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educazione allo SPORT

 

SPORT: educazione allo

In relazione al termine s. sono possibili due definizioni in senso descrittivo: una di largo respiro, l’altra di stretta interpretazione. Circa la prima si può affermare che lo s. è l’insieme delle situazioni ludiche e motorie di confronto competitivo (con se stessi, le leggi della natura, gli altri) in vario modo regolamentate; in questa accezione, quattro sono gli elementi caratterizzanti: il​​ ​​ gioco, il movimento, la competizione, la regola (che, a ben vedere, è già insita nel gioco non essendo concepibile gioco – nel senso di «game» – senza regole). Relativamente alla seconda definizione, lo s. riduce invece il suo campo interpretativo a quelle situazioni ludiche e motorie di confronto competitivo, le cui regole sono codificate e controllate da istituzioni che la storia mostra essere un tratto specifico e caratteristico delle società occidentali contemporanee.

1.​​ S. come fatto culturale.​​ Al di là delle interpretazioni scientifiche che contrappongono una cultura del​​ play​​ ed una cultura del​​ game​​ e le rispettive «filosofie» sull’uomo a cui tali approcci si ispirano, oggi, al di là del necessario dibattito teorico, su un fatto tutti sembrano concordare: lo s. è diventato un​​ fenomeno culturale​​ dalle notevoli proporzioni e incidenze. È passato il tempo in cui lo s. apparteneva alla fantasia dell’evasione individuale. Lo si trova ormai strettamente legato – ora causa ora effetto – ai dati dei grandi problemi la cui soluzione condiziona l’avvenire della nostra civiltà. In questa ottica lo s. è un indubbio fatto culturale, sia perché è prodotto umano e pratica presente nei singoli individui e nei gruppi umani organizzati, sia perché esprime modelli di comportamento e valori, collegati per l’appunto ad una imprescindibile attività umana: quella​​ motoria,​​ caratterizzata, come si è detto, dalle variabili del «gioco», della «competizione», delle «regole». In più, partendo dal fatto che l’uomo è unitario e inscindibile nelle sue componenti psico-fisiche, la stessa «corporeità» viene rivalutata, perché lo s. è sì strumento, tra l’altro, di salute fisica e igiene mentale, ma è soprattutto salute e igiene mentale per l’uomo,​​ visto nella sua completezza e unitarietà: nell’esercizio del​​ ​​ corpo, infatti, è tutta la persona che si visibilizza. Fare​​ cultura sportiva umanizzante​​ significa, allora, proporre e realizzare sempre più «modelli culturali sportivi» in cui l’essere umano, a fatti e non con retoriche parole, è veramente la «variabile indipendente», per cui l’attività sportiva con le sue dimensioni di movimento, di​​ ​​ ludicità, di competizione e di regole, contribuisce – accanto ad altri fattori e valori – alla crescita umana.

2.​​ S. come valore socializzante.​​ Che lo s., analizzato nella sua concezione originaria, abbia in sé elementi valoriali nei confronti del sé, degli altri e della natura umana, è realtà assodata. Ma come tutte le realtà umane, anche lo s. è valore con caratteristiche ambivalenti: può essere eticamente autenticato o svilito, a seconda del​​ come​​ è attualizzato al servizio dell’uomo. In una prospettiva umanizzante lo s. può essere vera scuola di salute, di igiene mentale, di autodominio, di socialità, di disciplina, di libertà, di creatività, di soddisfazione, di divertimento, di gioia, di catarsi, di emulazione, di festa; esso può essere, in una parola, uno​​ stile di vita​​ che ha innanzitutto valore in sé e per sé. Certo, fare s., soprattutto per alcuni strati giovanili, può significare anche arricchirsi di «anticorpi» per evitare comportamenti di tipo distruttivo di carattere «esogeno», come le varie forme di violenza, e di tipo «endogeno» come i casi che si riferiscono all’uso dell’alcool e della droga, e tutto ciò è sacrosanto per una società civile; ma la dimensione valoriale dello s. deve essere vista innanzitutto per quello che «è» e rispettata come valore umano in sé e solo dopo per quello che «serve». La socializzazione sportiva è dunque uno dei fattori più rilevanti e di notevole spessore umano della realtà sportiva, ma «socializzare» non è ancora​​ educare in modo compiuto.

3.​​ S. come valore educante.​​ Pensando comunque soprattutto all’età giovanile (fanciulli, adolescenti, giovani) occorre avere il fermo obiettivo di innestare nella pratica sportiva l’elemento della ludicità come «unica variabile indipendente» attorno a cui trasformare ogni attività sportiva in dimensione umana e perciò in esperienza autenticamente educativa contrassegnata dai seguenti fattori: spontaneità, gratuità, creatività, libertà, soddisfazione e divertimento, liberazione del corpo, festività. Realisticamente occorre dire che innumerevoli oggi sono gli ostacoli per vivere questo modello ludico-sportivo; infatti la «logica» culturale olimpica (degenerata), a cui si rifà sostanzialmente il modello culturale di s. corrente, è quella di puntare non tanto sulla «qualità» gestuale che vale, ma sulla «quantità» di richieste che si desiderano dal proprio fisico; è quella di costruire il «campione» più che di pensare a realizzare un «uomo-atleta» e uno «sportivo-umanizzato». La ludicità deve diventare per ogni formatore o allenatore l’obiettivo fondante di ogni attività sportiva, a cui le stesse categorie della «vittoria» e della «sconfitta», della «tecnica» e della «regola» devono essere subalterne. Non importa, cioè, se si è vinto o si è perso, vale invece​​ come​​ si è giocato,​​ come​​ si è agito durante la gara. L’educazione ludica nello s. si concentra maggiormente più sul piacere del «fare» che sulla voglia incontrollata del «vincere» o sulla paura del «perdere». Ciò non significa abolire un certo «agonismo», ma accentuare la cosiddetta​​ competizione indiretta​​ che dà più ampie possibilità di apprendere educativamente l’alfabeto della vera cooperazione sociale, anche attraverso l’attività sportiva, che è un fatto​​ di​​ tutti e​​ per​​ tutti e a tutte le età.

Bibliografia

Huizinga J.,​​ Homo ludens,​​ Milano, Il Saggiatore, 1966; Bucciarelli C.,​​ Lo s. come ideologia,​​ Roma, AVE, 1974; Thill E.,​​ S. e personalità,​​ Roma, Armando, 1975; Bonistalli E. et al.,​​ Vincere o giocare,​​ Roma, Bulzoni, 1979; Zanon R.,​​ Gioco s. educazione,​​ Roma, Società Stampa Sportiva, 1981; Gius E. - A. Salvini, «S.», in​​ Nuovo​​ dizionario di sociologia,​​ Roma, Paoline, 1987; Ricciardi P. M.,​​ Stress,​​ s.,​​ training autogeno,​​ Torino, Cortina, 1990; PGS,​​ A che gioco giochiamo?,​​ Roma, PGS, 1991; Mazza E. - D. Olmetti,​​ S. e educazione, Roma, CSI, 1996; Greganti A. (Ed.),​​ Cent’anni di storia nella realtà dello s. italiano,​​ Ibid., 2006.

C. Bucciarelli




educazione allo SVILUPPO

 

SVILUPPO: educazione allo

Il concetto di s. presenta una complessità e un’ambiguità come pochi altri ed evoca un ricco campo semantico che comprende altri concetti, come quelli di progresso, crescita, evoluzione, autosufficienza, benessere, emancipazione, cambiamento, qualità della vita, ecc.

1. L’educazione allo s. (= e.a.s.) ha attraversato in Italia diversi momenti e ha coinvolto un numero crescente di soggetti, organismi non governativi, scuole, associazioni culturali, gruppi di cooperazione, Unicef, movimenti ecologici, missionari e caritativi. Dalla fine degli anni ’60 del sec. scorso ad oggi si sono venuti moltiplicando gradualmente programmi e convegni, esperienze ed attività, corsi di aggiornamento / formazione e momenti di confronto internazionale, scambi culturali e produzione di materiali didattici, riviste e collane editoriali, sussidi audiovisivi e campagne di opinione. Per la sua dinamica interna, l’e.a.s. ha favorito l’apertura della scuola ai problemi sociali e l’interazione fra educazione formale ed extrascolastica. L’e.a.s. si è venuta trasformando visibilmente nel tempo. Da un nucleo tematico che originariamente veniva ristretto ai fenomeni della povertà, della fame e del sottosviluppo, il cerchio si è allargato includendo problemi come la pace, la giustizia tra i popoli, il rispetto della dignità umana, la cura dell’ambiente naturale, la qualità della vita, l’esigenza di un nuovo ordine internazionale, i diritti umani, il valore della differenza e, in anni più recenti, l’accoglienza degli immigrati e l’interculturalità.

