ordine superiore, dove regna l’armonia e dove l’ideale trova la sua espressione massima.

2. L’uso corrente del termine i. può essere interpretato come richiesta di superamento della frammentarietà di un sociale vissuto sempre più come carente di rapporti comunitari significativi. Non c’è conflitto tra le generazioni, ma c’è isolamento delle esperienze su cui non vi è riflessione comune. Assistiamo a due effetti socio-psicologici opposti che hanno ripercussioni notevoli nel campo della pedagogia: infatti, si accettano contemporaneamente le teorie dell’i., che mirano alla stabilità e quelle che, sostenendo la legittimità del diverso, non del deviante, tendono a far convivere varie etnie in uno stato di rispetto della pluralità culturale. La scuola in quanto istituzione che educa e socializza tende all’i., all’inserimento del diverso, ma la pedagogia come area di riflessione teorica sull’uomo e per l’uomo guarda in modo critico ad ogni forma di i.s., culturale, psicologica richiamandosi alla ricchezza di ogni persona che deve essere lasciata libera di crescere e che va scoperta nella sua ricchezza individuale. L’​​ ​​ educazione interculturale è la risposta teorica e pratica della pedagogia alla presenza degli appartenenti a culture altre, come immigrati e rifugiati, nella realtà sociale e scolastica italiana.

Bibliografia

Alberoni F.,​​ Contributo allo studio dell’i.s. dell’immigrato,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1960; Sergi N. - F. Carchedi (Edd.),​​ L’immigrazione straniera in​​ Italia. Il tempo dell’i.,​​ Roma, Ediz. Lavoro / Iscos, 1991; Chistolini S. (Ed.),​​ Educazione interculturale. La formazione degli immigrati in Italia,​​ Gran Bretagna,​​ Germania,​​ Roma, Euroma-La Goliardica, 1992; Demetrio D. - G. Favaro,​​ Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini,​​ adulti,​​ comunità nel percorso di i., Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992; Ferrucci F.,​​ Disabilità e politiche sociali, Milano, Angeli, 2005.

S. Chistolini




INTELLIGENZA

 

INTELLIGENZA

L’amplissimo uso del termine i. rende il suo significato molto incerto e sfumato. Anche il campo di ricerca sull’i. è estremamente vasto e complesso con il sovrapporsi di livelli di studio, di punti di vista teorici e di cambiamenti storici. La diversità di opinioni fa pensare che difficilmente sia possibile fornire una definizione autonoma di i. Il concetto è connotato in maniera diversa al variare della fascia d’età (adulti / bambini), dei gruppi (insegnanti / scolari) e del periodo storico (inizio / fine sec.).

1.​​ Le teorie biologiche sull’i.​​ L’approccio biologico all’i. si è sviluppato in due grandi gruppi di teorie. All’interno del primo gruppo alcune teorie si sono impegnate nello studio della localizzazione cerebrale delle funzioni, cioè al problema del controllo dell’attività psichica da parte di zone diverse del cervello. Ad es. la teoria di Luria attribuisce la funzione ideativo-progettuale per programmare, regolare e verificare l’attività mentale al lobo frontale (parte anteriore del telencefalo), la funzione sensoriale per analizzare e recepire informazioni al lobo temporale, parietale e occipitale, la funzione attiva per la regolazione del tono e della veglia alle altre parti del cervello. Altre teorie, invece, si sono dedicate ad analizzare l’apporto specializzato di ciascuno dei due emisferi all’attività mentale in toto. Così si è scoperto che l’emisfero sinistro manifesta funzioni di tipo analitico e logico, mentre quello destro funzioni di tipo più olistico ed espressivo (teorie del doppio emisfero).​​ Altre, applicando sofisticate metodologie di studio (misurazione elettroencefalografica dei potenziali evocati, risonanza magnetica, analisi del flusso ematico, rilevazione dell’emissione di positroni), hanno tentato di approfondire la comprensione della relazione tra attività mentale e cervello attraverso l’esame dei correlati elettrici delle funzioni cerebrali (teorie fondate sull’attività cerebrale).

