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INTERAZIONISMO SIMBOLICO

 

INTERAZIONISMO SIMBOLICO

L’i.s. è uno degli approcci più utilizzati per l’interpretazione del processo di​​ ​​ socializzazione.

1.​​ Storia e sviluppo della teoria.​​ La teoria dell’i.s. ritrova le sue​​ origini​​ nel pensiero di alcuni Autori a cavallo del XX sec. come James (1890) e Cooley (1902). L’interesse si sviluppò notevolmente tra il 1920 e il 1950 per l’apporto di G. H. Mead (1934), H. Blumer, H. Gerth e C. W. Mills (1953). Diminuì invece tra gli anni ’50 e ’60 per riprendere poi nell’ultimo ventennio con Thomas (1966), Goffman (1969), Meltzer (1967 e 1973), Blasi (1972), Stryker (1985), Reynolds (1990).

2.​​ Postulati e principi teorici.​​ Tre sono le premesse essenziali che stanno alla base della teoria: a) Gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose sulla base dei significati che tali cose hanno per loro. b) Il significato di tali cose deriva dall’i. sociale che ognuno ha con gli altri: l’importanza del fattore relazionale è tale che la concezione che gli altri hanno del soggetto influisce sulla sua stessa autopercezione (gli «altri significativi»). c) Questi significati sono elaborati e trasformati in un processo simbolico e interpretativo messo in atto dalla persona nell’affrontare le situazioni della vita. Su questi postulati si fondano dei​​ principi-guida:​​ a)​​ La personalità dell’individuo​​ si forma attraverso un processo in cui l’Io è il soggetto e il «me» (self) ne può costituire l’oggetto. Il «self» è l’individuo stesso in quanto è oggetto di autopercezione. Esso si sviluppa attraverso un continuo confronto di stimoli esterni e che l’«io» filtra e interpreta sulla base di immagini e di significati che egli viene costruendosi sulla realtà. b)​​ La realtà esterna​​ è costituita sostanzialmente da due elementi complementari: l’«altro generalizzato»​​ e​​ «l’altro significativo».​​ L’«altro generalizzato»​​ è interpretato come l’insieme delle attese della comunità (attese di ruolo) nei confronti del soggetto (Mead), o come Superego (​​ Freud), o come l’uditorio interno con cui l’individuo interagisce (Gerth e Mills). Esso è memoria, personificazione interiore di tratti della società. L’«altro significativo»​​ è l’adulto che riveste una particolare importanza e funzione nei confronti dell’Io. Sulla base di queste relazioni ne rinforza l’identità e riveste una particolare rilevanza nell’orientare o condizionare il comportamento dell’individuo. I fattori che ne condizionano la significatività sono l’immagine che il soggetto ha di sé, la posizione sociale, l’età, il sesso, l’attaccamento, la stima, l’affinità percepita, l’autorità esercitata, le risorse a disposizione, il grado di intimità. c) L’Io quindi agisce sulla base delle​​ rappresentazioni simboliche​​ della realtà e delle «definizioni delle situazioni» elaborate. Ciò è espresso dal postulato di W. I. Thomas: «Se gli uomini definiscono delle situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». d)​​ Il processo è interattivo​​ perché l’attività individuale è possibile solo con l’appartenenza ad una comunità significante, per cui possiamo attribuire lo stesso significato agli stessi segni. Alla teoria si rimprovera il rischio di lasciare fuori dal suo ambito interpretativo gli aspetti oggettivi e strutturali della società.

Bibliografia

Blumer H.,​​ Symbolic interactionism,​​ Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1969; Meltzer N. - J. W. Petras - L. T. Reynolds,​​ L’i.s.,​​ Milano, Angeli, 1980; Ciacci M. (Ed.),​​ I.s., Bologna, Il Mulino, 1983; Wallace A. R. - A. Wolf,​​ La teoria sociologica contemporanea,​​ Ibid., 1995; Goffman E.,​​ Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, Einaudi, 2003; Perrotta R.,​​ Cronici,​​ specchi e maschere. I.s. e comunicazione, Bologna, CLUEB, 2005; Blumer H.,​​ La metodologia dell’i.s., Roma, Armando, 2006; Goffman E.,​​ Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Torino, Einaudi, 2006.

R. Mion




INTERDISCIPLINARITÀ

 

INTERDISCIPLINARITÀ

Il termine i. è relativamente recente; non si sono ancora stabilizzate né la sua dizione e ortografia (alcuni infatti scrivono e dicono «interdisciplinarietà») né il suo contenuto semantico. Oltre che di i., oggi, si parla anche di multidisciplinarità o pluridisciplinarità e di transdisciplinarità, ma anche in questo caso non si è concordi nel definire le reciproche differenze.

1.​​ Chiarificazione dei termini.​​ Riteniamo anzitutto che l’i. vada distinta dalla multidisciplinarità o pluridisciplinarità. Esiste un fenomeno assai comune nell’ambito della ricerca scientifica, che consiste nell’utilizzazione funzionale di una scienza da parte di un’altra. La prima (scienza principale) si serve, per una migliore conoscenza del suo oggetto, delle competenze (metodi e risultati) dell’altra scienza (scienza ausiliaria), senza tuttavia che si arrivi ad un vero dialogo e a una reciproca collaborazione tra esse. Questo fenomeno, detto anche comunicazione unidirezionale tra scienze, nella logica aristotelica assumeva il nome di​​ subalternazione.​​ Oggi, quando alcuni parlano di​​ multidisciplinarità​​ (o pluridisciplinarità), sembra proprio che intendano questo tipo di rapporto. La multidisciplinarità, così intesa, per noi, non è ancora i., anche se può diventarne la premessa. Dall’i. distinguiamo anche la​​ transdisciplinarità,​​ però solo nel senso che la consideriamo come un suo possibile e auspicabile punto di arrivo. L’i. si verifica quando, tra due o più scienze, si ha non solo la semplice utilizzazione delle competenze di una di esse (cioè la multidisciplinarità), ma anche un vero dialogo o scambio reciproco di informazioni tra scienze differenti. Questo comporta la messa a confronto delle loro ottiche diverse, lo sforzo di mutua integrazione fra queste, la consapevolezza della parzialità dei risultati di ciascuna e nello stesso tempo della loro indispensabilità nella comprensione di un problema o di una realtà complessa, in breve, quella che si potrebbe definire un’effettiva collaborazione «interdisciplinare». La collaborazione interdisciplinare, che può avvenire anche tra scienze di ambiti differenti, quando ha successo, può arrivare a produrre costrutti transdisciplinari, nel senso che riesce a produrre metodi di ricerca, concetti e modelli di realtà, proficuamente utilizzabili da più scienze, ciascuna, però, nell’ambito del suo oggetto specifico e col suo metodo. Naturalmente sia l’i. che la transdisciplinarità trovano la loro giustificazione solo all’interno di una teoria epistemologica (​​ epistemologia pedagogica).