2. Oggi l’e.a.s. considera e valuta le teorie e i modelli di s. alla luce dei cosiddetti criteri di sostenibilità e di compatibilità. Il passaggio dalla cultura del vecchio «terzomondismo» degli anni ’60 e ’70 alla cultura della «interdipendenza» ha aperto la strada ad una nuova metodologia e didattica dello s. Il fenomeno dell’immigrazione dai Paesi del Sud del mondo ha provocato una ridefinizione che vede l’incrocio fecondo dei due paradigmi: la cooperazione Nord-Sud e l’immigrazione del Sud nel Nord. S., allora, non vuol dire soltanto cooperazione, ma accoglienza, ospitalità, apertura all’altro, interculturalità. Negli ultimi anni l’e.a.s. si è venuta sempre più configurando come educazione alla cittadinanza globale, valorizzando le dimensioni della partecipazione e della responsabilità piuttosto che quelle della crescita economica e della competitività. Ciò che conta per misurare lo s. non è perciò il PIL ma la qualità della vita. Vengono in primo piano i problemi dell’acqua e del clima, ad es. Si è pervenuti all’elaborazione di nuovi paradigmi concettuali come quelli della sostenibilità, della decrescita e della sobrietà. Affrontare i temi dello s. equivale dunque a farsi carico di un progetto educativo capace di futuro e relativo a molteplici sfide: dalla globalizzazione al potere mediatico, dal multiculturalismo alla tecnica, dall’ambiente alla​​ governance.​​ Nel frattempo si è dissolto il linguaggio che si riferiva al primo, secondo, terzo e quarto mondo. È esploso, invece, l’impero di Cindia (Cina e India). Grandi progetti varati nel 2000 da 109 Capi di Stato, come gli Obiettivi del Millennio, si sono dissolti ben prima di arrivare al 2015, mentre è venuto crescendo dal basso un forte movimento democratico per un altro mondo possibile (Porto Alegre).

3. Anche in seguito alle pressioni del coordinamento degli organismi non governativi si sono avuti interventi legislativi e ministeriali che hanno rinforzato gli orientamenti dell’e.a.s. nella scuola italiana: alludiamo alla L. 49 del 1987 (art. 2, comma 3, lettera «h») e alla circolare del Ministero P.I. n. 348 del 1989 avente come oggetto appunto le attività di e.a.s. Da molti anni è maturato il tempo per riformare questa legge e per aggiornare la nozione di s. coniugandola con le questioni della mondialità e della pace, dell’ecologia e dell’interculturalità, dei diritti umani e della democrazia. In definitiva, educare a / per lo s. significa contribuire alla formazione di una «coscienza planetaria» che consenta di vivere da «cittadini del Mondo».

Bibliografia

Focsiv,​​ Bozza programmatica per la costituzione di una rete per l’e.a.s. in Italia,​​ Milano, Quaderni Focsiv, 1985; Comitato italiano Unicef,​​ L’avventura dell’e.a.s.,​​ Roma, 1988; Chiappero Martinetti E. - A. Semplici (Ed.),​​ Umanizzare lo s., Torino, Rosenberg & Sellier, 2001; Bonaiuti M.,​​ Obiettivo decrescita, Bologna, EMI, 2005; Lanza A.,​​ Lo s. sostenibile, Bologna, Il Mulino, 2006; Meadows D. - D. Meadows - J. Randers,​​ I nuovi limiti dello s. La salute del pianeta nel terzo millennio, Milano, Mondadori, 2006; Elamé E. - J. David,​​ L’educazione interculturale per lo s. sostenibile, Bologna, Il Mulino, 2007; Latouche S.,​​ La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2007.

A. Nanni




EDUCAZIONE AMBIENTALE

 

EDUCAZIONE AMBIENTALE

Il significato del lemma richiama l’idea di e., intesa come il processo di formazione dell’uomo nel suo rapporto con l’​​ ​​ ambiente che lo circonda. Si tratta di una relazione in cui il soggetto è parte dell’ambiente, ma al contempo viene orientandosi ad esplorarlo e conoscerlo. L’e.a., pertanto, risponde a quel processo d’interpretazione e conoscenza dell’ambiente nelle sue caratteristiche morfologiche, geografiche, ecologiche, sociali e, più ampiamente, culturali il cui fine si colloca nello sviluppo di una​​ coscienza ambientale diffusa​​ che favorisca la protezione, il rispetto e la valorizzazione dell’habitat naturale e umano.

1.​​ L’ambiente naturale.​​ Compito di una corretta e.a. sarà allora quello di far maturare la consapevolezza secondo cui l’uomo è parte integrante e certo fondamentale dell’ambiente, senza per questo esserne l’elemento unico, prioritario, assoluto. Al contempo, proprio sull’uomo grava la​​ responsabilità​​ morale di adempiere al processo di salvaguardia dell’integrità ambientale in ogni suo aspetto. La prima direzione prevista dall’e.a. è quella che conduce alla conoscenza della natura sotto il profilo biologico (animale, vegetale, minerale), antropologico ed ecologico, affinché il giovane comprenda l’importanza – per se stesso e per la specie – di una natura conservata e preservata dalla distruzione, dallo sfruttamento cieco delle sue risorse, dalle differenti forme d’inquinamento.

2.​​ L’ambiente storico-economico e sociopolitico.​​ Una seconda direzione predispone la formazione umana verso l’ambiente nelle sue condizioni economiche, storiche, sociali, politiche. La​​ città​​ e le sue molteplici funzioni acquisiscono qui una «eminenza» pedagogica dovuta ai riflessi antropologici riverberati sull’ambiente modificato dall’uomo.

3.​​ L’ambiente estetico ed etico.​​ Questa terza direzione include sia il carattere morale e valoriale su cui ogni corretta e.a. viene impostandosi, sia le peculiarità estetiche rivelate dall’ambiente. Le zone archeologiche, i siti d’interesse speleologico, i beni culturali e l’arte disseminata nell’ambiente ne suggellano una lettura capace di riconoscerlo anche per queste sue apprezzabili dimensioni di​​ ​​ bellezza e di godimento estetico. Le tre direzioni conoscitive dell’e.a. sopra riassunte implicano un’adeguata​​ ricerca d’ambiente.​​ Questa salda la scuola all’extrascolastico colto nelle sue molteplici sfaccettature, riconducendo il mondo di vita del soggetto in corso di formazione verso l’ambiente circostante e quotidiano, ma anche alla volta di territori naturali, sociali, estetici, geograficamente o / e psicologicamente distanti. L’e.a. si apre così: a) alla​​ pedagogia del viaggio​​ vissuto attraverso l’esplorazione e la scoperta; b) all’​​ ​​ e. scientifica per mezzo della quale studiare l’ambiente; c) all’e. estetica (​​ e. artistica) con cui comprendere l’estetica dell’ambiente in quanto linguaggio dell’e.; d) alla​​ pedagogia ecologica​​ intesa come occasione di formazione dell’uomo nell’esercizio della conoscenza degli ecosistemi, dei biosistemi e dei sociosistemi in cui vive.

Bibliografia

Scurati C. (Ed.),​​ L’e. extrascolastica,​​ Brescia, La Scuola, 1986; Gennari M. (Ed.),​​ Beni culturali e scuola,​​ Ibid., 1988; Id.,​​ Estetiche dell’ambiente,​​ Genova, Sagep, 1988; Jonas H.,​​ Il principio di responsabilità,​​ Torino, Einaudi, 1990; Zucchini G. L.,​​ Educare all’ambiente,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1990;​​ Gutiérrez Pérez J.,​​ La educación ambiental,​​ Madrid, La Muralla,​​ 1995; Gennari M.,​​ Trattato di pedagogia generale, Milano, Bompiani, 2006.

