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educazione all’AMORE

 

AMORE: educazione all’

Nel linguaggio comune per a. si intende il sentimento o l’attrazione che una persona nutre nei confronti di un’altra, implicante una scelta, per una reciprocità di relazione e di piena e intima unione interpersonale; ma in senso più largo con a. si intende anche qualsiasi sentimento positivo, apprezzamento, attrazione, desiderio per un oggetto, altri esseri, un ideale, una causa per cui ci si dedica e ci si sacrifica e che appaga il proprio desiderio e realizza le aspirazioni personali o di gruppo.

1. Tradizionalmente si distingue nell’a. l’aspetto impulsivo (éros)​​ da quello di​​ ​​ amicizia e benevolenza (filía),​​ da quello di vicinanza interiore (affetto)​​ e da quello di oblatività gratuita e sovrabbondante (agape),​​ tipico, secondo il cristianesimo, dell’a. di Dio. Nella classicità si indicava con termine apposito (=​​ stergo), l’amore dei genitori verso i figli, la loro amorevole cura verso la prole. Dal punto di vista etico-religioso, dopo s.​​ ​​ Agostino si è preso a distinguere la​​ cupiditas​​ (o​​ amor sui​​ = a. di sé fino al «disprezzo» degli altri e di Dio) dalla​​ caritas​​ (o​​ amor Dei​​ = a. di Dio fino al «disprezzo» di sé per donarsi agli altri ed a Dio). Più di recente si è distinto l’«innamoramento», a. «allo stato nascente», che porta a fonderci con la persona amata, dall’a. vero e proprio, che porta a creare una comunità di vita nella stima e fiducia interpersonale globale e perenne. Il vissuto quotidiano mette in luce la complessità e le difficoltà dell’a.: le infatuazioni estetiche o erotiche, le «cotte», gli amori «platonici», le difficoltà di relazionarsi, le paure di perdersi e di essere abbandonati, la ricerca spasmodica del piacere, l’adorazione divistica; fors’anche in relazione a certe tendenze presenti nella cultura contemporanea che portano ad esaltare un certo soggettivismo, individualismo, materialismo, utilitarismo, presentismo a scapito del senso del noi, dello spirituale, del gratuito e della fedeltà.

2. Anche se l’a. si mostra come una dimensione radicale dell’esistenza umana, chiede una graduale maturazione. In tal senso si impara ad amare anzitutto grazie al calore dell’a. ricevuto dagli altri fin dalla più tenera età e per cui è fondamentale il senso di fiducia «originaria» suscitata dalle relazioni interpersonali materne, parentali, familiari e sociali. Un’educazione all’a. consiste essenzialmente nell’aiutare e stimolare le persone a passare gradualmente da un a. infantile immaturo, autocentrato, possessivo ad un a. più personalizzato, interpersonale, solidale, aperto alla trascendenza, capace di a. verso se stessi (capacità di interiorità), di a. alle cose (capacità di operatività e di realismo), di a. agli / per gli altri (capacità di impegno e di solidarietà, di dedizione e di reciprocità), di a. di «Dio» (capacità di dedizione ad una causa ideale e apertura ad una comunione universale e ad una «religione» personale, individuale e comunitaria). Nei confronti di una mancata od errata educazione all’a. o di eventuali carenze, distorsioni, patologie, si richiedono interventi terapeutici, impegno di autoformazione permanente personale, di coppia, familiare, comunitaria. In particolare l’educazione all’a. si rapporta con l’educazione alla sessualità e alla relazionalità amorosa tra uomo e donna; con l’educazione alla scelta del partner e del coniuge, compagno / a di vita: nella prospettiva del «senza fine» e nella speranza della «pienezza della comunione», che sembrano intrinseche all’a. In tutto ciò è notevole il contributo delle scienze umane, della​​ ​​ psicoanalisi e della terapia, ma anche della critica culturale.

Bibliografia

Nygren A.,​​ Eros e agàpe,​​ Bologna, Il Mulino, 1960; Fromm E.,​​ L’arte d’amare,​​ Milano, Il Saggiatore, 1977; Alberoni F.,​​ Innamoramento e a.,​​ Milano, Garzanti, 1979; Lewis C. S.,​​ I​​ quattro a. Affetto,​​ amicizia,​​ eros,​​ carità,​​ Milano, Jaca Book, 1982; Bauman Z.,​​ A. liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma / Bari, Laterza, 2006; D’Aquanno M.,​​ Una didattica avanzata per una pedagogia dell’a., Milano, Angeli, 2007.

C. Nanni




educazione alla LIBERTÀ

 

LIBERTÀ: educazione alla

L’identità della​​ ​​ persona consiste nella coscienza della l. come capacità interiore di realizzarsi secondo un progetto personale. Tale progetto deve «condurre fuori» ciò che è dentro la persona. Ma non è possibile «condurre fuori» qualcosa se non proponendo un modello di ciò che la persona può e deve essere. Tale processo coinvolge il soggetto attivamente anche nella dimensione cognitiva, che avvia una ricerca caratterizzata da una ragione morale.

1. Nella sua vita, la persona si realizza come sintesi instabile di​​ ​​ valori corporei (legati al contesto) e spirituali (trascendenti), in una continua ricerca di equilibrio. La «corporeità» fa prendere coscienza che l’io, che è situato nel contingente, è costretto a fare i conti con il suo spazio-tempo. La «spiritualità» fa comprendere che si può oltrepassare la situazione contingente, sia perché si hanno radici nel passato e si è proiettati verso un futuro, sia perché si possono esprimere valori che hanno un rapporto con il trascendente. In tale processo la l. non può essere intesa in senso assoluto, ma in relazione ad una situazione, ad una convivenza che la esprime; né può essere goduta come bene acquisito una volta per sempre. Si tratta di una conquista graduale e progressiva che suppone un itinerario educativo.

2. Come conquista, la l. non è mai definitiva, ma si attua superando gradualmente i limiti. I mali vanno evitati in quanto mali, come aspetti che riducono, limitano, o arrestano l’umanità dell’individuo: ma possono essere recuperati per quel nucleo che in essi v’è di realtà dotata di significato e di valore. Perciò la conquista delle l. comporta un lungo cammino individuale e collettivo (​​ liberazione, educazione liberatrice), che implica il passaggio da orizzonti limitati a più ampi traguardi che non solo fondano in maniera più radicale e universale quella norma che regola la l. individuale, ma corrispondono alla conquista di un più elevato grado di l. Educare, in tale prospettiva, vuol dire abilitare alle scelte per il proprio progetto di vita, per diventare persona «adulta». Ciò richiede attenzione all’educando, alla sua esperienza umana, alle sue capacità intellettuali, emotive, psicologiche; attenzione all’educatore, che deve lasciarsi coinvolgere e che deve anticipare un senso alle scelte del soggetto, mettendosi in gioco; attenzione agli insegnamenti, ai contenuti della condotta morale, ai giusti comportamenti; ma soprattutto attenzione alle motivazioni, alle intenzioni, agli atteggiamenti interiori, alla virtù. Importanza particolare assume la vita concreta ed il ruolo della famiglia (i genitori), ma anche il valore dell’aiuto che viene dalla scuola, dagli amici, dalla comunità religiosa di appartenenza: insegnare il bene è farlo emergere, con autonomia, razionalità ed altruismo.