2.​​ L’i. nell’ambito della pedagogia.​​ In campo pedagogico-didattico l’i. fu di moda negli anni Settanta-Ottanta; però il modo di intenderla non fu sempre corretto, soprattutto quando la si contrapponeva alla disciplinarità. L’esigenza dell’i. è sentita da quei pedagogisti, i quali, ritenendo necessario ricorrere ad una molteplicità di discipline scientifiche per una conoscenza adeguata della realtà educativa e per la costruzione di programmazioni pedagogiche e didattiche, preferiscono parlare di​​ ​​ scienze dell’educazione invece che di​​ ​​ pedagogia. Il mondo dell’educazione, infatti, si presenta così complesso da esigere di essere studiato da una pluralità di scienze. Ognuna di esse lo affronta da un angolo di visuale diverso da quello delle altre, utilizzando un metodo di ricerca, un modello conoscitivo e un linguaggio tecnico propri. Però nessuna di esse è in grado, da sola, di offrire una soluzione globale dei problemi teorici e pratici dell’educazione; d’altra parte i contributi specifici di ciascuna sono indispensabili al fine di evitare pericolose unilateralità sia a livello teorico che pratico. Quindi l’i. e la transdisciplinarità tra le scienze dell’educazione diventa una necessità, anche se poi la loro realizzazione concreta presenta notevoli difficoltà e richiede previamente che si realizzino determinate condizioni.

3.​​ Condizioni per il dialogo interdisciplinare in funzione della collaborazione transdisciplinare tra le scienze dell’educazione.​​ È necessaria anzitutto, da parte dei due o più​​ partner​​ del dialogo, l’accettazione leale dell’approccio multidisciplinare alla realtà educativa. Inoltre, si deve tener sempre presente che il dialogo interdisciplinare non avviene sul piano astratto dei vari tipi di scienza in quanto tali, ma su quello concreto delle loro realizzazioni storiche, cioè fra teorie di discipline appartenenti a scienze differenti, e che ciascuna di queste teorie è, per sua natura, sempre soggetta a processi di falsificazione. In terzo luogo è necessario che i rappresentanti delle differenti scienze dell’educazione, oltre a conoscere bene il linguaggio scientifico della propria specialità, devono poter comprendere in modo sufficiente anche quello dell’altra o delle altre con cui entrano in rapporto interdisciplinare. Infine si richiede che ciascuna delle scienze dell’educazione definisca chiaramente l’oggetto e il metodo specifici della sua indagine sul campo comune dell’educazione, fornendo i risultati o le informazioni che è riuscita ad ottenere. Il campo comune di tutte le scienze dell’educazione è la vita umana nella sua realtà esistenziale, visto come un tutto unitario, durante i suoi processi di crescita verso la maturazione, mediante quel complesso di attività e istituzioni che chiamiamo educazione. Ognuna delle scienze dell’educazione lo considera da un suo angolo di visuale, cioè secondo quel modello di realtà predefinito in base agli strumenti metodologici che essa ritiene di poter utilizzare. Però perché il dialogo tra le scienze dell’educazione passi dal piano della comunicazione a quello dell’effettiva collaborazione, occorre un’ulteriore condizione: la creazione di costrutti mentali i quali, oltre ad essere propri e specifici di una di esse, possano essere contemporaneamente accettati e utilizzati anche dall’altra o dalle altre. Questi costrutti mentali sono «transdisciplinari», perché conservano la loro valenza semantica e la loro forza dimostrativa in due o più scienze differenti, però in modo diverso in ciascuna. Se le scienze dell’educazione riuscissero a elaborare tali costrutti, allora il dialogo si trasformerebbe in vera collaborazione su problemi di interesse comune, avente come scopo la costruzione di sintesi pedagogiche, unitarie, frutto dei contributi di scienze diverse ma tutte interessate alla soluzione dei problemi educativi. Sembra che la teoria epistemologica delle «tradizioni di ricerca» di L. Laudan, ipotizzando la possibilità che gruppi di teorie appartenenti a scienze diverse abbiano in comune un’ontologia e una metodologia di ricerca, costituisca un valido fondamento epistemologico sia dell’i. che della transdisciplinarità. Il problema si complica maggiormente nel caso della​​ ​​ pedagogia cristiana, dove deve attuarsi un dialogo interdisciplinare tra scienze dell’educazione e​​ ​​ teologia dell’educazione. Approcci intrinsecamente e subito transdisciplinari, come la fenomenologia e l’ermeneutica, sono stati invocati e adoperati per superare la specializzazione disciplinare e i suoi limiti, specie dopo gli anni ’80. Peraltro la necessità dell’i. trova oggi una ragione in più a fronte dell’accresciuta complessificazione dell’esistenza che fa parlare di «inter-problematicità».

Bibliografia

Antiseri D.,​​ I fondamenti epistemologici del lavoro interdisciplinare,​​ Roma, Armando, 1972; Schilling H.,​​ Teologia e scienze dell’educazione. Problemi epistemologici,​​ Ibid., 1974; Laudan L.,​​ Il processo scientifico. Prospettive per una teoria,​​ Ibid., 1979; Groppo G., «Teologia e scienze umane: dalla conflittualità al dialogo», in D. Valentini (Ed.),​​ La teologia. Aspetti innovativi,​​ Roma, LAS, 1989, 53-78; Agazzi E.,​​ Cultura scientifica e i.,​​ Brescia, La Scuola, 1994;​​ Torres Santomé J.,​​ Globalización e interdisciplinariedad: el curriculum integral, Madrid, Morata,​​ 42000.

G. Groppo




INTERESSE

 

INTERESSE

L’i. si colloca nell’area della​​ ​​ motivazione di cui è l’espressione culminante. Nella sua componente affettiva, viene inteso come una reazione positiva dell’individuo ad oggetti e a situazioni di piacevolezza reale o supposta. La componente cognitiva rappresenta il contenuto dell’i., che può essere generico o specifico; il primo si riferisce alle aree di i. (sociale, religiosa, artistica, sportiva); il secondo ad una situazione specifica (lettura, pesca, recita). Le due componenti sono dosate in modo differente in rapporto ad oggetti e situazioni e condizionano la stabilità e l’intensità dell’i.

1. L’i. è radicato nel bisogno, che esprime la carenza dell’organismo che induce il soggetto a ridurre il bisogno allo scopo di raggiungere l’equilibrio fisiologico o psichico e quindi uno stato di benessere. La carenza può essere di natura fisiologica o psicologica e quindi produce un bisogno fisiologico o psichico. I due tipi di bisogni sono disposti in una struttura gerarchica che va dai bisogni fisiologici e culmina con quei spirituali. La spinta dell’organismo alla riduzione del bisogno è generica e può essere soddisfatta in vari modi. Il soggetto, in contatto con l’ambiente, polarizzerà le sue scelte su un determinato oggetto (ad es. il genere di bibita) oppure su una determinata situazione (ad es. la lettura) e attraverso ripetute scelte trasformerà la generica spinta in i. Gli i. sono affini ad altri costrutti motivazionali come preferenze e valori e a causa di questa base motivazionale comune non è facile separarli nettamente. I teorici sono in grado soltanto di stabilire la loro successione, come già indicato prima, partendo dai bisogni, proseguendo con gli i. e approdando ai valori. Infatti Savickas (1999), seguendo Donald Super vede nei valori all’apice della struttura gerarchica dei tre costrutti motivazionali in quanto questi ultimi esprimono il significato dell’esistenza umana.