2.​​ Teorie psicologiche dell’i.​​ Le teorie psicologiche dell’i. si caratterizzano per il fatto che invertono il rapporto di questa con il fondamento biologico. Esse hanno visto due sviluppi:​​ le teorie psicometriche​​ e​​ le teorie cognitiviste.​​ Le prime si sono mosse per alcuni decenni nel tentativo di fornire​​ una mappa geografica delle​​ ​​ abilità​​ e di misurare l’i. Vanno sotto il nome di teorie psicometriche le teorie differenziali che cercano di individuare le varie abilità dell’i, attraverso lo studio delle differenze individuali. Esse, utilizzando soprattutto l’analisi fattoriale, hanno proposto non solo diverse abilità fondamentali dell’i., ma anche diverse organizzazioni all’interno di queste. Tra gli autori si possono ricordare anzitutto​​ ​​ Galton e​​ ​​ Binet: questi, pur continuando nella linea della ricerca previsionale dei risultati scolastici, spostò l’osservazione del comportamento intelligente dai processi percettivi e sensoriali ai processi cognitivi complessi: attenzione, comprensione, immaginazione, ecc. Goddard tradusse negli Stati Uniti i test di Binet, provocandone una grande diffusione oltre le intenzioni. La ricerca sull’i. ebbe un nuovo e forte sviluppo con l’apporto dello psicologo inglese​​ ​​ Spearman. A lui va il merito di aver introdotto l’analisi fattoriale nella ricerca sull’i.​​ ​​ Guilford ha proposto un modello di i. (SOI) costituito da 120 fattori in una versione e da 150 in una successiva. Le abilità fattoriali possono essere raccolte in tre tipi di categorie (contenuti, prodotti e processi) e visualizzate su un cubo. Altri autori hanno proposto invece​​ modelli di i. gerarchicamente strutturati.​​ Essi appartengono a due distinte correnti: una inglese e una americana. Fanno parte della prima​​ ​​ Burt e Vernon, della seconda J. M. Caltell. A partire dalla fine degli anni ’60 si sono sviluppate teorie volte a spiegare le differenze individuali di i. come differenze procedurali (teorie cognitiviste).​​ Questa linea della ricerca successivamente si è suddivisa in vari orientamenti che differiscono fra loro sul piano soprattutto metodologico e quindi teorico. Si parla di teorie della​​ correlazione dei processi​​ e di teorie delle​​ componenti fondamentali.​​ Nell’indagine sull’i. le prime hanno cercato di correlare compiti semplici che nella ricerca cognitivista erano stati oggetto di attenta analisi (richiamo, rotazione mentale di immagini) e test utilizzati per la misurazione dell’i. Le seconde si sono orientate verso l’approccio diretto tentando di isolare i processi mentali che avvengono in una prestazione richiesta da un test. Possono essere considerate cognitiviste anche tutte le teorie che ricorrono all’analogia con il computer per descrivere e simulare attività cognitive (teorie dell’i. artificiale come approccio all’i.).

3.​​ Teorie contestuali.​​ Un altro approccio, che affonda le sue radici nella teoria evoluzionista e nell’antropologia culturale del sec. scorso, ha provato a comprendere l’i. a partire da un’indagine che cercasse di scindere la componente genetica dalla componente ambientale. L’argomento, così genericamente definito, si è precisato in due ambiti di ricerca. Da una parte si è cercato di scoprire le limitazioni imposte dall’ereditarietà sul potenziale intellettivo dell’individuo e i mutamenti prodotti dalle condizioni ambientali (teorie sull’ereditarietà dell’i.).​​ Dall’altra si è voluto capire se l’i. sia culturalmente segnata fino al punto da doversi parlare di i. diverse a seconda delle diversità culturali oppure se vi siano elementi universali ed altri culturali (teorie sulle differenze culturali d’i.).​​ Le due posizioni oggi sono meno distanti di un tempo. Si riconosce infatti l’importanza e la pervasività di tutte e due le dimensioni sulle differenze individuali di i.