3. In questo orizzonte di senso si pone il problema dell’educazione alla l.: mirare cioè alla maturazione della persona, perché si è liberi quando si è autenticamente se stessi, sviluppando quei valori umani su cui si è fondati per realizzare in sé l’uomo o la donna, attraverso un’autodisciplina che è coscienza critica e dominio personale nelle scelte che permettono di «essere di più», di dare qualità umana alla propria esistenza, di acquisire abitudini di l. Infatti questa educazione non si identifica con un insegnamento rivolto a sviluppare tecniche per l’autonomia e la decisione personale, che pure sono indispensabili, ma deve mirare all’espressione della l. come acquisizione di valori più «autenticamente e pienamente umani», vissuti nella tonalità che caratterizza l’individualità di ognuno. L’educazione alla l. perciò significa educare all’umanità piena, perché ogni educazione è autentica se è promozione di umanità nella sua integralità e unitarietà personale. Siccome la persona è irripetibile, educare alla l. significa permettere che ognuno diventi cosciente delle proprie condizioni interiori ed esteriori, in vista della riuscita di una propria esperienza di uomo / donna. Ne consegue che non si può educare alla l. con metodi coercitivi, ma stimolare, persuadere, convincere ad essere liberi. Educare alla l. sottolinea più il concetto positivo di l. (libertas specificationis =​​ fare questo o quello) che il suo negativo (libertas exercitii​​ = fare o non fare). Il momento negativo è importante per superare il determinismo e il fatalismo, ma da solo non promuove la l. Perciò nel contesto culturale segnato dall’individualismo, dall’utilitarismo, dall’efficientismo e dal presentismo, l’educazione alla l. deve essere caratterizzata da un aiuto a crescere nella responsabilità, nella solidarietà, nella ricerca condivisa del bene comune, nell’impegno di partecipazione «civile» per la promozione e la tutela dei​​ ​​ diritti umani​​ di tutti e di uno sviluppo «dal volto umano» per tutti i popoli e per le generazioni venture. Educare ai diritti umani vuol dire non limitarsi a trasmettere una serie di pur utili nozioni, ma richiede un processo lungo con una strategia preventiva efficace di difesa della dignità di ogni individuo.

4. Allora l’educazione alla l. richiede istruzione, dialogo, senso critico, realismo, motivazione, discussione. Ma anche capacità creativa e senso dell’utopia (cioè il gusto per gli ideali che si vogliono realizzare, anche se in modo limitato). Occorre perciò esercizio, esperienza, tirocinio guidato, accompagnamento; occorre «far pratica» di l. nel concreto della vita comune del proprio tempo, delle istituzioni, delle forze qui e ora disponibili. Sarà necessario aiutare a trovare la «discrepanza ottimale» tra ideale e reale, ad essere coraggiosi e prudenti allo stesso tempo, a «toccar con mano» possibilità e limiti personali e sociali. E saranno pure necessarie opportune e scadenzate forme di valutazione, di verifica e di supervisione interpersonale e (o anche) comunitaria.

Bibliografia

Bausola A.,​​ L. e responsabilità,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1980; Serio G.,​​ Educazione e l. nell’era tecnologica,​​ Napoli, Tecnodid, 1988; Poupard P.,​​ Dio e la l.: una proposta per la cultura moderna,​​ Roma, Città Nuova, 1991; Laporta R.,​​ L’assoluto pedagogico. Saggio sulla l. in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1996; Montessori M.,​​ Educazione alla l., Bari / Roma, Laterza, 1999; Balducci E.,​​ Educazione e l., Casale Monferrato (AL), Piemme, 2000; Bernardi M.,​​ Educazione e l., Milano, Fabbri, 2002; Rey O.,​​ Une folle solitude. Le fantasme de l’homme auto-construit, Paris, Seuil, 2006.

G. Morante




educazione alla MONDIALITÀ

 

MONDIALITÀ: educazione alla

Pluriverso, ecumene globale, società delle reti, età del meticciato, ecc., sono appena alcune delle espressioni che vengono utilizzate per caratterizzare il mondo d’oggi. Ma dentro ognuno di noi – ha osservato l’intellettuale francese J. Daniel – c’è ancora una contraddizione tra sedentarietà e nomadismo, tra nostalgia del particolare e spinta verso l’universale, tra il desiderio di ancorarsi a un’identità e la solidarietà che ci imponiamo nei confronti degli altri. Tuttavia, per la prima volta, il proposito di Terenzio, che​​ ​​ Montaigne ha reso celebre, «niente di ciò che è umano mi è estraneo», ha cessato di essere una morale ed è divenuto un obbligo: ognuno è diventato il vicino dell’uomo più lontano di questa terra. Il sentimento della distanza sta per scomparire. Sta per nascere in sua vece il «sentimento» dell’interdipendenza.

1. L’educazione alla m. è dunque diventata una necessità, un imperativo pedagogico. L’uomo di oggi, infatti, è in ritardo con se stesso. La storia sta camminando più velocemente della coscienza (E. Balducci). C’è una sfasatura tra la società – che è di fatto planetaria – e la coscienza umana che è ancora pre-planetaria. In termini di consapevolezza, scrive E. Morin, stiamo ancora all’età del ferro dell’epoca planetaria. Abitiamo sull’arancia blu (così è apparsa la Terra nel 1957 all’uomo che la guardava per la prima volta dall’oblò di una capsula in orbita), ma dentro di noi c’è ancora una coscienza dello «spicchio». L’interdipendenza planetaria è ben lontana dall’essere vissuta come categoria etica e ancora meno dal diventare una nuova concezione della​​ governance​​ e della sovranità in politica. Il vecchio principio di indipendenza e di sovranità nazionale non basta più. Non è possibile infatti affrontare problemi globali come l’ecologia, le migrazioni, la guerra, la fame, l’aids... con politiche locali o nazionali. A ragione, Giovanni Paolo II ha affermato (2004): «occorre un grado superiore di ordinamento internazionale». Si comprende così la ragione per cui il politologo statunitense Banjamin Barber abbia proposto di celebrare ogni anno la Giornata mondiale dell’Interdipendenza. E di farlo il 12 settembre, il primo giorno dopo l’11, perché esso non si ripeta mai più. A questa iniziativa simbolica, ma fortemente significativa, hanno già aderito numerosi organizzazioni e movimenti della società civile globale.

