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EMANCIPAZIONE

 

EMANCIPAZIONE

Superamento di una condizione di subordinazione e di dipendenza, per una condizione di​​ ​​ libertà da condizionamenti e di​​ ​​ autonomia nel modo di agire e di pensare.

1. Tratto dal mondo giuridico, in cui sta ad indicare l’atto con cui il figlio (o lo schiavo) è sciolto dal potere paterno ed acquista lo stato di​​ ​​ adulto (e di libero), lungo il corso della storia il termine ha assunto una connotazione politico-sociale, come è nelle espressioni e. dell’umanità, e. della borghesia, e. della classe operaia, e. della​​ ​​ donna, ecc.: l’idea di fondo è la liberazione da una condizione di inferiorità giuridica, sociale, civile, umana rispetto all’assetto sociale dominante. In questa linea, dall’età moderna in poi, si è esaltata la funzione emancipativa dell’istruzione e dell’educazione (ma anche il suo potere di subordinazione e di dominazione).

2. Negli anni ’70, soprattutto negli ambienti tedeschi, l’e. è diventata una categoria centrale in sede educativa e pedagogica. Essa è stata considerata sinonimo di liberazione del soggetto dall’ignoranza e da ogni minorità, in vista dell’autonomia personale e di una società libera e comunicativa. Più specificamente l’e. ha dato forza ispirativa a quegli indirizzi pedagogici, di diverso riferimento culturale, che allora furono etichettati globalmente come pedagogia della «nuova sinistra». Essa si muove nella linea dell’alternativa pedagogico-educativa. Si contesta sia l’educazione tradizionale, considerata repressiva e autoritaria, sia la pedagogia accademica, considerata strumento di conservazione e di riproduzione degli assetti e della cultura dominante. La liberazione dai condizionamenti soggettivi è proiettata nel globale processo di liberazione dai condizionamenti strutturali e istituzionali, nella lotta politico-culturale contro le alienazioni del potere. In sede educativa si privilegia una comunicazione anti-autoritaria, una didattica critica, forme di autogestione. Pedagogisti ed educatori sono proposti come «avvocati» dell’educando e come «teorici critici» che stimolano la presa di coscienza e la partecipazione alla comune lotta di e.

3. Per solito, ma non necessariamente, il quadro di riferimento ideologico è vicino ad un​​ ​​ marxismo libertario o alle forme estreme della teoria critica della​​ ​​ Scuola di Francoforte e della loro dialettica «negativa». Queste posizioni pedagogiche riprendono intenzioni liberatrici, illuministiche, solidaristiche, di inserimento dell’e. nei concreti processi storico-culturali, ma appaiono piuttosto limitate per la debolezza e vaghezza dei riferimenti, per il carattere quasi solo contestativo e reattivo al potere dominante e per la subordinazione dell’educazione alla politica.

Bibliografia

Mollenhauer K.,​​ Erziehung und Emanzipation,​​ München, Juventa, 1968; Lempert W.,​​ Leistungsprinzip und Emanzipation,​​ Frankfurt, Suhrkamp, 1975;​​ Brezinka W.,​​ La pedagogia della nuova sinistra,​​ Roma, Armando,​​ 21980; Veca S.,​​ Cittadinanza: riflessioni filosofiche sull’idea di e., Milano, Feltrinelli, 1990; Vattimo G.,​​ Nichilismo ed e., Milano, Garzanti, 2003.

C. Nanni




EMARGINAZIONE

 

EMARGINAZIONE

Per e. si intende la mancata integrazione nel sistema sociale da parte di soggetti o gruppi che vengono discriminati sulla base della loro diversità. I motivi dell’e. possono essere di ordine etnico, culturale, religioso, economico o comportamentale. L’e. è un processo sociale e relazionale che tende a spingere gli individui al confine della normalità e della legalità (​​ devianza). Dal punto di vista educativo l’e. può produrre condizioni di svantaggio e di fallimento nel​​ ​​ processo educativo specie in relazione all’​​ ​​ insuccesso scolastico.

