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GIOCO

 

GIOCO

Tutti gli studiosi sono concordi nell’attribuire al g. un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’uomo, in quanto porta a far emergere le sue peculiari qualità potenziali: correre, saltare, lanciare, mettere alla prova il proprio corpo di fronte ad ostacoli di varia natura sono caratteristiche spontanee e naturali che appartengono all’«homo ludens». È questo il motivo per cui l’attività ludica è stata da sempre considerata una componente fondamentale del processo evolutivo che va dall’infanzia all’età adulta, quale veicolo di particolari valori portanti come la gratuità, la libertà di espressione, la creatività, la gioia, la festa, la vitalità, l’apprendimento polivalente, la cooperazione. Dal canto suo Huizinga definisce il g. un’attività libera, volontaria e del tutto gratuita, compiuta entro certi limiti di tempo e di spazio, seguendo regole liberamente accettate, provvista di un fine in sé e accompagnata da un sentimento di tensione e di gioia. Al g. spesso si accompagna e / o ne è una indispensabile componente il giocattolo, fin dall’antichità considerato nelle sue multiformi versioni creative, tutte comunque accomunate da un unico principio, funzionale allo sviluppo delle facoltà creative, immaginative ed intellettuali del soggetto ludico; semmai la messa in discussione di tale principio afferisce alla sua perfettibilità (per​​ ​​ Montessori deve avere una struttura perfezionata) o meno (per​​ ​​ Dewey deve rimanere allo stato grezzo).

