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GEMELLI Agostino

 

GEMELLI Agostino

n. a Milano nel 1878 - m. ivi nel 1959, francescano, psicologo, fondatore dell’Università Cattolica del S. Cuore.

1. Proveniente da un’agiata famiglia lombarda di agricoltori e registrato all’anagrafe con il nome di Edoardo, si laureò in medicina e, in seguito a una profonda conversione, entrò a far parte dell’Ordine francescano, assumendo il nome di Agostino. Ordinato sacerdote nel 1907, prese ad approfondire con impegno e solerzia gli studi di biologia e quelli di psicologia, sottolineando, attraverso la creazione della «Rivista di Filosofia Neoscolastica» nel 1909 e della rivista «Vita e Pensiero» nel 1914, il ruolo fondamentale della riflessione filosofica cristiana per rispondere al riduttivismo positivista e idealista.

2. Particolare attenzione G. riservò allo studio delle condotte delinquenziali, opponendosi fermamente agli studi di antropologia criminale di C. Lombroso, secondo il quale i condizionamenti sarebbero dovuti non solo a componenti ambientali socioeconomiche, ma anche a fattori indipendenti dalla volontà, come l’ereditarietà e le malattie nervose. Una tale prospettiva, a suo parere, annullava del tutto la responsabilità individuale e toglieva ogni spazio significativo al libero arbitrio nell’esperienza di maturazione e di crescita personale.

3. Analizzando l’esperienza religiosa, G. sottolineò la necessità di immedesimarsi profondamente nel vissuto altrui, di guardare con simpatia ad alcuni modelli particolarmente significativi (ad es. s. Francesco d’Assisi, s. Bernardo, s. Giovanna d’Arco), e di evitare di confondere i fenomeni mistici con alcune manifestazioni patologiche. Rispettoso dell’individualità e dell’originalità di ogni persona, G. riconobbe anche l’utilità della scienza psicologica per un discernimento vocazionale, nella consapevolezza che la grazia non prescinde dalla natura umana. A tale scopo, si impegnò perché i direttori spirituali e i responsabili della formazione nei seminari e nelle comunità religiose avessero un’adeguata formazione psicologica, suggerendo anche concreti strumenti diagnostici con i quali individuare eventuali patologie da sottoporre a più approfondito esame da parte di tecnici.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ G.A.,​​ Idee e battaglie per la cultura cattolica,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1933;​​ La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psicologici,​​ Milano, Giuffrè, 1946;​​ La psicologia al servizio del discernimento delle vocazioni e della direzione spirituale dei seminaristi,​​ Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957;​​ Il francescanesimo, Assisi, Porziuncola, 2000. b)​​ Studi:​​ Sticco M.,​​ Padre G.,​​ Milano, O.R., 1975; Preto E.,​​ Bibliografia di padre A.G.,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1981; Bocci M.,​​ A.G. rettore e francescano. Chiesa,​​ regime,​​ democrazia, Brescia, Morcelliana, 2003; Picicco A.,​​ Padre A.G., Padova, EMP, 2005.

E. Fizzotti​​ 




GENETICA

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GENETICA

È la scienza che studia la trasmissione dei caratteri da una generazione all’altra (detti perciò: ereditari), i meccanismi e i processi che attuano tale trasmissione e le leggi che li governano.

1. In quanto scienza sperimentale, la g. riconosce come fondatore l’abate agostiniano Gregorius Mendel (1822-1884), che coltivò con metodi selettivi e con incroci mirati piante di piselli ed elaborò in termini matematici i risultati delle sue ricerche. Riuscì così a formulare due leggi che governano i fenomeni essenziali della trasmissione dei caratteri e che vengono così enunciate: «legge della disgiunzione o segregazione dei fattori che determinano i caratteri» e «legge della indipendenza degli alleli». Una terza legge definita da Mendel «legge della dominanza» non ha trovato successivo riscontro giacché esistono casi in cui nessuno dei due fattori prevale sull’altro. Questi risultati furono pubblicati da Mendel nel 1866, ma non furono presi in considerazione forse perché in quel tempo egli non era conosciuto come un’autorità scientifica. Successivamente (1900) tre studiosi (H. De Vries, C. Correns e Von Tschermak) riscoprirono indipendentemente le stesse leggi, però con grande lealtà riconobbero la precedenza a Mendel.

2. Numerosi altri scienziati di alto valore si sono succeduti e continuano a succedersi nell’ambito di questi studi che diventano sempre più complessi e più interessanti anche per le numerose applicazioni pratiche che si possono fare. Ricordiamo fra i più notevoli i nomi di W. Johannsen che coniò i termini:​​ gene,​​ genotipo e fenotipo;​​ di W. Bateson che collaborò in modo decisivo allo studio delle variazioni e coniò i termini:​​ allelomorfo,​​ omozigote​​ ed​​ eterozigote;​​ di Th. Morgan con la sua scuola, celebre per gli esperimenti sul moscerino «drosophila melanogaster» e la produzione delle mutazioni.​​ 

3. Oggi si tende a denominare la g. mendeliana come​​ g. formale​​ in quanto prevale in essa l’osservazione e l’interpretazione dei fenomeni più il calcolo matematico, mentre si definisce​​ g. molecolare​​ quella attuale in quanto prevalentemente lavora sulla molecola degli acidi nucleici (DNA ed RNA). Celebri a questo proposito i nomi di F. Crick e J. D. Watson. Attualmente gli apporti di studiosi, soprattutto giapponesi, statunitensi, inglesi e francesi stanno facendo progredire questa scienza in modo vistoso.

4. L’applicazione della g. alla coltivazione delle piante e all’allevamento degli animali è molto diffusa e si possono ottenere nuove varietà nell’ambito della stessa specie. Nell’uomo serve a dare spiegazioni dei fenomeni ereditari e a prevenire molti errori dovuti a matrimoni non compatibili. La g., studiando inoltre l’​​ ​​ ereditarietà di alcune strutture essenziali dell’organismo (il sistema nervoso, il sistema muscolare, il sistema endocrino, il sistema immunitario e l’apparato digerente) indica anche quali saranno i modi fondamentali di reazione dell’individuo per quanto riguarda le forme innate dei riflessi sia semplici che complessi; su questi poi si instaurano forme acquisite di risposta o modalità creative originali che però risentiranno inevitabilmente delle condizioni innate delle strutture di base. Si denomina​​ ingegneria g.​​ lo studio della localizzazione topografica dei genidi nella molecola del DNA e la possibilità di intervenire per correggere eventuali errori naturali. È chiaro che in tal senso bisogna tener conto non solo delle grandi difficoltà che si interpongono al raggiungimento dei singoli genidi, ma anche dell’equilibrio che si deve mantenere nell’insieme dei genidi del patrimonio cromosomico per non determinare scompensi o sconvolgimenti.