4.​​ Le teorie interattive dei sistemi.​​ Alle teorie dell’i. che accentuano il ruolo dei processi cognitivi e contestuale, si oppongono le teorie che rimarcano la caratteristica dell’interazione tra le due dimensioni (teorie interazioniste).​​ All’interno di queste possono essere collocate la teoria dell’i. multipla di H. Gardner e quella tripolare di R. J. Sternberg. Secondo il primo, l’i. non è un costrutto o un’entità unitaria, bensì un insieme di sette costrutti intellettivi (da cui i. multiple). Si parla di i. linguistica, i. logica matematica, i. spaziale, i. musicale, i. fisico-motoria, i. interpersonale, i. intrapersonale. R. J.​​ Sternberg, in particolare, descrive l’i. come una struttura in interazione con il contesto secondo tre diverse modalità: adattamento all’ambiente, adattamento dell’ambiente a se stesso, selezione di un nuovo contesto quando questo non si adatta alla mente. I livelli di novità o di automaticità sono elementi caratteristici di un’i. che, nel suo interagire con l’ambiente, utilizza tre componenti di elaborazione cognitiva: processi metacomponenziali, processi di acquisizione e processi di prestazione.

5.​​ Le teorie dello sviluppo.​​ Da ultimo si segnalano le​​ teorie dello sviluppo dell’i.​​ In questa prospettiva che attraversa tutte le teorie precedenti, si rilevano due orientamenti diversi: sociali e psicologico-cognitivisti. Le teorie sociali sottolineano l’incidenza dell’apporto esterno allo sviluppo dell’i. (cfr.​​ ​​ Vygotskij e Feuerstein). Nelle teorie psicologico-cognitiviste si distinguono due / tre approcci: cognitivista computazionale, neo-piagetiano e post-formalista. Il primo, applicando la metafora computazionale allo sviluppo, vede l’i. come uno sviluppo di processi, conoscenze dichiarative e processi di autocontrollo metacognitivo. Il secondo riprende aspetti piagetiani integrandoli con prospettive della scienza cognitiva. Il terzo studia lo sviluppo dell’i. oltre i limiti del pensiero logico formale a cui si era fermato​​ ​​ Piaget. Le teorie della i. hanno avuto grande incidenza sulle pratiche educative. In particolare l’approccio post-formalista risulta molto interessante per l’educazione degli​​ ​​ adulti e per iniziative di​​ ​​ educazione permanente.

Bibliografia

Sternberg R.​​ J. et al.,​​ People’s conceptions of​​ intelligence,​​ in «Journal​​ of Personality and​​ Social​​ Psychology»​​ 41 (1981) 37-55;​​ Sternberg R. J. - D. K. Detterman,​​ What is intelligence? Contemporary viewpoints on its nature and definition,​​ Norwood, Ablex,​​ 1986;​​ Fodor J.​​ A.,​​ La mente modulare,​​ Bologna, Il Mulino, 1988;​​ Sternberg R. J.,​​ Metaphors of mind. Conceptions of nature of intelligence,​​ Cambridge, Cambridge University Press,​​ 1990;​​ Id.,​​ Thinking and problem solving,​​ San Diego, Academic Press,​​ 1994;​​ Neisser U.​​ et al.,​​ Intelligence: knowns and unknowns,​​ in «American Psychologist»​​ 51 (1996) 77-101.

M. Comoglio




INTELLIGENZA ARTIFICIALE

 

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

L’i.a. è una disciplina teorico-pratica nella quale operano sia scienziati che filosofi. Nel suo aspetto squisitamente informatico, essa comprende la teoria e le tecniche per lo sviluppo di algoritmi che consentano alle macchine (tipicamente ai calcolatori) di mostrare un’abilità e / o attività intelligente, almeno in domini specifici. L’i.a. viene definita come la capacità del computer di eseguire compiti comunemente associati con i processi intellettuali propri dell’uomo quali il ragionamento, la scoperta dei significati, la generalizzazione e l’apprendimento dall’esperienza fatta (​​ intelligenza). Il termine è anche usato per parlare del ramo della scienza informatica che si occupa dello sviluppo di sistemi dotati di queste capacità. In campo pedagogico-didattico l’interesse per l’i.a. è legato ai Sistemi Esperti realizzati per l’apprendimento di campi di conoscenza con l’assistenza di un tutore elettronico facente parte del sistema.