1.​​ Le teorie sul g.​​ Fin dall’antichità filosofia e pedagogia e, più recentemente, psicologia, sociologia e antropologia si sono interessate di volta in volta al g. cercando di rispondere, ognuna dal proprio punto di vista, a due principali quesiti: che cosa è il g., perché l’«homo ludens» gioca.​​ ​​ Platone ed​​ ​​ Aristotele avevano attribuito al g. la funzione di «esercizio» che prepara alla vita, ma è soprattutto all’inizio di questo sec. che sono nate varie teorie sul g. Per K. Gross il g. è un pre-esercizio di attività future, serve cioè ad esercitare le più importanti abilità e funzioni necessarie per un buon adattamento dell’individuo all’ambiente. D. W.​​ ​​ Winnicott ha contribuito con varie opere allo studio del g. sui bambini ricostruendone lo scenario motivazionale sotteso: egli sostiene che il g. più che un’attività distinta dalle altre è una dimensione propria di qualsiasi attività umana in quanto creativa. L. E. Peller ha individuato 4 fasi nel g. del bambino: narcisistica, pre-edipica, edipica, post-edipica. R. Callois dal canto suo ha proposto una classificazione dei g., suddividendoli in 4 categorie: di competizione, d’azzardo, d’imitazione (o rappresentazione di un ruolo), di stimolo di stati emotivi. E. H.​​ ​​ Erikson distingue tre tipi di g.: quelli che si svolgono nell’autosfera (esplorazione del proprio corpo), quelli nella microsfera (riguardano l’ambiente circostante / vicino) e quelli nella macrosfera (coinvolgono l’ambiente sociale più allargato). E. A. Plaut suddivide il g. in 8 stadi, ciascuno rispondente ad una diversa fase della vita: scoperta del g. (prima infanzia), differenziazione del g. (seconda infanzia), g. simbolico (età pre-scolare), g. con ruoli (età scolare), giocosità con confini (adolescenza), g. integrato (giovinezza), g. generativo (età adulta), g. creativo (età matura).​​ ​​ Piaget e​​ ​​ Klein sono tra coloro che hanno studiato più a fondo l’attività ludica in rapporto alle varie tappe evolutive della vita del bambino. Il primo, pur non avendo formulato una vera e propria teoria sul g., ne ha approfondito tuttavia lo studio nel trattare lo sviluppo dell’attività intellettuale e della maturazione del bambino. Ne è scaturita così una classificazione secondo la quale il g. può essere suddiviso in tre categorie: di immaginazione o simbolico, di esercizio o funzionale, di regole. In sostanza l’A. distingue il simbolo ludico, in cui la rappresentazione è adattata a qualcosa di eterogeneo (g. simbolico), dall’intelligenza, in cui l’immagine è adeguata all’oggetto o all’esperienza reale e produce un’azione che opera sul concreto (g. di regole). A livello di ricerca sperimentale quest’ultimo si è dimostrato un prezioso strumento per stimolare l’evoluzione del bambino sul piano della partecipazione, della creatività, dell’accettazione e del rispetto delle regole, della costruzione di rapporti stabili e collaborativi nel gruppo, di democratizzazione della vita di gruppo. L’interpretazione dell’inconscio attraverso la tecnica del g. è l’obiettivo primario che si propone M. Klein, la quale parte dall’inconscio per arrivare gradualmente all’«Io» del bambino utilizzando il g. come fattore catartico. Secondo tale A. il linguaggio del g. è lo stesso di quello dei sogni e va trattato non solo analizzandolo simbolicamente ma studiando anche le associazioni fra i vari significati simbolici presenti in esso. Si tratterà perciò di fare attenzione al soggetto dei g., al tipo di g., al motivo del passaggio da un g. all’altro. Tra l’interpretazione del g. di Piaget e quella freudiana di Klein si riscontrano analogie e differenze. Per entrambi il g. mobilita tutte le potenze della psiche, dall’intelligenza all’emotività, e si radica nel profondo della stessa. La principale differenza tra i due consiste nel fatto che Piaget auspica che si realizzi un equilibrio tra «assimilazione» ed «accomodamento»; in tal senso le funzioni della creatività ludica sono integrate in quelle delle condotte intelligenti. Viceversa, per la teoria kleiniana l’ispirazione del g. è di ordine emotivo e non intellettuale; pur appoggiandosi al reale, lo trascende in virtù del potere trasfigurativo del simbolismo presente in esso, inteso quale generatore di rappresentazioni. Dall’insieme delle analisi riportate, i molteplici studi sulla natura e funzione dell’attività ludica possono essere ricondotti a tre principali filoni interpretativi: quello​​ funzionalista,​​ che cerca di stabilire quale sia la funzione del g. per perseguire un dato scopo; quello​​ cognitivista,​​ che vede il g. come metodo di apprendimento sia ai fini dello sviluppo dell’intelligenza, sia a scopo riabilitativo; quello della​​ psicologia dinamica,​​ che arricchisce l’attività ludica di significati e funzioni fino a farla divenire il mezzo attraverso cui il bambino arriva a conoscere e ad accettare i desideri più inconsci.

2.​​ «A che g. giochiamo?».​​ Anche lo​​ ​​ sport è g. e, viceversa, il g. può diventare sport. Cos’è quindi ciò che distingue il g. dallo sport e che cosa invece li accomuna? Come lo sport, il g. è un mezzo ideale per lo sviluppo della socialità, in quanto coinvolge le persone in un processo di azione e reazione dove la presenza delle «regole» fa da «collante» per la realizzazione di tale attività. La differenza, sostanziale, consiste nel fatto che lo scopo del g. non è necessariamente quello di consentire all’individuo di affermare la propria superiorità sugli altri, pur facendo salva quell’attività agonistica di base secondo la quale «senza avversario non c’è g.». Nel g., di rimando, vengono attesi e salvaguardati alcuni valori che nello sport non sono prioritari (quando non vengono del tutto disattesi), quali l’amicizia con l’altro, la scoperta dello spirito comunitario, il manifestarsi del senso di fiducia e di sicurezza che proviene dal giocare assieme, il senso di «gruppo». In sostanza, il g. dà importanza alla solidarietà più che all’ostilità, alla cooperazione più che all’opposizione, alla​​ ​​ socializzazione più che alla competizione (senza peraltro escludere la componente agonistica); favorisce le attività motorie di ogni tipo e luogo senza restrizioni di spazio, di tempo e di età; valorizza le situazioni in cui l’impatto affettivo ha una profonda risonanza sulla personalità di chi lo esercita; moltiplica le esperienze relazionali con persone e gruppi sociali diversi. Dal versante funzionale l’accento si sposta quindi sulla dimensione socio-comportamentale. I g., in particolare i g. con regole, rappresentano di conseguenza degli ottimi strumenti di maturazione della personalità in quanto permettono di passare da una socializzazione di tipo affettivo a una di carattere cooperativistico, da una visione egocentrica dei rapporti a quella che tiene conto anche del punto di vista dell’altro, da un approccio istintivo ad un maturo ed equilibrato confronto su base competitivo-agonistica. In sintesi, il g. svolge una funzione che è in grado di coinvolgere l’intera personalità dell’«homo ludens».