1. La Scuola di Chicago, animata da Lynd e Lynd, Burgess, Park, McKenzie, Anderson, Zorbaugh, Shaw, ha studiato il meccanismo attraverso cui si attua l’e. nelle aree urbane e lo descrive come «trasmissione culturale» dei valori e dei comportamenti. Dentro gli​​ slums​​ i giovani apprendono atteggiamenti e modalità di comportamento che hanno visto esercitate dagli adulti e imitandoli; scoprono poi di poter trarre un’utilità, anche economica, da tali comportamenti e li trasformano in condotte stabili. Nel​​ ​​ funzionalismo la società è invece descritta come un complesso sistema di relazioni personali o tra gruppi e di ruoli: essa, infatti, si sviluppa storicamente attraverso un processo di differenziazione sociale. Quando la divisione del lavoro sociale aumenta progressivamente, il processo di produzione di funzioni sociali specializzate può risultare più veloce della capacità di creare o riadattare le norme ed i valori che aiutano l’individuo e le collettività a stare insieme. Pertanto sono marginali coloro che cercano di adottare senza successo mete e valori del gruppo di cui vogliono far parte. Particolare accento ai processi razionali e consapevoli dei soggetti viene posto da Cohen (1969) nell’interpretare marginalità e devianza. Esse sono sintomo del conflitto tra classi sociali in quanto prodotte dalla presa di coscienza della disparità nel raggiungere le mete e nelle opportunità di utilizzare mezzi istituzionali. Per questo motivo le classi inferiori si autoemarginano e sono convinte di non farcela a raggiungere le mete proposte da quelle dominanti. Di conseguenza emergono diversi valori di riferimento: quelli borghesi dei giovani della classe superiore o media e quelli alternativi dei giovani appartenenti alla classe lavoratrice.

2. Attualmente con la categoria dell’e. si tende a leggere le presenze deboli nella società – povertà, devianza, immigrazione, condizione degli anziani, ecc. – come fenomeni conseguenti all’articolazione strutturale della società post-industriale e globalizzata. Dall’e. vista come un fenomeno interstiziale relativo alla mancanza di integrazione sociale si è pervenuti alla sua lettura come condizione permanente ed irreversibile per un alto numero di persone nella società post-industriale (Paci, 1978; Ginatempo, 1983). Tale espansione è conseguenza dell’espulsione dai processi produttivi, comunicativi ed integrativi di quote crescenti di popolazione, tagliate fuori dai nuovi modelli di sviluppo. Ciò porta ad un cambiamento di significato dell’e. che, nel suo progressivo diffondersi, diventa meno visibile, più sommersa e contribuisce alla caduta dei processi integrativi di una società priva di centro. Sempre meno persone si sentono inserite nei processi integrativi della società. Non si tratta di devianza, né di esplicita e. dal contesto sociale, quanto di una oggettiva esclusione dai processi considerati rilevanti nell’economia della vita quotidiana, dalle mete di successo proposte dalla cultura contemporanea e dalle garanzie offerte ai soggetti integrati in modo pieno. La strada rimasta per ottenere garanzia ed integrazione per le quote marginali della popolazione è quella di accedere ai benefici ed ai diversi sussidi proposti dalle strutture assistenziali dello​​ ​​ Stato sociale. Questo propone già una contraddizione poiché se il marginale riesce a riscattare la sua condizione e ad uscire dalla deprivazione per volontà di intraprendenza e di iniziativa personale, perde contemporaneamente anche le forme di assistenza che lo aiutavano. Dunque egli è, in qualche modo, costretto a rimanere dentro la sua dimensione marginale poiché ogni mutamento gli propone un aggravio di problemi. Non sembra invece possibile intravedere una nuova utilizzazione della marginalità come esercito di riserva. Infatti, la marginalità, come ha spiegato Milanesi, «viene definita in termini di effettiva esclusione, isolamento, neutralizzazione dei giovani che è l’effetto più o meno intenzionale di obiettiva e. gestito dal sistema sociale nel suo complesso e spesso rafforzato da fenomeni di autoemarginazione posti in atto da aliquote minoritarie dei giovani stessi. I segni dell’e. sono numerosi: il soggiorno artificiosamente prolungato nelle strutture formative, l’esclusione dal lavoro legale, lo sfruttamento nel lavoro illegale, la condanna a funzioni di consumo coatto, la limitazione ed esclusione dalle diverse opportunità di partecipazione protagonista e lo svuotamento ed esclusione dalle forme stesse di partecipazione subalterna» (1985, 11).