M. Gennari




EDUCAZIONE ARTISTICA

 

EDUCAZIONE ARTISTICA

Affine nel significato ad espressioni quali «e. estetica», «e. visiva», «e. iconico-grafico-pittorica», «e. all’immagine», l’e.a. è stata tradizionalmente suddivisa in una e. all’arte e in una e. attraverso l’arte.

1. H. Read nel suo​​ Education through art​​ (1943), osserva come percezione e immaginazione si coniughino negli assetti psichici della persona che compie l’esperienza estetica. Un sistema motorio e un sistema affettivo fanno sì che sensazioni e sentimenti sottendano al rapporto tra il soggetto e l’arte. Il primo può accostarsi all’altra fruendone significanti e significati. Inoltre, può anche entrare nel mondo dell’arte producendo personalmente forme e contenuti esteticamente e artisticamente ricchi di bellezza.

2. Quanto detto avvia una fondamentale connessione: quella tra​​ ​​ pedagogia e​​ arte.​​ Con essa si chiarisce l’importanza dei percorsi estetico-artistici nel processo di​​ ​​ formazione del soggetto. L’arte vi assume i contorni di una esperienza vitale propria dell’umano, in cui il soggetto si forma e si trasforma entrando in una relazione del tutto personale con il testo estetico-artistico, a sua volta riflesso di un mondo che si specchia in altri mondi: intersoggettivi, interculturali, interrazziali. Ludicità fantastica e pensiero creativo, immaginazione e invenzione, fantasia e progettualità costituiscono alcuni capitoli del discorso sull’e.a. Esso si serve della​​ parola,​​ dell’immagine,​​ del​​ suono,​​ del​​ gesto,​​ del​​ numero;​​ con questi dà luogo ad un intreccio di​​ testi​​ scritti nel linguaggio complesso e affascinante dell’arte. La scuola ha il compito di avvicinare l’uomo, in ogni età della vita, alle dimensioni del messaggio artistico al fine di gustarlo, viverlo, conoscerlo per poi apprendere a generarlo oltre che riceverlo. L’istituzione scolastica si approssima a quelle istituzioni extrascolastiche in cui i beni artistici sono assunti in quanto​​ beni culturali.​​ Musei, pinacoteche, palazzi, chiese, biblioteche, centri storici, cineteche, mediateche, teatri: questi​​ ambienti educativi​​ facilitano il contatto con l’arte nelle sue manifestazioni più significative: la figurazione, la musica, la letteratura, il cinema, la danza. La sua istituzionalizzazione nella scuola ha da fare i conti con una mentalità prevalentemente tecnologistica e utilitaristica, piuttosto ostica verso questo ambito della cultura e della formazione.

3. Le principali linee operative di una​​ didattica dell’arte​​ aprono varie direzioni di lavoro, fra cui non vanno trascurati: a) le civiltà del passato e del presente studiate sotto il profilo della loro cultura artistica ed estetica; b) il collegamento tra linguaggi visivi, arti figurative e ulteriori percorsi estetici quali la poesia, il canto, il​​ ​​ teatro; c) il mondo dei​​ media,​​ articolato in​​ selfmedia,​​ multimedia,​​ ipermedia;​​ d)​​ l’incontro delle forme estetiche dell’arte con quelle della natura; e) l’incontro delle forme estetiche dell’arte con quelle della scienza; f) lo studio dell’opera d’arte a partire dall’artista per giungere al suo fruitore o a partire dal testo onde pervenire alla sua storia; g) le pratiche concrete e continuative dell’arte, che ogni uomo può realizzare soltanto se gli si offre la possibilità di farlo; h) un’abitudine​​ all’invenzione estetica​​ usando materiali, procedimenti, tecniche e tecnologie con lo scopo di narcotizzare lo stereotipo e l’iterazione, liberando invece la scoperta, il viaggio, l’attenzione estetica al cosmo nel mondo umano, la ricerca negli universi dell’arte.

Bibliografia

Burkardt H.,​​ Zur visuellen Kommunikation in der Grundschulpraxis,​​ Ravensburg, Otto Maier,​​ 1974;​​ Martin M.,​​ Sémiologie de l’image et pédagogie,​​ Paris, PUF, 1982;​​ Gennari M.,​​ Lo sguardo iconico,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Quintana Cabanas J. Mª,​​ Pedagogía estética,​​ Madrid, Dykinson, 1993; Gennari M.,​​ L’e. estetica,​​ Milano, Bompiani, 1994; Eco U.,​​ Storia della bellezza, Ibid., 2004;​​ Medina Benítez Mª D.,​​ Educación artística. y su didáctica, Las Palmas de Gran Canaria, Universidad de Las Palmas de​​ Gran​​ Canaria, Vicerrectorado de Planificación y Calidad, 2007.

M. Gennari




EDUCAZIONE COMPARATA

 

EDUCAZIONE COMPARATA

È la disciplina delle​​ ​​ scienze dell’e. che studia i fenomeni e i fatti educativi nelle loro relazioni con il contesto sociale, applicando un metodo di ricerca che paragona i sistemi formativi e i loro elementi per chiarire convergenze e divergenze, al fine di migliorare la conoscenza sia delle loro peculiarità sia degli aspetti comuni e di rendere più efficace l’e. È una disciplina perché ha oggetto e metodo propri, tuttavia, la tesi prevalente è che abbia natura pluridisciplinare. Comprende tre ambiti: le idee pedagogiche, i contenuti e metodi, i sistemi formativi; siccome non rileva della sola pedagogia, si preferisce parlare di e.c. piuttosto che di pedagogia comparativa. Non si può invece dire che ci sia una teoria o un metodo in cui si riconoscano tutti i suoi cultori.

1.​​ Tendenze principali nel passato.​​ L’e.c., è nata dal desiderio di sapere di più sugli altri popoli e sulle loro usanze educative, un bisogno che ha trovato una sua prima risposta nei​​ rapporti dei viaggiatori. Si tratta, però, di una letteratura che spesso manca di sistematicità e di valore esplicativo. La nascita come disciplina è generalmente collegata con quella dei sistemi nazionali di e. nel sec. XIX e le sue origini vengono fatte risalire a una pubblicazione dell’illuminista francese Jullien (1817). L’opera è rimasta di fatto sconosciuta fin quasi alla metà del ’900 quando fu scoperta per caso e rivalutata: per questo motivo alcuni autori ritengono che Jullien non possa essere considerato come il padre o l’iniziatore dell’e.c., ma solo come un precursore. Secondo Jullien essa ha una natura scientifico-sperimentale e svolge una funzione pragmatica. Il metodo consiste nel raccogliere attraverso questionari, dati e osservazioni sui sistemi formativi e nell’organizzarli sulla base di tavole sintetiche. Jullien appartiene alla fase dell’evoluzione detta del​​ «prestito educativo»,​​ che occupa tutto il sec. XIX, e ne condivide meriti e limiti. Gli Stati sono impegnati nella costruzione dei sistemi scolastici nazionali e l’e.c. intende favorirla suggerendo le strutture educative da assumere da altri paesi. Gli studiosi più attenti hanno indicato le condizioni per tale trasposizione: tener conto della diversità dei contesti; scegliere solo gli aspetti validi degli altri sistemi. Comunque, molta della produzione presenta valore scientifico limitato per il suo carattere enciclopedico, la scarsa capacità esplicativa delle conclusioni e la natura meccanica delle trasposizioni. All’inizio del XX sec. si afferma un nuovo approccio, quello​​ dell’analisi dei fattori.​​ Il sistema formativo fa un tutt’uno con la società e, pertanto, va analizzato in relazione con il contesto nel quale si è sviluppato. Essendo il risultato dell’insieme delle forze presenti nell’ambiente, sono queste ultime che vanno identificate se si vuole conoscere meglio la situazione attuale e predire l’evoluzione futura. L’e.c. consente di delimitare con più precisione i fattori operanti in uno o più Paesi. Più in particolare, per Sadler essa aiuta a comprendere lo spirito dei sistemi formativi, secondo Hans il suo scopo è di identificare i principi sottostanti o fattori che regolano lo sviluppo di tutti i sistemi formativi, mentre Mallinson ha fondato l’e.c. sui caratteri nazionali. L’analisi dei fattori appare dotata di potere esplicativo e di validità scientifica; i suoi limiti vanno visti in un certo determinismo della causalità sociale e storica e nella difficoltà di misurare il peso relativo di ciascun fattore. Un altro stadio dello sviluppo, contemporaneo al precedente, è costituito dalla​​ «cooperazione internazionale», che abbraccia quattro ambiti: lo studio dei problemi educativi in prospettiva transnazionale; la raccolta delle statistiche che gradatamente raggiunge un livello elevato di qualità ad opera delle​​ ​​ organizzazioni internazionali tra cui primeggia l’Unesco; l’individuazione delle tendenze internazionali; la promozione dell’e. internazionale o allo sviluppo. In particolare va ricordato Rosselló che attribuisce all’e.c. il compito di delineare le correnti che qualificano il movimento educativo, di definire cioè le tendenze che caratterizzano lo sviluppo dei sistemi formativi, conferendo all’e.c. un approccio prospettico. Questa accentuazione costituisce anche il limite di Rosselló che ha dato troppa rilevanza alla statistica e ai metodi sperimentali, trascurando la natura umanistica dell’e.c.