2. Considerata la forza motivante dell’i.​​ ​​ Decroly ha pensato di fondare l’apprendimento su di esso; ha infatti proposto di organizzare le attività scolastiche intorno a «centri di i.» e basare contenuti e metodi sui «veri bisogni» degli alunni. Le sue proposte hanno avuto una grande eco nell’educazione e l’attenzione degli insegnanti si è spostata dalla materia all’alunno. Passato il periodo di Decroly, l’i. nell’apprendimento scolastico è stato assimilato alla motivazione allo studio nella sua duplice componente intrinseca ed estrinseca con il cosiddetto approccio profondo e superficiale, corrispondente alla motivazione intrinseca (apprendere contenuti di studio per la crescita e soddisfazione personale) ed estrinseca (studiare puramente per vantaggi sociali come lode e premio). In pratica tutti i questionari sull’apprendimento includono le scale che rilevano i due tipi di motivazione.

3. L’i. ha avuto anche una vasta applicazione nello sviluppo e nella scelta professionale per cui gli i. generali si possono trasformare in i. professionali; in questo ambito essi assumono la denominazione dalle aree professionali (i. scientifici, tecnici, amministrativi). Sprini e collaboratori (2005) hanno tracciato la storia degli strumenti destinati a rilevare gli i. professionali dal loro uso in Italia (dagli anni ’50 in poi). L’opera segna un valido contributo all’affermarsi di tali strumenti (questionari e inventari) nel contesto italiano. L’indicazione su quali strumenti conviene adottare attualmente nell’orientamento è offerta da Boncori (2006) nel suo aggiornato manuale. I dati ottenuti da tali strumenti contribuiscono alla comprensione dello sviluppo professionale dei giovani nell’ambito di alcune teorie della scelta professionale (​​ orientamento). Essi infatti guidano la scelta e contribuiscono alla stabilità nel corso o nell’attività lavorativa oltre che alla soddisfazione professionale (Dawis, 1991). Quando negli anni ’50 si sono diffusi i questionari per «misurare» gli i. è sorto il problema del rapporto tra gli i. espressi (verbalmente) e quelli misurati. Gli i. misurati sono stati considerati «profondi» in quanto manifestavano una struttura motivazionale stabile, mentre gli i. espressi avevano una struttura più fluida e malleabile. Il rapporto fra i due tipi tuttora non è chiaro (Spokane e Decker, 1999), ma attualmente nell’esame di un progetto professionale vengono presi in considerazione entrambi. Particolarmente Holland ha assunto i due tipi di i. nel suo​​ Self-Directed Search​​ con «Sogni ad occhi aperti» (Holland, Powell e Fritzsche, 2003). In sintesi, Savickas (1999) coglie molto bene il significato degli i. notando che essi lanciano un ponte tra la persona e l’ambiente per creare un rapporto vitale tra le due «sponde». Il rapporto tra la persona e l’ambiente (lavorativo) si manifesta nelle attività che soddisfano i bisogni, realizzano i valori, stimolano lo sviluppo, potenziano l’adattamento contestuale e realizzano l’identità della medesima persona. L’interazione tra la persona e l’ambiente professionale nella teoria della scelta professionale di Holland è stata presente dall’inizio della sua elaborazione.

Bibliografia

Dawis R. V.,​​ «Vocational interests, values, and preferences»,​​ in M. D. Dunnette - L. M. Eough (Edd.),​​ Handbook of industrial and organizational psychology,​​ vol. 2, Palo Alto, Consulting Psychologists Press,21991; Savickas M. L. - A. R. Spokane (Edd.),​​ Vocational interests: Meaning,​​ measurement,​​ and counseling use,​​ Palo Alto, Davies-Black, 1999; Savickas M. L., «The psychology of interests», in Ibid., 19-56; Spokane A. R. - A. R. Decker, «Expressed and measured interests», in Ibid., 211-233; Holland J. L. - A. B. Powell - B. A. Fritzsche,​​ SDS Self-directed search,​​ Firenze, O.S.,​​ 2003; Sprini G. et al.​​ (Edd.),​​ Gli i. e la loro misurazione, Milano, Angeli, 2005; Boncori L.,​​ I test in psicologia: Fondamenti teorici e applicazioni,​​ Bologna, Il Mulino, 2006.

K. Poláček




INTERIORITÀ

 

INTERIORITÀ

Il termine i. viene per lo più inteso nel senso di ciò che è «dentro» l’uomo, la vita spirituale, la​​ ​​ coscienza, la convinzione personale, l’autenticità, in contrapposizione alla vita esteriore dell’individuo nei suoi rapporti sociali con gli altri.

1. La nozione, già propria di​​ ​​ Socrate, di​​ ​​ Platone e dello stoicismo, divenne fondamentale nel​​ ​​ cristianesimo con s.​​ ​​ Agostino, il quale affermò che l’uomo ha dentro di sé la sua più profonda verità:​​ «in interiore homine habitat veritas»​​ (De vera religione,​​ 39, 72). L’uomo interiore coincide per s. Agostino con l’homo spiritualis,​​ perché per il suo spirito è veramente ad immagine di Dio e aderisce alla Verità​​ «nulla interposita persona»​​ (quaest.​​ 51, 4). Con quest’espressione, che ha le sue radici nella Scrittura, s’intende​​ il principio dell’i. – l’homo interior –, che s. Agostino ha intuito in se stesso e ha poi formulato mirabilmente nei suoi scritti, dalle​​ Confessioni​​ alla​​ Città di Dio.​​ In essi si sottolinea la centralità del cuore come luogo intimo della persona, il punto in cui convergono tutte le sue potenze e da cui si dipartono tutte le attività (cfr., tra l’altro,​​ Epist.​​ 147). Il cuore in questo modo è il concetto più sintetico per designare la persona nella sua i. e aprirsi allo spirito di vita di Dio (cfr.​​ Le Confessioni​​ X, 6-8).

2. All’educazione interessa il concetto di i. È lì che l’uomo trova la capacità di rientrare dentro di sé, di andare al di là delle realtà che vede, di comprendere il senso delle azioni che compie e di esprimere la propria identità con libertà senza sottostare alla schiavitù dei giudizi e apprezzamenti della società. Prima di estrinsecarsi nelle sue azioni l’uomo vale per le sue decisioni interiori: egli è profondamente ciò che nella sua i. vuole, odia ed ama. Gli eventi umani non sono se non la proiezione materiale e temporale delle decisioni interiori dell’uomo. L’i. è dunque una chiave fondamentale dell’esistenza umana e una dimensione centrale dell’educazione. Essa, a un livello d’i. più superficiale, condurrà la persona in formazione ad avere un effettivo dominio e libertà sia su quanto le sopraggiunge dall’esterno e possiede un’esistenza indipendente dalla conoscenza che essa ne può avere, sia su quanto tocca la sua coscienza psicologica (idee, sentimenti, ecc.). L’educazione aiuterà la persona a prendere distanza riguardo ad entrambi, a sentirsi libera interiormente, a relativizzarli e a superarli con piena​​ ​​ autonomia, nonostante la forza dei sentimenti e delle emozioni. Ognuno porta in sé, nel suo intimo più profondo, fin dall’inizio del suo esistere, un germe di positività,​​ «l’uomo nascosto nell’intimo del cuore»​​ (1 Pt 3,4). Questo seme (ossia l’io ideale)​​ è ciò che l’uomo nel suo interno vuole e ama. Un’autentica educazione non può assolutamente prescindere da questo seme, che indica la direzione del cammino formativo da seguire. Proprio per questo ha grande valore nell’educazione il principio di s. Agostino:​​ «noli foras ire»​​ (De vera religione,​​ 39, 72). Tutto questo richiede una stretta collaborazione tra spiritualità e pedagogia per la cura e lo sviluppo dei sensi interiori, sui quali la tradizione cristiana ha offerto in ogni epoca un notevole apporto.