2. Alla luce di tutto questo, il ritorno parallelo dei localismi e dei fondamentalismi è tutt’altro che assurdo e appare come il tentativo (inadeguato, certamente, ma non irrazionale) di rimettere al centro se stessi, di ripartire dalla propria terra, dal proprio gruppo etnico, culturale, religioso rifiutando quel senso di parzialità e di relatività che la nuova situazione storica di globalità e di meticciamento impone di accettare. L’educazione alla m. si colloca precisamente in questo contesto storico così complesso e conflittuale che coinvolge tutti, a Nord e a Sud del pianeta. L’Unesco, il Consiglio d’Europa, il Parlamento Europeo, il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione hanno approvato, negli ultimi anni, numerose dichiarazioni che sollecitano le agenzie educative a muoversi nella direzione della m. e dell’interculturalità anche per ridurre e per prevenire i fenomeni di razzismo, intolleranza, xenofobia e discriminazione. Non v’è dubbio, infatti, che l’educazione alla m. interessi tutte le discipline scolastiche e l’universo della comunicazione sociale, ma un ruolo particolare spetta all’educazione civica. Pensiamo soltanto al tema dei diritti umani e della cittadinanza (nazionale, europea, mondiale), oppure a quello delle istituzioni democratiche (politiche, economiche, sociali) a livello internazionale. Un grande contributo alla costruzione di una società più giusta e conviviale può venire dalle religioni e dallo sforzo congiunto di riconoscere i principi universali di una comune etica mondiale (H. Küng).

3. Educare alla m. non significa in nessun caso «reductio ad​​ unum» delle diversità, omologazione e uniformità, ma indica la «convivialità delle differenze» e quindi la valorizzazione dell’alterità come risorsa e perfino come diritto ad essere «altro». La vera ricchezza di cui il mondo dispone è infatti la diversità delle culture, delle religioni, dei tanti punti di vista che sono destinati a convivere in uno spazio comune e plurale. L’unità della famiglia umana esige infatti cittadinanza «glocale», oltrepassamento di ogni etnocentrismo, etica del genere umano, disponibilità a costruire, insieme agli altri, la civiltà del con-vivere, affrontando positivamente le sfide incalzanti dell’identità, della laicità e dell’etica pubblica.

Bibliografia

Nanni A.,​​ Progetto m.,​​ Bologna, EMI, 1985; Balducci E.,​​ L’uomo planetario,​​ Fiesole, ECP, 1990; Morin E.,​​ Terra. Patria,​​ Milano, Cortina, 1994; Mancini R. et al.,​​ Etiche della m. La nascita di una coscienza planetaria, Assisi, Cittadella, 1996; Tomlison J.,​​ Sentirsi a casa nel mondo,​​ Milano, Feltrinelli, 2001; Küng H.,​​ Etica mondiale per la politica e l’economia,​​ Brescia, Queriniana, 2002; Ceruti M. - G. Bocchi,​​ Educazione e globalizzazione,​​ Milano, Cortina, 2004; Nanni A.,​​ Profeti di m. Il movimento CEM nella scuola italiana,​​ Bologna, EMI, 2007.

A. Nanni




EDUCAZIONE ALLA PACE

 

PACE: EDUCAZIONE ALLA

La p. è un concetto complesso che richiederebbe, per essere esplorato, riferimenti a culture diverse e ad autori di ogni tempo. Basterebbe soltanto evocare il concetto greco di​​ eirene,​​ quello​​ di pax romana,​​ quello ebraico di​​ shalom,​​ quello evangelico-cristiano ma anche di altre culture e religioni. In generale la p., quando non è «dono» divino, è pensata come una condizione di armonia che è per lo più il risultato del superamento di un conflitto.

1. Quando in Italia si usa l’espressione «educazione alla p.» ci si collega, esplicitamente o no, ad una tradizione pedagogica che si è incarnata in figure come​​ ​​ Montessori, Capitini,​​ ​​ Milani ed altri. Ma è a partire dalla metà degli anni ’70 del sec. scorso che si è fatta strada una vera e propria pedagogia nonviolenta. Il fenomeno si accompagna da una parte alla crescita del «movimento della p.» e dall’altra alle pressioni degli organismi internazionali. In Italia, al contrario di altri Paesi (ad es. gli Stati Uniti e la Svezia), mancano corsi di studi istituzionalizzati a livello universitario: non ci sono corsi di laurea o di specializzazione e neanche insegnamenti specifici nell’ambito della​​ Peace research.​​ Una delle finalità principali dell’educazione alla p. è la formazione di un uomo «nonviolento», che abbia cioè fiducia in sé e negli altri; che sappia intervenire in modo creativo e personale nella realtà che lo circonda per modificarla nel senso dell’umano; che si impegni a risolvere attivamente i conflitti senza violenze e prevaricazioni ma facendo leva sulle risorse costruttive già presenti e sviluppandone altre; che sappia operare nel quotidiano con collegamenti più ampi nella dimensione mondiale, che sia sempre alla ricerca della verità senza darla per scontata o rivendicandone l’esclusivo possesso. Per insopprimibile dimensione etico-politica, l’educazione alla p. è sempre, al contempo, educazione al cambiamento e alla giustizia, alla solidarietà e alla convivialità planetaria delle culture e dei popoli. Essa ripropone dunque con forza la​​ politicità​​ del fatto educativo, la coerenza tra mezzi e fini, facendo scoprire la connessione tra modelli sociali e modelli educativi e fra educazione e politica.

2. I percorsi di educazione alla p., se letti in riferimento agli obiettivi appaiono caratterizzati da uno «spostamento» dall’asse cognitivo all’asse relazionale. In breve, la p. non appare come un insieme di «conoscenze», ma come una «relazione» diversa con l’altro. Relativamente ai​​ contenuti,​​ gli itinerari di educazione alla p. presentano una seconda caratteristica ben marcata: non sono centrati su «temi», ma su «problemi» e, in particolare, su «conflitti». Nella nostra società multiculturale l’educazione alla p. è chiamata ad affrontare nuove forme di conflittualità come quelle legate allo scontro di civiltà e alle guerre dei simboli. Sono tanti gli esempi che confermano che viviamo già da tempo in una società «iconoclasta», dove si lotta per i segni, le immagini, le icone, i simboli culturali e religiosi. È per questo che se si vuole ridurre tale conflittualità è necessario preparare la convivenza dei simboli. Particolarmente importante appare oggi il dialogo con l’Islam e l’attenzione ad evitare quegli stereotipi che lo associano con il terrorismo. Non vi è dubbio, tuttavia, che oltre a fare i conti con l’attuale contesto multiculturale e multireligioso, l’educazione alla p. deve partire dal presupposto che la cultura della guerra e della violenza è dentro il linguaggio e dentro l’immaginario per cui bisogna decolonizzare l’immaginario e disarmare la cultura (R. Panikkar). Solo così si potrà avere un pensiero nuovo e purificato dal pregiudizio che vede nella violenza e nello scontro la soluzione dei conflitti e delle ingiustizie.