2.​​ L’evoluzione recente.​​ Dopo la seconda guerra mondiale l’e.c. sperimenta un vero balzo in avanti, connesso con l’esplosione dell’e., l’internazionalizzazione dei problemi, la competizione tra l’Ovest e l’Est e il processo di decolonizzazione del Terzo Mondo. Incominciano a nascere e a diffondersi le associazioni professionali dei comparatisti, si moltiplicano le università che offrono studi e strutture di insegnamento e di ricerca, aumentano le organizzazioni nazionali e internazionali che promuovono investigazioni e progetti nell’ e.c. e vengono fondate nuove riviste specializzate. Sul piano disciplinare è soprattutto l’introduzione del metodo positivo delle scienze sociali a consentire il salto di qualità. Nell’evoluzione recente è possibile distinguere tre gruppi di posizioni che corrispondono anche a fasi diverse dello sviluppo.

2.1.​​ Le posizioni tradizionali.​​ Si affermano negli anni ’50 e soprattutto ’60 e sono caratterizzate da una prospettiva funzionalista ed evolutiva. Per Bereday (1964) l’e.c. è una geografia politica delle scuole. Il metodo è articolato in due fasi maggiori, gli studi di area o regionali e quelli comparativi, a loro volta distribuite in due ulteriori stadi. Nella prima ciascun paese viene analizzato separatamente dagli altri. In proposito, si dovrà anzitutto procedere alla descrizione, cioè alla raccolta dei dati educativi secondo una griglia elaborata in precedenza e che deve essere la stessa per tutti i Paesi; Bereday insiste sulla preparazione del comparativista che dovrebbe tra l’altro padroneggiare il metodo di una o più scienze sociali, conoscere la lingua dell’area e risiedere per un periodo nella zona. Il secondo momento è dato dall’interpretazione, cioè dalla valutazione delle informazioni disponibili sulla base degli approcci delle varie scienze sociali allo scopo di identificare cause e connessioni. Gli studi comparativi, la seconda grande fase, esaminano più Paesi contemporaneamente. Con la giustapposizione ogni griglia è avvicinata alle altre per individuare somiglianze e differenze e arrivare all’elaborazione di un’ipotesi. Questa viene verificata nel quarto momento attraverso il trattamento simultaneo di molti o di tutti i Paesi: il risultato dovrebbe essere quello dell’enunciazione di leggi o di tipologie. I meriti di Bereday sono la scientificità, la logicità e la chiarezza dell’approccio, mentre i limiti vanno ricercati nell’enfasi induttivistica per cui l’ipotesi non viene presupposta fin dal principio del processo comparativo, nella ricerca esasperata della simmetria e nella pretesa di una conoscenza enciclopedica nel comparativista. King respinge la possibilità di elaborare una metodologia chiara e precisa nel senso che questa non può essere definita una volta per sempre, ma cambia secondo il tipo di indagine e gli obiettivi perseguiti. Rimane il carattere pragmatico dell’e.c. che mira ad elaborare strategie per risolvere problemi concreti. Se va apprezzato il recupero della natura anche ideografica dell’e.c. e dell’importanza dell’intuizione, l’impostazione di King trova il suo punto debole nell’assenza di una rigorosa strumentazione sul piano scientifico. Quest’ultima è presente in modo pieno in Noah ed Eckstein (1969). L’e.c. consiste nell’utilizzare dati desunti da varie nazioni per verificare ipotesi sull’e. e sui rapporti tra e. e società. Il metodo è articolato nelle fasi tipiche dell’analisi delle scienze sociali: identificazione del problema, formulazione di un’ipotesi, operazionalizzazione dei concetti, scelta dei casi, raccolta dei dati relativi agli indicatori e ai Paesi, verifica dell’ipotesi e determinazione delle implicazioni sul piano teorico. Se all’inizio sono stati ricordati i meriti della proposta, non vanno dimenticati gli aspetti discutibili come il rischio di trasformare l’e.c. in una sociologia dell’e. comparata e l’eccessiva quantificazione. Il «problem approach» di Holmes non si fonda né sul positivismo né sull’induzione, ma sul pensiero riflessivo di​​ ​​ Dewey, in particolare sul​​ ​​ «problem solving», e su Popper, da cui mutua il metodo ipotetico-deduttivo e il dualismo critico che distingue tra leggi sociologiche, regolarità che sfuggono all’intervento umano, e convenzioni, prodotte dall’uomo e da lui modificabili (1981). Inoltre, non ricerca le cause dei fatti, ma studia gli eventi in quanto predittivi. L’approccio è articolato in cinque momenti principali: l’analisi del problema che nasce dal divario tra norme e fatti o tra le norme; l’identificazione dei fattori rilevanti, quelli cioè che spiegano il problema; la formulazione di proposte politiche alternative, le ipotesi cioè; la predizione logica dei risultati delle strategie in relazione con le condizioni significative dei contesti sotto esame; la comparazione dei risultati predetti con gli avvenimenti osservabili. Punti forti di Holmes sono il metodo ipotetico-deduttivo e per problemi e la focalizzazione sulla predizione; meno convincenti risultano la trattazione degli aspetti quantitativi e le oscillazioni nella definizione delle fasi del metodo.

2.2.​​ Una critica radicale.​​ All’inizio degli anni ’70 la teoria funzionalista e il metodo positivista, su cui poggiavano le posizioni tradizionali, vengono messi in discussione da una società che è divenuta conflittuale e da una scuola che mostra gravi crepe, mentre sul piano scientifico essi sono raggiunti da critiche radicali. Il paradigma umanista sostiene l’origine sociale di tutte le teorie in contrasto con l’approccio realista dell’e.c. tradizionale. Il funzionalismo radicale, ispirandosi alle interpretazioni neo-marxiste, attribuisce alla scuola la funzione di riprodurre le strutture capitaliste per cui ogni tentativo di riformarla che non sia preceduto da una rivoluzione nel modo di produzione è destinato all’insuccesso. Appaiono le posizioni di un umanesimo radicale che attinge alle riflessioni della​​ ​​ Scuola di Francoforte: in questo quadro si situano le analisi del femminismo che rimprovera all’e.c. tradizionale il silenzio circa il ruolo dell’e. nella riproduzione dell’ineguaglianza tra i sessi. Si diffondono paradigmi interpretativi, alcuni dei quali propongono l’alternativa etnometodologica, cioè lo studio di come gli individui operino nel processo di costruzione della realtà sociale. L’approccio dell’e.c. deve passare dal piano macro al micro, da una impostazione realista ad una relativista e interessarsi della vita quotidiana. In sostanza alla fine della decade ’80 si riscontra nell’e.c una situazione di confusione e malessere sul piano metodologico.