3. Altri interpretano l’e. ancora più esplicitamente come conseguenza della mancata realizzazione di quei bisogni ed aspirazioni post-materialistici individuati nello storico studio «La rivoluzione silenziosa» da Inglehart (1983). In questa prospettiva la marginalità non è un semplice status sociale ed economico ma una condizione esistenziale. Inglehart riprende la scala dei​​ ​​ bisogni individuata da​​ ​​ Maslow ed afferma che i bisogni post-materialistici espressi specialmente dai giovani contemporanei sono così marcati da portarli, ove privi di risposte, a vivere una condizione marginale. La dimensione di marginalità è quindi una conseguenza del mancato coinvolgimento esistenziale nelle sfere del sociale che circondano i soggetti. Tutto ciò, non a seguito di qualche particolare problema, né di qualche trauma, né di qualche etichettamento o, comunque, di difficoltà contingenti, ma per mancanza di qualcosa che non è materialmente accessibile perché si colloca nella sfera delle motivazioni, delle aspirazioni e dei desideri. I bisogni post-materialistici sono paradossalmente la mancanza di desideri e di mete.

Bibliografia

Cohen A. K.,​​ Controllo sociale e comportamento deviante,​​ Bologna, Il Mulino, 1969; Ginatempo N.,​​ Marginalità e classi sociali,​​ Milano, Angeli, 1983; Inglehart R.,​​ La rivoluzione silenziosa,​​ Milano, Rizzoli, 1983; Milanesi G. C.,​​ La condizione giovanile tra lotta per l’e. e lotta per l’identità,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 7-22; Rossini V.,​​ Marginalità al centro: riflessioni pedagogiche e percorsi formativi, Roma, Carocci, 2002; Mozzanica C. M.,​​ Marginalità e devianza,​​ itinerari educativi e percorsi legislativi, Saronno, Monti, 2002; Barone P.,​​ Pedagogia della marginalità e della devianza: modelli teorici e specificità minorile, Milano, Guerini, 2004.

V. Masini - G. Vettorato




EMIGRAZIONE

 

EMIGRAZIONE

Con riferimento all’unità politica di uno Stato e al suo complesso demografico-territoriale si distinguono le «migrazioni interne» dalle «migrazioni esterne», intendendo rispettivamente gli spostamenti di popolazione entro i confini politici di detto Stato oppure gli spostamenti da uno Stato all’altro in entrata (immigrazione) ed in uscita (e.) rispetto al territorio di osservazione.

1.​​ Caratteri dell’e.​​ Le migrazioni sono un fenomeno sociale di rilevanza mondiale poiché tutti i Paesi vi sono interessati anche se in diversa misura e gli effetti di esse sono di carattere strutturale e relazionale in quanto viene alterata la distribuzione della popolazione e vengono messe in atto specifiche dinamiche collettive ed individuali che incidono sull’assetto urbano-rurale, sull’offerta / domanda dei servizi, sulla psicologia soggettiva, familiare, di gruppo. Nei vari Paesi non vi è un generale consenso circa la definizione del «migrante» ed i criteri variano perfino all’interno dello stesso Stato da un’epoca all’altra. Più spesso ci si riferisce alla​​ durata​​ e al​​ motivo​​ dello spostamento, comprendendo nella voce chi cambia la propria residenza e chi si muove per lavoro o per ragioni familiari a causa della pressione demografica differenziale (diversità nel rapporto di ritmo tra sviluppo demografico e sviluppo economico) tra luogo di provenienza e luogo di destinazione. Dal punto di vista storico le migrazioni dell’antichità avvenivano soprattutto per gruppi e gli stessi nuclei familiari si muovevano insieme, mentre le migrazioni contemporanee sono essenzialmente individuali; si muove il singolo nucleo familiare, e possono assumere il carattere di «catena migratoria»: l’e. viene favorita da relazioni sociali primarie (familiari, parentali, amicali) con i precedenti migranti.

2.​​ Momenti storici dell’e. italiana.​​ Le fasi principali dell’e. italiana sono relative: a) al grande esodo, soprattutto di contadini del Sud del periodo che va dal 1876 al 1915; b) al periodo tra le due guerre mondiali nel quale vi è l’e. verso Europa e Nord dell’Italia e verso Argentina e USA; c) all’epoca successiva alla seconda guerra mondiale con l’incremento dell’e. verso il Canada, l’Australia, il Sud Africa e con l’aumento delle migrazioni interne, dal Sud verso il Nord della Penisola. Dalla fine degli anni ’80 in Italia si verifica una tendenza rovesciata, per lo più a livello percettivo sociale, rispetto alle precedenti epoche: da Paese di e. diviene Paese di immigrazione per soggetti sostanzialmente giovani, con livello di istruzione medio-alto provenienti dall’Africa settentrionale, dall’Asia del Sud-Est, dall’Europa dell’Est.