3. La diffusione di percorsi di educazione alla p. nella scuola e nella società ha contribuito a «decostruire» e modificare alcuni diffusi pregiudizi sui temi della guerra, della razza, della violenza strutturale, della p. positiva e negativa, dell’aggressività, del conflitto, della competitività, del nemico. Dal punto di vista della didattica, ha richiamato l’attenzione sull’importanza delle relazioni interpersonali, degli stili comunicativi, dell’organizzazione degli spazi, dei linguaggi multimediali e delle tecniche metodologiche.

Bibliografia

Corradini L.,​​ Vivere senza guerra. La p. nella ricerca universitaria,​​ Milano, Guerini e Associati, 1989; Farné R.,​​ La scuola di Irene,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1990; Mascia M. (Ed.),​​ Per una pedagogia della p.,​​ Fiesole, Cultura della P., 1994; Satha-Amand C.,​​ Islam e nonviolenza, Torino, Ega, 1997; Margalit A.,​​ La società decente, Milano, Guerini e Associati, 1998; Galtung J.,​​ La trasformazione non violenta dei conflitti, Ibid., 2000; Panikkar R.,​​ P. e disarmo culturale, Milano, Rizzoli, 2003; Morelli U.,​​ Conflitto, Roma, Meltemi, 2006.

A. Nanni




educazione alla PREGHIERA

 

PREGHIERA: educazione alla

Le numerose definizioni di p.​​ rispecchiano altrettante forme con cui la persona si rapporta con il soprannaturale; anche in ambito cristiano la p.​​ assume connotazioni diverse secondo l’atteggiamento spirituale del fedele, le sue motivazioni, il rapporto tra p. e vita, la relazione che intercorre tra p.​​ personale e p.​​ comunitaria.

1.​​ Un quadro di riferimento.​​ Il cammino di educazione alla p. va visto in un contesto che tenga presenti le tappe che iniziano con il fanciullo e l’adolescente, per continuare poi con i giovani, gli adulti, gli anziani. Ciò richiede un atteggiamento di​​ progettuale continuità​​ della proposta educativa. La continuità ha senso quando si pone all’interno di un​​ quadro di riferimento​​ cui converge e da cui prende senso lo specifico cammino educativo: la evangelizzazione e la liturgia. La prima è la base per le iniziali esperienze di p. (lode, ringraziamento, benedizione, supplica). La seconda è un’esperienza più raffinata e impegnativa di p.​​ cristiana, in quanto il sacramento, l’anno liturgico, la liturgia delle Ore e la pietà popolare costituiscono ambiti privilegiati di p.,​​ che realizzano un contatto più o meno profondo con il Dio dell’alleanza.

2.​​ La p. cristiana.​​ È​​ ascolto​​ di Dio che parla;​​ contemplazione​​ dei segni della sua presenza nei fratelli e nelle più diverse realtà;​​ dialogo​​ con Chi per primo si è già mosso per venire incontro;​​ progressiva comunione​​ con il Tutt’Altro che già è presente nell’intimo di ogni persona. Alla precisazione dell’essenza della p. cristiana si accompagnano cinque interrogativi:​​ Chi​​ prega? Il fedele che ha realizzato un minimo di conoscenza del Dio di Gesù Cristo.​​ Come​​ pregare? Le modalità sono diversificate; la storia arricchisce l’oggi con una pluralità di forme che rispondono all’ampia gamma di attese spirituali del singolo.​​ Dove​​ pregare? I luoghi più adatti possono essere in rapporto con situazioni personali o con occasioni comunitarie e ufficiali.​​ Quando​​ pregare? La p.​​ cristiana ufficiale ha ritmi orari, ma il fedele prega sempre quando fa delle scelte ordinarie della propria vita una risposta sincera e totale al Dio dell’alleanza.​​ Perché​​ pregare? La comprensione delle dimensioni della p. cristiana (ascolto, contemplazione, dialogo, comunione) offre la risposta più convincente: nella p. il cristiano​​ accoglie​​ la voce di Dio,​​ trasfigura​​ le realtà quotidiane dando loro il più genuino significato,​​ intesse​​ un rapporto con Dio e con le realtà create contribuendo a realizzare quella​​ comunione​​ che la storia della salvezza esprime e declina attorno alla categoria dell’alleanza.

3.​​ Alcuni punti fermi.​​ Nell’ambito cristiano​​ il culmine e​​ insieme​​ la fonte della p. è l’Eucaristia,​​ perché lì la proposta divina e la risposta umana trovano il loro punto d’incontro. Non per nulla la p. eucaristica, che racchiude tutti i temi della​​ p.​​ cristiana, è chiamata da sempre la p.​​ per eccellenza. In secondo luogo,​​ il nutrimento della p.​​ è dato principalmente dalla Parola divina sia per l’esperienza esemplare che essa offre, sia perché aiuta a leggere le situazioni della vita riportandole nella prospettiva del progetto originario dato da Dio ed espresso nelle condizioni dell’alleanza. In terzo luogo, va evidenziato​​ il ruolo del silenzio​​ come condizione di incontro, spazio di ascolto, occasione di dialogo e motivo di approfondimento. In questo dinamismo non può essere trascurato l’aiuto offerto dal​​ corpo,​​ dallo​​ spazio,​​ dalle «cose»​​ che stanno intorno, dai​​ tempi​​ e dai​​ ritmi​​ della vita. Nessuna lezione teorica, comunque, potrà mai esaurire tutta la problematica, le attese, i timori, le sconfitte che si incontrano in questo itinerario. Le esperienze porteranno ad una sintesi personale in cui il fedele troverà un modo di rapportare le diverse situazioni della propria esistenza nella logica del Dio Trinità che si è fatto storia perché l’uomo potesse realizzare un cammino di divinizzazione.

Bibliografia

Bianchi E., «P.», in M. Sodi - A. M. Triacca (Edd.),​​ Dizionario di omiletica, Leumann (TO) / Gorle (Bg), Elle Di Ci / Velar, 2002, 1249-1252; Calati B., «P.», in L. Borriello et al. (Edd.),​​ Dizionario di Mistica, Città del Vaticano, LEV, 1998, 1033-1038; Castellano J., «P. e liturgia», in D. Sartore - A. M. Triacca - C. Cibien (Edd.),​​ Liturgia,​​ Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001, 1492-1511; Wright J. H., «P.», in M. Downey - L. Borriello (Edd.),​​ Nuovo Dizionario di Spiritualità, Città del Vaticano, LEV, 2003, 564-574.