1.​​ La storia dell’i.a.​​ Le ricerche sull’i.a. sono iniziate subito dopo lo sviluppo del computer negli anni ’40. I primi ricercatori hanno capito che era possibile far eseguire al computer l’automatizzazione dei processi del pensiero e con il passare degli anni fu dimostrato come il computer potesse essere programmato per eseguire compiti logicamente molto complessi come la soluzione di problemi, la dimostrazione di teoremi e il gioco degli scacchi. Negli anni ’60 le ricerche sull’i.a. pongono l’accento sulla rappresentazione della conoscenza. Dal 1972 al 1982 circa, il gruppo di Roger Schank, all’Università di Yale, ha prodotto numerosi programmi di simulazione della comprensione umana del linguaggio. L’i.a. nell’ultimo decennio tratta dell’individuazione dei modelli (corretta descrizione del problema da risolvere) e degli algoritmi (procedura effettiva per risolvere il modello).

2.​​ I campi dell’i.a.​​ Sono stati fatti progressi nello sviluppo di programmi che abilitano il computer a capire comandi nel linguaggio naturale e lo rendono capace di tradurre. L’abilità di identificare forme grafiche o immagini è associata anch’essa all’i.a. perché implica sia impegno cognitivo che astrazione. Anche la robotica è governata dall’i.a. tramite l’abilità di riconoscimento di modelli. L’applicazione dell’i.a. nella scuola e nella formazione è un campo di notevole interesse.

3.​​ Le applicazioni pedagogico-didattiche dell’i.a.​​ I Sistemi Esperti sono forse il maggior successo dell’i.a. e si prospetta che in futuro avranno una vastissima applicazione. Sono formati da una notevole base di dati che è la raccolta della conoscenza di persone esperte in un dato campo; da un’interfaccia amichevole che permette allo studente di specificare il problema da risolvere e di chiarificarlo man mano che il sistema pone domande. Il Sistema Esperto, dopo un certo numero di interazioni con lo studente, se ne fa un modello e gli propone i problemi da risolvere e le informazioni in modo adeguato alle sue conoscenze e al suo modo di ragionare.

Bibliografia

Russell S. J. - P. Norvig,​​ Artificial Intelligence: a modern approach, Upper Saddle River (NJ), Pearson Education,​​ 22003;​​ Negnevitsky M.,​​ Artificial Intelligence: a guide to intelligent systems, Harlow (England), Addison Wesley, 2005.

C. Cangià




INTELLIGENZA EMOTIVA

 

INTELLIGENZA EMOTIVA​​ 

Il costrutto di i.e. deriva dai precedenti concetti di i. sociale e i. personale. Nel delineare la sua teoria dell’i. multiple, Gardner (1983) descrisse due forme di i. personale: l’i. intrapersonale, che è la capacità di accedere alla propria vita affettiva, e l’i. interpersonale, che è la capacità di leggere gli stati d’animo, le intenzioni e i desideri degli altri.