Bibliografia

Huizinga H.,​​ Homo ludens,Torino, Einaudi, 1968; Piaget J.,​​ La costruzione del reale nel bambino,​​ Firenze, La Nuova Italia,1973; Winnicott D.W.,​​ G. e realtà,​​ Roma, Armando, 1974; Callois R.,​​ I g. e gli uomini,​​ Milano, Bompiani, 1981; Polisportive Giovanili Salesiane,​​ A che g. giochiamo?,​​ Roma, Juvenilia, 1991; D’Andretta P.,​​ Il g. nella didattica interculturale, Bologna, EMI, 1999; Kaiser A.,​​ Genius ludi: il g. nella formazione umana, Roma, Armando, 2001; Lucchini E.,​​ Giocattoli e bambini dall’antichità al 2000, Lanciano, Ed. Carabba, 2003.

V. Pieroni




GIORNALE

 

GIORNALE

Per g. si intende una pubblicazione stampata giornalmente, settimanalmente o, comunque, a intervalli frequenti, contenente notizie e pubblicità.

1. L’espansione di questo strumento di comunicazione è segnata dalle invenzioni e innovazioni della tecnologia grafica, che hanno caratterizzato la storia della stampa dalla sua origine e in questo secolo in particolare. È stato infatti il​​ logotype,​​ un sistema di composizione a mano inventato nel 1682 e basato sulla fusione di un gruppo di lettere in blocco, a permettere la realizzazione rapida di stampati e quindi la nascita dei primi fogli quotidiani. Allo stesso modo che le innovazioni tipografiche di John Bell (1745-1832), stampatore inglese e fondatore del «Morning Post», resero possibile con l’introduzione della spaziatura la lettura rapida delle notizie.

2. Il procedimento litografico inventato nel 1796 consentì la graduale introduzione delle immagini e subito della caricatura politica. Il primo foglio con periodicità giornaliera, nato a Lipsia nel 1660, fu «Leipziger Zeitung» mentre il primo g. londinese fu il«Daily Courant» nel 1702. Entrambi i g. sono legati alla realizzazione in questi Paesi del servizio postale. Anche nel resto dell’Europa vedono la luce numerose «gazzette», per lo più legate al mondo della letteratura e dell’economia. In Italia la maggior parte dei g. moderni sono nati fra l’Otto e il Novecento. La diffusione e il moltiplicarsi dell’editoria giornalistica sono legati alla scolarizzazione di massa e a sempre nuove invenzioni tecnologiche che rendono il g. commercialmente fruibile. L’invenzione della radio prima e della televisione successivamente, ha imposto cambiamenti redazionali non indifferenti. Hubert Beuve-Méry, direttore e fondatore del g. francese «Le Monde», ha così sintetizzato le differenze: la radio lancia la notizia, la TV la fa vedere, il g. la spiega. I nuovi sistemi informatici ed elettronici hanno oggi trasformato le redazioni dei g. in centrali informative, internazionalmente collegate e dalla fruizione immediata.