Bibliografia

Mintz B.,​​ Genetic engineering in laboratory mammals,​​ Città del Vaticano, Pontificia Accademia delle Scienze, 1984; Serra A. et al.,​​ Medicina e g. verso il futuro,​​ L’Aquila / Roma, Japadre Editore, 1986; Cherfas J.,​​ Ingegneria g.,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Dulbecco R.,​​ Il progetto della vita,​​ Milano, CDE, 1987; Mangia M.,​​ G. e uomo,​​ Bologna, Zanichelli, 1994; Plomin R.,​​ Genetics and experience.​​ The interplay between nature and nurture,​​ London. Sage, 1994; Gallori E.,​​ G., Firenze, Giunti, 2007.

V. Polizzi




GENITORI

 

GENITORI

Un g. è un padre o una madre; una persona che genera e dà la vita. Oltre alla genitorialità biologica esiste la genitorialità adottiva nella quale il g. non è stato partecipe alla procreazione del figlio, ma, sia in termini giuridici che in termini sociali ed affettivi, viene considerato alla stessa stregua del g. biologico. Diventare g. implica il passaggio da una situazione di coppia ad un’altra realtà molto diversa dalla precedente, in quanto l’interazione non è più solo diadica, ma allargata ad altri membri, i figli, che vengono a far parte della famiglia. Nella nuova concezione della vita matrimoniale si è fatto strada il concetto che il figlio che nascerà sarà il frutto di una decisione consapevolmente presa, almeno il più delle volte, da entrambi i coniugi. Questo costituisce per essi l’inizio del cammino che li porterà a diventare g.

1.​​ Divenire madre.​​ Non è una cosa semplice ed automatica come di solito si crede; non bisogna infatti dimenticare che una madre, prima di assumere questo ruolo, è soprattutto una donna con una propria vita e con un proprio particolare modo di essere e di sentire che dovrà subire un cambiamento nel momento in cui avrà un figlio. Perciò la maternità si presenta come uno dei più importanti momenti che la donna può vivere in quanto, pur essendo un evento naturale e fisiologico, esso rappresenta per lei un periodo critico che mette a dura prova le sue capacità di adattamento, a causa degli importanti mutamenti che avvengono nel suo corpo, nella sua psiche e nelle relazioni sia sessuali che interpersonali. Infatti la donna vive dentro di sé una molteplicità di sentimenti che possono andare dalla paura alla gioia, dall’entusiasmo all’incertezza, dall’accettazione al rifiuto di questo suo nuovo stato che la porterà ad una diversa realizzazione di sé. Si può dire che, sotto certi aspetti, l’amore materno è qualcosa che si forma, e che si apprende, tranne casi particolari, un giorno dopo l’altro; è qualcosa che la futura madre sente nascere dentro di sé, e che si rivolge ad un essere che sente formarsi e crescere pian piano, per nove lunghi mesi.

2.​​ Divenire padre.​​ È un’esperienza simile per quel che riguarda i dubbi e le incertezze, ma di tipo diverso da quella della madre, in quanto un padre sente che con il divenire g. chiude la sua vita di ragazzo ed inizia quella di uomo in cui vi sono nuove e più specifiche responsabilità. Infatti la paternità porta con sé nuove preoccupazioni: il​​ padre ha un accresciuto senso di responsabilità sia dal punto di vista economico che da quello educativo, acquista la sensazione dell’importanza della sua esistenza divenuta necessaria per poter provvedere alla famiglia che si è formata; nasce in lui la paura di essere meno importante per la moglie a causa del figlio e di non poter più avere con lei la calda ed esclusiva intimità dei primi tempi. Tutto, o quasi, si ridimensiona con la nascita del figlio. L’idea del ruolo paterno che si aveva un tempo sta lentamente modificandosi, ed al concetto del «buon padre» che provvedendo al sostegno economico della famiglia si estrania da essa impegnandosi in un lavoro che diventa quasi un alibi per evadere dalla situazione familiare, si va sostituendo quello di un padre presente con i suoi figli, con un nuovo ruolo, una presenza non più autoritaria, ma autorevole ed affettuosa. Si tratta certamente di un compito che implica una ristrutturazione del concetto culturale di uomo, un tempo cristallizzato nelle formule che indicavano il padre come il capo famiglia, la cui autorità era indiscussa e che costituiva la sola indicazione di apertura alla vita sociale. Inoltre, essere g. comporta anche il compito di potenziare la propria capacità di amare.

3.​​ Cambiamenti nella vita di coppia.​​ Sono molte le difficoltà che si presentano alla coppia con la nascita del figlio, e fra queste è da ricordare quella di saper affrontare il cambiamento che subisce la situazione diadica nella quale fino adesso la coppia è vissuta. Infatti uno dei compiti dei g. consiste nel ridefinire i propri ruoli all’interno della vita di coppia e nel riorganizzare la loro relazione. Ciò può essere vissuto come un periodo critico, anche se prevedibile in quanto fa parte dello sviluppo di gran parte delle famiglie, ma non per questo meno difficile a viversi. Infatti il divenire g. rompe anche l’equilibrio della diade coniugale, creando un momento di disorganizzazione, che va superato attraverso l’attuazione di alcuni compiti che porteranno ad un buon adattamento e ad un adeguato funzionamento familiare. Tra questi compiti vi sono quelli di saper far posto al figlio all’interno della vita di coppia, sia dal punto di vista affettivo che per quel che riguarda l’andamento familiare e le cure fisiche che debbono essere prestate al bambino; di definire la comunicazione in modo da poter entrambi esprimere i propri dubbi, le difficoltà e le gioie cosicché nessuno dei due si senta tagliato fuori dalla relazione col figlio; di imparare a risolvere le difficoltà in modo costruttivo ed arricchente senza giungere ad un conflitto più o meno palese; di ridefinire la relazione con la propria famiglia di origine in quanto il ruolo di coniugi è cambiato con l’essere divenuti, a loro volta, g. L’aver scelto di avere un figlio è una decisione importante per entrambi i coniugi, e la nascita del bambino, sia esso maschio o femmina, conferma pubblicamente il loro amore e richiede una loro crescita interiore. Quindi, essere padre e madre vuol dire oggi avere una relazione personale in cui il ruolo dell’uno non si può dissociare da quello dell’altro, e in cui ciascuno è corresponsabile dell’atteggiamento dell’altro nella vita familiare. Questa interdipendenza, non priva di conflitti, dà maggiore responsabilità ai g. nel loro compito di educatori.

4.​​ Comportamento genitoriale.​​ La caratteristica più importante di un adeguato comportamento genitoriale sta nel fornire al figlio stabilità, sicurezza ed affetto, ma a causa di una serie di eventi di carattere psichico, fisico o sociale, può manifestarsi in un g., od in entrambi, la presenza di un’organizzazione cognitiva problematica che può influire sul comportamento parentale ed arrecare danni di varia entità al figlio. Infatti, va tenuto presente che oltre alla modalità di comportamento adottato dai g. verso il figlio, è importante anche il modo in cui questi percepisce ed assimila i loro atteggiamenti e le loro intenzioni. Infatti è attraverso questo processo che giunge a costruire una propria realtà genitoriale che, se positiva, facilita il raggiungimento di una soddisfacente salute psichica.

