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ESPERIENZA fattore educativo

 

ESPERIENZA: fattore educativo

Termine dai molti significati, che sembrano congiungersi nell’idea di una conoscenza molto vicina al vissuto e all’esistenza umana nel mondo, con gli altri, nella storia e nell’apertura al possibile, all’ulteriore, al di più, al trascendente. Dal punto di vista contenutistico può essere intesa come il complesso delle informazioni ed acquisizioni conseguite da un individuo o da un gruppo storico attraverso il tempo (e perciò sinonimo di​​ ​​ cultura individuale e / o collettiva).

1. L’analisi concettuale mette in risalto la molteplicità degli ambiti (e. interna, esterna), dei modi (e. soggettiva, interpersonale, di gruppo, comunitaria, collettiva, storica), dei livelli (e. sensibile, intellettuale, emotiva, sentimentale, estetica, etica, religiosa, mistica), dei momenti (e. precedente, concomitante, susseguente), delle forme (e. diretta, indiretta, riflessa). Nel solco della tradizione e del senso comune (che fa sinonimo di e. l’«aver visto», il «toccato con mano», l’«esserci passato»), la filosofia, fin dall’antichità, ha accentuato la componente sensibile, intuitiva, diretta, emozionale dell’e.; ma ne ha messo pure in luce la problematicità, una certa opacità ed ambiguità conoscitiva (fino ad una facile esposizione all’ingannevolezza, che scambia l’apparenza per realtà). Specie con​​ ​​ Aristotele, se ne sottolinea la situazionalità e particolarità conoscitiva, ma pure la fondamentalità e la basilarità per ogni ulteriore conoscenza, che dalla percezione sensibile giunge all’intellezione concettuale e al ragionamento teorico e pratico. In età moderna si arriva a contrapporre e. a ragione (empirismo contro razionalismo), ma se ne fa pure il punto di partenza obbligato della ricerca scientifica. Per parte sua la scienza moderna dilata il concetto di e., facendovi confluire componenti sensoriali e psicologiche, ma anche logiche, quantitative, tecniche, che però sottopone al controllo dell’​​ ​​ osservazione metodica e sistematica e all’intervento attivo dell’esperimento «artificiale». Peraltro il pensiero contemporaneo di varia matrice (fenomenologia, esistenzialismo, spiritualismo, radicalismo), come le molteplici avanguardie artistiche e letterarie, accusano l’astrattezza e il tecnicismo scientifico e filosofico, e stimolano a ritornare all’immediatezza non codificata dell’e., «lasciando la parola alle cose» (Husserl) ed immergendosi intuitivamente nella realtà esperienziale più profonda. Per parte sua, il freudismo evidenzia la componente inconscia dell’e.; lo spiritualismo bergsoniano la dimensione sovraconscia e la fenomenologia scheleriana la dimensione intenzional-eidetica (vale a dire l’essere rivolta a cogliere l’essenza profonda di quanto viene a coscienza). È ancora rilevante la distinzione / opposizione tra e. esterna-osservativa ed e. interna-riflessiva e simpatetica, che porta a contrapporre scienze naturali e scienze dello spirito. Di questo dibattito si ha il riflesso, tuttora irrisolto, nell’attuale comprensione delle scienze umane e sociali e nella ricerca storica contemporanea, oscillanti tra idiografia e nomotetica, tra metodi quantitativi e metodi qualitativi, tra prospettive positivistiche e prospettive ermeneutiche. Nel clima della complessità e globalizzazione contemporanea si evidenzia per un verso la universalizzazione e per altro verso la frammentazione dell’e.

2. Dewey considera l’e. come fonte precipua e termine di confronto di una scienza dell’educazione Insieme con lui, l’intero movimento delle​​ ​​ Scuole Nuove fa dell’e. il punto di partenza dell’educazione; e del «fare e.» il metodo per eccellenza dell’apprendimento. La ristrutturazione migliorata dell’e. è per J. Dewey il fine stesso dell’educazione. In questa linea, la pedagogia contemporanea e i programmi scolastici vedono nell’e., di cui il soggetto è portatore, un contenuto essenziale da correlare con il patrimonio sociale di cultura, e propongono l’e. come un mezzo educativo necessario in ogni tipo di educazione (familiare, scolastica, catechetica, professionale). Tuttavia – come lo stesso Dewey aveva già avvertito in​​ E. e educazione​​ (1938) – per la buona qualità educativa dell’e., occorre che si tengano in conto le costanti della «continuità» e dell’«interazione». Metodologicamente si dovrà pertanto tener conto delle reali situazioni delle persone, delle loro storie personali, dei loro cammini, delle loro scelte, delle loro aspirazioni. E al fine di dilatare ed arricchire l’e. soggettiva, sarà da introdurre saggiamente e sistematicamente alle risorse culturali offerte dall’ambiente. Allo stesso tempo sarà da stimolare il soggetto educando a maturare l’e. personale, esigendo collaborazione e partecipazione e usando strumenti adeguati al momento vitale e ai processi di crescita personali; non trasmettendo concetti universali e astratti, ma impegnando la globalità personale nella sua sensibilità, motricità, passionalità, intelligenza, volontà, operatività in atti validi, in pratiche significative, in esercizi attivi e supervisionati: con l’obiettivo di superare un fare e. slegato e frammentato, e di aiutare gradualmente a vivere da soggetti, consapevolmente, responsabilmente, solidarmente, nella realtà e nella storia del proprio tempo e della propria comunità di appartenenza o di acquisto in una prospettiva umana globale.

Bibliografia

Dewey J.,​​ E. e educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1967; Freire P.,​​ L’educazione come pratica della libertà,​​ Milano, Mondadori, 1973; Galimberti U.,​​ Psichiatria e fenomenologia,​​ Milano, Feltrinelli, 1979; Gevaert J.,​​ La dimensione esperienziale della catechesi,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1984; Bertolini P.,​​ L’esistere pedagogico,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988; Morin E.,​​ I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001.