2.3.​​ Verso il​​ ​​ pluralismo e la complementarità.​​ Negli anni ’90 e ancor più nella attuale decade viene accettata l’eterogeneità delle posizioni e la complementarità dei diversi paradigmi. Nessuna teoria può pretendere il monopolio della verità, ma tutte contribuiscono alla conoscenza di una società sempre più complessa. A questo punto mi limito a ricordare solo le posizioni nuove. Il neofunzionalismo mira a coniugare l’ortodossia parsonsiana con paradigmi anche opposti: in particolare ha accettato le interpretazioni conflittuali e ha riconosciuto la centralità delle diseguaglianze strutturali. Le teorie critiche hanno attaccato il carattere repressivo della cultura e della società occidentale, mettendo in evidenza soprattutto le distorsioni prodotte nella coscienza e l’oppressione sessuale. Nelle versioni post-strutturalista e post-moderna esse hanno affermato la natura frammentata della realtà sociale, la superiorità del paradosso, della diversità, dell’ambiguità e del caso, l’attenzione al contesto locale. Le posizioni interpretative si sono mosse o nel senso del rifiuto di ogni teoria totalizzante e dell’accettazione di una pluralità di metodi o nella direzione della valorizzazione della coscienza, della creatività e dell’emozionalità. In conclusione, le critiche radicali degli anni ’70 e ’80 e l’eterogeneità degli anni ’90 e 2000 se hanno avuto il merito di allargare gli orizzonti e gli strumenti della ricerca, non sembra siano riuscite a elaborare costruzioni metodologiche compiute, capaci di sostituire quelle tradizionali.

Bibliografia

Jullien M.-A.,​​ L’esquisse et vues préliminaires d’un ouvrage sur l’éducation comparée,​​ Paris, Colas, 1817; Bereday G. Z. F.,​​ Comparative method in education,​​ New York, Rinehart and Winston, 1964; Holmes B.,​​ Problems in education. A comparative approach,​​ London, Routledge and Kegan Paul, 1965; Noah H. - M. A. Eckstein,​​ Toward a science of comparative education,​​ London, Macmillan, 1969; Sinistrero V.,​​ Il​​ Vaticano II e l’e.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1970; Holmes B.,​​ Comparative education: some considerations of method,​​ London, George Allen and Unwin, 1981;​​ García Garrido J. L.,​​ Fundamentos de educación comparada,​​ Madrid, Dykinson,​​ 1986; Schriewer J. - B. Holmes (Edd.),​​ Theories and methods in comparative education,​​ Frankfurt a.M., Lang, 1988; Paulston R. G., «Comparative and international education: paradigms and theories», in T. Husen - L. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press,​​ 21994, 923-933; Maseman V. - A. Welch (Edd.),​​ Tradition,​​ modernity and postmodernity. Special double issue, in «International Review of Education» 43 (1997) 5-6; Crossley M. - P. Jarvis (Edd.),​​ Comparative education for the Twenty-first century. Special Number, in «Comparative Education» 37 (2001) 4; Bray M. (Ed.),​​ Comparative education. Continuing traditions,​​ new challenges,​​ and new paradigms, Dordrecht, Kluwer, 2003.

G. Malizia




EDUCAZIONE CRISTIANA

 

EDUCAZIONE CRISTIANA

Le espressioni e.c. e «e. dei cristiani» sono due modi corretti per indicare l’azione educativo-formativa, esercitata dalle comunità cristiane e dal singolo cristiano, lungo la storia, sulle nuove generazioni in funzione di una loro maturazione umano-cristiana nei differenti contesti culturali (​​ Cristianesimo,​​ ​​ Chiesa,​​ ​​ educatore cristiano).

1.​​ Parola di Dio,​​ tradizione ecclesiale ed e.​​ La Parola di Dio, contenuta nella​​ ​​ Bibbia e trasmessa dalla Chiesa, non contiene una​​ pedagogia rivelata​​ valida per tutti i tempi, i luoghi e le culture, ma solo alcune esigenze fondamentali, a partire dalle quali e ispirandosi ad esse, le comunità cristiane sono chiamate ad impostare la loro prassi educativa nei differenti contesti culturali in cui devono vivere. La determinazione della natura, dei contenuti e della meta dell’e., cioè della​​ ​​ maturità, la scoperta dei metodi e dei mezzi adatti per raggiungerla, la configurazione delle istituzioni educative, sia di quelle naturali, come la famiglia, sia delle altre prodotte dalla cultura, come la scuola, sono lasciate all’inventiva delle generazioni cristiane operanti nelle diverse culture. Questo spiega perché nell’ambito dell’unica fede cristiana, di fatto e di diritto esistano prassi e istituzioni educative e scolastiche plurime, differenti tra loro e tuttavia compatibili con la suprema saggezza contenuta nella Parola di Dio, quindi tali da potersi legittimamente qualificare come​​ cristiane​​ (​​ pedagogia cristiana). La Chiesa, lungo la sua storia bimillenaria, pur occupandosi di e. e di pedagogia, non l’ha fatto attraverso interventi dottrinali del magistero quanto piuttosto mediante esortazioni e direttive di tipo pastorale oppure mediante la promozione di esperienze educative e di istituzioni scolastiche, ispirate dalla Parola di Dio. Solo nell’epoca contemporanea la Chiesa ha affrontato il problema dell’e.c., in due importanti documenti: l’Enc.​​ Divini Illius Magistri​​ (1929-1930) di Pio XI e la Dichiarazione​​ Gravissimum Educationis​​ (= GE) (1965) del Conc. Vaticano II.

2.​​ Dimensioni e obiettivi dell’e.c. oggi.​​ L’e.c. deve essere intesa come un processo unitario di maturazione umana e di crescita cristiana. In esso le due componenti o dimensioni, quella umana e quella specificamente cristiana, pur essendo distinte a livello concettuale, non possono essere separate nella realtà concreta del processo educativo, il quale, a sua volta, riguarda non solo le persone singole ma anche le comunità ecclesiali, perché solo all’interno di queste ultime e mediante la loro capacità educativo-formativa, le persone singole possono crescere e maturare a livello umano e cristiano.

2.1.​​ Prima e fondamentale componente​​ dell’e.c. è la sua dimensione autenticamente umana e attuale. Deve essere un’e. la quale, pur differenziandosi all’interno delle diverse culture, miri a formare uomini maturi. «Tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona hanno il diritto inalienabile ad una e. che risponda al proprio fine, convenga alla propria indole, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese, e insieme aperta ad una fraterna convivenza con gli altri popoli al fine di garantire una vera unità e la vera pace sulla terra» (GE, 1). Non va dimenticato, però, che oggi i processi educativo-formativi devono realizzarsi in contesti culturali, caratterizzati da un pluralismo esasperato a tutti i livelli, da una conflittualità ideologica e religiosa che giustifica l’uso della violenza; da forme di sincretismo alla​​ New Age,​​ nelle quali l’identità della fede cristiana tende gradualmente a dissolversi. Per conseguenza l’e. dovrà essere concepita come un processo di crescente maturazione delle persone singole e delle comunità, orientato ad una migliore «qualità della vita» e a tipi di promozione e liberazione umana, definiti razionalmente nell’orizzonte delle supreme finalità cristiane.​​ Primo obiettivo​​ di un’e. così intesa è quello di sviluppare, nei giovani e negli adulti, una​​ crescente capacità critica​​ di fronte alle attese, alle aspirazioni e ai progetti di vita, che le agenzie di socializzazione e inculturazione diffondono largamente a tutti i livelli attraverso i mass-media, particolarmente la TV, per la sua diffusione capillare e la sua efficacia persuasiva. Tale obiettivo si raggiunge solo se si riesce a suscitare, particolarmente nel mondo giovanile, un tale amore per la verità da essere disposti a porla al di sopra di tutti gli altri interessi. Occorre aiutare i giovani a convincersi che la certezza sul vero senso della vita e l’impegno definitivo a servizio della verità e del bene sono raggiungibili, nonostante il diffuso scetticismo al riguardo. Il​​ secondo obiettivo​​ è quello di aiutare la generazione in crescita a costruirsi un progetto di vita autenticamente umano e ad acquisire quelle disposizioni psichiche che ne rendono possibile la realizzazione, anche quando il primo e le seconde risultino in contrasto con il quadro dei valori, dei progetti di vita e dei comportamenti, veicolati dal sistema culturale dominante.​​ Terzo obiettivo​​ infine di un’e. autenticamente umana e attuale è quello di coltivare nei giovani aspirazioni verso un mondo più umano, libero dalle oppressioni, che escluda i metodi della violenza, rispetti le persone, eviti le emarginazioni dei poveri, per poi orientarli verso un impegno serio e realistico a favore di qualche processo concreto di umanizzazione del mondo. Questi tre obiettivi dovrebbero essere attuati secondo una progettazione pedagogica che trovi la sua giustificazione nelle Scienze dell’e. in dialogo interdisciplinare tra loro e con la teologia (​​ epistemologia pedagogica).