5.​​ G. di un figlio adottato.​​ È infine necessario fare cenno ad una realtà che diviene sempre più comune, ossia quella di essere g. di un figlio adottato (​​ adozione). Di solito si ritiene che le esperienze vissute da un bambino adottato siano diverse da quelle di un bambino che vive con i g. naturali, come pure si crede che vi siano difficoltà diverse da superare quando si è g. adottivi. In realtà i g. adottivi incontrano difficoltà educative non più grandi, bensì diverse, da quelle che avrebbero con un loro bambino, forse perché può accadere che le caratteristiche insite nella loro famiglia si conformino con qualche difficoltà a quelle di un bambino di diversa provenienza. Alcune volte, poi, può essere difficile per loro rinunciare a veder realizzate, in quel figlio che non è stato da loro generato, i propri sogni e le proprie aspirazioni. Altre volte ancora essi rimangono incerti su quale modalità educativa usare con questo figlio poiché si chiedono se si sarebbero comportati nello stesso modo se fosse stato proprio un loro figlio. Questi ed altri problemi rendono perciò più difficile allevare un bambino adottato, anche se indubbiamente la scelta dell’adozione è stata dettata da un grande ed altruistico amore.

6.​​ La «cura» educativa.​​ Il divenire e l’essere g. comporta dunque, in tutti i casi, una notevole maturità personale e di coppia che deve procedere continuamente verso un arricchimento ed un rinnovamento, avendo come base una grande capacità d’amare. In questo senso si evidenzia la necessità di una particolare «cura» educativa per diventare e per essere g.: sia a livello personale, sia a livello di coppia, sia a livello intra e interfamiliare. In risposta a tale esigenza, negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi libri in cui vengono proposti itinerari per g., allo scopo di sostenerli nel loro agire educativo.

Bibliografia

Binda W., «Dalla diade coniugale alla triade familiare», in E. Scabini (Ed.),​​ L’organizzazione famiglia tra crisi e sviluppo,​​ Milano, Angeli, 1985, 175-201; Guidano V. F.,​​ La complessità del sé. Un approccio sistemico-processuale alla psicopatologia e alla terapia cognitiva,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1988; Cattabeni G.,​​ G. non si nasce,​​ si diventa,​​ in «Famiglia Oggi» 44 (1990) 30-37; Guiducci P. L.,​​ Accogliere la vita nascente. Una scelta totale,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Mastromarino R.,​​ Prendersi cura di sé per prendersi cura dei figli, Ibid., 1995; Bellantoni D.,​​ Ascoltare i figli. Un percorso di formazione per i g., Trento, Erickson, 2007; Bavarese G.,​​ Dal divenire coppia al divenire g., Roma, Aracne, 2007.

W. Visconti




GENTILE Giovanni

 

GENTILE Giovanni

n. a Castelvetrano (Trapani) nel 1875 - m. a Firenze nel 1944, filosofo italiano.​​ 

1.​​ Vita e opere.​​ Compiuti gli studi liceali a Trapani, s’iscrive alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha come professore di filosofia Donato Jaia, suo primo maestro d’​​ ​​ Idealismo, che lo incoraggia ad approfondire anche lo studio della pedagogia. Nei quattro anni di università G. legge i classici della filosofia, gli autori italiani dell’Ottocento, Hegel. Nella tesi di laurea approfondisce il pensiero di​​ Rosmini e Gioberti​​ (1897). Il tema della dissertazione al termine del corso di perfezionamento a Firenze è​​ Dal Genovesi al Galluppi​​ (1898). Studia il pensiero di C. Marx, intervenendo al dibattito che si svolge in Italia dal 1895 al 1900 sul valore del marxismo. Frutto di queste letture e discussioni è lo scritto​​ La filosofia di Marx​​ (1899). L’opera di filosofo e di scrittore fecondo si coniuga, in G., con un forte impegno personale nella scuola: professore di filosofia nei licei di Campobasso e di Napoli e nelle università di Palermo, di Pisa e di Roma; ministro della Pubblica Istruzione (1922-1924). È di questo periodo la riforma scolastica del 1923, nota come «Riforma G.». Aderisce al​​ ​​ fascismo e occupa posti nevralgici nell’ambito culturale: membro del Gran Consiglio, presidente dell’Istituto Treccani, commissario per la Scuola Normale di Pisa, presidente del Consiglio Superiore della P.I. (1926-1928). Dopo il delitto Matteotti, G. rimane fedele al fascismo e aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Viene ucciso da un gruppo di partigiani a Firenze davanti al cancello di casa.

2.​​ Pensiero.​​ La pedagogia di G. è strettamente connessa alla sua concezione filosofica (che egli chiama «attualismo»). Bisogna perciò richiamarne alcuni concetti chiave: la sola realtà solida, che sia dato affermare, e «con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è così una realtà soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o,​​ tout court,​​ all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto; e tutto quello che si può pensare come diverso da questo atto, in tanto si attua concretamente in quanto è immanente all’atto stesso. [...] L’atto della filosofia attualistica coincide appunto col nostro pensiero» (G., 1933, 21-22). Non esiste, per G., una realtà che è data e si pone come oggetto di fronte al soggetto. Per lui questo modo di pensare è tipico del realismo che, se ha ragione nel dire che esiste una certa indipendenza degli oggetti d’esperienza dal pensiero, tuttavia non può rivendicarne una totale indipendenza. Tutto, anche la nostra esperienza, non è altro che la realtà stessa del pensiero, cioè la realtà che viene posta in atto o in essere dall’attività pensante. L’attività pensante, d’altra parte, non è condizionata da nulla, neppure dallo spazio e dal tempo; anzi l’universo diventa immanente al pensiero, che lo pensa e si esaurisce in esso senza alcun residuo: ogni realismo e intellettualismo è superato; la libertà dell’io è assoluta perché viene negata l’esistenza di ogni limite esterno. La realtà è spirito, assoluta attività pensante, Atto puro, soggetto trascendentale in cui viene meno ogni contrapposizione e dualità di atto e fatto, oggetto e soggetto, essere e dover essere, pensare e pensato. Lo spirito è autocoscienza che si conquista, riconoscendosi come unica realtà. Perciò legge fondamentale del pensiero e dell’essere è la legge dell’unità.

3.​​ Pedagogia e filosofia.​​ Nel​​ Sommario di pedagogia come scienza filosofica,​​ G. sviluppa in modo sistematico le idee già contenute nello scritto​​ Il​​ concetto scientifico di pedagogia,​​ nel quale l’educazione è definita «formazione dell’uomo secondo il suo concetto». E l’uomo, per G., «non è anima e corpo; ma, poiché è anima, è anima sola; e il suo corpo non esiste se non come un momento dell’anima, nella quale non sussiste se non idealmente» (G., 1908, 23). Educare è quindi formare l’uomo in quanto spirito, cioè soggetto che esiste nell’atto stesso che si pensa, vale a dire che ha coscienza di sé, che è autocoscienza. Si può allora dire che se la pedagogia è scienza dell’educazione e se l’educazione è il farsi dell’uomo secondo il proprio concetto, ne consegue che la pedagogia è scienza dello spirito e in quanto tale coincide con la filosofia. Quindi, qualora sussista una distinzione tra filosofia e pedagogia, ciò dipende dal non saper individuare correttamente i loro oggetti. L’identificazione della pedagogia con la filosofia è, per G., totale. «La distinzione, in verità, regge finché non si veda che lo spirito, oggetto della filosofia è appunto quella formazione dello spirito, che è oggetto della pedagogia. Ma quando per spirito non s’intende se non appunto lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma, dello spirito, la filosofia stessa (tutta la filosofia, quando la realtà sia concepita assolutamente come spirito) diventa pedagogia, e la forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa la filosofia» (G., 1914, 14). Perciò tutte le antinomie dell’educazione – essere e dover essere, educatore e educando, autorità e libertà, eteroeducazione e autoeducazione – non hanno più ragion d’essere, perché nella concezione idealistica i due spiriti – educatore e educando – si fondono nell’atto educativo, cioè nel momento in cui c’è o si fa educazione.