3.​​ Aspetti educativi.​​ Dal punto di vista dell’offerta e della domanda di istruzione è in particolare la scuola dell’obbligo a doversi attrezzare intellettualmente e tecnicamente per meglio rapportarsi alla società multietnica, anche partendo da iniziative di​​ ​​ educazione interculturale, di formazione universitaria dei docenti, di educazione alla cittadinanza e alla cultura costituzionale. Organismi internazionali e nazionali, amministrazioni locali e movimenti di​​ ​​ volontariato, trovano nell’educazione degli​​ ​​ adulti migranti una forma costante del loro intervento. Nell’ambito dei migranti assumono aspetti specifici la pedagogia della seconda lingua, la formazione culturale, l’educazione alla salute e l’educazione civica.

Bibliografia

Tierney J. (Ed.),​​ Race,​​ migration and schooling,​​ London, Holt Rinehart Winston, 1982; Chistolini S.,​​ Donne italoscozzesi.​​ Tradizione e cambiamento,​​ Roma, Centro Studi E., 1986; Biffoli Dezzutti D. - A. T. Torre (Edd.),​​ Immagini dell’altro nella cultura europea contemporanea, Torino, L’Harmattan Italia, 1996; Giusti M. (Ed.),​​ Ricerca interculturale e metodo autobiografico. Bambini e adulti immigrati: un progetto,​​ molte storie, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1998; Lazzari F.,​​ L’attore sociale fra appartenenze e mobilità: analisi comparate e proposte socio-educative, Padova, CEDAM, 2000.

S. Chistolini




EMOZIONI / EMOTIVITÀ

 

EMOZIONI / EMOTIVITÀ

Con il termine emotività si intende, in senso stretto, la capacità di provare e. e l’insieme dei processi implicati in tale fenomeno. Nel linguaggio comune invece con emotività si viene a indicare o il grado di​​ ​​ ansia che il soggetto non riesce a gestire con tutta padronanza oppure l’impulsività di risposta a vari stimoli; quindi un’insufficiente capacità di controllo dell’equilibrio psico-affettivo. Occorrerà quindi non confondere la risposta istintiva in senso biologico con la risposta spontanea in senso psicologico; quest’ultima è educabile ed entrambe fanno parte dell’autenticità della persona. In tal senso l’intera capacità emotiva del soggetto rappresenta la sua dimensione affettiva cioè la capacità di vivere gradevolmente o sgradevolmente la propria situazione esistenziale con il coinvolgimento della triplice componente bio-psico-sociale.

1.​​ Tentativo di definizione.​​ Le e. sono fenomeni bio-psichici complessi che hanno come componente oggettiva somatica una modificazione dell’equilibrio organismico (omeostasi biologica) e come componente soggettiva una sensazione intensa di gradevolezza o sgradevolezza. Si articolano in due momenti successivi strettamente correlati; il primo momento è immediato, istintivo e si chiama «protoemozione», il secondo è valutativo e rappresenta l’apporto cognitivo di tutto il processo. La protoemozione è dovuta all’armonizzazione o disarmonizzazione che si stabilisce tra le caratteristiche dello stimolo (oggetto, situazione, immagine ecc.) e le caratteristiche dei nostri recettori, soprattutto centrali; per es. vedere un ragno, un animale viscido, una frutta marcia, oppure sentire un odore sgradevole, un rumore stridente, una stonatura musicale, provoca il senso immediato del ribrezzo o del disgusto; al contrario, vedere un cucciolo, un cerbiatto, o sentire una musica armoniosa, provoca un’istintiva attrazione. La valutazione cognitiva è il giudizio che noi formuliamo circa la bontà o la pericolosità, l’utilità o inutilità o altro valore o disvalore dello stimolo. Tale giudizio influisce sulla protoemozione rafforzandola, moderandola o estinguendola e influisce sui comportamenti orientandoli e graduandoli. Per es. altro è incontrare avventurosamente una tigre o altro animale pericoloso liberi, altro è vederli in gabbia al giardino zoologico: provocano e. diverse.