M. Sodi




educazione alla RESPONSABILITÀ

 

RESPONSABILITÀ: educazione alla

L’educazione alla r. rappresenta una delle risposte educative di maggiore importanza, in una congiuntura storica i cui tratti di negatività presentano, sotto il profilo pedagogico, una più che abbondante serie di rilevazioni (tramonto d’epoca; età dell’incertezza; disordine esistenziale; cultura della frammentazione, dell’indifferenza, del piacere; epoca senza linguaggio; antiumanesimo tecnocentrico, cultura «liquida») e le cui manifestazioni (solo per ricordarne alcune: caduta del rispetto per la vita; risorgere di conflitti religiosi, etnici e razziali; aumento del divario fra ricchezza e povertà e formazione di grandi sacche di disagio, esclusione e marginalità) non possono non suscitare le più ansiose preoccupazioni sul presente e sul futuro della nostra civiltà.

1.​​ Fondamenti.​​ In una visione di tipo personalistico, la r. si colloca nel quadro dell’​​ ​​ educazione morale, di cui riprende i motivi e le giustificazioni essenziali. Si tratta, infatti, di porsi nella prospettiva dei comportamenti di natura relazionale, che impegnano, cioè, la​​ ​​ libertà e l’intersoggettività della​​ ​​ persona ed il suo rapporto con regole, norme, confini, prescrizioni e diritti. In questo senso, l’educazione alla r. si può leggere come una delle espressioni dell’educazione alla​​ ​​ alterità in senso generale e alla libertà in particolare. Una prima fascia di attenzione è costituita dall’avvertenza a reagire ad alcune tipiche deformazioni – come quella collettivistica ed impersonalistica (bisogna sempre chiamare in causa la società o il sistema), quella legalistica (basta rispettare le norme consuetudinarie o convenzionali senza andare oltre) e quella egocentristica (l’unico problema è di soddisfare le proprie esigenze e le proprie aspirazioni) – che tendono a snaturare ed a svilire l’idea stessa di r. nei suoi connotati più profondi. Una solida e consistente educazione alla r. può incidersi soltanto in un terreno di riferimento ai​​ ​​ valori come elemento fondante positivo, in cui esercita una funzione di ordinamento centrale l’ideale universalistico dell’umanità come «possibilità di comunicazione universale, di comprensione transculturale […] diritto universale [...] che consente ad ogni uomo, qualunque sia il suo livello di cultura, di moralità, perfino di ragione, di essere riconosciuto come uomo»: in una parola, come «solidarietà concreta» (Réboul, 1995). Da ciò può dipanarsi una molteplicità di itinerari educativi, che vanno collocati lungo un continuum di attività, di esperienze e di proposte da disporre nei due assi dello sviluppo cognitivo da una parte e di quello affettivo dall’altra per arrivare a sbocchi comportamentali e a stili di vita. È infatti necessario, in un senso, «far conoscere e comprendere al soggetto [...] le condizioni di interdipendenza umana, cioè la trama dei rapporti che intessono la condizione sociale dell’uomo [...] perché l’assunzione di r. deve muovere sempre da una consapevolezza crescente del complesso dei compiti e delle funzioni che sono derivanti dalle leggi, dai princìpi, dalle regole, cioè dagli elementi normativi del quadro socio-istituzionale in cui egli è collocato»; ma è altrettanto indispensabile, in un altro, «promuovere nel soggetto la capacità di collocarsi nella prospettiva della obbligazione [...] cioè l’esigenza di uscire verso una volontà di “risposta” attuativa dei compiti assunti» (Massaro, 1993). Intelligenza, emozione ed azione sono ugualmente chiamate in causa in una sinergia di concetti, sentimenti, decisioni, disposizioni e capacità operative.

2.​​ Campi.​​ Possiamo quindi dire che l’educazione alla r. assume in sé tutte le potenzialità e le risoluzioni inerenti a ciò che concerne la dimensione della​​ reciprocità.​​ I campi specifici ai quali questa formazione inerisce con una particolare pregnanza di accenti e di urgenze sono: pace; mondialità (interculturalità, sviluppo, internazionalismo); socialità, civismo, politica; economia; diritti umani e giustizia; salute; ecologia; diffusione dell’informazione; legalità. In ognuno di essi, infatti, la r. si configura come un elemento trasversalmente costitutivo, rappresentandone, in ultima analisi, il solvente pedagogico di base. Sul piano curricolare e metodologico, infine, non bisogna dimenticare l’invito a non rifiutare il confronto con i temi che toccano la conflittualità, la divergenza ed il contrasto, a non appiattirsi in un cognitivismo informativistico privo di forza morale e ad incoraggiare in ogni modo tutte le forme di partecipazione, di impegno e di volontariato capaci di far reagire all’isolamento ed all’autocentrazione egoistica.

Bibliografia

Zavalloni R.,​​ Educarsi alla r.,​​ Milano, Paoline, 1986; Bosello A. P.,​​ Scuola e valori,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1991; Massaro G.,​​ L’educazione personalistica per un più complesso senso della r.,​​ in «Pedagogia e Vita» 51 (1993) 24-42; Réboul O.,​​ I valori dell’educazione,​​ Milano, Ancora / Fondazione Baden, 1995; Chionna A.,​​ Pedagogia della r., Brescia, La Scuola, 2002; Orsi M.,​​ Educare alla r., Parma, EMI, 2002.

C. Scurati




educazione alla SALUTE

 

SALUTE: educazione alla

L’​​ ​​ educazione comporta non una semplice informazione né solo accorgimenti di tutela passivizzante, ma una valida azione stimolatrice sui singoli soggetti, sui gruppi e sull’intera società, tale da ottenere un’attivazione intelligente di tutte le forze disponibili a promuovere la s. individuale e collettiva.

1. Come concetto iniziale di s. assumiamo quello espresso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e andremo necessariamente ampliandolo ed esplicitandolo per meglio adeguarlo all’argomento trattato: «S. è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale». Non consiste soltanto in un’assenza di malattia e di infermità, bensì in una condizione dinamica che, mentre evita i deterioramenti e gli invalidamenti, tende di continuo a consolidare e a migliorare le condizioni di equilibrio, di benessere e di efficienza sia durante la crescita che nell’età adulta. Nel declino della vecchiaia tenterà di rallentare i processi invalidanti e di conservare quanto più efficienti possibile le energie sia fisiche sia psichiche, in modo che i soggetti anziani possano gestire la loro esistenza con sufficiente autonomia. È ormai un dato acquisito che la s. è un bene sia individuale che collettivo, perciò è interesse di tutti perseguirlo. È un bene a cui si ha diritto e verso cui si hanno dei doveri. L’educazione alla s. dovrà quindi illustrare il valore di tale bene e le modalità più consone per garantirlo contro ogni aggressione. Illustrerà anche le norme di igiene generale e speciale, la valorizzazione dello​​ ​​ sport, della distensione, della capacità di autogratificazione e di eterogratificazione e di qualsiasi altro accorgimento che possa concorrere validamente allo scopo.