4.​​ Influsso e risonanza.​​ L’influsso dell’attualismo sulla cultura italiana nella prima metà del Novecento è stato forte e durevole. L’azione e il pensiero di G., a loro modo, hanno dato sostegno all’attivismo nazionalistico dell’Italia al suo primo decollo industriale, contribuendo allo svecchiamento della cultura e all’apertura internazionale. Ciò è collegabile: a una sua prima collaborazione con Croce nella rivista «Critica»; all’insegnamento universitario; alle molte iniziative culturali da lui avviate («Giornale Critico della Filosofia»,​​ Enciclopedia Italiana,​​ collana di classici di filosofia e di storia); ai legami che l’attualismo stabilisce con il fascismo; alla scuola gentiliana, che annovera tra i primi seguaci G. Saitta, V. Fazio Allmayer,​​ ​​ Lombardo Radice; alla sua spiccata personalità, che lo rende maestro dallo stile inconfondibile, capace di entusiasmare per gli ideali di un umanesimo culturale, personale e sociale. La concezione educativa di G. contribuisce a ridare vitalità e dignità ai valori spirituali, religiosi e umanistici della scuola, liberandola dallo scientismo positivista; a fare del maestro una persona professionalmente preparata, spiritualmente ricca, che utilizza, ma non si lascia irretire nei metodi e nelle tecniche didattiche ben sapendo che il vero insegnamento va oltre e più in profondità. Nella seconda metà del sec. si assiste a un declino dell’attualismo pedagogico, dovuto anche a limiti reali della sua impostazione. La riduzione della pedagogia a filosofia può innescare in ambito pedagogico il mal vezzo dei discorsi retorici e inconcludenti; l’esclusione di ogni dualità o antinomia emargina i soggetti reali dell’educazione e riduce oltremisura la complessità educativa. D’altra parte, in tempi recenti sono valutati positivamente aspetti rilevanti e ancora fecondi dell’opera di G., in particolare «il grande sforzo di elevare ai più alti livelli scientifici e formativi le istituzioni culturali. Per tali aspetti, che vanno al di là delle particolarità di azione didattica e di scelta di contenuti scolastici, il pensiero e l’opera di G.G. sono tuttora vitali e presenti nella cultura italiana del Novecento» (Cavallera, 1995, 51).

Bibliografia

a)​​ Fonti: G.G.,​​ Preliminari allo studio del bambino,​​ Firenze, Sansoni,​​ 91969;​​ Opere filosofiche, Milano, Garzanti, 1991;​​ Lezioni di pedagogia, Firenze, Le Lettere, 2001;​​ Sommario di pedagogia come scienza filosofica. 1. Pedagogia generale.​​ 2. Didattica, Ibid., 2003;​​ La nuova scuola media,​​ Ibid., 2003;​​ La riforma della scuola in Italia,​​ Ibid., 2003;​​ Educazione e scuola laica, Ibid., 2003. b)​​ Studi:​​ Hessen S.,​​ L’idealismo pedagogico in Italia. G.G. e G. Lombardo-Radice,​​ Roma, Armando, 1966; Chiosso G. et al.,​​ Opposizione alla riforma G.,​​ Torino, Quaderni del Centro Studi «Carlo Trabucchi», 1985;​​ G.G. e l’educazione degli italiani,​​ in «Nuova Secondaria» (1988 / 1989) 7, 25-39; Gaudio A.,​​ Educazione e fascismo in alcuni studi recenti,​​ in «Annali di Storia dell’educazione» 1 (1994) 295-302; Cavallera H.,​​ La pedagogia di G.G.,​​ in «Pedagogia e Vita» 53 (1995) 25-51; Colombo K.,​​ La pedagogia filosofica di G.G., Milano, Angeli, 2004.

R. Lanfranchi




GESTALT

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GESTALT

Termine ted. che corrisponde al significato di «struttura unitaria», «configurazione armonica». Esso è legato a due correnti di ricerca, nate in periodi e con obiettivi diversi:​​ la psicologia della G.,​​ una scuola teorica tedesca che negli anni Venti ha studiato la percezione, e la​​ psicoterapia della G.,​​ una scuola clinica post-analitica, sviluppatasi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, nell’ambito delle psicoterapie umanistiche. Tuttavia, come vedremo, il fatto che queste due scuole siano accomunate dal nome G. non è casuale.