C. Nanni




ESPERIENZA RELIGIOSA

 

ESPERIENZA RELIGIOSA

Nell’orizzonte educativo attuale l’e. assume una singolare rilevanza; viene esplorata da scienze diverse e in dimensione differenziata. L’e.r. a sua volta è attraversata da analisi molteplici, per lo più articolate e complementari. Perfino la ricerca storico-fenomenologica confluisce nell’e. fondamentale dell’uomo religioso, studiato a perno di manifestazioni svariate, che vi riscontrano il vero fulcro interpretativo (Couliano-Eliade, 1992).

1.​​ L’e.r. nella ricerca recente.​​ Anche lo studioso della tradizione biblica si riporta all’e. di fede di un popolo per capirne la singolarità e la missione. La storia intera di Israele è leggibile solo sulla base della sua e. di fede: «Israele attinge ad uno strato profondo dell’e. storica, che al metodo storico-critico è inaccessibile. Poiché si tratta di cose riguardanti la sua fede, solo Israele è qui competente a parlare» (von Rad, 1974, 1, 134). La rivelazione stessa è dunque attinta all’e. interiore, un’e. che fa storia e fa tutt’uno con la storia. Bultmann ha richiamato in maniera lucida il passaggio obbligato all’e. anche là dove si vuole ricuperare la serietà e l’oggettività della vicenda storica: «Il rapporto dell’uomo verso la storia è diverso da quello verso la natura [...] se si volge alla storia deve confessare a se stesso che egli è una parte della storia e che quindi dice riferimento ad un ambito coerente di rapporti, in cui egli stesso con il suo essere è intrecciato» (Bultmann, 1972, 99). È chiaro che con richiami del genere si concentra l’obiettivo della ricerca sull’e.r. di un popolo o del singolo credente. La ricerca attuale, anche nella sua elaborazione più esigente – filosofica –, si è concentrata sull’e. concreta: ne ha sondato lo spessore, ne ha perseguite le ramificazioni. La ricerca religiosa stessa si è sempre più consapevolmente orientata all’e.: ha inteso sondarne il mistero che la caratterizza, il richiamo alla trascendenza che l’attraversa (Scheler, 1972). Perciò ha anche progressivamente dilatato l’orizzonte di esplorazione portandosi man mano dal dato confessionale al presagio religioso (Marcel, 1976).

2.​​ Aspetti qualificanti dell’e.r.​​ L’e. è termine abusato. La riflessione fenomenologica ed esistenziale l’ha attraversato in tutte le direzioni. Ha tenuto fermi due poli opposti e complementari: l’e. comporta un rapporto obbligato con l’oggetto; anzi, nell’istanza più rigorosa husserliana, ha preteso di lasciar affiorare intatta l’essenziale verità delle cose. Tuttavia una verità si dispiega – si svela – sempre ad una coscienza, e perciò chiama in causa la responsabilità del soggetto. Sotto il profilo educativo si potrebbe dire che un’e. si dà ogni qualvolta c’è partecipazione vissuta e significativa ad una qualunque provocazione. Se ne possono evidenziare gli aspetti qualificanti: anzitutto si tratta di trasferirsi dal vissuto alla consapevolezza del vissuto (dimensione cognitiva); e per lo più sollecitare una presa di coscienza in grado di prender le di stanze dal vissuto, per misurarlo sulla base di criteri autentici di valutazione (dimensione critica); soprattutto perché l’e. indica un necessario riferimento a dati oggettivi con cui è costitutivamente in rapporto, pure da analizzare ed accogliere nella loro intrinseca verità (dimensione veritativa); per quanto sia importante avvertire che il dato oggettivo è sempre assunto dal soggetto, secondo una propria irrinunciabile prospettiva: un punto di vista parziale e interpretativo (dimensione ermeneutica).

3.​​ E.r. e socializzazione.​​ Alcuni studiosi hanno esplorato le condizioni che favoriscono il nascere di una certa concezione di vita («cosmo sacro») e le leggi di socializzazione che sollecitano il singolo individuo e gli consentono di interiorizzarla (Luckmann, 1969). Assecondando la traccia di​​ ​​ Weber hanno esplorato il ramificarsi e il differenziarsi nelle società più avanzate delle competenze e dei ruoli religiosi; dello strutturarsi di processi educativi capaci di suscitare e alimentare l’e.r. Non meno interessante​​ la ricerca psicologica​​ attorno all’e.r. La provocazione di​​ ​​ Freud e di​​ ​​ Jung in ambito specificamente religioso sono alla base di un approfondimento e di una verifica che tende soprattutto a differenziare il desiderio, l’aspirazione o – come Freud preferiva – l’illusione dalla componente interiore e dal suo approdo al reale. Studiosi di psicologia religiosa quali​​ ​​ Allport, Godin, Vergote e tutta una scuola cosiddetta umanistica hanno aperto un versante di ricerca di grande interesse, ne hanno intravisto le risorse umanizzanti o addirittura terapeutiche (Frankl, 1972).

4.​​ E.r. e atto di fede.​​ Più recentemente studi notevoli si concentrano sull’atto di fede, inteso come specifica e. interiore, di per sé non obbligatoriamente religioso (Fowler, 1981) e tuttavia decisivo per interpretarne la logica dell’evoluzione e della maturazione umana e religiosa (Oser, 1988). La risonanza e il significato del rapporto religioso impegnano una parte rilevante della​​ ricerca fenomenologico-esistenziale​​ recente. Contributi significativi vengono soprattutto da G. Marcel, secondo il quale l’e. denuncia un margine insanabile di precarietà e appella alla trascendenza: ripiega nell’insignificanza, se non è «sostenuta dall’armatura del sacro» (Marcel, 1963); l’aspetto più specificamente interpersonale nell’atto religioso è analizzato soprattutto da​​ ​​ Buber (Buber, 1993). Il tema del​​ ​​ linguaggio costituisce un terreno di analisi singolarmente stimolante, sia per articolare in termini consapevoli l’e.r. (Ricoeur, 1969) che per identificare la specificità dell’atto di fede (Ladrière, 1984).