2.2. La​​ seconda componente​​ dell’e.c. è data da ciò che, a livello ontologico e teleologico, la specifica in quanto «cristiana». Ora il cristiano è la persona che, mediante la fede e il battesimo, è diventata una nuova creatura in Cristo, un figlio di Dio, però allo stato germinale, per cui è impegnato ad attuare un continuo processo di​​ ​​ conversione e di crescita nella fede, speranza e carità, avendo come meta la perfezione in Cristo o santità (Ef 4,13), concepita però in modo tale da includere al suo interno le finalità e gli obiettivi propri della maturazione umana. Gli obiettivi pertanto dell’e.c., in quanto tale, devono mirare al raggiungimento di una autentica maturazione umana all’interno di una crescita continua verso la perfezione cristiana o santità. Potremmo riassumerli nei seguenti quattro.​​ Primo obiettivo​​ che l’educatore cristiano deve prefiggersi è un annuncio efficace dei contenuti del kerygma cristiano (​​ catechesi) alla generazione in crescita, per provocare, con l’aiuto della grazia, un vero processo di conversione, fondamento di ogni crescita cristiana. Si tratta di iniziare soprattutto adolescenti e giovani, gradualmente ma costantemente, ad una comprensione sempre più completa della visione cristiana della vita e del mondo e ad una accettazione sempre più matura della Parola salvifica di Dio in Cristo, mediante una fede viva e operosa, che tende a diventare sempre più matura. Il​​ secondo obiettivo​​ dell’e.c. è una vera iniziazione dei giovani alla vita liturgico-sacramentale delle comunità ecclesiali, che porti con gradualità le nuove generazioni a comprendere e a vivere coscientemente la dimensione cultuale e misterica della vita cristiana attraverso i segni liturgici (​​ preghiera,​​ ​​ sacramenti). I giovani devono essere aiutati ad acquisire una religiosità sempre più matura e a superare la dissociazione perniciosa tra l’aspetto cultuale e gli aspetti profani della vita.​​ Terzo obiettivo​​ è l’apprendimento di una vita morale autenticamente cristiana mediante un vero tirocinio di pratica cristiana e, contemporaneamente a tale pratica, l’acquisizione di una conoscenza corretta delle dimensioni profonde del comportamento cristiano e un convincimento personale del suo valore, fondato su motivazioni non solo oggettivamente valide, ma anche percepite soggettivamente come tali (​​ e. religiosa). Infine il​​ quarto obiettivo​​ specificamente cristiano dell’e. è l’iniziazione dei giovani all’apostolato ecclesiale, finalizzato alla crescita delle comunità cristiane nella loro dimensione «misterica», all’attuazione del loro fondamentale compito missionario agli uomini d’oggi (= la nuova evangelizzazione) e alla promozione di continui processi di liberazione dalle molteplici oppressioni cui le persone singole e le varie comunità umane sono soggette (​​ Chiesa). È evidente che alla realizzazione di questi obiettivi devono partecipare tutte le componenti delle comunità cristiane, dalla famiglia alla scuola, dai gruppi giovanili alle associazioni e ai movimenti ecclesiali.

3.​​ Il processo unitario di maturazione umano-cristiana.​​ Il processo di maturazione umano-cristiana che dovrebbe caratterizzare l’e. dei cristiani, differenziandola dalle altre, va concepito come una realtà complessa, profondamente unitaria, all’interno della quale tuttavia sono distinguibili (ma non separabili) componenti personali e componenti comunitarie. Riteniamo che le componenti personali di un tale processo siano l’opzione globale di fede, il progetto di vita umano-cristiano e l’acquisizione di quei dinamismi permanenti che rendono possibile una vita umano-cristiana. Ciò che invece abilita le comunità ecclesiali ad essere l’ambiente adatto per la maturazione delle persone va ricercato nella loro dimensione a misura d’uomo, nella presenza in esse di una forte tensione evangelizzatrice non disgiunta da un autentico sforzo di promozione umana e in un clima di dialogo come atteggiamento, comunicazione e comunione collaborativa. L’opzione globale di fede con cui ci si converte al Cristo nella Chiesa, a causa del suo carattere radicale e totalizzante, viene ad essere di fatto un vero progetto di vita ed ha una funzione unificante di tutta la personalità. Proprio per questo possiede una valenza educativa, nel senso che può contribuire efficacemente alla maturazione della persona, purché il processo di conversione e crescita cristiana non sia a scapito della maturazione umana. Infatti il nuovo progetto di vita, incluso nella scelta di fede, provoca generalmente nel convertito un profondo sconvolgimento sul piano del pensiero e dell’azione, esigendo nuovi modi di vedere e giudicare la realtà e nuovi comportamenti. Si crea in lui una situazione conflittuale tra ciò che era prima («l’uomo vecchio», di cui parla S. Paolo) e ciò che è diventato ora («l’uomo nuovo») convertendosi. È una situazione che va superata, ma non a spese dell’umano, nell’accettazione sincera delle aspirazioni autenticamente umane del nostro tempo, nel rispetto di quei valori umani che l’umanità di tutti i tempi ha sempre stimato come mete dello sforzo etico della persona. Convertirsi significa iniziare un cammino di fede, speranza e amore-agape, mediante il quale il convertito si sforza di tradurre nella concretezza esistenziale della sua vita gli impegni che nascono dalla sua scelta radicale e totalizzante. Però, anche quando l’opzione globale di fede si è trasformata gradualmente in progetto cristiano di vita, non per questo si è già arrivati a colmare il vuoto che esiste tra ciò che si vuole essere (la nuova creatura in Cristo) e ciò che di fatto si è ancora; tra la mentalità di fede che si vorrebbe possedere e il modo di pensare e giudicare, che si aveva prima; tra la condotta ideale che ci si propone e quella effettiva, messa in opera nel grigiore della quotidianità. L’itinerario di maturazione cristiana implica ancora un lungo e faticoso lavoro di acquisizione di quelle strutture dinamiche o disposizioni permanenti, che nel linguaggio cristiano sono dette virtù, che orientano il cristiano a valutare e ad agire costantemente secondo gli obiettivi, remoti o prossimi, contenuti nel progetto di vita, ispirato alla fede. Si tratta di un vero «apprendistato» della vita cristiana. Perché il processo di maturazione umano-cristiana del convertito possa realizzarsi, deve avvenire all’interno di famiglie autenticamente cristiane, nelle quali i genitori hanno raggiunto una sufficiente maturità umana; famiglie, coadiuvate da gruppi ecclesiali a misura d’uomo, nei quali l’elemento «comunione» tra i membri sia reale ed evidente, senza escludere una piena apertura all’intera comunità cristiana e al mondo. Si esige inoltre, all’interno di questi gruppi, la presenza di un certo numero di persone umanamente mature, che abbiano già fatto un cammino di crescita della loro esperienza di fede e siano impegnate in un’azione di testimonianza evangelizzatrice e di promozione umana. Sono appunto queste persone quelle che realizzano la figura del vero educatore cristiano. Esse, con la loro autorevolezza, umana e cristiana, possono donare, ai giovani, un efficace aiuto educativo, offrendo loro le condizioni ideali per una conversione e crescita in Cristo, che contenga, al suo interno, un vero processo di maturazione umana.

Bibliografia

Nipkow K. E., «Erziehung», in​​ Theologische Realenzyklopädie,​​ X (1982) 232-253; Abbà G.,​​ Una filosofia morale per l’e. alla vita buona,​​ in «Salesianum» 53 (1991) 273-314; Groppo G.,​​ Teologia dell’e. Origine identità compiti,​​ Roma, LAS, 1991; Groppo G. - G. A. Ubertalli, «L’e.c.: natura e fine», in N. Galli (Ed.),​​ L’e.c. negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II, Milano, Vita e Pensiero, 1992, 25-62; Scholé (Ed.),​​ L’e.c. alle soglie del nuovo millennio, Brescia, La Scuola, 2001; Scholé (Ed.),​​ E. c. e trasformazioni religiose, Ibid., 2004; Malizia G. et al.,​​ A. 40 anni dalla Gravissimum Educationis, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 189-450.