1.​​ La psicologia della G.​​ La​​ Gestaltpsychologie​​ o Scuola di Berlino si inserisce tra le scuole strutturaliste della percezione, di cui rappresenta sicuramente quella che ebbe il maggiore influsso sullo sviluppo della psicologia (Ronco, 1977, 41ss.). La nascita della psicologia della G. si fa risalire al 1912, quando M. Wertheimer scrisse un articolo in cui identificava un processo percettivo unitario – da lui chiamato fattore «phi» – grazie al quale i singoli stimoli verrebbero integrati, nel soggetto, in una forma dotata di continuità. Ciò significava che quello che prima era stato considerato un processo passivo – il percepire – veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo, come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali. Wertheimer intuì che non sono gli stimoli elementari ad essere colti dall’organismo che percepisce ma piuttosto le stesse configurazioni unitarie. In altre parole, per l’organismo che percepisce, l’insieme significativo è lo stimolo (Wertheimer, 1959). Da qui la legge gestaltica per cui il tutto viene prima delle parti. Wertheimer individuò una serie quasi infinita di «leggi» sul funzionamento delle G. percettive, la più importante delle quali è la​​ legge della pregnanza:​​ ciò che viene percepito contiene una forma organizzata che è​​ la migliore possibile,​​ in date condizioni ambientali, ossia risponde ad un principio di economia dell’organizzazione (il massimo dell’informazione nella struttura più semplice). Gli psicologi della G. si impegnarono in ricerche approfondite che potessero validare le loro intuizioni sul processo percettivo e, in questo percorso, il loro modello si spostò verso una accentuazione dei fattori interni all’organismo nella formazione delle G., allontanandosi dalla prospettiva originaria di Wertheimer sulla possibilità di quantificare oggettivamente, nell’ambiente, le «buone G.». Il contributo di​​ ​​ Lewin portò la psicologia della G. fuori del laboratorio, nella realtà molto più complessa della vita quotidiana, che egli considerò come «il campo» in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi. Il campo percettivo è per Lewin una sorta di sfondo, di mappa mentale da cui emergono di volta in volta figure nuove, che poi ritornano nello sfondo per lasciare il posto ad altre figure, percepite dall’organismo come rilevanti per il raggiungimento dei propri scopi. Ciò implica che uno stesso oggetto può essere percepito con significati diversi a seconda degli obiettivi o del bisogno che l’individuo avverte in quel momento, così come essi interagiscono con il contesto situazionale in cui sono inseriti. In altre parole, per Lewin (1935)​​ il bisogno organizza il campo.​​ Queste intuizioni di Lewin diedero il via a una serie di ricerche sul​​ ​​ problem solving​​ (che diventava il paradigma di tutta l’attività cognitiva del soggetto) e sul concetto correlato di​​ insight​​ (Köhler, 1947), così importante per la psicoterapia, nonché sul «carattere di richiesta» delle situazioni incompiute (Zeigarnik, 1927). Un’ulteriore elaborazione della psicologia della G. dal punto di vista dello sviluppo di una teoria della personalità e della psicoterapia fu il contributo del neurologo K. Goldstein, del quale fu assistente di laboratorio per un breve periodo F. Perls, che poi avrebbe fondato la psicoterapia della G. Goldstein, come Lewin e Perls, fu al fronte durante la Prima Guerra Mondiale e molte delle sue ricerche furono condotte su ex-combattenti con danni cerebrali. Questi studi condussero Goldstein ad affermare che il comportamento è organizzato in modo da coinvolgere sempre l’intero organismo (Goldstein, 1939; 1940). L’unico impulso o istinto di cui si possa parlare nel comportamento umano è l’impulso a interagire con l’ambiente e a organizzare quella interazione in schemi. Goldstein affermò ciò con forza, opponendosi alla tendenza meccanicistica che caratterizzava alcuni studi psicologici, non ultimo il modello freudiano, e che vedevano nella riduzione della tensione il fine ultimo del comportamento umano. Goldstein chiamò​​ impulso all’auto-attualizzazione​​ questo unico vero impulso, che organizza tutti gli altri pseudo-impulsi e comportamenti dell’organismo in modo gerarchico.

2.​​ La psicoterapia della G.​​ La psicoterapia della G. si inserisce tra le terapie umanistiche. Nasce a New York, nel 1950 circa, dalle intuizioni di F. Perls, uno psicoanalista ebreo tedesco, emigrato negli anni Quaranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti, e per opera di un gruppo di intellettuali statunitensi, profondi conoscitori della psicoanalisi, che elaborò le intuizioni di Perls. Questi, insoddisfatto della teoria freudiana dell’Io, intuì che l’introiezione termina il proprio compito evolutivo fondamentale molto prima di quanto avesse teorizzato​​ ​​ Freud e indicò nello sviluppo dei denti (fase dentale)​​ l’evidenza fisiologica di tutto ciò. La capacità di masticare e di mordere che nasce nell’organismo con lo sviluppo dentale dà assoluto rilievo all’aggressività in un momento evolutivo significativamente anteriore a quello teorizzato da Freud. Inoltre, l’aggressività stessa venne intesa da Perls in termini positivi, di sopravvivenza e di crescita fisica ed esistenziale dell’organismo. In questo senso il pensiero di Perls si poneva quale modalità di superamento del dualismo presente nella metapsicologia freudiana tra impulsi dell’individuo e necessità dell’organizzazione sociale. Infatti, dal momento che l’individuo è soggetto che destruttura e ristruttura, gli si apre la possibilità concreta di vivere nel proprio mondo con pienezza. Le tre parole-chiave del titolo del primo libro di Perls, scritto nel 1945, prima ancora della fondazione della psicoterapia della G. –​​ L’Io,​​ la fame,​​ l’aggressività​​ (Perls, 1995) – sintetizzano la sua critica alla teoria freudiana sulla natura umana: non aver dato il giusto e fondamentale rilievo alla capacità dell’Io di soddisfare i propri bisogni (la fame)​​ attraverso un’attività autoaffermativa (l’aggressività),​​ che gli consente di assimilare o rifiutare l’ambiente, a seconda che esso gli si presenti come nutriente o nocivo. L’Io, la fame, l’aggressività diventarono quindi gli elementi portanti di questo nuovo modello di psicoterapia, i cui fondamenti sono contenuti nell’opera di F. Perls, R. Hefferline e P. Goodman,​​ G. therapy: excitement and growth in the human personality​​ (1951). Alla base di esso c’è la convinzione che ogni esperienza non può che avvenire al confine del contatto tra un organismo animale umano (così si esprimevano, in termini organicistici, i fondatori della psicoterapia della G.) e il suo ambiente. È proprio ciò che avviene in questo confine che è disponibile all’osservazione scientifica e all’eventuale intervento terapeutico. Il processo di contatto tra l’organismo umano e il suo ambiente consente all’individuo di imparare ad orientarsi nel mondo e ad agire su di esso al fine autoconservativo di assimilare la novità​​ ​​ il diverso da sé​​ ​​ e di crescere. Il confine di contatto è pertanto il luogo in cui è possibile mettere insieme la​​ creatività​​ (che esprime l’unicità dell’individuo) con l’adattamento​​ (che esprime la reciprocità necessaria al vivere sociale). Il modo in cui l’individuo fa (o non fa) contatto con il proprio ambiente descrive la sua funzionalità psichica. All’adattamento creativo, inteso come meta dello sviluppo sano dell’individuo, possiamo ricondurre il concetto di maturità in psicoterapia della G. Esso non risponde a un modello univoco di salute (From, 1985), ma consente la modulazione individuale su parametri di autorealizzazione e di accoglienza della novità portata dall’ambiente / altro. I bisogni individuali e quelli comunitari vengono integrati senza il sacrificio «a priori» di nessuno (Perls et al. 1951, 456ss.). Nella psicoterapia della G., quindi, la crescita di una persona verso l’autonomia coincide con la sua capacità di decidersi per l’incontro con l’altro, con il Tu. A livello clinico, dall’intuizione di Perls conseguirono alcune sostanziali differenze nella prassi psicoterapica: si pensi per esempio alla ridefinizione positiva dell’aggressività del paziente, al valore di recupero della spontaneità organismica dato alla capacità di concentrazione, che Perls sostituì alle libere associazioni, alla geniale sostituzione del concetto di causa-effetto con quello di funzione (From, 1985).​​ 

3.​​ Gli sviluppi successivi della teoria e della prassi della psicoterapia della G.​​ sono stati caratterizzati da una varietà di scuole, che si diversificano per il rilievo dato alla teoria del sé in quanto processo di contatto, l’essenziale novità di questo approccio tra le terapie umanistiche. Esse possono essere raggruppate in tre indirizzi: 1) la scuola di New York, rimasta fedele alle intuizioni del gruppo fondatore, le ha sviluppate con contributi teorici e applicazioni cliniche in situazioni di gruppo; 2) il movimento cosiddetto «viscerale», sviluppatosi lungo la costa californiana degli Stati Uniti, in seguito alle dimostrazioni «miracolose» (non supportate da spiegazioni teoriche) fatte da Perls con gruppi di pazienti affascinati dall’uso della drammatizzazione nel setting terapeutico, individua nella consapevolezza lo strumento terapeutico e dà valore alla soggettività, al corpo e alle emozioni nella crescita della persona; 3) infine, la scuola di Cleveland, un orientamento più eclettico che si focalizza sulla creazione di un linguaggio comune anche ad altri approcci terapeutici e su applicazioni a vari campi del sociale, come la consulenza aziendale. Da un punto di vista critico, l’avere intuito l’apporto creativo e significante che la forza aggressiva dell’organismo dà alle relazioni umane ha sostenuto nei primi decenni un clima teorico improntato spesso a una ribellione fine a se stessa, che ha minato significativamente l’adesione unanime ai paradigmi originali che caratterizzano i fondamenti dell’approccio. Tale mancanza di unitarietà del corpo teorico e metodologico ha lasciato oggi il posto ad un comune interesse per uno sviluppo in chiave ermeneutica capace di dare risposte alle esigenze della attuale società.