3. Il mondo educativo e scolastico ha avuto relazioni con i g. in duplice direzione. Il g. viene considerato come oggetto e fonte di studio da un lato e dall’altro diventa esso stesso strumento di formazione e di sperimentazione. Gli stessi produttori di g., con iniziative tipo «Il quotidiano in classe», mirano a formare i loro futuri clienti e lettori. L’uso del​​ desktop publishing​​ dal 1985 ha rilanciato la pubblicazione dei g. studenteschi che sembravano soccombere di fronte al diffondersi di radio e televisione all’interno dei​​ campus​​ e dei​​ college​​ universitari e nelle scuole in genere. Molte scuole producono g. in proprio con iniziative che, negli Stati Uniti, spesso escono dall’ambito prettamente scolastico per irraggiarsi nell’intera comunità civile in una simbiosi fatta di informazione e​​ ​​ comunicazione.

Bibliografia

D’Amico N. - L. Della Seta,​​ Il​​ quotidiano di classe,​​ 2​​ voll., Bologna, Zanichelli, 1981; Lazzaroto F. (Ed.),​​ Giornalini giornaletti,​​ Roma, Nuove Edizioni Romane, 1990;​​ Chernevez O.,​​ Faire son journal au lycée et au collège,​​ Paris, Centre de Formation et de Perfectionnement des Journalistes,​​ 1991; Cervellati M. - G. Farini,​​ G. e didattica,​​ Teramo, Giunti e Lisciani, 1992;​​ Spirlet J. P.,​​ Utiliser la presse à l’école de la maternelle à la 6e,​​ Paris, Centre de Formation et de Perfectionnement des Journalistes, 1995; Hodgson H. V.,​​ Giornalismo in pratica,​​ Torino, SEI, 1996; Murialdi P.,​​ Storia del giornalismo italiano,​​ Bologna, Il Mulino, 1996; Salemi G.,​​ L’Europa di carta. Guida alla stampa estera, Milano, Angeli, 2002; Hallin D. - P. Mancini,​​ Modelli di giornalismo, Bari, Laterza, 2004; Costa G. - F. Zangrilli,​​ Giornalismo e letteratura, Caltanissetta, Sciascia, 2005; Basso S. - P. L. Vercesi,​​ Storia del giornalismo americano, Milano, Mondadori, 2005; Costa G. - A. Paoluzi,​​ Giornalismo. Teoria e pratica,​​ Roma, LAS, 2006.​​ 

G. Costa




GIOVANI

 

GIOVANI

Soggetti umani particolarmente interessanti per l’educazione e la pedagogia, a motivo della loro condizione vitale al termine dell’età evolutiva e delle preoccupazioni sociali per il loro attivo e positivo inserimento nel mondo adulto.

1.​​ Il​​ disagio interpretativo.​​ Rispetto ad appena vent’anni fa oggi disponiamo di un quadro assai articolato di riflessioni teoretiche e di una vasta collezione di ricerche empiriche sui g. (Mion, 1985). Eppure l’accumulo di dati e di considerazioni non è privo di aspetti problematici. Tra questi: la molteplicità delle prospettive adottate non rende i dati immediatamente componibili in un quadro sinottico; l’accresciuto pluralismo di approcci e di metodi, l’eccedenza di prospettive, i complessi problemi metodologici rendono difficile una sintesi unitaria ingenerando smarrimenti o appiattimenti riduttivi della ricchezza degli sforzi iniziali.