2. Come ormai fanno notare molti autori, mantenendo sempre la centralità della persona, l’educazione va portata anche sull’​​ ​​ ambiente circostante e va intesa come un intervento ordinario quale l’alfabetizzazione e la scuola e non come un intervento straordinario da adottare solo in alcuni casi di emergenza. L’educazione alla s. si propone così di creare una mentalità per cui tutti e ciascuno si sentono invitati a svolgere con dedizione e competenza la propria parte. Occorre altresì una pianificazione, un coordinamento e dei controlli periodici da parte dei responsabili. Il concetto ingloba quello di​​ ​​ prevenzione con cui si intende tutta una serie di provvedimenti atti ad evitare i rischi e le cause di disturbi dell’adattamento e a soddisfare i bisogni autentici con le modalità più adeguate.

Bibliografia

Baronio V. (Ed.),​​ Principi e metodologia dell’educazione sanitaria,​​ Torino, Edizioni Medico-Scientifiche, 1981; Ferrara M. - G. Zincone (Edd.),​​ La s. che noi pensiamo,​​ Bologna, Il Mulino, 1986; Donati P.,​​ S.,​​ famiglia e decentramento dei servizi,​​ Milano, Angeli, 1988; Casena D.,​​ Chiesa e s.,​​ Milano, Ancora, 1991; Cairo M. T.,​​ Persona e s. Itinerari educativi,​​ Ibid., 1994; Merenda P.,​​ Educazione alla s. e scuola,​​ Torino, SEI, 1995; Ghedin E.,​​ Quando si sta bene: educazione alla s. e adolescenza, Milano, Angeli, 2004;​​ Qualità della vita ed etica della s.: Atti dell’Undicesima Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita (Città del Vaticano, 21-23 febbraio 2005), Città del Vaticano, LEV, 2006.

V. Polizzi




educazione alla VERITÀ

 

VERITÀ: educazione alla

Ogni uomo, con l’uso della ragione, si pone domande sul senso della vita; perché non potrebbe vivere senza darsi delle risposte, senza il desiderio di sapere. Ma che cos’è la sapienza? Il sapere, come definizione conoscitiva di tale ricerca, a partire dal mondo classico, si caratterizza come ricerca della v.

1. La scienza, il diritto e la religione, cercano di scoprire in che cosa consiste la v. Il suo studio in sé appartiene alla logica filosofica, e in modo più pertinente alla metafisica, epistemologia e filosofia del linguaggio. Ma anche l’esperienza religiosa insegna a cercare risposte alla domanda: che cosa è la v.? La​​ ​​ Bibbia afferma che «la v. è Dio», e solo in lui è possibile conoscere la v. del mondo in cui l’uomo è posto, la v. dell’uomo dotato di intelligenza e di libertà, la v. degli altri con cui ogni persona è in cammino nella storia. L’educazione alla v. diventa quindi un compito arduo nella cultura attuale che vede la caduta delle ideologie frantumando il concetto stesso di v.: ciascuno diventa per se stesso criterio di v., perché ciascuno ha la «sua v.». Si fa così strada una pericolosa confusione che fa intendere la v. in modo molto ridotto, quasi una somma di v. parziali ritenute tali dall’esaltazione del metodo scientifico, che non esaurisce certamente da solo tutta la v. Così nella crisi del concetto di v. viene coinvolta anche l’identità della​​ ​​ persona, che viene distratta dal non essenziale e invasa da uno scetticismo generalizzato e da un facile relativismo. Si dà per scontato che ognuno può possedere delle piccole v., che possono assurgere a criteri di scelte morali e che nessuno è possessore di tutta la v.

2. Su questi presupposti culturali gli educatori dovranno orientare le scelte che regolano la ricerca, agendo ragionevolmente prima di tutto sui focolai di crisi del concetto di v., e proponendo itinerari di inversione di tendenza: a) favorire la dimestichezza con la metafisica, come incontro che aiuterà l’intelligenza a cercare la v. che ci trascende, contro le trappole del relativismo e del soggettivismo; b) proporre la​​ ​​ testimonianza come capacità di dare senso vero alle parole, perché esse recuperino il loro intrinseco significato. Se il​​ ​​ metodo scientifico è la via di accesso alla conoscenza del mondo materiale, la testimonianza è la via di accesso alla conoscenza delle v. che sono di ordine diverso (la v. di se stessi, degli altri, di Dio); c) rispettare l’oggettività della v., contro forme di spontaneismo, operando un rovesciamento di quella prospettiva che nella moderna cultura ha sostituito l’oggettività della v. col punto di vista soggettivo della «sincerità personale»; d) rendere valido il criterio della v. oggettiva ridimensionando quello dell’efficacia scientifica. La v. agisce nell’interno della persona umana; una v. che non può essere messa sullo stesso piano dell’indagine empirica e misurata con gli stessi strumenti.

3. Il metodo che favorirà lo sviluppo delle tappe di questi cammini culturali si deve configurare come: a) ricerca del bene-vero-bello delle culture del passato, recuperando una radice storica di continuità contro ogni forma di presentismo: i​​ ​​ valori della storia non possono essere beni effimeri; sono trascendenti, sempre riproponibili anche se in modi diversi nelle diverse culture, perché sempre attuali; b) riappropriazione dei valori umani profondi che sono legati al criterio di v. su cui è fondata l’umanità: la fiducia nella v. che si trascende e la fedeltà a questa v. Per la Bibbia è vero ciò che resiste all’usura del tempo; c) inserimento graduale nella dinamica di ricerca della v., dove l’uomo è il punto di partenza e la v. di Dio il traguardo di arrivo; d) sostituzione dei concetti devianti e talvolta subdoli che nella storia del pensiero hanno preso il posto della v.: ciò che è vero, è vero per sempre, perché la v. è immutabile; e) purificazione degli aspetti sociali, politici ed economici della vita umana da tutto ciò che è estraneo al concetto di v. ed ai valori che esso racchiude e dei quali è portatore, per fare dell’uomo un essere vero ed un essere libero; f) coinvolgimento della libertà intellettuale nel lasciarsi educare dalla v. ed educare alla v., esperienza umana che deve diventare il cuore vitale della cultura: aprirsi al senso degli esseri e delle cose, della vita, dell’amore, della morte, dell’aldilà.