5.​​ E.r. e vita ecclesiale.​​ Per la ricaduta in​​ ambito ecclesiale,​​ la teologia riscopre nel riferimento alla figura di Cristo e alla più lontana tradizione biblica l’esigenza di far leva sull’e. storica ed esistenziale; di esplorarla in profondità proprio sulla base degli apporti che la rivelazione e la tradizione possono offrire. Dal punto di vista specificamente educativo il principio dell’incarnazione è assunto autorevolmente come riferimento qualificante ed esemplare della​​ ​​ evangelizzazione e della​​ ​​ catechesi. Un Sinodo della Chiesa universale specificamente sulla catechesi (1977) riscopre nel principio dell’incarnazione il fondamento capace di comporre esigenze apparentemente inconciliabili o comunque fortemente divaricate, quali la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo, nell’elaborazione delle strategie educative della comunità credente.

Bibliografia

Marcel G.,​​ Le mystère de l’être,​​ Paris, Aubier,​​ 1963; Luckmann T.,​​ La religione invisibile,​​ Bologna, Il Mulino, 1969;​​ Ricoeur P.,​​ Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique,​​ Paris, Seuil,​​ 1969; Scheler M.,​​ L’eterno nell’uomo,​​ Milano, Jaca Book, 1972; Bultmann R.,​​ Gesù,​​ Brescia, Queriniana, 1972; Rad G. von,​​ La teologia dell’Antico Testamento,​​ 2​​ voll., Brescia, Paideia, 1974; Marcel G.,​​ Giornale metafisico,​​ Roma, Abete, 1976;​​ Lévinas E.,​​ Totalité et infini,​​ La Haye, Nijhoff, 1980; Fowler J. W.,​​ Stage of faith: the psychology of human development and the quest for meaning,​​ San Francisco, Harper-Row, 1981;​​ Ladrière J.,​​ L’articulation du sens,​​ Paris, Cerf,​​ 1984; Couliano I. P. - M. Eliade (Edd.),​​ Religioni,​​ Milano, Jaca Book, 1992; Buber M.,​​ Il principio dialogico ed altri saggi,​​ Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Trenti Z. et al.,​​ Religio.​​ Enciclopedia tematica dell’educazione religiosa, Casale Monferrato, Piemme, 1998; Trenti Z.,​​ Opzione religiosa e dignità umana, Roma, Armando, 2003; Trenti Z. - R. Romio,​​ Pedagogia dell’apprendimento nell’orizzonte ermeneutico, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2006.

Z. Trenti




ESPERTO

 

ESPERTO

Una notevole mole di studi è stata prodotta in questi anni su ciò che contraddistingue un e. e competente da un principiante. Frensch e Sternberg danno una definizione operazionale di «competenza»: «L’abilità, acquisita con l’esercizio, a comportarsi qualitativamente bene in un compito in una particolare area d’informazione» (1989, 157).

Gli studi sull’argomento sono stati avviati in relazione al gioco degli scacchi e sono proseguiti in molte altre aree di competenza dimostrando che: 1)​​ Le persone e. richiamano meglio dalla memoria le informazioni specifiche di loro competenza.​​ L’importanza di questa caratteristica era stata evidenziata da de Groot (1965) e conclusioni simili sono state ottenute anche da altre ricerche: in fisica, nella programmazione del computer, nella diagnostica radiologica, nella comprensione di un testo, nello scrivere e in scienze sociali. Sembra che ciò sia dovuto al fatto che gli e. dispongono di un’organizzazione significativa degli elementi d’informazione. L’abilità di riconoscere strutture significative non indica un’abilità superiore di percezione, ma riflette l’organizzazione della conoscenza (Chi-Glaser-Rees, 1982). 2)​​ Le persone e. rappresentano meglio la conoscenza.​​ Esse vedono e rappresentano il problema, nella loro specifica area di competenza, a livello molto profondo facendo riferimento a principi strutturali, mentre i principianti lo rappresentano a livello superficiale facendo riferimento a elementi concreti e marginali. Un’ipotesi di spiegazione plausibile è stata quella di riconoscere agli e., rispetto ai principianti, la capacità di ricorrere e recuperare più facilmente dalla memoria regole di classificazione. In generale si può affermare che l’organizzazione della conoscenza delle persone e. si focalizza sui principi fondamentali della specifica area di competenza e su ciò che può ostacolare l’uso di questi principi, mentre nei principianti la conoscenza non riflette la comprensione semantica della specifica area di competenza. 3) Le​​ persone e. sono più veloci a risolvere i problemi e fanno meno errori.​​ La competenza in una specifica area di informazione è caratterizzata principalmente dalla​​ skilled performance:​​ un’esecuzione veloce ed esatta nella propria area di competenza. La prestazione migliore degli e. deriverebbe da schemi specializzati che la guidano. Se la prestazione viene invece disturbata da una presentazione strana o irregolare del problema o da strutture non significative oppure da problemi mal strutturati, le persone e. perdono la capacità di percepire quale schema possa essere utile o debba essere ricuperabile e di conseguenza vanno a cercare strategie generali di risoluzione del problema. 4)​​ Le persone e. impegnano molto del loro tempo nell’analisi qualitativa del problema e applicano la strategia di «working forward».​​ Le ricerche sui problemi mal definiti (Voss et al., 1983) hanno evidenziato che, all’inizio del processo di soluzione del problema, le persone e. cercano innanzitutto di «capire bene» il problema e vi aggiungono dei vincoli (Glaser-Chi, 1988). La strategia che di preferenza applicano nella soluzione del problema è il​​ working forward.​​ Esse, lavorando​​ forward,​​ generano ipotesi basandosi sull’informazione presentata dal problema. 5)​​ Le persone e. possiedono notevole conoscenza nella loro specifica area di competenza.​​ Varie ricerche fanno pensare che le persone e. non siano migliori per una capacità cognitiva fondamentale, quanto invece per la disponibilità maggiore di informazioni nella memoria e per la possibilità più efficace di richiamare dalla memoria delle procedure cognitive. Questi risultati indicano che la differenza tra le persone e. e i principianti è da attribuirsi fondamentalmente a ciò che esse sanno e a come usano ciò che sanno; e ciò grazie all’esperienza ed esercizio. 6)​​ Le persone e. sono capaci di controllare le loro attività nella specifica area di competenza.​​ Risulta anche evidente che le persone e. possiedono un forte auto-controllo delle loro attività. Gli e., generalmente, sono più consci quando commettono errori, quando non riescono a capire il problema e quando hanno bisogno di valutarne le soluzioni. Quando sono stati invitati a stimare la difficoltà di un problema, essi hanno fornito una valutazione esatta (Chi-Glaser-Rees, 1982). Dalle ricerche sull’«expertise» sembra anche che sia più significativo valutare i soggetti per la loro competenza che non per le loro capacità generali, ma in proposito c’è ancora molto da ricercare (Voss et al., 1983).