2. Il​​ concetto di gioventù.​​ Sia nel linguaggio comune che nel lessico delle scienze sociali regna una certa confusione in merito al contenuto, cui si fa riferimento quando si utilizzano le parole «g.», «gioventù» o «giovinezza».​​ Nel linguaggio comune​​ questi termini indicano in genere una fase di transizione interposta tra l’infanzia e l’età adulta. Assai spesso essi sono marcati di accentuazioni valutative sia positive che negative, di potenziale forza rivoluzionaria o di immatura generazione «bohémienne». Neppure​​ nell’ambito delle scienze sociali​​ la terminologia è consolidata. Vi è incertezza in particolare sui significati di «​​ ​​ adolescenza» e di «gioventù» e sui confini tra le realtà corrispondenti alle varie fasi di vita. Alcuni autori usano di fatto i termini come sinonimi, gli psicologi dell’età evolutiva tendono a parlare di «adolescenza», mentre il termine «gioventù» è usato prevalentemente dai sociologi, assieme a quello di «condizione giovanile» che ne esprime specialmente la sua valenza strutturale sociopolitica. Adottando la prospettiva secondo cui adolescenza e giovinezza sono due fasi diverse della vita, tale distinzione risulta abbastanza facile se si sottolinea l’importanza delle trasformazioni biosomatiche. Se invece si evidenziano quelle biopsichiche il problema si complica, e ciò in misura molto maggiore se si prendono in considerazione anche i mutamenti sia politici che economici e culturali della società. Ulteriori fattori di complessificazione sono dati dai processi di anticipazione individuale che in alcuni ambiti si stanno verificando per effetto dell’accelerazione del cambio sociale e dell’innovazione tecnologica. In sintesi una corretta impostazione dello studio della cultura giovanile dovrà tener conto in modo complementare di una​​ duplice linea di lettura:​​ descrittiva (presentazione dei dati) e interpretativa (ricerca delle cause, dei fattori intervenienti e delle ragioni esplicative), e di​​ un duplice livello di analisi:​​ strutturale (relativo alle condizioni obiettive esterne di tipo socio-politico ed economico) e culturale (relativo ai valori, stili di vita, risposte esistenziali e comportamentali che i g. nella loro soggettività elaborano in rapporto ai processi a cui sono sottoposti nelle strutture). Si dovrà inoltre prendere in considerazione una​​ pluralità di approcci,​​ che secondo una prospettiva educativa privilegiano nello studio della condizione giovanile certe dimensioni particolari e specifiche. Essi sono: gli approcci biofisiologico, psico-evolutivo, demografico (espansione e / o contrazione delle fasce giovanili), storico, etno-antropologico, pedagogico (interventi educativi scanditi da fini, obiettivi e strategie metodologiche), politico (interventi strutturali organizzati della società politica), sociologico (la cultura giovanile come sottosistema organico nel più vasto sistema sociale).​​ In una prospettiva socio-pedagogica,​​ come è la nostra, si può risolvere il problema terminologico rinviandolo alla definizione del​​ terminus ad quem,​​ considerando cioè g. tutti coloro che, se da un lato hanno superato la soglia dell’infanzia, dall’altro non hanno ancora raggiunto appieno lo status della persona adulta: si tratta di quanti sono impegnati nel compito di diventare adulti. Questa definizione non è del tutto soddisfacente, perché dice poco sulle caratteristiche della gioventù e insiste solo su quelle che ai g. mancano per essere adulti. È un’ulteriore conferma della difficoltà di fissare i confini dell’età giovanile che perciò risultano assai incerti.