Bibliografia

Poupard P.,​​ Chiesa e culture. Orientamenti per una pastorale della intelligenza, Milano, Vita e Pensiero, 1985; Mura G.,​​ Ermeneutica e v., Roma, Città Nuova, 1990; Id.,​​ Cercare la v. nella cultura contemporanea, Ibid., 1994; Giovanni Paolo II,​​ Fede e ricerca. Testo integrale dell’Enciclica «Fides et ratio»​​ con introduzione e commento di Antonio Livi, Roma, Edizioni Romane di Cultura, 1998; Swirnov A.,​​ La filosofia mistica e la ricerca della v., Roma, Simmetria, 2005; Grosso M.,​​ Alla ricerca della v. La filosofia cristiana​​ in É. Gilson e J. Maritain, Roma, Città Nuova, 2006.

G. Morante




educazione allo SPORT

 

SPORT: educazione allo

In relazione al termine s. sono possibili due definizioni in senso descrittivo: una di largo respiro, l’altra di stretta interpretazione. Circa la prima si può affermare che lo s. è l’insieme delle situazioni ludiche e motorie di confronto competitivo (con se stessi, le leggi della natura, gli altri) in vario modo regolamentate; in questa accezione, quattro sono gli elementi caratterizzanti: il​​ ​​ gioco, il movimento, la competizione, la regola (che, a ben vedere, è già insita nel gioco non essendo concepibile gioco – nel senso di «game» – senza regole). Relativamente alla seconda definizione, lo s. riduce invece il suo campo interpretativo a quelle situazioni ludiche e motorie di confronto competitivo, le cui regole sono codificate e controllate da istituzioni che la storia mostra essere un tratto specifico e caratteristico delle società occidentali contemporanee.

1.​​ S. come fatto culturale.​​ Al di là delle interpretazioni scientifiche che contrappongono una cultura del​​ play​​ ed una cultura del​​ game​​ e le rispettive «filosofie» sull’uomo a cui tali approcci si ispirano, oggi, al di là del necessario dibattito teorico, su un fatto tutti sembrano concordare: lo s. è diventato un​​ fenomeno culturale​​ dalle notevoli proporzioni e incidenze. È passato il tempo in cui lo s. apparteneva alla fantasia dell’evasione individuale. Lo si trova ormai strettamente legato – ora causa ora effetto – ai dati dei grandi problemi la cui soluzione condiziona l’avvenire della nostra civiltà. In questa ottica lo s. è un indubbio fatto culturale, sia perché è prodotto umano e pratica presente nei singoli individui e nei gruppi umani organizzati, sia perché esprime modelli di comportamento e valori, collegati per l’appunto ad una imprescindibile attività umana: quella​​ motoria,​​ caratterizzata, come si è detto, dalle variabili del «gioco», della «competizione», delle «regole». In più, partendo dal fatto che l’uomo è unitario e inscindibile nelle sue componenti psico-fisiche, la stessa «corporeità» viene rivalutata, perché lo s. è sì strumento, tra l’altro, di salute fisica e igiene mentale, ma è soprattutto salute e igiene mentale per l’uomo,​​ visto nella sua completezza e unitarietà: nell’esercizio del​​ ​​ corpo, infatti, è tutta la persona che si visibilizza. Fare​​ cultura sportiva umanizzante​​ significa, allora, proporre e realizzare sempre più «modelli culturali sportivi» in cui l’essere umano, a fatti e non con retoriche parole, è veramente la «variabile indipendente», per cui l’attività sportiva con le sue dimensioni di movimento, di​​ ​​ ludicità, di competizione e di regole, contribuisce – accanto ad altri fattori e valori – alla crescita umana.

2.​​ S. come valore socializzante.​​ Che lo s., analizzato nella sua concezione originaria, abbia in sé elementi valoriali nei confronti del sé, degli altri e della natura umana, è realtà assodata. Ma come tutte le realtà umane, anche lo s. è valore con caratteristiche ambivalenti: può essere eticamente autenticato o svilito, a seconda del​​ come​​ è attualizzato al servizio dell’uomo. In una prospettiva umanizzante lo s. può essere vera scuola di salute, di igiene mentale, di autodominio, di socialità, di disciplina, di libertà, di creatività, di soddisfazione, di divertimento, di gioia, di catarsi, di emulazione, di festa; esso può essere, in una parola, uno​​ stile di vita​​ che ha innanzitutto valore in sé e per sé. Certo, fare s., soprattutto per alcuni strati giovanili, può significare anche arricchirsi di «anticorpi» per evitare comportamenti di tipo distruttivo di carattere «esogeno», come le varie forme di violenza, e di tipo «endogeno» come i casi che si riferiscono all’uso dell’alcool e della droga, e tutto ciò è sacrosanto per una società civile; ma la dimensione valoriale dello s. deve essere vista innanzitutto per quello che «è» e rispettata come valore umano in sé e solo dopo per quello che «serve». La socializzazione sportiva è dunque uno dei fattori più rilevanti e di notevole spessore umano della realtà sportiva, ma «socializzare» non è ancora​​ educare in modo compiuto.

3.​​ S. come valore educante.​​ Pensando comunque soprattutto all’età giovanile (fanciulli, adolescenti, giovani) occorre avere il fermo obiettivo di innestare nella pratica sportiva l’elemento della ludicità come «unica variabile indipendente» attorno a cui trasformare ogni attività sportiva in dimensione umana e perciò in esperienza autenticamente educativa contrassegnata dai seguenti fattori: spontaneità, gratuità, creatività, libertà, soddisfazione e divertimento, liberazione del corpo, festività. Realisticamente occorre dire che innumerevoli oggi sono gli ostacoli per vivere questo modello ludico-sportivo; infatti la «logica» culturale olimpica (degenerata), a cui si rifà sostanzialmente il modello culturale di s. corrente, è quella di puntare non tanto sulla «qualità» gestuale che vale, ma sulla «quantità» di richieste che si desiderano dal proprio fisico; è quella di costruire il «campione» più che di pensare a realizzare un «uomo-atleta» e uno «sportivo-umanizzato». La ludicità deve diventare per ogni formatore o allenatore l’obiettivo fondante di ogni attività sportiva, a cui le stesse categorie della «vittoria» e della «sconfitta», della «tecnica» e della «regola» devono essere subalterne. Non importa, cioè, se si è vinto o si è perso, vale invece​​ come​​ si è giocato,​​ come​​ si è agito durante la gara. L’educazione ludica nello s. si concentra maggiormente più sul piacere del «fare» che sulla voglia incontrollata del «vincere» o sulla paura del «perdere». Ciò non significa abolire un certo «agonismo», ma accentuare la cosiddetta​​ competizione indiretta​​ che dà più ampie possibilità di apprendere educativamente l’alfabeto della vera cooperazione sociale, anche attraverso l’attività sportiva, che è un fatto​​ di​​ tutti e​​ per​​ tutti e a tutte le età.