Bibliografia

De Groot A.,​​ Thought and choice in chess,​​ The Hague, Mouton, 1965; Chi M. T. H. - R. Glaser - E. Rees, «Expertise in problem solving», in R. J. Sternberg (Ed.),​​ Advances in the psychology of human intelligence,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1982, 7-75; Voss J. F. et al., «Problem solving skills in the social science», in G. Bower (Ed.),​​ The psychology of learning and motivation: Advances in research and theory,​​ vol. 17, New York, Academic Press, 1983, 165-213; Glaser R. - M. T. H. Chi, «Overview», in M. T. H. Chi - R. Glaser - M. J. Farr (Edd.),​​ The nature of expertise,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1988, xv-xxviii; Frensch P. A. - R. J. Sternberg, «Expertise and intelligent thinking: When is it worse to know better?», in R. J. Sternberg (Ed.),​​ Advances in the psychology of human intelligence,​​ vol. 5, Ibid., 1989, 157-188; Moon B. - A. S. Mayes (Edd.),​​ Teaching and learning in the secondary school,​​ London, Routledge, 1994, 107-113.

M. Comoglio




ESSENZIALISMO PEDAGOGICO

 

ESSENZIALISMO PEDAGOGICO

Teoria pedagogica che propugna la comunicazione a tutti gli educandi degli elementi essenziali o costitutivi della cultura. Si oppone, per la sua stessa natura, alla teoria del​​ ​​ pragmatismo, dell’educazione utilitaria e a tutta la concezione esistenzialista.

1. Propone un modello di​​ ​​ uomo «quale dovrebbe essere», più che «come è». In termini educativi più teorici, ammette le dispute metafisiche, ricerca la verità fra le varie opinioni proposte su un medesimo argomento e non strumentalizza né la conoscenza né la​​ ​​ verità; si tratta di un modello atemporale o eterno. Per l’e.p. la verità​​ è,​​ non si fa; una conoscenza può essere veritiera anche se non è verificabile o se la sua verificabilità non presenta alcuna utilità. Si basa sull’unità, identità e omogeneità della natura di tutti gli esseri, che implica un destino generale e per questo propugna una educazione comune di base per tutti gli individui della specie, senza limitazioni né differenze. Questa base deve essere come quella dell’educazione primaria, invariabile, comune a tutti gli uomini, qualunque siano le loro condizioni individuali e sociali, compresa la cosiddetta​​ ​​ educazione speciale.

2. In termini metodologici o didattici, si chiama educazione essenziale, generale o fondamentale (cultura generale) l’educazione necessaria a tutti gli individui, qualunque sia il sesso, la classe sociale o la situazione personale, ed ogni essere umano deve possederla poiché il fine che persegue è quello di formare, prima di tutto e soprattutto, l’essere umano. Si ritiene che la cosiddetta educazione di base, primaria o elementare si attui con i requisiti richiesti da questo tipo di e.p. Si oppone alla educazione definita specializzata che è quella che l’educando riceve al fine della realizzazione della propria e peculiare vocazione e che prepara lo specialista (tecnico, artista, architetto, militare, avvocato, sacerdote, medico...). Presentano questo modello di uomo atemporale i neoscolastici (Mercier,​​ ​​ Maritain, Gilson), i neoidealisti (Lachelier, Hamelin, Croce, Lagneau, Bradley, Royce), gli spiritualisti (Newman, Blondel), i fenomenologisti (Brentano, Husserl, Scheler). Da questi presupposti partono coloro che hanno difeso con gli scritti o potrebbero essere inquadrati per la loro prassi in teorie pedagogiche essenzialistiche (​​ Laberthonnière,​​ ​​ Paulsen,​​ ​​ Willmann,​​ ​​ Gentile,​​ ​​ Lombardo Radice, Alain,​​ ​​ Calasanz, don​​ ​​ Bosco, Ruiz Amado,​​ ​​ Manjón, García Hoz).

Bibliografia

Tusquets J.,​​ Hacia una pedagogía esencial y existencial,​​ in «Perspectivas Pedagógicas» 17 (1966) 9-20; Fullat O.,​​ Filosofías de la Educación,​​ Barcelona, CEAC, 1979;​​ Suchodolski B.,​​ Pedagogia de l’essència y pedagogia de l’existència,​​ Vic, EUMO, 1986.

V. Faubell




ESTROVERSIONE

 

ESTROVERSIONE

L’e. è una delle dimensioni fondamentali nella descrizione della personalità ed ha la sua collocazione già nella tipologia dei temperamenti di Galeno. In quanto contrapposta all’introversione è stata ampiamente elaborata da​​ ​​ Jung (1948) e successivamente adottata in vari questionari di personalità (Cattell e Eysenck).

1. L’e. è formata da vari tratti come socievolezza, assertività e dominanza. Dell’introversione fanno parte la riservatezza, il distacco e la serietà. La dimensione bipolare dà origine a due differenti tipi nell’interazione sociale: l’estroverso e l’introverso. L’estroverso​​ indirizza la sua energia psichica verso la realtà esterna e cerca di interagire efficacemente nel suo ambiente. Si può dire che egli percepisce, sente, pensa e agisce in rapporto a tale realtà. L’introverso​​ invece rivolge la sua energia psichica verso il suo interno, verso i suoi stati psichici e la sua esperienza interiore. La percezione, il sentimento, il pensiero e l’azione sono determinati più da fattori soggettivi che non dalla realtà.