3. Il pericolo più insidioso è il soggettivismo radicale, cioè la coscienza che tende a diventare individualista, prendendo i propri sentimenti ed emozioni come misura delle proprie azioni senza nessuna legittimazione oggettiva. Oggi diventa quindi importante e irrinunciabile dedicare una particolare attenzione alla formazione della coscienza personale e un’educazione all’i., fondata sul senso della propria libertà e sulla attenzione rispettosa (seppure non senza confronto e diritto di reciprocità) dell’alterità delle cose, del tempo, degli ideali, della cultura, della società, delle istituzioni, degli altri, di Dio.

Bibliografia

Alessi A.,​​ Filosofia della religione,​​ Roma, LAS, 1991; Agostino,​​ Le Confessioni.​​ Introduzione e commento di H. U. von Balthasar, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1993; Martini C. M.,​​ Cambiare il cuore,​​ Milano, Bompiani, 1993; Goya B.,​​ Psicologia e vita spirituale. Sinfonia a due mani, Bologna, EDB, 1999; Bianchi E.,​​ Lessico della vita interiore. Le parole della spiritualità, Milano, BUR, 2004.

V. Gambino




INTERIORIZZAZIONE

 

INTERIORIZZAZIONE

Il termine i. si riferisce al processo attraverso cui si acquisiscono dall’esterno sistemi di convinzioni, norme,​​ ​​ valori, atteggiamenti, e modelli di comportamento, assorbendoli e integrandoli progressivamente nella propria struttura di personalità. In tal modo il soggetto trasforma la regolazione esterna del proprio agire ad opera degli agenti di socializzazione, in autoregolazione ed autocontrollo, per cui egli si adegua alle norme e alle richieste della società non per pressioni esterne dirette o anticipate (es. attesa della ricompensa, paura della punizione) ma perché è convinto intimamente della validità dei valori a cui ispira la sua condotta.

1. La​​ ​​ psicologia evolutiva pone particolare attenzione al processo di i. e al costrutto della coscienza ad esso collegato, al fine di comprendere i dinamismi attraverso cui la persona impara ad autogovernarsi. In proposito i diversi approcci teorici (cognitivo-evolutivo, psicanalitico, dell’apprendimento sociale) hanno posizioni differenti sul ruolo più o meno attivo che la persona ha nella dialettica con l’ambiente sociale; essi, comunque, individuano in genere nell’identificazione uno dei meccanismi centrali dell’i. (Arto, 1984, cap. 3). Dagli anni ’90 in poi, grazie anche alle ricerche che hanno evidenziato il ruolo attivo del bambino fin dalle sue prime esperienze relazionali, si è affermata una concezione di i. non più intesa come un processo unidirezionale di trasmissione intergenerazionale ad opera degli agenti di socializzazione, ma come un processo bidirezionale, transazionale di reciproco cambiamento, in cui il bambino, interpretando, valutando, accettando o meno le influenze ricevute, è considerato co-costruttore delle linee guida della condotta (Killen - Smetana, 2006).

2. L’i. riguarda, dunque, quelle forme di regolazione dell’agire, che all’inizio dipendono da controlli estrinseci, e che la persona fa proprie man mano che comprende (e nella misura in cui comprende) quali condotte vengono rinforzate, o meno, e impara ad anticipare le conseguenze delle sue azioni. A partire dal controllo esterno, si può individuare nel processo d’i. un’evoluzione verso l’autonomia nel regolare il proprio agire: la persona, infatti, si autoregola dapprima limitandosi ad introiettare, cioè a rappresentarsi internamente, i moniti degli educatori, poi facendo propria la condotta dei modelli con cui si identifica, ed infine integrando pienamente ciò con cui si è identificata, dando cioè un significato ed un valore personale alla regolazione del suo agire (Deci - Ryan, 2004).

3. Per promuovere tale evoluzione nell’i., è importante che nell’ambiente educativo sia presente una guida autorevole, grazie alla quale l’educando possa imparare ad assumersi la responsabilità del proprio agire comprendendo il senso dei limiti e delle richieste con cui inevitabilmente deve fare i conti e sentendosi sostenuto emotivamente nelle frustrazioni sperimentate, invece di sentirsi oppresso e umiliato da un controllo autoritario, o sentirsi disorientato in un contesto antiautoritario e permissivo che non gli offre una struttura di riferimento per orientarsi nella crescita (Franta, 1988). Risulta, dunque, fondamentale favorire un clima relazionale positivo in cui l’educando venga sia incoraggiato ad essere autonomo e a partecipare alle decisioni da prendere, sia aiutato a comprendere e a riflettere sul danno che può arrecare agli altri una sua eventuale azione antisociale.

Bibliografia

Arto A.,​​ Crescita e maturazione morale,​​ Roma, LAS, 1984; Franta H.,​​ Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa,​​ Ibid., 1988; Deci E. L. - R. M. Ryan (Edd.)​​ Handbook of​​ self-determination​​ research, Rochester, N. Y., University of Rochester Press,​​ 22004; Killen M. - J. Smetana (Edd.),​​ Handbook of moral development, Mahwah, N. J., Lawrence Erlbaum Associates, 2006.

C. Messana




INTERVENTO EDUCATIVO

 

INTERVENTO EDUCATIVO

È l’«entrar dentro» una situazione formativa problematica, l’«operare mediando tra» i fattori in gioco dell’atto educativo, coinvolgendosi intenzionalmente e in modo competente, allo scopo di liberare il potenziale vitale umano del o dei partner educativi, sviluppando o ricuperando qualità di vita, promuovendo ruoli e sostenendo l’inserimento attivo, responsabile e solidale nella realtà esistenziale, favorendo condizioni di libertà e di felicità.

1. L’i.e. è risposta ad una domanda che proviene da ogni persona, specie da chi è in condizione e in età evolutiva, ma in genere da tutti coloro che sono variamente bisognosi di aiuto per divenire, crescere, maturare, migliorare, vivere e affrontare umanamente i problemi che sempre si affacciano sulla scena dell’esistenza individuale e comunitaria. Più particolarmente la domanda di i.e. viene dalle famiglie, dalle società, dai gruppi sociali, dallo Stato, dalle chiese, come specificazione della loro responsabilità educativa. Al limite si può dire che l’i.e. è richiesto da ogni problema umano sociale, politico, economico, culturale che contiene, come istanza «appellante», un momento trasversale di educazione.