3.​​ Nelle società della rivoluzione industriale,​​ la condizione giovanile si trasforma radicalmente rispetto alla storia del passato.​​ Nelle campagne​​ con il diffondersi dell’industria agricola domestica, aumentano le opportunità per i g. di rendersi economicamente indipendenti dalla famiglia patriarcale o anche di emigrare verso le città.​​ Nelle città,​​ l’apprendistato entra in crisi per la presenza di una classe permanente di lavoratori salariati e perché anche l’apprendista si stabilizza nella condizione di lavoratore salariato dipendente. Nello stesso tempo è difficile parlare di fase giovanile del ciclo di vita per quegli adolescenti che vanno ad ingrossare le file del proletariato industriale nelle fabbriche, in cui entrano, appena lasciata la sponda dell’infanzia.​​ Nei ceti urbani benestanti,​​ la gioventù vive una fase prolungata di preparazione e di attesa. I figli dei nobili si preparano per le carriere militari e burocratiche; i figli della borghesia professionale si orientano a seguire le carriere dei padri; i figli della borghesia industriale e commerciale sono in attesa di ereditare le imprese familiari.​​ Nelle istituzioni educative,​​ i g. sono tenuti per lungo tempo a stretto contatto con i coetanei dello stesso sesso, e ciò dà luogo alla formazione di gruppi solidaristici di carattere ludico, religioso, intellettuale e politico, sulla cui base si sviluppano assai spesso stili di vita, correnti culturali e movimenti politici, che si contrappongono all’ordine morale, sociale e politico della società adulta.​​ Verso la fine del sec. XIX​​ quando ormai il periodo di​​ «moratoria»​​ dell’istruzione secondaria e superiore coinvolge una quota crescente di figli dei ceti medio-alti, i gruppi giovanili assumono più spesso una connotazione ideologica che si rivolge sia verso​​ i​​ movimenti​​ nazionalistici sia verso quelli radicali e socialisti. In questo stesso periodo si accentua l’interesse per i g. anche da parte dello​​ Stato,​​ soprattutto in vista della formazione dei grandi eserciti territoriali. La «militarizzazione» della gioventù, che troverà il proprio fondamento nella coscrizione obbligatoria al servizio militare, raggiungerà il culmine nelle grandi organizzazioni giovanili di massa dei regimi totalitari di stampo sia nazionalistico (la​​ Hitlerjugend​​ in Germania, la​​ GIL​​ in Italia), che comunistico (i​​ Komsomol​​ in Russia).

4.​​ Nelle società avanzate contemporanee.​​ I confini tra le varie età del ciclo di vita appaiono sempre più sfumati. Non vi sono più veri e propri riti di passaggio per l’ingresso nell’età adulta, anche se come tali vengono ritenute le seguenti cinque soglie: la conclusione degli studi e / o del percorso formativo, l’entrata nel mondo del lavoro, l’uscita dalla casa paterna, il matrimonio, le responsabilità della maternità e della paternità. Negli ultimi venti anni vi è stato un cambiamento radicale nei modi in cui queste cinque soglie sono attraversate: vi è la tendenza a dilazionare ognuno di questi passaggi, a non seguire l’ordine con cui sono segnati, a dilatare le distanze tra il tempo della prima e dell’ultima. La dilatazione e la moratoria psicosociale cresce con l’elevarsi della classe sociale di appartenenza. È possibile individuare di fatto​​ quattro modelli​​ di «moratoria psicosociale della gioventù»: – il modello​​ mediterraneo​​ caratterizzato da un aumento degli anni di studio, dalla precarietà lavorativa e dal prolungamento della coabitazione con i genitori, anche quando si è raggiunta l’indipendenza economica; – il modello​​ nordico,​​ in cui i g. precocemente abbandonano la casa, vivono o da soli o in convivenze, che non preludono al matrimonio, mentre questo viene ritardato così come la decisione di avere figli; – il modello​​ francese​​ che ha in comune con quello mediterraneo la tendenza al prolungamento degli studi, e con quello nordico una più lunga moratoria tra abbandono della casa e matrimonio; – il modello​​ britannico​​ in cui la gioventù precocemente termina gli studi, entra nel mercato del lavoro e si sposa, ma ritarda invece ad avere figli. La generalizzazione dell’istruzione e l’allungamento dei percorsi formativi sono processi che hanno portato​​ alla diffusività della condizione di studente.​​ E ciò per diversi fattori: la domanda di lavoro sempre più qualificato richiede tempi lunghi di formazione, i g. sono sollecitati a proseguire gli studi nell’attesa che ciò garantisca loro maggiori opportunità di mobilità sociale, infine l’istruzione e la cultura sono diventati valori non più limitati a qualche élite particolare. Il prolungamento della fase giovanile diventa quindi una conseguenza anche del processo di scolarizzazione di massa. La conclusione dei cicli formativi non significa più​​ ingresso​​ automatico​​ in un ruolo lavorativo stabile​​ sia perché oggi è difficile stabilire la fine della fase di formazione, sia perché si inseriscono sempre più ampi periodi di disoccupazione e di lavoro precario, anche vari anni dopo la conclusione degli studi. Ciò significa un prolungamento dei rapporti di dipendenza economica, e soprattutto psicologica, dalla famiglia di origine. La prolungata transizione dalla​​ ​​ scuola al​​ ​​ lavoro determina inoltre la dilatazione dei tempi di uscita dalla​​ ​​ famiglia di origine e di formazione di una nuova famiglia. Anche nella sola Europa occidentale il fenomeno della de-coabitazione varia molto da Paese a Paese, e secondo i modelli già indicati: quello «mediterraneo» (più dipendente anche nelle norme morali) e quello «nordeuropeo» (più indipendente e permissivo). Col prolungarsi della coabitazione con i genitori mutano anche i rapporti fra le generazioni. Infatti da un’ambivalenza adolescenziale, che si muove tra dipendenza e indipendenza, questi rapporti tendono a diventare nella famiglia «lunga» (Scabini e Donati, 1988) meno asimmetrici. Ciò è determinato proprio dagli stili di esercizio dell’autorità parentale, che in queste condizioni concede ai figli di godere gradi di libertà e di autonomia crescenti, senza eccessive differenze tra maschi e femmine.