Bibliografia

Huizinga J.,​​ Homo ludens,​​ Milano, Il Saggiatore, 1966; Bucciarelli C.,​​ Lo s. come ideologia,​​ Roma, AVE, 1974; Thill E.,​​ S. e personalità,​​ Roma, Armando, 1975; Bonistalli E. et al.,​​ Vincere o giocare,​​ Roma, Bulzoni, 1979; Zanon R.,​​ Gioco s. educazione,​​ Roma, Società Stampa Sportiva, 1981; Gius E. - A. Salvini, «S.», in​​ Nuovo​​ dizionario di sociologia,​​ Roma, Paoline, 1987; Ricciardi P. M.,​​ Stress,​​ s.,​​ training autogeno,​​ Torino, Cortina, 1990; PGS,​​ A che gioco giochiamo?,​​ Roma, PGS, 1991; Mazza E. - D. Olmetti,​​ S. e educazione, Roma, CSI, 1996; Greganti A. (Ed.),​​ Cent’anni di storia nella realtà dello s. italiano,​​ Ibid., 2006.

C. Bucciarelli




educazione allo SVILUPPO

 

SVILUPPO: educazione allo

Il concetto di s. presenta una complessità e un’ambiguità come pochi altri ed evoca un ricco campo semantico che comprende altri concetti, come quelli di progresso, crescita, evoluzione, autosufficienza, benessere, emancipazione, cambiamento, qualità della vita, ecc.

1. L’educazione allo s. (= e.a.s.) ha attraversato in Italia diversi momenti e ha coinvolto un numero crescente di soggetti, organismi non governativi, scuole, associazioni culturali, gruppi di cooperazione, Unicef, movimenti ecologici, missionari e caritativi. Dalla fine degli anni ’60 del sec. scorso ad oggi si sono venuti moltiplicando gradualmente programmi e convegni, esperienze ed attività, corsi di aggiornamento / formazione e momenti di confronto internazionale, scambi culturali e produzione di materiali didattici, riviste e collane editoriali, sussidi audiovisivi e campagne di opinione. Per la sua dinamica interna, l’e.a.s. ha favorito l’apertura della scuola ai problemi sociali e l’interazione fra educazione formale ed extrascolastica. L’e.a.s. si è venuta trasformando visibilmente nel tempo. Da un nucleo tematico che originariamente veniva ristretto ai fenomeni della povertà, della fame e del sottosviluppo, il cerchio si è allargato includendo problemi come la pace, la giustizia tra i popoli, il rispetto della dignità umana, la cura dell’ambiente naturale, la qualità della vita, l’esigenza di un nuovo ordine internazionale, i diritti umani, il valore della differenza e, in anni più recenti, l’accoglienza degli immigrati e l’interculturalità.

2. Oggi l’e.a.s. considera e valuta le teorie e i modelli di s. alla luce dei cosiddetti criteri di sostenibilità e di compatibilità. Il passaggio dalla cultura del vecchio «terzomondismo» degli anni ’60 e ’70 alla cultura della «interdipendenza» ha aperto la strada ad una nuova metodologia e didattica dello s. Il fenomeno dell’immigrazione dai Paesi del Sud del mondo ha provocato una ridefinizione che vede l’incrocio fecondo dei due paradigmi: la cooperazione Nord-Sud e l’immigrazione del Sud nel Nord. S., allora, non vuol dire soltanto cooperazione, ma accoglienza, ospitalità, apertura all’altro, interculturalità. Negli ultimi anni l’e.a.s. si è venuta sempre più configurando come educazione alla cittadinanza globale, valorizzando le dimensioni della partecipazione e della responsabilità piuttosto che quelle della crescita economica e della competitività. Ciò che conta per misurare lo s. non è perciò il PIL ma la qualità della vita. Vengono in primo piano i problemi dell’acqua e del clima, ad es. Si è pervenuti all’elaborazione di nuovi paradigmi concettuali come quelli della sostenibilità, della decrescita e della sobrietà. Affrontare i temi dello s. equivale dunque a farsi carico di un progetto educativo capace di futuro e relativo a molteplici sfide: dalla globalizzazione al potere mediatico, dal multiculturalismo alla tecnica, dall’ambiente alla​​ governance.​​ Nel frattempo si è dissolto il linguaggio che si riferiva al primo, secondo, terzo e quarto mondo. È esploso, invece, l’impero di Cindia (Cina e India). Grandi progetti varati nel 2000 da 109 Capi di Stato, come gli Obiettivi del Millennio, si sono dissolti ben prima di arrivare al 2015, mentre è venuto crescendo dal basso un forte movimento democratico per un altro mondo possibile (Porto Alegre).

3. Anche in seguito alle pressioni del coordinamento degli organismi non governativi si sono avuti interventi legislativi e ministeriali che hanno rinforzato gli orientamenti dell’e.a.s. nella scuola italiana: alludiamo alla L. 49 del 1987 (art. 2, comma 3, lettera «h») e alla circolare del Ministero P.I. n. 348 del 1989 avente come oggetto appunto le attività di e.a.s. Da molti anni è maturato il tempo per riformare questa legge e per aggiornare la nozione di s. coniugandola con le questioni della mondialità e della pace, dell’ecologia e dell’interculturalità, dei diritti umani e della democrazia. In definitiva, educare a / per lo s. significa contribuire alla formazione di una «coscienza planetaria» che consenta di vivere da «cittadini del Mondo».

Bibliografia

Focsiv,​​ Bozza programmatica per la costituzione di una rete per l’e.a.s. in Italia,​​ Milano, Quaderni Focsiv, 1985; Comitato italiano Unicef,​​ L’avventura dell’e.a.s.,​​ Roma, 1988; Chiappero Martinetti E. - A. Semplici (Ed.),​​ Umanizzare lo s., Torino, Rosenberg & Sellier, 2001; Bonaiuti M.,​​ Obiettivo decrescita, Bologna, EMI, 2005; Lanza A.,​​ Lo s. sostenibile, Bologna, Il Mulino, 2006; Meadows D. - D. Meadows - J. Randers,​​ I nuovi limiti dello s. La salute del pianeta nel terzo millennio, Milano, Mondadori, 2006; Elamé E. - J. David,​​ L’educazione interculturale per lo s. sostenibile, Bologna, Il Mulino, 2007; Latouche S.,​​ La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2007.

A. Nanni