Bibliografia

Zeigarnik B.,​​ Über das Behalten von erledigten und unerledigten Handlungen,​​ in «Psychologische Forschung»​​ 9 (1927) 1-85; Lewin K.,​​ A dynamic theory of personality,​​ New York, McGraw-Hill, 1935; Goldstein K.,​​ The organism,​​ Boston, American Book Company, 1939; Id.,​​ Human nature in the light of​​ psychopathology,​​ Cambridge, Harvard University Press, 1940; Köhler W.,​​ G. in psychology,​​ New York, Liveright, 1947; Perls F. - R. Hefferline - P. Goodman,​​ G. therapy: excitement and growth in the human personality,​​ New York, The Julian Press, 1951; Wertheimer M.,​​ Productive thinking,​​ New York, Harper & Row, 1959; Ronco A.,​​ Introduzione alla psicologia, vol. 2.​​ Conoscenza e apprendimento,​​ Roma, LAS, 1977; From I.,​​ Requiem for «G.»,​​ in «Quaderni di G.» 1 (1985) 22-32; Perls F.,​​ L’io,​​ la fame,​​ l’aggressività,​​ Milano, Angeli, 1995.

M. Spagnuolo Lobb




gestione delle RISORSE UMANE

 

RISORSE UMANE: gestione delle

R.u. è un termine composto, anzitutto legato alla parola​​ risorsa.​​ Questa​​ indica il mezzo o capacità disponibile, consistente in una riserva materiale o spirituale, o in un’attitudine a reagire adeguatamente alle difficoltà, da vocabolario (Devoto-Oli, 2007). Alla sottovoce r.u., specifica che si tratta, nel linguaggio burocratico delle aziende, del complesso dei lavoratori. La voce rimanda ancora al fr.​​ ressource, che deriva dal lat.​​ resurgere​​ (risorgere). R.u.​​ è quindi un’espressione usata nel linguaggio manageriale e nell’economia aziendale per designare il personale che lavora in un’azienda e, in particolar modo, il personale dipendente.

1.​​ R.u.,​​ aspetti specifici. Con questa terminologia si vuole evidenziare l’aspetto di valore o​​ capitale​​ insito nel personale, nella sua professionalità e nelle sue​​ competenze​​ e, quindi, di conseguenza che le spese per l’impiego e lo sviluppo di tali r. devono essere considerate investimenti. La locuzione è oggi utilizzata anche per designare una funzione aziendale (Gestione e Sviluppo delle r.u.), in passato denominata ufficio del personale, che presiede alla vita lavorativa di un individuo all’interno di un’organizzazione e prevede i seguenti processi: la Pianificazione, la Selezione, il Reclutamento, l’Inserimento, la Formazione e lo Sviluppo, la Valutazione, la Retribuzione, la Mobilità interna, la Carriera del personale – ossia si occupa dei vari aspetti di un particolare sistema operativo aziendale – e le Relazioni Sindacali (Costa, 1997; Auteri, 1998). A questi processi va ultimamente aggiunto quello dell’Outplacement, ovvero della fuoriuscita delle persone dall’organizzazione e del loro eventuale re-impiego in un’altra struttura. Si tratta di un ufficio, di solito unito o quantomeno strettamente integrato, almeno nelle organizzazioni medio-grandi, alla funzione di Direzione. La gestione delle r.u. è ancora un’area teorica, divenuta oramai una disciplina, che raggruppa gli strumenti e le metodologie per gestire gli individui all’interno delle organizzazioni dal loro ingresso alla loro fuoriuscita.

2.​​ Cenni storici. Varie teorie organizzative hanno influenzato la Gestione del personale dentro le organizzazioni. Vediamone, molto sinteticamente, alcune tra le più importanti che secondo una suddivisione di De Masi (cit. in Avallone, 1994), si dividono in due filoni: il primo quello della teoria della divisone del lavoro, tra i cui autori ricordiamo, Taylor, Fayol, Dricker (cit. in Avallone, 1994). Il secondo, quello delle relazioni umane e dei sistemi, a cui appartengono rispettivamente Mayo, Likert, Herzberg e von Bertalanffy, Emery, (1994). Uno dei primi, in ordine di tempo, ad occuparsi della gestione delle r.u. nelle organizzazioni fu F. Taylor (1911) il quale, con l’intento d’introdurre ed applicare il metodo scientifico alla conduzione delle r.u. in azienda, diede vita al modello manageriale conosciuto come​​ Scientific Management.​​ Esso è un modello ispirato ad una forte razionalità che usa i principi del metodo scientifico per la gestione delle persone; secondo l’A. una precisa distribuzione dei ruoli e dei compiti al più capace renderebbe efficace ed efficiente un’organizzazione. La spersonalizzazione di questo modello, la disaffezione al lavoro che cominciava ad essere sempre più registrata nei contesti occidentali, creò le condizioni per le ricerche di E. Mayo, incaricato, nell’anno 1924, di condurre una ricerca presso la General Electric a Chicago, volta a comprendere il problema delle produzione e dell’efficienza nel contesto lavorativo. I risultati di tale sperimentazione inaugurarono un serie di studi e ricerche che diedero vita, successivamente, alla Scuola delle Relazioni Umane ad opera anche dei contributi di D. Mc Gregor e F. Herzberg. Successivamente, siamo intorno al 1970, è la Scuola Sistemica (Lawrence - Lorsch, 1967), che introduce i concetti di scambio con l’ambiente e di omoestasi, dove l’individuo, al pari dell’organizzazione, è un sistema che apprende dal contesto, con cui scambia informazioni e al quale tenta di adattarsi. Tutte le teorie organizzative esposte, individuano, ciascuna, un preciso modello di gestione delle r.u. che vanno lungo un continuum che vede l’oggettività, la standardizzazione e la razionalità da un parte​​ versus​​ un approccio dove la soggettività, la motivazione e la complessità individuale e di sistema giocano un ruolo primario.