2. L’e. sembra essere universale, presente in tutte le culture, ma è maggiormente valorizzata in quella occidentale, mentre nell’Oriente predomina l’introversione. L’e. viene considerata anche più «sana» in quanto l’introversione sembra predisporre i rispettivi soggetti alla patologia (narcisismo). Eysenck (1981) ha associato l’e. con il nevroticismo e lo psicoticismo, per descrivere in modo esauriente la personalità. Egli ha opposto in tal modo alla struttura dei​​ Big Five​​ (cinque dimensioni fondamentali della personalità), proposta da McCrae e John (1992), i​​ Gloriouse Three,​​ ed in base ai dati ottenuti dai suoi questionari, ha stabilito un rapporto fra le tre dimensioni. Il nevroticismo si situa rispetto all’e., in rapporto ortogonale attraversandola al centro e proseguendo verso il polo opposto che è la stabilità emotiva. Lo psicoticismo con il suo polo opposto (controllo degli impulsi) assume una posizione obliqua, equidistante tra l’e. e il nevroticismo. Lungo queste coordinate Eysenck ha situato vari disturbi della personalità. Jung considera l’e. una variabile bimodale che fonda due tipi di persone (estroversi e introversi) ma la maggior parte dei teorici della personalità intende l’e. come una variabile continua con un gran numero di casi situati intorno alla media; questo dà origine ai tipi «misti». La dimensione e.-introversione è stata sottoposta a numerose verifiche empiriche e i risultati sono stati raccolti in tre volumi (Eysenck, 1970-1971). Le verifiche sull’e. continuano tuttora e i risultati vengono pubblicati nella rivista «Personality and Individual Differences».

3. Dai dati delle ricerche condotte sull’e. risulta che la dimensione è utile nel capire e controllare varie realtà umane, come l’interazione sociale, i rapporti intimi tra le persone, il rendimento scolastico e professionale, i disturbi psichici, i comportamenti antisociali e criminali. Nel campo strettamente educativo la dimensione e.-introversione può essere di aiuto nell’impostazione dell’apprendimento individualizzato. Infatti, è stato constatato che gli estroversi apprendono meglio con il metodo della scoperta, mentre gli introversi traggono maggiore profitto dal metodo espositivo (Poláček, 1994). I due tipi preferiscono anche attività lavorative differenti: gli estroversi commercio, servizi sociali, insegnamento e gli introversi arte, ingegneria e ricerca.

Bibliografia

Jung C. G.,​​ Tipi psicologici,​​ Roma, Astrolabio, 1948; Eysenck H. J. (Ed.),​​ Readings in extraversion-introversion,​​ voll. 1-3, London, Staples Press, 1970-1971; Id.,​​ A model for personality,​​ Berlin, Springer, 1981; McCrae R. R. - O. P. John,​​ An introduction to the Five-Factor Model and its applications,​​ in «Journal of Personality» 60 (1992) 175-215; Poláček K., «L’apprendimento completo e la metodologia per valutarlo», in C. Bissoli (Ed.),​​ Il​​ documento di valutazione nell’insegnamento della religione nella scuola elementare,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994.

K. Poláček




ETICA

 

ETICA

Il termine e. è usato per indicare sia una delle esperienze più vive e più profonde della vita umana, l’esperienza morale, sia il sapere relativo a questa esperienza.

1. Come forma specifica di sapere etico ha avuto a lungo quasi esclusivamente contenuti di genere normativo e fondativo. Oggi questi contenuti tradizionali sono stati affiancati, e a volte sostituiti dal discorso metaetico (e. analitica) e da quello psicologico-evolutivo. È soprattutto a questo secondo livello, rivolto alla comprensione dei dinamismi psicologici soggiacenti all’esperienza morale e al suo sviluppo, che l’e. ha acquistato una rilevanza nuova per la pedagogia. L’idea che quella morale sia un’esperienza essenzialmente evolutiva, che attraversa fasi di sviluppo qualitativamente (e non solo qualitativamente) diverse sta infatti alla base di tutta la ricerca più recente sui problemi specificamente pedagogici della​​ ​​ educazione morale. Ma essa comporta anche un più generale ripensamento della psicologia dell’esperienza morale e del fatto morale in se stesso.

2. In questa nuova visione il fatto morale assume una dimensione costitutivamente educativa (almeno nel senso di autoeducativa): l’impegno morale non appare più rivolto all’esecuzione di un bene esterno alla persona ma, in linea con l’impostazione aretologica (basata sulle virtù) della filosofia classica, primariamente all’autoplasmazione e. della persona stessa. In questa prospettiva acquista una certa rilevanza pedagogica la tradizionale contrapposizione tra​​ naturalismo​​ (il bene è nella linea delle tendenze naturali dell’uomo) e​​ dualismo​​ morale (il bene, nella forma del dovere, fa violenza alle inclinazioni originarie della persona). Nel primo caso l’educazione dovrà inevitabilmente esercitare una certa violenza, fosse pure solo psicologica sull’e.; nel secondo caso dovrà solo assecondare le buone forze della natura.

3. Un ultimo campo d’intersezione tra morale e pedagogia è rappresentato dalla ricerca di un «minimo comun denominatore» di principi e norme etiche condivisibili da tutte le frastagliate province culturali della nostra società e capace quindi di poter essere elevato a materia ufficiale di insegnamento morale nella scuola pubblica e a obiettivo di educazione da tutte le agenzie educative della​​ ​​ società (Mindestkonsens).​​ Su questa linea vanno segnalati i tentativi di J. Rawls, di J. Habermas e di O. Apel. Pedagogisti di professione o psicologi come​​ ​​ Kohlberg hanno dato un loro interessante contributo alla ricerca filosofica in questo campo. Tali autori trovano questo «minimo comun denominatore» non tanto in determinati contenuti normativi o valoriali quanto in determinati criteri formali di valutazione, come il «principio di universalizzabilità o di reciprocità», oppure nei presupposti trascendentali della comunicazione argomentativa.

4. In una situazione di estrema fluidità e frammentazione culturale come è la nostra attuale, l’e. cristiana è chiamata a farsi carico di questo nuovo ambito di problematica, intessendo un dialogo più approfondito e spassionato con la ricerca filosofica e con le​​ ​​ scienze dell’educazione.

Bibliografia

Valori P.,​​ L’esperienza morale,​​ Brescia, Morcelliana, 1971; De Finance J.,​​ E. generale,​​ Cassano Murge (Bari), Tipografia Meridionale, 1984;​​ Simon R.,​​ Ethique de la responsabilité, Paris, Cerf,​​ 1993;​​ Wanjiru Gichure C.,​​ Ética de la profesión docente. Estudio introductorio a la deontología de la educación,​​ Pamplona, EUNSA,​​ 1995; Caputo F.,​​ E. e pedagogia, Cosenza, Pellegrini, 2005.