G. Groppo




educazione degli ADULTI

 

ADULTI: educazione degli

L’educazione degli a. indica le iniziative che permettono a questi di sviluppare le proprie conoscenze, qualificazioni, atteggiamenti e comportamenti per una piena realizzazione personale e sociale. A volte si parla piuttosto di «formazione degli a.», specialmente come qualificazione per un ruolo o compito (per es.​​ ​​ formazione degli insegnanti).

1. Storicamente l’educazione degli a. si è sviluppata in Francia (fine del XVIII sec.), nei paesi scandinavi (sec. XIX), e in Inghilterra (e altri Paesi europei) all’inizio del sec. XX, specialmente sotto la spinta della rivoluzione industriale. Dopo il 1945 l’educazione degli a. riceve un impulso nuovo grazie all’Unesco che, con le sue conferenze internazionali, apre orizzonti nuovi d’​​ ​​ alfabetizzazione e promozione. L’Unesco ha lanciato il vasto progetto di​​ ​​ educazione permanente per un impegno educativo globale della società, allo scopo di rispondere all’urgente domanda di formazione globale.

2. L’interesse per l’a. è diventato ormai generale nel campo educativo e didattico, nella​​ ​​ formazione professionale e anche nell’ambito pastorale ed ecclesiale (​​ catechesi e formazione religiosa degli a.). Le principali cause: la difficoltà di essere a. oggi, in una società complessa e dinamica; il rischio dell’obsolescenza dei saperi e delle competenze; le nuove conoscenze sulla psicologia e l’apprendimento dell’a. Alcune esigenze tipiche dell’educazione degli a. sono: necessità di adeguata motivazione (spesso vi ricorrono di meno coloro che più ne hanno bisogno); rispetto delle esigenze dell’a. (autonomia, partecipazione, esperienza); attenzione alle tappe o periodi della vita adulta; opposizione ad ogni forma di strumentalizzazione.

Bibliografia

Faure E. (Ed.),​​ Rapporto sulle strategie dell’educazione,​​ Roma, Armando, 1973; Knowles M. S.,​​ Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, Angeli, 1993; Delors J. (Ed.),​​ Nell’educazione un tesoro, Paris / Roma, UNESCO / Armando, 1997; Demetrio D.,​​ Manuale di educazione degli a., Roma / Bari, Laterza, 1997; De Natale M. L.,​​ Educazione degli a., Brescia, La Scuola, 2001.

E. Alberich




EDUCAZIONE DI GENERE

 

EDUCAZIONE DI GENERE

I termini sesso e genere non sono sinonimi: con il primo si designano i fondamenti biologici che differenziano i maschi e le femmine; il secondo rimanda invece allo stato psicologico che rispecchia il senso interiore di essere maschio o femmina e alle aspettative sociali nei confronti dei due sessi.

1. Durante l’adolescenza, periodo fisicamente e psicologicamente convulso, fatto di incertezze e di insicurezze, l’identità personale, maschile o femminile, è in fase di piena costituzione (Besozzi, 2007). Il determinarsi secondo il proprio sesso biologico è di primaria importanza e si configura diversamente in ragazzi e ragazze nelle inevitabili ambivalenze tipiche della fase adolescenziale. La difficoltà che molti adolescenti incontrano a maturare la loro​​ ​​ identità di genere in modo coerente e naturale con la loro identità sessuale rimanda a tre fondamentali ragioni (Poterzio, 2007): la mancata identificazione in valide figure genitoriali durante l’infanzia nelle quali si possa riflettere un chiaro e felice rapporto​​ ​​ uomo-donna; il non potersi rispecchiare durante l’adolescenza in persone autentiche, da un punto di vista esistenziale, del loro stesso sesso; la carenza grave di amicizie dello stesso sesso durante l’adolescenza e la giovinezza. Una quarta ragione consiste nel fatto che oggi si sta radicando una nuova interpretazione della realtà sessuale: si vuole negare quello che ha costituito sempre uno dei presupposti fondamentali di ogni cultura, vale a dire che la differenza maschile / femminile è una categoria originaria e fisicamente «involontaria» (non è frutto di una scelta, ma ci è data, al momento della nascita) o per meglio dire, è una realtà biologica e fisiologica fattualmente obiettiva, in quanto cognitivamente ed esperienzialmente verificabile.

2. La scelta pedagogica di differenziare la metodologia educativa in funzione del sesso​​ degli alunni implica la condivisone previa di un’antropologia filosofica. L’uomo, individuato ed incarnato in una corporeità sessuale (maschile o femminile), manifesta la sua esigenza strutturale del rapporto con l’​​ ​​ alterità per potersi esprimere in modo compiuto. In questo senso la diversità sessuale non si riduce a rilevazione di un dato estrinseco e funzionale, ma assume il significato di modalità strutturale per la qualificazione della soggettività umana, maschile o femminile. L’uomo, proprio in quanto essere sessuato, mostra e conosce (in sé e nell’altro) la sua incompletezza: la condizione esistenziale sessuata e la presa di coscienza di essere maschi o femmine, apre sia l’uomo che la donna alla consapevolezza della propria finitezza e particolarità (ossia alla presa di coscienza di essere una polarità, finita e non infinita, una parte e non il tutto).

3. Mediante il confronto con l’alterità, l’uomo e la donna acquisiscono coscienza della impossibilità di chiudersi autarchicamente in sé stessi, di pretendere che vi sia un solo modo di osservare, di agire e di essere nel mondo: in questo senso la sessualità costituisce una spinta a trascendere la propria particolarità, nel confronto con la prospettiva dell’altro-da-sé, sessualmente differente e complementare. In questa prospettiva la differenza dei sessi non è intesa come modalità irriducibile e radicale, bensì come modalità relazionale: anzi, si può dire che è la modalità ove la relazionalità dell’io diviene più rilevante sul piano esistenziale; sessualità, alterità e percezione fondante dell’io vengono così a coappartenersi nella dinamica bipolare (maschile / femminile) dell’essere umano. Affinché gli alunni ottengano il massimo beneficio possibile dall’esperienza scolastica, il docente dovrebbe prendere in considerazione anche le caratteristiche della loro identità di genere.

Bibliografia

Castilla B.,​​ La complementariedad varón-mujer. Nuevas hipótesis, Madrid, Rialp, 1993; Barrio Maestre J. M. (Ed.),​​ Educación diferenciada,​​ una opción razonable,​​ Pamplona, EUNSA,​​ 2005;​​ Dee T.,​​ The why chromosome: How a teacher’s gender affects boys and girls, in «Education Next»​​ 6 (2006) 4, 68-75; Besozzi E.,​​ Il genere come risorsa comunicativa.​​ Maschile e femminile nei processi di crescita,​​ Milano, Angeli,​​ 22007; Poterzio F.,​​ Relazioni interpersonali e identità di genere, in «Quaderni Scienza & Vita» del 9-03-2007.

A. La Marca




EDUCAZIONE EXTRASCOLASTICA

 

EDUCAZIONE EXTRASCOLASTICA

L’insieme delle occasioni, delle esperienze, degli interventi e delle agenzie formative che non hanno nella scuola (nei suoi curricoli, spazi, orari, funzionamenti) il loro punto di riferimento. In sostanza, tutto quanto avviene, per finalità educative, esternamente alla scuola e al di fuori della sua struttura istituzionale.