3.​​ Attualità.​​ La Gestione delle r.u., prendendo in considerazione il contesto italiano, ha attraversato varie fasi, a seconda delle epoche che prendiamo in considerazione. Nello specifico, e sinteticamente, abbiamo: a) Fase normativo / giuridica (anni ’50 del sec. scorso): la funzione del personale è amministrare il rapporto di lavoro dal punto di vista amministrativo (retribuzione) e giuridico (ferie, contrattualistica). b) Fase delle relazioni Umane (anni ’50):​​ siamo nelle fase successiva agli esperimenti di E. Mayo, dove vi è una maggiore attenzione all’individuo, alle buone relazioni umane ed al clima che si respira nei contesti organizzativi. c) Fase della Gestione delle R. (anni ’60):​​ si diffondono le idee di​​ ​​ Maslow e di McGregor (Isfol, 2001): l’uomo è una r. che può crescere se l’organizzazione glielo consente. Gli strumenti di gestione delle r.u. sono: Orientamento professionale e mobilità, Formazione sia tecnico-specialistica che direttivo-gestionale, Valutazione delle prestazioni lavorative e del potenziale umano, Gestione meritocratica delle retribuzioni e l’Ampliamento della delega. d) Fase dello Sviluppo delle r.u. (dal ’69 al ’75):​​ la funzione r.u. diviene la variabile critica delle organizzazioni. Il paradigma della complessità sistemica entra a far parte della lettura delle organizzazioni e pertanto gli strumenti di gestione delle r.u. si concentrano sullo sviluppo delle potenzialità, prevedendo le seguenti modalità: 1) Ampliamento e arricchimento delle mansioni, 2) Analisi organizzativa, 3) Direzione per obiettivi, 4) Valutazione del potenziale insito in ogni persona, 5) Piani di sviluppo e percorsi di carriera, 6) Attenzione ai bisogni di crescita e sviluppo dell’individuo e delle organizzazioni. e) Fase dello Sviluppo Organizzativo (fine anni ’70 e inizi anni ’80):​​ si diffondono le teorie della Scuola Socio-tecnica a seguito dei contributi di F. E. Emery e E. L. Trist (Isfol, 2001), con i concetti di sviluppo organizzativo. L’azienda è vista come un sistema aperto. Il conflitto intraorganizzativo viene inquadrato come una r. e, al contempo, una variabile da gestire. f) Fase della Direzione e Sviluppo delle r.u. (fine anni ’90 ad oggi): è la fase in cui la funzione r.u. svolge una attività di tipo strategico-sistemica volte a trovare compatibilità e coerenza tra scelte aziendali (politiche organizzative) e politiche del personale. Possiamo sicuramente affermare che la gestione delle r.u. è oggi giunta alla sua maturazione, tant’è che sempre più fa parte dei processi strategici di ogni organizzazione, nel senso che il Direttore del Personale partecipa sin dai primi momenti alle importanti e strategiche decisioni aziendali (Costa, 1997).

4.​​ Sviluppi. La gestione delle r.u., le sue tecniche e metodologie, possono essere applicate a qualsiasi contesto organizzativo. Negli ultimi tempi, si assiste ad un interesse per questa disciplina anche da organizzazioni legate al terzo settore, quali le organizzazioni​​ no​​ profit​​ (senza fini di lucro). Tra queste, J. M. La Porte (2003), include le organizzazioni professionali come le scuole, le università, gli ospedali, il sistema sanitario, le associazioni, le cooperative sociali. Si tratta in gran parte di società di servizi, che sono di solito volte alla creazione di benessere negli individui e nell’ambiente e la cui caratteristica intrinseca, strutturale, è quella di essere intangibili e difficilmente misurabili. Sono organizzazioni che dal punto di vista funzionale si reggono sulla motivazione e sulla reciproca fiducia dei membri che ne fanno parte. Questa dimensione aggregativa e gestionale sta oggi lasciando il posto, o meglio, sta avvenendo una transizione da un modello spontaneistico di gestione, verso la ricerca di uno schema più formalizzato che consenta di affrontare i problemi di coordinazione e conduzione derivanti da una crescita organizzativa di questi enti sempre più consistente. Certamente questa transizione verso l’adozione di modelli manageriali a forte razionalità per la gestione del proprio personale, pone alcuni problemi d’integrazione poiché l’innesto di sistemi formalizzati in culture organizzative caratterizzate da una certa indeterminatezza della base materiale e della tecnologia operativa non è semplice e diretto. Questa indefinitezza, lungi dall’essere una debolezza del sistema (si parla infatti di organizzazioni a legame debole), ne contraddistingue le sue peculiarità e specificità che consentono a questi sistemi una più rapida adesione al contesto di riferimento e una più rapida risposta ai cambiamenti. Tuttavia, l’introduzione di strumenti e tecniche derivanti dal corpus teorico delle r.u. è quindi motivata, da parte di questi organismi dal voler adottare sistemi di gestione più razionali e certi, nell’intento di ovviare ad alcune disfunzioni organizzative incluse ad es., quelle del reclutamento del personale, dell’organizzazione dei compiti e della formalizzazione del raggiungimento degli obiettivi organizzativi che, sovente, in queste strutture organizzative possono risentire del tempo e della incerta formalizzazione degli scopi operativi e dalla credenza che così si operi un rafforzamento surrettizio di questi legami deboli. Con il rischio, all’orizzonte, di un possibile rigetto di sistema conseguente ad un mancato adattamento critico di questi strumenti alle specificità del contesto di riferimento.

Bibliografia

Avallone F.,​​ Psicologia del lavoro. Storia,​​ modelli,​​ applicazioni, Roma, Carocci, 1994; Costa G.,​​ Economia e direzione delle r.u., Torino, UTET, 1997; Auteri E.,​​ Management delle r.u., Milano, Guerini e Associati, 1998; Grimaldi A. (Ed.),​​ Area occupazionale-gestione delle r.u. - Repertorio delle professioni, Roma, ISFOL, 2001; La Porte J. M.,​​ Comunicazione interna e management del no-profit, Milano, Angeli, 2003.

E. Riccioli




GESUITI

 

GESUITI

Membri della Compagnia di Gesù, ordine religioso di chierici regolari fondato da s. Ignazio di​​ ​​ Loyola, approvato da Paolo III (1540).

1.​​ Finalità e mezzi.​​ Nacquero come un gruppo di presbiteri che desideravano prima di tutto​​ servire sotto il vessillo della Croce solamente il Signore Gesù,​​ e la sua sposa la Santa Chiesa sotto il Romano Pontefice,​​ dedicandosi intensamente alla salvezza e santificazione delle proprie anime nel servire quelle del prossimo. La loro spiritualità si fonda nella «conoscenza intima» della Persona di Gesù Cristo, contemplato, amato e seguito; nella preghiera personale, e nel servizio ecclesiale per la difesa e propagazione della fede. Per realizzare questo obiettivo, essi si servono di quei mezzi che​​ maggiormente​​ ad esso conducano: predicazione della Parola, insegnamento,​​ Esercizi spirituali,​​ catechesi, sacramenti, missioni estere, opere assistenziali, promozione umana e della giustizia sociale, mezzi di comunicazione, ecc. I g. si distinguono per il loro particolare voto di obbedienza al Papa circa le missioni che egli dovesse loro affidare. La loro struttura di governo è molto gerarchica: il preposito generale è eletto a vita dalla Congregazione Generale della Compagnia (formata dai superiori provinciali e da altri eletti nelle congregazioni provinciali). La​​ Formula dell’Istituto​​ è la loro Regola fondamentale, sviluppata nelle​​ Costituzioni,​​ redatte da s. Ignazio (con l’aiuto speciale del p. Polanco) tra gli anni 1539-53.