G. Gatti




ETOLOGIA E EDUCAZIONE

 

ETOLOGIA E EDUCAZIONE

Disciplina che studia il comportamento degli animali osservandoli nel loro ambiente naturale.

1. L’e., dal gr.​​ éthos​​ (costume) e​​ lógos​​ (discorso), letteralmente significa studio dei costumi. La sua data di nascita è fissata nel 1935 e suo fondatore è considerato​​ ​​ Lorenz. L’e. si distingue dalle altre scienze naturali perché, pur non ignorando i contributi offerti dalle ricerche di laboratorio, considera significative solo le informazioni ottenute attraverso l’osservazione del comportamento degli animali nel loro ambiente naturale, facendo attenzione che l’osservato non avverta la presenza dell’osservatore. Al centro degli studi dell’e. sono gli schemi di comportamento che caratterizzano una particolare specie animale («comportamenti tipici della specie»). Essi sono stati studiati e descritti da K. Lorenz, N. Tinbergen e K. von Frisch come comportamenti caratterizzati da «schemi ad azione fissa» (cioè da una sequenza di comportamenti fissati nel patrimonio genetico della specie), innescati da «stimoli-chiave» provenienti dall’ambiente e che hanno luogo in «periodi critici» (cioè in un determinato arco di tempo di vita dell’animale). Esempi di comportamenti tipici della specie sono l’imprinting​​ (impronta, impressione) e i comportamenti aggressivi; in entrambi i casi, i ricercatori hanno concluso che si tratta di comportamenti costituiti dall’interazione tra una base genetica ed elementi appresi. Ma qual è il peso da attribuire ai due fattori? La ricerca della risposta a questa domanda costituisce il problema fondamentale dell’e.

2. L’e. umana​​ studia il comportamento umano comparandolo a quello degli altri animali; tale studio segue una metodologia che si basa sull’osservazione, ma, oltre a descrivere gli schemi comportamentali osservati, si domanda quali siano gli scopi adattativi di tali condotte. La ricerca moderna va confutando il modello energetico di Lorenz (per cui schemi di comportamento innati consentono di scaricare l’energia psichica) per sostituirlo con un modello informazionale, più aderente alle attuali conoscenze neurologiche. Secondo quest’ultimo modello, sono le informazioni che provengono sia dall’organismo che dall’ambiente a dare il via ai comportamenti; ed è il sistema nervoso che, informato attraverso un meccanismo di​​ feedback​​ circa il mutamento delle condizioni scatenanti, blocca il comportamento. Un approccio etologico alla psicologia dell’età evolutiva ha offerto importanti contributi dal punto di vista educativo: 1) ha fornito strumenti utili per studiare i comportamenti dei bambini in età preverbale e per poter ipotizzare la funzione adattativa di tali comportamenti; 2) ha ridefinito il bambino come essere competente e attivo (e non solo come impulsivo e reattivo); 3) la nozione di​​ imprinting​​ trasferita al comportamento umano ha contribuito all’elaborazione della teoria dell’attaccamento (Bowlby); 4) ha consentito di rilevare delle analogie col comportamento animale mostrando alcuni meccanismi che, sia negli uomini che negli animali inferiori, sono in grado di eliminare o ridurre le reazioni aggressive; 5) sottolineando l’importanza dell’osservazione, l’e. ha concesso un recupero dell’aspetto comportamentale dell’attività umana (surclassato da una tendenza introspezionistica) pur senza ignorare o negare la capacità intellettiva e apprenditiva.

Bibliografia

McGrew W. C,​​ II comportamento infantile: studio etologico,​​ Milano, Angeli, 1977; Blurton J. N. G.,​​ Il​​ comportamento del bambino. Studi etologici,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1980; Poli M.,​​ Psicologia criminale e e.,​​ Bologna, Il Mulino, 1981; Bowlby J.,​​ Attaccamento e perdita,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1972-1983; Hinde R. A.,​​ E.,​​ Milano, Rizzoli, 1984; Boakes R.,​​ Da Darwin al comportamentismo,​​ Milano, Angeli, 1986; Lis A. - P. Venuti,​​ L’osservazione in psicologia genetica,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1986; Tinbergen N. - E. A. Tinbergen,​​ Bambini autistici. Nuove speranze di cura,​​ Milano, Adelphi, 1989; Scapini F. - R. Campan,​​ E., Bologna, Zanichelli, 2005.

D. Antonietti - J. M. Maíllo




EURISTICA

 

EURISTICA

Il termine deriva dal gr.​​ eurísko​​ (trovo).​​ In pedagogia, sottolinea la​​ scoperta​​ autonoma, guidata e orientata, con risorse personali da attivare metodologicamente e didatticamente.

1. Non mancano le componenti storiche e qualitative, da quelle platoniche a quelle medievali. La tradizione tomista, ad es., sottolinea l’autonomia di chi apprende, e il maestro coopera efficacemente sul piano dell’attualizzazione:​​ «Docens causat scientiam in addiscente, reducendo ipsum de potentia in actum»​​ (Tommaso d’Aquino, 1983, q. 117, art. 1). L’educazione, in questo contesto, è intesa come «azione diretta ai valori trascendentali dello spirito ma compiuta da un soggetto che li ha solo potenzialmente, o è, verso essi, in potenza» (Casotti, 1953). Più recentemente si fa anche riferimento a​​ metodologie qualitative e fenomenologiche​​ che sottolineano gli effetti della ricerca sull’esperienza stessa del ricercatore (Moustakas, 1990), con dimensioni riflessive​​ e formative, personali e professionali (Etherington, 2004). Riguardo all’apprendimento, viene sottolineata l’importanza di periodi​​ sensibili, particolarmente aperti all’apprendimento (Montessori, 1952; Vygotsky, 1966). Si sottolinea la​​ maturazione​​ intellettuale, riferita a miglioramenti di capacità in assenza di una specifica esperienza pratica e attribuibili a influenze genetiche e / o casuali (Ausubel, 1983), e l’idoneità cognitiva (readiness), riferita al «livello di funzionamento cognitivo, in rapporto a quanto un particolare compito di apprendimento richiede» (ivi).