2. La coscienza e il bisogno di i.e. sono certamente oggi molto sentiti in corrispondenza alle novità, complessità e difficoltà dell’esistenza contemporanea. Ma non è senza senso la questione se al bisogno e al dovere corrisponda la volontà, la competenza, l’azione effettiva. C’è chi arriva a chiedersi: «educare si deve, ma si può?». In effetti le difficoltà relazionali in genere e quelli della coppia genitoriale in particolare, la tenuta del menage familiare, il clima di insicurezza e di incertezza generalizzata, rendono non facile e caricano di angoscia il​​ ​​ rapporto educativo, sballottandolo spesso tra permissivismo e ossessività di presenza, tra paure e rigidità, tra concessioni e richieste di prestazioni eccessive, tra un lasciar fare schivante e un autoritarismo immotivato.

3. Per conto suo, l’i.e., in quanto azione umana, si realizza nei limiti di molte scelte e loro condizioni. In tal senso, il primo lavoro per operare pedagogicamente nel campo educativo è la lettura analitica dei termini effettivi della domanda, raccogliendovi i dati di necessità, risorsa, condizione. Questo aspetto dell’i.e. spazia attraverso l’indagine conoscitiva e valutativa dei sistemi di personalità (struttura e dinamica, situazione generale e evolutiva, storia personale), di socialità e cultura, di politica (condizioni di potere, di legislazione e legittimità, di progetto e sostegno o di impedimento e direttiva), di educazione (formale, non formale, informale) che si intendono mettere in atto. L’i.e. non può limitarsi ad assumere passivamente la​​ ​​ domanda educativa nella condizione primitiva spontanea, ma deve compiere un’azione previa e continua di educazione della stessa domanda, per aiutarla a formarsi interiormente, a formularsi ed esprimersi, liberandola dall’immaturità e dalla rozzezza, dall’emergenza simbolica o magari deviata, ma anche da filtri ingiusti connessi a stati di incoscienza, di rimozione, di confusione dei problemi, per procedere verso una domanda esplicita, matura, impegnata e magari progressiva.

4.​​ Determinazione dell’i.e.​​ La presenza nei processi di i.e. di variabili di varia natura spiega la compresenza di molte diverse pedagogie. Le precomprensioni sono di natura personale (temperamento e carattere, cultura e competenza), metapedagogica (assiomatica, filosofica, teologica, scientifica, tecnologica, sociopolitica), pedagogica (ideali, prospettive, metodologie, strategie) attuate operando i processi di intervento, di progettazione, di azione, di verifica. Tali precomprensioni si riverberano nell’i.e. in atto. Nella tradizione pedagogica si distingue un​​ i.e. diretto​​ da quello che opera sui contesti o tramite altre mediazioni (i.e. indiretto); un​​ i.e.​​ di tipo negativo,​​ che si limita ad impedire che qualcosa o qualcuno turbi il libero e spontaneo agire dell’educando) o all’opposto un​​ i.e. positivo​​ (che agisce rafforzando o stimolando l’educando con premi, castighi, ammonizioni, incoraggiamenti o altri tipi di rinforzo (​​ non direttività). Rispetto poi agli effetti che si intendono perseguire, si pensa ad​​ i. preventivi​​ o invece ad​​ i.e. di recupero​​ o addirittura​​ terapeutici, quando si ha da curare devianze, effetti perversi, mali che sono andati a pesare sulla vicenda formativa degli educandi (​​ prevenzione, recupero).

Bibliografia

Coombs A. H.,​​ The world educational crisis,​​ London, The Oxford University Press, 1968; Dalle Fratte G., «I riferimenti assiologici», in Id.​​ (Ed.),​​ Teoria e metodo in pedagogia,​​ Roma, Armando, 1986, 121-125; Brezinka W.,​​ L’educazione in una società disorientata,​​ Ibid., 1989; Gianola P.,​​ Una pedagogia tra sfide e controsfide,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 173-187; Angelini G.,​​ Educare si deve,​​ ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002; Baldacci M.,​​ Personalizzazione o individualizzazione?, Trento, Erickson, 2006.

P. Gianola




IPERATTIVITÀ

 

IPERATTIVITÀ

Disturbo dell’​​ ​​ apprendimento caratterizzato da impulsività, difficoltà di attenzione (sindrome da deficit attentivi), alto livello di attività motoria (sindrome ipercinetica). In genere è associato ad alcuni, o molti, di questi altri sintomi: mancanza di coerenza, emotività, scarso coordinamento viso-motorio,​​ ​​ discalculia,​​ ​​ dislessia, deficit di memoria.

1. È difficile stabilire cause precise dell’i. Molto spesso si tratta solo di costituzione fisica particolarmente vitale ed esuberante alla quale è stata associata un’influenza negativa derivante da reazioni familiari inadeguate o, più comunemente, presenti nel contesto scolastico. Altre volte, nei casi più difficili e complessi, possono essere coinvolte cause biologiche e / o psicologiche. Poca fortuna ha oggi l’attribuzione di tali comportamenti a minimo danno cerebrale, cioè a minima lesione o mal funzionamento cerebrale non registrabile da strumenti diagnostici.

2. Nel tempo hanno avuto rilievo vari tipi di trattamento: farmacologico, cognitivo, cognitivo-comportamentale, comportamentale, didattico. Nel primo caso vengono utilizzati farmaci particolari che tendono a ridurre soprattutto l’impulsività e l’instabilità motoria. Non sempre si hanno risultati validi e spesso si hanno effetti negativi dal punto di vista attributivo, cioè si insinua la convinzione che solo per mezzo di questi farmaci è possibile controllare il proprio comportamento (dipendenza). I metodi cognitivi, all’opposto, suggeriscono lo sviluppo di forme di autocontrollo mediante l’interiorizzazione di istruzioni appropriate. Sono state anche sviluppate metodologie basate sulla modificazione del comportamento tramite opportuni programmi di rinforzo. I metodi didattici, spesso definiti anche metodi diagnostico-prescrittivi, valorizzano l’uso di esercizi progressivi di rilassamento, di sviluppo della capacità di attenzione e di concentrazione, di capacità di controllo dell’impulsività e del coordinamento motorio sulla base di una diagnosi accurata delle caratteristiche personali e di un programma individualizzato di interventi. Oggi la tendenza più diffusa considera la sindrome della difficoltà di attenzione e i. come derivante da cause multidimensionali e di conseguenza anche i metodi di intervento tendono ad assumere analoga impostazione. Occorre anche segnalare l’importanza di una diagnosi seria, soprattutto nei casi più difficili, e quella della collaborazione tra le varie istituzioni educative (scuola, famiglia, consultori, ecc.).

Bibliografia

Ross D. M. - S. A. Ross,​​ Hyperactivity,​​ current issues,​​ research,​​ and theory,​​ New York, Wiley,​​ 21982; Valett R. E.,​​ Il​​ bambino iperattivo a scuola,​​ Roma, Armando, 1983; Kirby E. A. - L. K. Grimley,​​ Disturbi dell’attenzione e i., Trento, Erickson, 1989; Cornoldi C. (Ed.),​​ I disturbi dell’apprendimento,​​ Bologna, Il Mulino, 1991; Cornoldi C.,​​ Le difficoltà di apprendimento a scuola, Ibid., 1999; Marzocchi G. M.,​​ Il bambino con i. e disattenzione,​​ Ibid., 2003; Cimbelli P. - M. Bertelli,​​ DDAI: Bambini difficili.​​ Un approccio multidimensionale alle difficoltà di attenzione e i., Firenze, Zenit, 2007.