2. Significato delle e.​​ P. Pancheri mette in evidenza il significato positivo delle e. dicendo: «L’e. è una modificazione delle condizioni omeostatiche di base, finalizzata alla conservazione dell’individuo e della specie per mezzo di specifici comportamenti e di modificazioni somatiche che ne costituiscono il supporto fisiologico e metabolico». Possiamo ampliare aggiungendo che nel termine «conservazione» è incluso il gusto o disgusto che si prova nelle e. e quindi la gradevolezza o sgradevolezza di certe situazioni che possono rendere la vita accettabile o meno. Le modificazioni fisiche interessano tutto l’organismo, sono particolarmente vistose quelle a carico dell’apparato respiratorio, circolatorio, digerente, della secrezione ghiandolare esocrina ed endocrina, dei muscoli mimici, della pelle, del tono muscolare. Molto interessanti le considerazioni di A. Yardley: «Sentire è un termine che noi associamo all’esperienza sensoriale. Si riferisce anche all’eccitazione mentale delle e. C’è un rapporto stretto tra aspetti sensoriali e aspetti emotivi del sentire, e gran parte di ciò che il bambino impara, in particolare durante i primi anni di vita, viene visto in questa relazione. A partire dalla nascita il bambino è capace di rispondere emotivamente. Le sue risposte emotive sono parte del suo comportamento naturale. [...] Nel bambino allevato in un ambiente rassicurante e amorevole, dove le persone hanno verso di lui un atteggiamento benevolo, si affermerà l’abitudine di essere generalmente felice, mentre il bambino allevato tra conflitti e disaccordi svilupperà una tendenza a rispondere negativamente alla vita». Su questa capacità protoemotiva congenita si svilupperà progressivamente l’apporto cognitivo della valutazione di cui si è detto prima. Tale apporto influenzerà tanto l’equilibrio psichico quanto quello biologico. Pancheri così conclude al proposito: «Sia l’evidenza clinica che sperimentale ci permettono di vedere come le modalità di attivazione del sistema nervoso vegetativo (SNV) sono influenzate anzitutto dalla valutazione cognitiva dello stimolo e quindi da una serie di interazioni reciproche sia con il sistema nervoso centrale (SNC) che con le modificazioni tessutali indotte dal SNV stesso e dai suoi servomeccanismi». L’intensità delle e. oltre che dalla forza o violenza dello stimolo dipenderà dalla struttura biopsichica del soggetto e dal modo con cui si è abituato a reagire agli stimoli durante la crescita sia infantile che adolescenziale. Su questa caratteristica appresa nel corso dello sviluppo influiranno decisamente i modelli avuti.

3.​​ Fisiologia delle e.​​ Come substrato anatomo-fisiologico dei processi emotivi viene oggi indicato dagli esperti il​​ sistema limbico​​ del cervello che include strutture telencefaliche (circonvoluzione limbica, ippocampo, nuclei del setto) e strutture diencefalomesencefaliche (regione ipotalamica, subtalamica e compartecipazione del sistema reticolare attivante). L’ipotalamo in particolare, in quanto direttamente collegato col sistema nervoso vegetativo e con quello endocrino, svolge una funzione di primaria importanza che spiega tutti i correlati biologici delle e. Il collegamento del sistema limbico con le aree cognitive e coative della corteccia cerebrale ci spiega la possibilità dell’influsso cognitivo e dell’intenzionale modificazione del fenomeno emotivo da parte del soggetto stesso. La biochimica del cervello conosce oggi parecchi mediatori chimici presenti nel processo emotivo, la loro funzione e la funzione dei recettori cellulari.

4.​​ Possibilità di intervento.​​ La conoscenza di questi dati, che la scienza si propone di approfondire, profila la duplice possibilità di intervento sia nell’ambito farmacologico sia in quello educativo. Quest’ultimo con azione equilibrata porterebbe il soggetto a saper gestire le proprie e. e pur lasciando libera la spontaneità di esse ne disciplinerebbe l’intensità e le modalità espressive. Ne segue che il soggetto potrà vivere liberamente le proprie e. senza provocare perturbamenti né biologici né relazionali.

Bibliografia

Izard C. E.,​​ Human emotions,​​ New York, Plenum Press, 1977; Pancheri P.,​​ Stress,​​ e.,​​ malattia,​​ Milano, Mondadori, 1980; Polizzi V.,​​ L’identità dell’homo sapiens,​​ Roma, LAS, 1986; Gainotti G. - C. Caltagirone,​​ Emotion and the dual brain,​​ New York, Springer Verlag, 1989; Denez G. - L. Pizzamiglio (Edd.),​​ Manuale di neuropsicologia,​​ Bologna, Zanichelli, 1990; Contini M. G.,​​ Per una pedagogia delle e.,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992; Oatley K.,​​ Breve storia delle e.,​​ Bologna, Il Mulino, 2007.