5.​​ La cultura giovanile.​​ Le dilatazioni dei tempi di ingresso nella vita adulta e i fenomeni collaterali costituiscono la base sulla quale oggi si sviluppano valori, orientamenti, stili di vita e atteggiamenti particolari che sono comunemente designati col termine di «cultura giovanile». Essi condizionano anche i processi di formazione dell’identità personale, caratterizzata da quella che è stata definita «l’incertezza biografica». Per cui più che un processo teso al raggiungimento dello status adulto l’adolescenza sembra diventare quasi una «condizione», certo non permanente, ma tuttavia abbastanza consistente, proprio per il prolungamento della moratoria psicosociale, così da dar vita a forme di cultura proprie delle fasce di età coinvolte. Tratti salienti della cultura giovanile possono in conclusione essere identificati nei seguenti: – accentuata valorizzazione del «sé» e dell’autorealizzazione nell’eccedenza delle opportunità di scelte molteplici per definire il proprio futuro (valori «post-materialistici»; «neo-individualismo» e «cultura del narcisismo»); – cura preferenziale dell’autoesplorazione attraverso la comunicazione e la relazione con gli altri; – attenzione al tempo concentrata prevalentemente sul presente in una «sindrome di destrutturazione temporale» (Cavalli, 1985); – desiderio di non restringere con scelte troppo precoci l’orizzonte dei futuri possibili; – molteplicità di appartenenze che si fanno sempre più deboli e provvisorie, in considerazione dei benefici ottenibili; – insistente domanda di protagonismo e di soggettività; – tendenza alla reversibilità delle decisioni, alla relativizzazione degli assoluti e dei riferimenti fondamentali, all’accettazione acritica del pluralismo, all’indifferenza religiosa; – disponibilità sempre più ampia di quote del tempo libero da programmare; – proliferazione delle attività espressive in particolare di quelle musicali secondo una forte tendenza all’omologazione dei gusti anche a livello internazionale; – elevato grado di esposizione ai​​ ​​ mezzi di comunicazione di massa; – accurato e selettivo conformismo nell’abbigliamento, nella foggia dei capelli, nel linguaggio e nei segni esteriori di appartenenza, in adesione a identità provvisorie ma collettive; – cura difensiva dell’immagine e delle mode giovanili rispetto alle imitazioni e contraffazioni degli adulti. Infine un’attenzione particolare va data all’emergere di comportamenti collettivi che negli ultimi trent’anni hanno costellato l’orizzonte giovanile nei diversi​​ ​​ movimenti di protesta politica. Alla fine degli anni ’60 in America e in Europa sono sorti movimenti giovanili con un profilo ideologico-politico di stampo contestatore e rivoluzionario che hanno trovato visibilità nelle​​ ​​ università. Successivamente nella metà degli anni ’70, in un clima generale di «riflusso nel privato» questi movimenti hanno assunto tratti diversi, meno politicizzati, ma non meno espressivi, secondo un duplice orientamento, quello radicale della violenza contro lo Stato (Brigate Rosse) e quello dai toni più morbidi, ironici ed espressivi degli «indiani metropolitani». Ormai però lo stile dell’aggregazione movimentistica studentesca si era affermato e si organizzava nelle diverse occasioni, specialmente nelle «marce della pace» e nelle contestazioni contro la scuola: «il movimento del ’77», «i ragazzi dell’85», «la pantera nera del ’90», per quanto riguarda specificamente l’Italia. Compaiono nel frattempo anche altri fenomeni collettivi del tutto diversi e di segno contrastante: da un lato le manifestazioni musicali (concerti rock, live), che aggregano pacificamente decine di migliaia di g. e dall’altro episodi, legati per lo più al tifo sportivo, che vedono gruppi di g. in scontri anche violenti ed in azioni vandaliche. La frequenza di tali episodi è andata crescendo negli anni ’80 e in tutti i Paesi europei. Anche se coinvolge solo minoranze di g., segnala tuttavia l’esistenza di un potenziale aggressivo che trova modo di esprimersi solo in comportamenti distruttivi. In generale tuttavia la cultura giovanile non è per definizione conflittuale rispetto a quella adulta; più spesso esprime non tanto il conflitto, quanto lo «scarto» generazionale che si produce fisiologicamente in società soggette a rapidi e profondi processi di mutamento, quasi assumendo i caratteri di una subcultura. In ogni caso le rappresentazioni sociali, che della gioventù sono venute maturando lungo la storia, possono essere sinteticamente indicate in alcune metafore relative al modo con cui la società da sempre ha guardato ai g.: come soggetti da educare e da formare, come energia da incanalare, come capitale sociale da incentivare, come pericoloso problema sociale da controllare. Sulla maggiore o minore predominanza di queste immagini si sono poi nei secoli innestati gli interventi delle più benemerite istituzioni educative, religiose e laiche fino agli attuali progetti educativi delle varie amministrazioni locali («Progetti G.») oltre alle differenziate politiche sociali nazionali ed oggi anche europee.​​ 