M. Pellerey




IPERTESTI

 

IPERTESTI

La tecnologia ipertestuale / ipermediale si è definita subito (alla prestigiosa conferenza tenutasi nell’Università del North Carolina, Chapel Hill, nel 1987) come una tecnologia per l’arricchimento di un ambiente didattico o autodidattico. Ha le caratteristiche di mettere il controllo nelle mani dell’utente e di offrire una grande quantità di informazioni a cui è possibile accedere rapidamente attraverso connessioni logiche. Legati a tanta offerta di i. ci sono però i problemi del sovraccarico cognitivo e del perdersi nell’iperspazio,​​ per cui è necessario porsi interrogativi sull’architettura del documento ipertestuale, sulle possibilità di​​ navigazione​​ offerte e, in generale, sull’usabilità del prodotto.

1.​​ Definizione e struttura degli i.​​ L’i., definito già da T. Nelson come scrittura non sequenziale (Nelson, 1974), è descritto da Conklin come​​ «medium​​ per pensare e comunicare basato sul computer» (Conklin, 1987, 32), da Marchionini come «rappresentazione elettronica del testo che si avvantaggia delle capacità di accesso casuale che ha il computer per superare il mezzo strettamente sequenziale della stampa su carta». Nell’ambito del rapporto utente-computer l’i. viene visto come rispondente all’esigenza di favorire nettamente il controllo del primo sul secondo. Nella definizione dell’i. intervengono gli elementi: base di dati, metodologia di programmazione che offre attività relazionali sofisticate in un insieme di dati, non-linearità / non-sequenzialità, tridimensionalità (nel senso che l’informazione può essere percorsa avanti, indietro e in profondità visualizzando, a comando, testi al momento invisibili ma connessi al testo in primo piano), dinamicità e assenza di schema. La struttura dell’i. e dell’ipermedia (un i. arricchito di immagini fisse, di immagini in movimento, di grafici e del suono) ha due elementi fondamentali: i nodi e i legami (link).​​ È possibile suddividere le informazioni segmentandole in modo tale che ad ogni concetto corrisponda una serie di altri concetti, anche se, per non affaticare il lettore, di solito vengono forniti dei «pezzi» d’informazione (chunks)​​ significativamente consistenti. I​​ link,​​ simili agli archi nei grafi orientati, si possono definire come strumenti di trasporto da un nodo ad un altro dell’i.; essi legano dei punti-sorgente a punti-destinazione e, in questo caso, sono legami referenziali, oppure vanno a formare un grafo ad albero nel quale da un nodo-genitore si accede a nodi-figli percorrendo una rigida gerarchia stabilita dall’autore dell’i. Il valore principale del​​ link​​ sta nella sua connettività e la vera portata di un’applicazione ipertestuale è espressa dalla topologia o organizzazione della rete determinata dai​​ link.​​ In molti casi l’organizzazione può essere relativamente semplice: una foresta di gerarchie (dette alberi) sono sporadiche connessioni trasversali.

2.​​ Il quadro di riferimento teorico degli i.​​ La necessità di teorizzazioni e quadri di riferimento convincenti è stata sentita fin dall’inizio dell’applicazione della tecnologia ipertestuale alla didattica. Jonassen (1989) propone un quadro di riferimento che si richiama alla teoria dello schema, più precisamente, al modello delle «reti strutturali attive» di Quillian e agli schemi di apprendimento e di rappresentazione della memoria di Norman, Gentner e Stevens e ai principi dell’istruzione «a rete» (web learning)​​ che offrono la base concettuale per la teoria dell’istruzione cosiddetta «dell’elaborazione». Secondo Jonassen, l’applicazione dei principi dell’insegnamento-apprendimento a rete va un passo più in là permettendo di far combaciare la struttura a rete del campo di conoscenza con la rete semantica del soggetto che apprende.

3.​​ Il potenziale educativo degli i.​​ La tecnologia ipertestuale permette, in primo luogo, di personalizzare il processo di acquisizione della conoscenza facendo interagire gli utenti con le nuove informazioni nel modo per loro più significativo e venendo poi incontro all’esigenza degli stessi di controllare, con il contenuto, anche il processo dell’apprendimento. Le applicazioni didattiche coprono tutti i campi della conoscenza: dallo studio delle lingue antiche, materne e moderne alle scienze biologiche e fisiche e alla geografia.

4.​​ Gli i. alla base di Internet. http è l’acronimo di​​ Hypertext Transfer Protocol, o protocollo di trasferimento di un i., usato come principale sistema per la trasmissione di informazioni e dati sul web. In pratica, quando da un testo viene attivato un collegamento ad un altro testo, caratteristica tipica dell’i., interviene questo particolare protocollo che gestisce i vari collegamenti attivati. Si parla anche di collegamento ipertestuale interno ad un sito quando si indirizzano parole di un documento a parti del medesimo. In generale si seleziona con il mouse la parola sottolineata dal​​ tag​​ di rimando o collegamento. Il grandioso i. che è Internet può costituire un pericolo maggiore di entropia cognitiva e di perdita nell’iperspazio.

5.​​ Applicazioni attuali degli i.​​ La possibilità di essere connessi sia con piccole reti sia con Internet permette di attivare scambi, in tempo reale, su ricerche in via di realizzazione e di navigare in maniera ipertestuale nel ciberspazio. Ciò ha consentito lezioni in ambienti di teledidattica, con la trasmissione di materiali testuali arricchiti da immagini, da suoni e da filmati. Oggi l’i. diventa significativamente più ricco grazie a tecnologie quali il​​ podcasting, sistema che permette di scaricare in modo automatico documenti utilizzando un​​ feeder.

Bibliografia

Nelson T.H.,​​ Computer lib / dream machines,​​ South Bend, The Distributors, 1974; Conklin J.,​​ Hypertext: an introduction and survey,​​ in «IREE Computer» 20 (1987) 20-62; Jonassen D. H. - H. Mandl (Edd.),​​ Designing hypermedia for learning,​​ Heidelberg, Springer, 1990; Chakrabarti S.,​​ Mining the Web: discovering knowledge from hypertext data, Amsterdam, Morgan-Kaufmann Publishers (ora Elsevier), 2000; Bromme R. - E. Stahl,​​ Writing hypertext and learning, New York, Pergamon / Elsevier Science, 2002; Modiano R. - L. F. Searle - P. L. Shillingsburg (Edd.),​​ Voice,​​ text,​​ hypertext: emerging practices in textual studies, Seattle, University of Washington Press, 2004; Landow G. P.,​​ Hypertext 3.0: critical theory and new media in an era of globalization, Baltimore, John Hopkins UP, 2006.

C. Cangià




ISIDORO DI SIVIGLIA

 

ISIDORO DI SIVIGLIA

n. a Cartagena nel 562? - m. nel 636 a Siviglia, erudito, arcivescovo di Siviglia.