2. Una metodologia educativa di tipo euristico​​ include un’analisi culturale ed evolutiva in grado di formulare proposte adatte ad una ricerca più autonoma da parte dei soggetti traendo «il massimo vantaggio dalle capacità cognitive esistenti e dalle modalità di assimilazione dei concetti e delle informazioni» (Bruner, 1960), ampliando le opportunità di apprendimento: insegnare un dato argomento ad un bambino in una certa età significa presentare la struttura di quella materia in termini consoni al modo di vedere le cose del bambino; è in questi termini che il compito didattico è stato interpretato sul piano di una​​ traduzione​​ (ivi). Il metodo euristico ha anche ispirato molte iniziative improntate all’attivismo (Mencarelli, 1989), come la tradizione delle​​ scuole attive​​ (​​ Scuole Nuove), in cui si considera il discente come protagonista e con un ruolo non secondario nell’iter di apprendimento interpretato come processo di ricerca.

Bibliografia

Montessori M.,​​ La mente del bambino,​​ Milano, Garzanti, 1952 (orig.​​ The absorbent mind,​​ Adyar-Madras, 1949); Casotti M.,​​ Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, 1953;​​ Bruner J. S.,​​ The process of education,​​ Cambridge, Mass., Harvard Univ. Press, 1960; Vygotsky L. S.,​​ Pensiero e linguaggio,​​ Firenze, Giunti-Barbera, 1966; Ausubel D. P.,​​ Educazione e processi cognitivi,​​ Milano, Angeli, 1983; Tommaso d’Aquino,​​ La somma teologica, Bologna, ESD, 1984; Mencarelli M., «Attivismo», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol.​​ I, Brescia, La Scuola, 1989, 1217-1226;​​ Moustakas C.,​​ Heuristic research: design,​​ methodology and applications, London, Sage, 1990; Etherington K.,​​ Heuristic research as a vehicle for personal and professional development, in «Counselling and Psychotherapic Research» 4 (2004) 2, 48-63.

G. Boncori




EUROPA sistemi educativi

 

EUROPA: sistemi educativi

In questa voce il tema dell’educazione in E. è stato accostato soprattutto dal lato del dibattito sugli scenari dello sviluppo dei sistemi formativi.

1.​​ L’evoluzione.​​ In seguito a un lento processo che ha avuto inizio alla fine dell’800, durante la prima metà del sec. XX si è affermato in E. un modello di sistema educativo che si può definire «scuolacentrico». In altre parole, gradualmente la scuola ha raggiunto una posizione di monopolio sulla formazione; inoltre, l’educazione era intesa come un processo unico, graduale e continuativo che si realizzava senza interruzione una sola volta nella vita più particolarmente nella giovinezza. Alla fine degli anni ’60 tale modello ha incominciato a essere messo​​ in discussione.​​ Esso sembrava ostacolare lo sviluppo integrale della persona umana poiché istituzionalizzava la discontinuità del ciclo vitale, separando nettamente il momento formativo dal momento produttivo e la giovinezza dall’età adulta e dalla vecchiaia. Inoltre, in una società in cui il ritmo del progresso scientifico e tecnologico è accelerato, la frequenza iniziale per quanto prolungata della scuola non è sufficiente una volta per tutte a preparare per l’intero arco della vita.

2.​​ L’educazione nella società della conoscenza.​​ A partire dagli anni ’70 e soprattutto nelle decadi ’90 e 2000 si viene affermando un nuovo modello, quello cioè della​​ ​​ educazione permanente o dell’apprendimento per tutta la vita. Secondo questo scenario lo sviluppo integrale della persona richiede l’educazione di ogni persona, di tutta la persona, per tutta la vita.

2.1.​​ Le strategie macrostrutturali. Anzitutto, va ricordata l’alternanza:​​ questa significa che il sistema di istruzione e di formazione deve prevedere la possibilità di spezzare la sequenza dell’educazione in diversi tempi – in modo da rinviare parte o parti della formazione a un momento successivo al periodo della giovinezza – e di alternare momenti di studio e di lavoro. Lo sviluppo integrale della persona richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco della vita, oltre che della scuola, di tutte le agenzie educative; inoltre, accanto allo Stato, i gruppi, le associazioni, i sindacati, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la responsabilità educativa che compete a ciascuno di loro. Pertanto, nei Paesi europei il sistema formativo non è più costituito solo dalla scuola, ma tende a presentarsi come una struttura sistemica complessa e differenziata di istituzioni e agenzie diverse, un​​ sistema formativo integrato. Tuttavia, l’integrazione non significa omogeneizzazione ma​​ diversificazione​​ e​​ flessibilità​​ entro un quadro di offerte tra loro coordinate: in questo senso la formazione professionale non viene più concepita generalmente come un addestramento finalizzato all’insegnamento di destrezze manuali, o peggio come qualcosa di marginale o di terminale, ma rappresenta un principio pedagogico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi. Un’altra strategia consiste nell’autonomia​​ che trova consensi unanimi, in quanto consente alla singola scuola di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi; nella medesima linea si colloca il riconoscimento della​​ libertà effettiva di scelta educativa. Negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza dell’importanza della istruzione e della formazione come strumento per lo sviluppo locale e per la​​ collaborazione​​ internazionale, soprattutto​​ a livello europeo. In questo quadro si inserisce il «processo di Bologna» che costituisce l’evento principale degli ultimi anni per l’università in E.: la meta finale è di creare uno spazio europeo dell’istruzione superiore allo scopo di rafforzare l’incidenza formativa dei sistemi nazionali e di accrescere le opportunità di lavoro e la mobilità dei cittadini.