1.​​ Opposizione e continuità.​​ L’e.e. si definisce innanzitutto attraverso la distinzione rispetto a quella scolastica, che può assumere un significato puramente descrittivo e di rilevazione di fatto (ciò che non avviene a scuola) oppure un senso più approfonditamente qualitativo e «modale» (ciò che non avviene nei modi e con gli stili della scuola). Seguendo questa seconda accezione, occorre partire dall’analisi di una contrapposizione che ha percorso larghi tratti della pedagogia contemporanea. I sostenitori della pedagogia non direttiva, della​​ ​​ pedagogia istituzionale e della teoria della​​ ​​ descolarizzazione hanno sostenuto il primato del non scolastico sullo scolastico, mentre i fautori dello​​ ​​ strutturalismo, del​​ ​​ marxismo e del​​ ​​ personalismo hanno difeso quello della scuola. L’esperienza extrascolastica – per gli uni – consente di realizzare l’apprendimento come acquisizione di significati personali, libera da canalizzazioni rigidamente e deterministicamente precostituite, improntata a dinamismi di flessibilità ed elasticità, aperta ad una pluralità di risorse e di ambienti, rafforzata dalla gratuità delle occasioni personali di contatto e dall’assenza di apparati esterni di controllo e di autorizzazione. Il tirocinio scolastico – per gli altri – assicura le condizioni di un apprendimento culturalmente rilevante e metodologicamente provveduto, ripulito da ogni incrostazione di dilettantismo ed improvvisazione, orientato all’ acquisizione degli strumenti di analisi e riflessione critica personale. È chiaro, allora, che ad una visione «burocratica» della scuola si contrappone un’immagine «caotica» ed inaffidabile dell’e.e. Se questa contrapposizione risultasse incomponibile, diventerebbe impossibile pensare ad una sintesi tale da riunire in una composita ma armonica visione educativa tutte le diverse «sfere vitali» (​​ Pestalozzi) nelle quali si distende e si esplica l’esistenza della persona. La condizione prima di un​​ ​​ progetto formativo adeguato alla complessità ed alla controversa multilateralità della nostra esperienza consiste, invece, proprio nel prospettare il reciproco concorso del mondo della scuola e degli universi dell’ extrascolastico per la formazione dell’uomo in un orizzonte di​​ ​​ valori comuni e nel rispetto della diversità dei linguaggi e delle potenzialità. Lo scolastico può richiamare dall’extrascolastico la maggior distensione ed autenticità delle relazioni interpersonali, la concretezza dei contenuti, la naturalità delle motivazioni, il rispetto del desiderio esplorativo e l’assenza di formalismi; a sua volta, l’extra-scolastico può recepire dallo scolastico il rispetto della competenza, la stimolazione all’autonomia critica, la ricerca di mediazioni scientifico-razionali, il controllo del coinvolgimento emotivo, l’acquisizione di procedure rigorose di indagine, il perfezionamento degli strumenti espressivi. Non si nega, quindi, la scuola, ma non la si assolutizza; non si ignora, a sua volta, la vita, ma non si abbandona l’extrascolastico ad un puro e semplice gioco di forze ed influssi in contrasto fra loro e spesso privi di un orientamento formativo responsabile.

2.​​ Identità dell’extrascolastico.​​ L’«autodidassi» rappresenta l’elemento distintivo fondamentale dell’esperienza extrascolastica, in cui – come dice P. Furter – «l’obiettivo principale è quello di suscitare, sostenere e prolungare un processo attivo di acquisizione continua di ogni individuo all’interno di ciascuna delle situazioni che egli affronta per trasformare il suo vissuto culturale». A questo riguardo, si delineano due principali campi di attenzione: il fenomeno della «formazione diffusa» da una parte e le prospettive della «post-alfabetizzazione» dall’altra. Sul primo piano, è possibile constatare la presenza di un vasto ed articolato mondo di presenze culturali, comprensivo di un arco di contributi quanto mai composito – enti locali ed enti di decentramento, agenzie di divulgazione, agenzie culturali, cinema, musica, teatro, arte, storia, iniziative di aggiornamento tecnico-professionale, strutture di​​ ​​ educazione permanente e ricorrente – fino a poter parlare di sovrabbondanza, di dispersione e di diffrazione delle offerte. Nasce da qui l’esigenza di coordinamento e di razionalizzazione, che sembra aver trovato nel principio della «territorializzazione» il più produttivo criterio unificante. Resta, ad ogni modo, il problema di definire le strutture di autorevolezza e di potere cui affidare il coordinamento: enti locali, amministrazioni decentrate, libere associazioni di volontariato e / o professionali? Il tema della post-alfabetizzazione, poi, invita a riflettere sull’importanza di concepire l’e.e. come insieme di opportunità in grado di affrontare efficacemente impegni di consolidamento della preparazione alfabetica di base, di aprirsi a tutte le opportunità di alfabetizzazione in senso culturale, di includere delle possibilità di applicazione e di finalizzazione personale per tutti e di potenziare lo sviluppo delle comunità. Da entrambi i versanti appare evidente che il nodo centrale è costituito dalla messa in atto – per stare ancora con Furter – di «reti formative» intese come «insieme coerente, ma non necessariamente centralizzato o uniformizzato, di tutti gli insegnamenti che si indirizzano a differenti clientele in differenti momenti della loro vita in differenti situazioni». Al centro di questa ideazione, infine, sta la costruzione di una pedagogia dell’​​ ​​ e. permanente estesa a tutte le età della vita e, al suo interno, la fondazione di una vera e propria andragogia (teoria della formazione dell’adulto), che si concretizza nell’autovalutazione iniziale dei bisogni di formazione da parte dei destinatari stessi, nella loro partecipazione alla gestione della formazione e nell’organizzazione collettiva di essa.

Bibliografia

Furter P.,​​ «La formation extrascolaire et le développement dépendent», in​​ Les modes de transmission. Du didactique à l’extrascolaire,​​ Paris / Genève, PUF-IED,​​ 1976,18-102; Massa R.,​​ L’e.e.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1977; Associazione Pedagogica Italiana,​​ E.​​ scolastica ed extrascolastica oggi,​​ Atti del XIII Congresso Nazionale di Pedagogia, Bologna, Pàtron, 1979;​​ Furter P.,​​ Les systèmes de formation dans leur contextes,​​ Berne, Lang,​​ 1980, 157-191; 315-332; Scurati C. (Ed.),​​ L’e.e. Problemi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1986; Cisem,​​ La formazione diffusa,​​ Milano, Angeli, 1986;​​ Pain A.,​​ Éducation informelle,​​ Paris, L’Harmattan,​​ 1993;​​ Lamata Cotanda R. - R. Domínguez Aranda (Edd.),​​ La construcción de procesos formativos en educación no formal,​​ Madrid, Narcea, 2003.

C. Scurati




EDUCAZIONE FISICA

 

EDUCAZIONE FISICA

Il concetto di e.f. appartiene a vari campi d’intervento: fisiologico, pedagogico, ludico, ecologico. Ciò che tuttavia accomuna questi differenti settori è il concetto di fondo secondo cui l’e.f. rientra nel più generale processo educativo sotteso alla stretta correlazione che passa tra attività fisica e psichica.

1. Scaturiscono da qui alcune delle principali prerogative dell’e.f.: in primo luogo essa mira ad un miglioramento «globale» dell’organismo, in una visione armonica ed integrale di tutte le sue componenti; in quanto attività pratica, abbraccia tutti quegli esercizi che tendono ad esaltare nell’individuo le doti fisiche (agilità, plasticità, destrezza, armonia delle forme...) unitamente alle qualità bio-psichiche, intellettuali e socio-relazionali; in quanto attività svolta generalmente in gruppo, essa contribuisce alla maturazione dell’uomo non solo come singolo ma anche come persona pienamente integrata nel sociale; infine in quanto indirizzata a tutti, uomini e donne, bambini, giovani e adulti, sani e ammalati, deboli e forti presenta un significativo carattere di universalità. Di conseguenza anche la pratica dell’e.f. e gli esercizi a cui fa capo vanno intesi essenzialmente come «mezzi» per raggiungere le finalità sottese. Pertanto essa non può essere un’attività svolta in modo episodico e frammentario, ma va piuttosto «disciplinata» nel tempo e nello spazio.

2. In particolare l’inserimento dell’e.f. tra le varie​​ ​​ discipline scolastiche corrisponde agli obiettivi di far acquisire il valore della corporeità in funzione della formazione di una personalità equilibrata ed in grado di relazionarsi con gli altri; di consolidare una cultura motoria intesa come prevenzione; di favorire un completo sviluppo psicomotorio della persona; di promuovere lo sviluppo di abilità trasferibili anche all’esterno della scuola e / o della pratica dell’e.f. (nel campo del lavoro, della salute, del tempo libero...).

Bibliografia

Azzolini D. - F. Manfrin,​​ L’officina del movimento. I laboratori didattici di educazione fisica: verso una nuova epistemologia disciplinare, Azzano San Paolo (BG), Ed. Junior, 2004; Zedda M.,​​ Pedagogia del corpo. Introduzione alla ricerca teorica in e.f., Pisa, ETS, 2006.

V. Pieroni