1. Attraverso le sue opere ed i suoi discepoli svolge un grande lavoro nella restaurazione culturale e spirituale della sua epoca, che darà luogo al cosiddetto «rinascimento isidoriano». Dopo le invasioni nordiche I. continua a trascrivere nel suo​​ scriptorium​​ di Siviglia buona parte degli umanisti classici, quelli dell’antichità cristiana, e i testi propedeutici elaborati per l’insegnamento da dotti e compilatori dell’epoca ellenistica. Nell’insieme monumentale delle sue opere raccoglie, classifica e ricolloca nell’universo isidoriano gli autori dell’antichità, avvalendosi di un metodo di lavoro​​ etimologico.​​ Ricerca gli elementi più semplici del sapere nella composizione-scomposizione delle parole; lavora sull’origine, le differenze, le antinomie, le omonimie, il significato. Salva così per i posteri il linguaggio scritto e orale, elemento di base di ogni cultura. Nell’apporto pedagogico di I. si evidenziano, soprattutto, le​​ Sentenze​​ o​​ Etimologie,​​ che rappresentano il primo tentativo di sistematizzazione del dogma e della morale cattolici. Nei XX libri delle​​ Origini​​ o​​ Etimologie,​​ I. riorganizza​​ enciclopedicamente​​ il sapere del suo tempo. I primi quattro libri sono dedicati al​​ trivium​​ e al​​ quadrivium,​​ una sintesi delle​​ ​​ arti liberali che avrà fortuna nelle scuole dell’alto​​ ​​ Medioevo.

2. Il contributo pedagogico di I. oltrepassa però i limiti dell’enciclopedia. Partendo dalla concezione cristiana, indica il fine dell’educazione in una teologia della salvezza. La formazione umana deve dare senso a tutte le​​ conoscenze,​​ che il processo educativo orienterà verso la​​ ​​ virtù. Questa, a sua volta, tende alla​​ ​​ saggezza cristiana. I doveri del saggio sono quelli di apprendere ed insegnare. Il​​ ​​ maestro, come dirà il IV Concilio di Toledo (633) presieduto dallo stesso I., sarà dotto, virtuoso, capace di adattarsi ad ogni tipo di intelligenza. Con le sue opere, I. realizza «una​​ praelectio​​ monumentale, una isagoge, un portico che consentirà l’ingresso prima alla rinascita carolingia e poi ai tre secoli seguenti» (P. Riché).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ San I. de Sevilla. Etimologías. Introducción de M ª C. Diez Diez, Madrid, BAC, 2000. b)​​ Studi:​​ Riché P.,​​ Éducation et culture dans l’Occident barbare, Paris, Seuil,​​ 31962; Fontaine J.,​​ San I. de Sevilla. Génesis y originalidad de la cultura hispánica en tiempos de los visigodos,​​ Madrid,​​ Encuentro, 2002; Arce Martínez J.,​​ San I.,​​ Doctor Hispaniae, Sevilla, Fundación El Monte, 2002.

Á. Galino - Á. del Valle




ISLAMISMO

 

ISLAMISMO

Il termine (dall’arabo​​ islàm, sottomissione e abbandono a Dio) designa comunemente la fede (imān) e la religione (dīn) monoteista basata sulla predicazione di Maometto, considerato dai musulmani l’ultimo e definitivo profeta inviato da Dio (in arabo​​ Allāh).

1.​​ L’importanza del sapere religioso.​​ Un numero impressionante di versi coranici sottolinea la suprema importanza del sapere (‘ilm)​​ e la grande considerazione di Dio, nel senso di «sapere rivelato» (cfr. C 96,1-5; 58,11). Le raccolte canoniche delle tradizioni (hadith)​​ assegnano una posizione di prestigio a coloro che esaltano l’‘ilm.​​ Secondo alcune tradizioni, è dovere di ogni musulmano, uomo o donna, vecchio o giovane, acquisire il sapere: «La ricerca del sapere è obbligatoria per ogni musulmano» (Muhammad Ali,​​ A manual of hadith,​​ London, 1983, 39). L’individuo che ha familiarità con il «sapere rivelato» (‘alim)​​ è rispettato nell’Islam, e trasmettere tale sapere è una nobile occupazione. È risaputo che sin dalle origini la civiltà islamica ha dato notevoli contributi ai vari filoni dell’erudizione.

2.​​ Luoghi ed istituzioni.​​ Gli studi religiosi​​ ​​ incentrati intorno al Corano​​ ​​ furono portati avanti sia all’interno che intorno alla moschea, sede delle cinque preghiere liturgiche giornaliere. Qui si insegnava a recitare, leggere e scrivere il Corano, e anche i comandi rivelati e la dottrina della fede. Comparvero degli specialisti religiosi, gli Ulema, per recitare il Corano e imparare a memoria le Tradizioni. In breve tempo, quando dall’essenza di queste due fonti fondamentali fu ricavata la​​ sharî ‘a​​ (legge), gli Ulema divennero uomini le cui attività si focalizzavano sull’applicazione della legge e l’insegnamento delle capacità necessarie per farlo. Con il trascorrere del tempo, le moschee della congregazione (Jami’ masjid)​​ nelle cittadine e città più grandi divennero centri con un programma di studi più diversificato e complesso. La scuola coranica (maktab)​​ è l’istituzione ed il luogo in cui i bambini di quattro o cinque anni di età imparano a leggere e scrivere. Scopo principale di tale conoscenza è permettere al credente di leggere e recitare perlomeno alcune parti del Corano in modo corretto, un elemento essenziale del culto islamico, e rendere edotti sugli elementi di base e direttamente pertinenti alla legge religiosa. L’insegnante, tradizionalmente, era pagato ad intervalli, quando gli studenti progredivano nell’apprendimento del Corano. Dato che i moderni sistemi scolastici hanno sostituito oggi quello tradizionale, la scuola coranica è diventata un’istituzione in larga misura pre-scolastica o parallela a livello educativo per i bambini più piccoli. Un​​ madrasa​​ («un luogo dove studiare») è una scuola tradizionale di studi superiori, che presuppone la preparazione del​​ maktab.​​ Il​​ madrasa​​ in origine era più una residenza che un luogo separato di studi, dato che l’istruzione veniva impartita nella moschea stessa, con gli studenti seduti intorno al maestro. I​​ madrasa-s,​​ nel senso di scuole o​​ college​​ separati istituzionalmente, presero avvio in molte parti del mondo musulmano nell’XI sec., quando le autorità secolari lottarono per ottenere il controllo sulle istituzioni religiose. Tra i più famosi vi erano i madrasa «Nizamiyya» fondati dal visir Nizam al-Mulk (morto nel 1092) in Iraq e Persia, e l’Università al-Azhar fondata come scuola della moschea al Cairo nel 972, che sarebbe ben presto diventata il centro più famoso ed influente a livello mondiale della cultura musulmana. Persino questi​​ madrasa-s,​​ separati a livello di istituzione, erano comunque ospitati per lo più nei locali di una moschea. Anche nei conventi sufi (khanqah; tekke)​​ vi era molto spesso un​​ madrasa.​​ In vaste parti del mondo musulmano tradizionale, infatti, lo studio del Corano, delle tradizioni e della legge andavano di pari passo con l’iniziazione al cammino sufi di avvicinamento a Dio nella pratica (tariqa)​​ e nel pensiero (ma’rifa).​​ C’erano inoltre molte persone istruite che impartivano lezioni in uno o due filoni del sapere nelle loro case o nelle case di nobili. In molti stati musulmani medievali, i​​ madrasa-s​​ erano interamente finanziati dallo stato tramite concessione di terre e sotto forma di salari regolarmente pagati al corpo insegnante. Comunque, nella maggior parte dei casi, tanto allora quanto oggi, essi erano mantenuti dal sostegno pubblico, spesso sotto forma di donazioni pie (awqaf),​​ che comprendevano possedimenti di vario tipo che producevano rendite, ma anche sotto forma di denaro contante, abiti, attrezzature, ecc. che venivano offerti regolarmente e periodicamente. I​​ matktab-s​​ e i​​ madrasa-s​​ sono sempre stati aperti a tutti. Il sapere religioso nelle società islamiche non è mai stato prerogativa solo delle classi più elevate o di alcune famiglie: gli Ulema persino oggi continuano ad appartenere ad uno spaccato della società, più in particolare la classe dei piccoli uomini d’affari, degli artigiani e di quelle professioni con redditi più bassi. Grazie alle borse di studio e ad uno stile di vita molto semplice, l’istruzione del​​ madrasa​​ è accessibile ai figli della gente comune.