1. Queste abilità fondamentali dell’i. personale sono centrali nel costrutto di i.e., che Salovey e Mayer (1990) definirono originariamente come «la capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni». Questa definizione implica l’idea che il sistema affettivo funziona in parte come sistema di elaborazione delle informazioni e delle percezioni. Salovey e Mayer affermarono infatti che i processi sottostanti l’i.e. vengono attivati quando l’informazione affettiva entra per prima nel sistema percettivo. Le emozioni in questo senso non solo non disturbano l’efficace approccio razionale alla risoluzione dei problemi, ma al contrario forniscono importanti conoscenze sulla relazione della persona con il mondo esterno. Possedere questa «sensibilità» consente di affrontare il quotidiano in modo più efficace. Essere emotivamente intelligenti quindi, aiuta a gestire al meglio la vita privata, il lavoro e più in generale i rapporti con gli altri. L’i.e. non è determinata geneticamente ma si apprende e può essere migliorata nel corso di tutta la vita. L’i.e. si può sviluppare attraverso un adeguato allenamento, diretto soprattutto a cogliere le emozioni e i sentimenti, propri e altrui. Oltre alla consapevolezza e all’apprezzamento dei propri sentimenti soggettivi, l’i.e. comprende la percezione e la considerazione dei comportamenti emotivi non-verbali, le sensazioni corporee evocate dall’attivazione emozionale. Vi sono però differenze individuali nella capacità delle persone di elaborare ed usare tali informazioni. Mayer e Salovey (2000) hanno sottolineato in maniera più decisa «la capacità di pensare sui sentimenti». Individui con elevati livelli di i.e. riescono facilmente ad identificare e descrivere i sentimenti in sé stessi e negli altri, a regolare efficacemente gli stati di attivazione emozionale in sé stessi e negli altri.

2. A partire dal 1995 D. Goleman ha reso popolare il concetto di i.e. descrivendola come un insieme di capacità: motivare sé stessi, persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare. D. Goleman (1999) ha enfatizzato soprattutto le differenze individuali degli aspetti psicologici e funzionali delle emozioni. Uno dei limiti di Goleman è costituito dal fatto che la sua rassegna scientifica, pur essendo piuttosto corposa, è confinata prevalentemente alle ricerche in ambito neuropsicologico e sociale, mentre trascura il vasto contributo delle scienze cognitive e comportamentali. Vengono infatti lasciati in un secondo piano gli importantissimi contributi di autori quali Bandura, Seligman, Lazarus e vengono completamente ignorati gli studi di A. Beck ed A. Ellis sui processi cognitivi e sul rapporto tra pensiero ed emozioni. Un altro limite riscontrato nella divulgazione che Goleman ha elaborato del concetto di i.e. sta nel fatto che non ne ha dato una chiara definizione mentre ha fatto solo una descrizione delle strategie atte a potenziarla. Tale mancanza di dettagli ha favorito il proliferare di programmi di formazione e «crescita personale» dove si trovano mescolati vari approcci che utilizzano l’etichetta di «i.e.», ma che sono ben lontani da ciò che P. Salovey e J. D. Mayer intendevano con tale espressione.

3. Le abilità che compongono l’i.e. sono indicate dai diversi autori con terminologie differenti. Il costrutto di Peter Salovey e John Mayer si articola in 16 abilità, raggruppabili in 4 categorie: percezione, valutazione ed espressione delle emozioni; uso delle emozioni per facilitare il pensiero; comprensione e analisi delle emozioni; regolazione consapevole delle emozioni per promuovere la crescita personale. Goleman distingue due principali categorie: le competenze personali, riferite alla capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale e le competenze sociali, relative alla maniera con cui comprendiamo gli altri e ci rapportiamo positivamente con essi.​​ Entrambe sono caratterizzate da abilità specifiche.

Bibliografia

Gardner​​ H.,​​ Frames of mind: The theory of multiple intelligences, New York, Basic, 1983; Salovey P. - J. D. Mayer,​​ Emotional intelligence, in «Imagination, Cognition and Personality» (1990) 9, 185-211; Goleman​​ D.,​​ Emotional intelligence: why it can matter more than IQ, New York, Bantam Books, 1995; Id.,​​ Working with emotional intelligence, London, Bloomsbury, 1998; Mayer J. D. - P. Salovey - D. R. Caruso, «Models of emotional intelligence», in R. J. Sternberg​​ (Ed.),​​ Handbook of intelligence, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, 396-420; Goleman D.,​​ Social intelligence: the new science of social relationships,​​ New York, Bantam Books, 2006 (trad. it.:​​ I. sociale, Milano, BUR, 2007); Waterhouse L.,​​ Multiple intelligences,​​ the Mozart effect,​​ and emotional intelligence: a critical review, in «Educational Psychologist» 41 (2006) 207-225.

A. La Marca