2.​​ Storia.​​ Il motto dell’Ordine (A maggior gloria di Dio)​​ è stato messo in pratica dalle loro prime attività nel sec. XVI, sia in Europa, nella difesa e propagazione della fede, sia nei territori cristiani, sia nei Paesi «di Missione», attraverso i diversi ministeri e servizi apostolici: dal lavoro catechetico alla ricerca scientifica, dall’attenzione spirituale ai malati alle opere di civiltà delle Riduzioni americane, dalle opere d’insegnamento alle riviste ed altri mezzi di comunicazione. Erano 10 i primi compagni (Favre, Xavier, Laínez, Salmerón, Rodríguez, Bobadilla, Jayo, Broet, Coduri e Ignazio) che fissarono il loro centro di attività a Roma. L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto a preposito generale, ed i compagni presenti a Roma fecero la professione solenne il 22 dello stesso mese nella basilica di san Paolo fuori le mura. I primi collegi per esterni furono estensione o apertura ai laici dei collegi fondati anzitutto per la formazione dei futuri g. A Gandía (Spagna) aprirono un collegio per studenti della Compagnia con accesso anche ai figli dei «moreschi» (1546); similmente fecero a Messina (1548), per altri studenti esterni; il Collegio Romano – origine dell’Università Gregoriana – fu fondato nel 1551 ed in esso si sarebbero formati i futuri g., i seminaristi diocesani e perfino cattolici secolari molto impegnati. A partire dal 1553 nei collegi dei g. si cominciarono ad impartire anche lezioni di Filosofia e Teologia. I collegi gesuitici divennero anche centri cittadini di assistenza sociale e spirituale. Quando Ignazio morì (1556) i g. erano più di un migliaio, e i loro collegi erano 39, sparsi in 7 nazioni europee; nel 1580, i collegi erano 140; nel 1600 erano 245; e nel 1626 giunsero a 444. A questi bisogna aggiungere 56 seminari, oltre alle istituzioni universitarie per gli studenti g. L’insegnamento era gratuito, perché era ritenuto ministero apostolico. Per questo, quando era creato un collegio, si cercava sempre che avesse una «fondazione» (rendite o donazioni che assicurassero il suo mantenimento). Mediante tale strumento i g. incidevano nelle strutture della società. Si dedicarono pure alla predicazione, come avevano fatto ai loro inizi, a Siena e a Parma, mandati da Paolo III. Altri furono inviati ad espletare missioni diplomatiche in favore della Santa Sede (Broet e Salmerón furono nunzi apostolici in Irlanda, 1541). A richiesta di Paolo III, Ignazio inviò al Concilio di Trento Laínez e Salmerón (1546). P. Favre, uno dei più fedeli amici di Ignazio, accompagnò in Germania il dr. Pedro Ortiz, diplomatico, il quale partecipò alle dispute religiose tra cattolici e protestanti a Worms e Regensburg. Tutta questa attività era accompagnata, fin dai primordi della Compagnia, dalla predicazione al popolo e dagli​​ Esercizi spirituali​​ dati alle singole persone.​​ Salmerón si distinse per i suoi sermoni, Favre guadagnò la simpatia di molti in Italia, in Germania e in Spagna, e scrisse un​​ Memoriale​​ che i g. considerano come emblematico. Nel sec. XVI si consolidò il metodo d’insegnamento fino alla formazione della​​ ​​ Ratio studiorum,​​ che servirà da guida ai g. nell’educazione ispirata all’umanesimo cristiano. Agli inizi del Seicento, essendo preposito generale il p. Acquaviva, si realizzò la definitiva separazione fra i centri di formazione dediti esclusivamente ai g. e gli altri centri (collegi e università) indirizzati ai non g. La Compagnia trovò difficoltà nel suo apostolato a causa del regime assolutista degli Stati, opposto alla centralizzazione romana rappresentata dai g. Si svilupparono, però le​​ missioni popolari​​ e gli​​ Esercizi.​​ La Compagnia fu espulsa da alcuni Stati monarchici sotto l’influsso di ministri «filosofi» (Pombal nel Portogallo, Choiseul in Francia, Tanucci a Napoli, Aranda in Spagna); in seguito, Clemente XIV firmò il breve​​ Dominus ac Redemptor​​ (1773) mediante il quale la Compagnia era soppressa in tutta la Chiesa. Una delle ragioni per cui i g. furono sistematicamente perseguitati dai membri della cultura laicista ed illuminista (enciclopedisti e massoni inclusi) fu l’universale rilevanza che aveva acquistato il modello pedagogico gesuitico, che rendeva la Compagnia decisiva per la cultura religiosa e la civiltà cattolica. Pio VII, tramite la bolla​​ Sollicitudo omnium ecclesiarum​​ (1814) ripristinò la Compagnia, mirando particolarmente al servizio reso dai g. nel campo dell’insegnamento. La​​ nuova​​ Compagnia, nell’Ottocento, diede alcuni segni di intransigenza, conseguenza delle persecuzioni precedenti, e del desiderio di consolidare le sue radici. I 600 g. del 1814 giunsero, nel 1960, a 36.038, e crebbero soprattutto durante i generalati dei pp. Ledóchowski (1915-42) e Janssens (1946-64). Nel 2007 erano 19.554, e preparavano la Congregazione Generale per gennaio 2008, in cui, tramite permesso esplicito del Papa, sarebbe stato scelto il nuovo Generale, dopo le dimissioni di P. Kolvenbach. Durante il sec. XIX i collegi e le università dei g. negli U.S.A. raggiunsero notevole sviluppo, influendo (assieme all’attività di molti altri istituti religiosi dediti all’insegnamento) sulla crescita del numero dei cattolici nell’America del Nord. Tra i più noti studenti dei g. sono da ricordare s. Giovanni della Croce, Cartesio, s. Francesco di Sales, ecc.

Bibliografia

García Villoslada R.,​​ Manual de historia de la Compañía de Jesús,​​ Madrid, Aldecoa, 1941; Martini A.,​​ La Compagnia di Gesù e la sua storia,​​ Chieri, La Civiltà Cattolica, 1951; Thomas J.,​​ Il segreto dei g.: Gli Esercizi spirituali,​​ Casale Monferrato (AL), Piemme,​​ 21988; Bangert W. V.,​​ Storia della Compagnia di Gesù,​​ Roma, Marietti, 1990; Guibert J. de,​​ La spiritualità della Compagnia di Gesù. Saggio storico,​​ Roma, Città Nuova, 1992; De​​ Rosa G.,​​ I​​ G., Leumann (TO), Elle Di Ci / La Civiltà Cattolica, 2006.

F.-J. de Lasala