2.2.​​ Le strategie a livello microstrutturale. Anzitutto, l’orientamento che tende a diffondersi nei vari Paesi dell’E. va nel senso di riconoscere a ciascun giovane il​​ diritto a una istruzione e formazione prolungate. Questa strategia può assicurare ai giovani quell’ampia preparazione di base idonea a promuovere la crescita personale, l’orientamento, la prosecuzione degli studi, l’inserimento nell’attività lavorativa e la partecipazione responsabile alla vita democratica. In tale quadro, la scuola secondaria deve essere una scuola aperta a tutti, che offre a ciascuno le opportunità più ampie di apprendere, che evita gli sbocchi senza uscita verso i livelli superiori, che in tutti gli indirizzi conserva elementi essenziali comuni, che consente di rettificare le proprie scelte​​ in itinere​​ e che prevede ponti o moduli di collegamento tra i vari indirizzi. È anche essenziale realizzare due tipi di integrazione: uno tra diversi livelli del sistema e in particolare fra la istruzione e la secondaria e l’università e l’altro all’interno della stessa scuola secondaria tra i cicli, le sezioni e le classi, combattendo la frammentazione mediante la definizione di aree di conoscenze e di competenze. Al tempo stesso, la diversificazione​​ dovrà essere la più ampia nel senso che l’istruzione e la formazione potranno essere a tempo pieno o parziale, e generali, tecniche o professionali e dovranno coinvolgere oltre alla scuola, la formazione professionale e le diverse agenzie di socializzazione interessate. Se le nuove tecnologie dell’informazione sono all’origine della cultura del frammento, è anche vero che la società della conoscenza​​ esprime una domanda forte di​​ cultura generale​​ che va senz’altro soddisfatta dal sistema formativo. Per la formazione al lavoro sarà necessario fornire ai giovani una combinazione equilibrata di conoscenze di base, di competenze tecniche e di atteggiamenti sociali. La diffusione dei corsi post-secondari si giustifica con la necessità di fornire la formazione professionale a livello di​​ specializzazione spinta​​ dato che questa non viene più offerta in molti Paesi dalla secondaria superiore dove, invece, si mira a formare la professionalità di base. Da ultimo, di fronte alla svolta epocale risultante dalle sfide della globalizzazione e della nuova economia basata sulla conoscenza, nel 2000 l’Unione Europea si è data a​​ Lisbona​​ un programma al tempo stesso ambizioso e realistico per questo decennio e ha individuato in un grande rafforzamento dell’istruzione e della formazione la chiave di volta per realizzare una crescita durevole del nostro continente.

Bibliografia

Cresson E. - P. Flynn,​​ Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1995;​​ Conclusioni della Presidenza. Consiglio Europeo di Lisbona, 23 e 24 marzo 2000, Bruxelles, 2000; Malizia G. - C. Nanni, «Istruzione e formazione: gli scenari europei», in Ciofs / Fp - Cnos-Fap (Edd.),​​ Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, 2000, 15-42; Malizia G. (Ed.),​​ Pedagogia e didattica universitaria dopo la riforma, in «Orientamenti Pedagogici» 51 (2004) 5, 749-956; Reguzzoni M.,​​ Il sistema formativo in E., in «La Civiltà Cattolica» 156 (2005) 3714, 549-558; Dawson, C.,​​ Los orígenes de Europa, Madrid,​​ Rialp, 2007.

G. Malizia




EVANGELIZZAZIONE

 

EVANGELIZZAZIONE

Termine specificamente cristiano, non presente come tale nel Nuovo Testamento, derivato dal verbo «evangelizzare», ampiamente documentato nel NT, tornato nell’attualità soprattutto dopo il 1950. Nel significato biblico originale si riferisce alla predicazione del Vangelo in vista della​​ ​​ conversione a Dio e della scelta di essere discepolo di Gesù Cristo secondo il suo Vangelo.

1. In prospettiva storica il termine si riferisce all’opera dei missionari cristiani in mezzo a popoli non cristiani per annunciare il Vangelo e fondare delle comunità cristiane. A partire dal XVI sec., il​​ ​​ catechismo come istituzione e come libro, è stato spesso, sia per cattolici che per protestanti, luogo e strumento di​​ ​​ alfabetizzazione, specie attraverso le scuole domenicali (Europa, USA, Canada) e nelle missioni cristiane (per esempio in Africa). La catechesi cristiana ha anche sempre assicurato il compito dell’​​ ​​ educazione morale ed ha promosso (XX sec.) la giustizia sociale, l’​​ ​​ insegnamento sociale della Chiesa, i diritti umani, la promozione economica, sociale e culturale dei poveri del terzo mondo. La preoccupazione dell’e. ha influito notevolmente nella creazione di scuole cattoliche per i poveri, sia nelle missioni che nei Paesi occidentali, diventando «segni» di una presenza benefica del cristianesimo. In senso ampio l’e. cristiana ha svolto nella storia una funzione umanizzante sul piano sociale e culturale. I grandi valori europei, anche se ormai in veste secolare, sono incontestabilmente segnati dalla loro estrazione cristiana.

2. Nell’ultimo decennio, di fronte all’inefficacia del tradizionale dispositivo di trasmissione della fede, basato su diversi elementi della società cristiana, che ormai non esiste più come tale, il compito di proporre il Vangelo in vista di una scelta personale e consapevole della conversione e della fede in Gesù Cristo, è diventato urgenza prioritaria in tutti i paesi europei, segnati da scristianizzazione,​​ ​​ secolarizzazione, e forte pluralismo religioso e culturale.

3. Per caratterizzare i processi formativi del​​ ​​ catecumenato e della rinnovata catechesi cristiana, si usano termini che hanno attinenza con il linguaggio pedagogico, ma che nello stesso tempo sono critici nei confronti dei precedenti modelli pedagogici e didattici che prevalevano nella catechesi del XX sec. Il catecumenato è un periodo di apprendistato cristiano; l’accompagnatore personale ha una funzione importante di assistenza e di guida. C’è grande rispetto dei ritmi personali di crescita. La «pedagogia catecumenale» è ormai proposta come riferimento per la catechesi dei battezzati.

4. In nessuno di questi significati il termine è primariamente pedagogico. Vero è che nella realizzazione storica e concreta dell’e. interferiscono diversi problemi educativi. Lo specifico di questi aspetti è però toccato da altre voci di questo dizionario.

Bibliografia

Paolo VI,​​ Evangelii nuntiandi,​​ Città del Vaticano, LEV, 1975; Gevaert J.,​​ Prima e.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Id.,​​ La proposta del Vangelo a chi non conosce il Cristo, Ibid., 2001.

J. Gevaert