3.​​ Metodi.​​ Per quanto riguarda i metodi di trasmissione del sapere, non si nota una differenza tra i livelli elementare ed avanzato. Le materie che erano insegnate nei​​ madrasa-s​​ consistevano nel commento al Corano, nella tradizione e nella legge islamica (per es.​​ manqul:​​ le scienze trasmesse), ma anche nella filosofia, medicina, scienze naturali, lingue e musica (per es.​​ ma’qul:​​ le scienze razionali). Fino a non molto tempo fa gli studenti sedevano in cerchio intorno al proprio insegnante, che leggeva loro ad alta voce e spiegava un testo scritto dagli insegnanti stessi, oppure commentava il testo di un autore precedente. Di norma gli studenti non dovevano prendere appunti durante la lezione. Una volta imparato a memoria il materiale spiegato, essi ottenevano dall’insegnante una licenza (ijaza)​​ che li autorizzava a trasmettere ciò che avevano appreso ad altri. Occorre sottolineare il carattere orale di questo metodo di trasmissione del sapere: ancora nel XX sec. il sapere acquisito unicamente sulla base di testi scritti, era considerato inaffidabile. L’insegnante e le opere studiate contavano più del nome dell’istituzione e del contenuto in quanto tale, tant’è vero che esisteva la consuetudine di viaggiare da un insegnante all’altro. Come indica un manuale pedagogico del XIII sec.: «Riconosci che (il tuo maestro) è padre della tua anima e causa della sua creazione e essenza della sua vita, così come il tuo genitore è padre del tuo corpo e della sua esistenza» (cit. in F. Robinson,​​ Atlas of the Islamic World since 1500,​​ 34). I​​ madrasa-s​​ si rivelarono un modello per le università europee. Dai​​ madrasa-s​​ di Fatimid in Egitto, ad es., si diffusero delle tradizioni come quella di indossare le toghe nere da​​ college​​ e la divisione in facoltà pre- e post-laurea. I testi del passato non menzionano praticamente alcun insegnante di sesso femminile; alcune donne, specialmente di nobile retaggio, acquisirono un’istruzione islamica di alto livello, ma solo in tempi più recenti vennero fondati dei​​ madrasa-s​​ per ragazze, soprattutto nel sud e sud-est asiatico.

4.​​ Situazione contemporanea.​​ L’istruzione istituzionalizzata dei​​ madrasa-s,​​ come si ritrova nella maggior parte del mondo musulmano di oggi, sembrerebbe aver perso molto di quel tipo di qualità personale dell’insegnamento che nel passato incoraggiava la ricerca individuale. Ciò che praticamente non è cambiato è la tendenza conservatrice insita nel sistema dei​​ madrasa-s.​​ Compito dell’educazione dei​​ madrasa-s​​ dovrebbe essere quello di indicare la via in una formula definitiva, che lo studente deve tentare di mantenere «pura» fino all’Ultimo Giorno, di trasmetterla ed interpretarla. Si imparano così molte enunciazioni fisse a memoria, senza la necessità di comprenderle e l’enfasi è posta più sull’imparare come le cose dovrebbero essere alla luce della rivelazione che sul riflettere criticamente sugli eventi passati e futuri ed imparare da essi. La premura di conservare ciò che potrebbe andare perduto ha molta più importanza del tentativo di scoprire quali aspetti della verità sono ancora nascosti. Agli studenti «sono insegnate materie che non hanno praticamente alcun peso sulla loro vita quotidiana, perché sono apparentemente preparati ed addestrati per diffondere il «messaggio divino» in una società moderna e cosmopolita senza i moderni strumenti del sapere» (Mushirul Haq,​​ Islam in Secular India,​​ Simla, 1972, 40). L’esistenza di​​ madrasa-s​​ privati ha creato una dicotomia nel sistema scolastico: da una parte ci sono le istituzioni secolari moderne,​​ college​​ ed università, dove i figli e le figlie dell’élite possono permettersi un’istruzione moderna, dall’altra ci sono i​​ madrasa-s​​ gestiti privatamente che attraggono i figli delle classi inferiori oppresse. Molti comitati e conferenze sono stati organizzati da vari governi per aiutare a migliorare questi​​ madrasa-s​​ ed integrarli nel più ampio sistema scolastico nazionale. Ma il divario tra l’istruzione secolare e l’insegnamento teologico si è continuamente allargato. Il sistema dei​​ madrasa-s​​ è intimamente collegato al problema dell’identità della comunità musulmana. Come sistema integrato e globale, l’Islam ha una propria concezione della storia, della società, dell’economia e della cultura, una visione che è stata forzatamente propugnata dagli Ulema e dai loro​​ madrasa-s.​​ Ciò spiega la lotta tra i modernisti progressisti che vogliono reinterpretare, ricostruire e ridefinire i principi dell’Islam ed i conservatori Ulema, il prodotto di questi​​ madrasa-s,​​ che tenacemente si aggrappano ai modelli tradizionalisti di vario tipo a spese di una rielaborazione creativa della società musulmana e del pensiero religioso islamico nel mondo contemporaneo.

Bibliografia

Moreno M. M.,​​ L’I. e l’educazione,​​ Milano, Istituto Editoriale Galileo, 1951; Ritton A. S.,​​ Materials on Muslim education in the Middle Ages,​​ London, Luzac, 1957; Eickelmann D.,​​ The art of memory: Islamic knowledge and its social reproduction,​​ in «Comparative Studies in Society and History» 20 (1978) 485-516; Al-Attas M. Al-Naquib,​​ Aims and objectives of Islamic education,​​ Jeddah, King Abdulaziz University, 1979; Makdisi G.,​​ The rise of colleges,​​ Edinburgh, University Press, 1981; Rahman F.,​​ Islam and modernity. Transformation of an intellectual tradition,​​ Chicago / London, University of Chicago Press, 1982; Robinson F.,​​ Atlas of the Islamic world since 1500,​​ Oxford, Phaidon, 1982; Schreiner P. et al.,​​ Le cinque grandi religioni del mondo.​​ Induismo,​​ Buddismo,​​ I.,​​ Cristianesimo, Brescia, La Scuola, 2002.

C. W. Troll