Bibliografia

Mion R.,​​ Rassegna storico-bibliografica delle più importanti ricerche in sociologia della gioventù: 1945-1985,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 985-1034; Id.,​​ Domanda di valori e di religione nei g. dell’Europa dell’Est e dell’Ovest,​​ in «Salesianum» 57 (1995) 305-357; Scabini E. - P. Donati (Edd.),​​ La famiglia in una società multietnica, Milano, Vita e Pensiero, 1993; Merico M. (Ed.),​​ G. come. Per una sociologia della condizione giovanile in Italia,​​ Napoli, Liguori, 2002; Buzzi C. - A. Cavalli - A. De Lillo (Edd.),​​ G. del nuovo secolo. Quinto Rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002; Sorcinelli P. - A. Varni (Edd.),​​ Il secolo dei g. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Roma, Donzelli, 2004; Prandini R. - S. Melli (Edd.),​​ I g. capitale sociale della nuova Europa. Politiche di promozione della gioventù in un welfare societario plurale,​​ Milano, Angeli, 2004; Barro M.,​​ I g. e l’Europa. Rappresentazioni sociali a confronto, Ibid., 2004; Secondulfo D.,​​ La bella età. G. e valori nel nord-est di un’Italia che cambia, Ibid., 2005; Semisa D.,​​ Under 18. Leggere il presente,​​ pensare il futuro, Ibid., 2005; Granieri G.,​​ Blog generation, Roma / Bari, Laterza, 2005; Cesareo V. (Ed.),​​ Ricomporre la vita. Gli adulti g. in Italia, Roma, Carocci, 2005; Eurispes, 7° Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza,​​ Roma, EURISPES, 2006; Mion R.,​​ Evoluzione della domanda educativa dei g., in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 227-248.

R. Mion​​