V. Polizzi




EMPATIA

 

EMPATIA

L’e. è la capacità di comprendere cosa un’altra persona sta provando. La parola deriva dal greco (empateia) e veniva usata inizialmente per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore-cantore al suo pubblico (condivisione estetica). Nelle scienze umane, l’e. designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da uno sforzo di comprensione dei loro vissuti che esclude ogni forma di giudizio morale. In senso generale, essa esprime la tendenza ad identificarsi emozionalmente con un’altra persona, mantenendo, al contempo, la consapevolezza del confine interindividuale. Le espressioni metaforiche di mettersi nei panni dell’altro e di calzare le scarpe dell’altro traducono in modo semplice, ma pregnante, il significato di essa.

1. Circa la​​ natura​​ dell’e. gli autori offrono interpretazioni diverse: alcuni la considerano uno stato emozionale, altri un processo cognitivo, altri ancora un processo cognitivo-affettivo, altri, infine, una competenza interazionale. Coloro che interpretano l’e. come uno​​ stato esperienziale,​​ la definiscono come reazione emozionale, come un immedesimarsi nel vissuto soggettivo dell’altro fino a sperimentarlo come proprio. In tale interpretazione le funzioni percettive e cognitive assumono un ruolo del tutto secondario. L’e., così intesa, è sostenuta – secondo gli autori – da processi diversi: istintivi, inconsci di identificazione, di partecipazione riflessiva allo stato affettivo dell’altro (Lipps, 1909; Greenson, 1960; Rogers, 1957, cit. in Franta et al. 1992, 42-43). Coloro che interpretano l’e. come un​​ processo cognitivo​​ la definiscono essenzialmente come comprensione cognitiva, ossia come capacità di assumere il ruolo dell’altro così da vedere il mondo dal suo punto di vista, senza tuttavia sperimentarne necessariamente gli stati emozionali (Mead, 1934; Borke, 1971; Schreiber, 1977, cit. in Franta et al., 1992, 44). Per molti autori la discussione relativa al fatto se l’e. consista nel vivere lo stato esperienziale di un altro o se consista, invece, nell’assunzione, attraverso processi mentali, del ruolo o della prospettiva di un altro, è del tutto priva di senso. Così secondo Deutsch-Madle (1975, cit. in Franta et al. 1992, 45) il comportamento empatico appare come il risultato sia di processi mentali che emozionali; pertanto, attribuirlo ad un solo tipo di funzioni psichiche significa limitarne notevolmente la complessità. Gli autori del terzo orientamento preferiscono, quindi, interpretare l’e. come un​​ processo cognitivo-affettivo.​​ Essi lasciano però aperto il problema di come interagiscano le due categorie di funzioni; non è chiarito, infatti, se nella comprensione empatica precedano le funzioni cognitive o quelle affettive e in che modo vada ponderato il loro influsso nell’interdipendenza reciproca.

2. Coloro, infine, che interpretano l’e. come una​​ competenza interazionale,​​ tendono a porre l’accento sulle unità processuali che la operativizzano. L’e. viene così a coincidere con la capacità di seguire e di accompagnare il flusso delle esperienze dell’altro in interazione, verbalizzandole momento per momento (Rogers, 1975 cit. in Franta et al., 1992, 46). Al di là delle differenze esistenti nelle varie interpretazioni dell’e. considerate, è presente in ciascuna di esse il tentativo di risolvere la dicotomia soggetto-oggetto. Le differenze interpretative, infatti, sono da attribuirsi, in ultima analisi, alle convinzioni circa il modo migliore per​​ unirsi​​ all’altro pur​​ restandone separato.​​ Come afferma Schuster (1979, 73) la base dell’e. risiede nella risoluzione della dicotomia soggetto-oggetto. Secondo le neuroscienze il substrato anatomico funzionale dell’e. è rappresentato dai neuroni specchio, un gruppo di cellule localizzate in una precisa parte del cervello aventi la capacità di potersi attivare sia per eseguire una determinata azione, sia in seguito di una osservazione simile compiuta da un altro individuo. Così esperienze recenti indicano che osservare un consimile che esprime un’emozione, stimola nell’osservatore i medesimi centri cerebrali che si attivano quando lui stesso presenta una reazione emotiva analoga. In particolare il centro neuronale deputato a questa funzione sarebbe l’insula, una zona del cervello dove sono rappresentati gli stati interni del corpo e dove si attua l’interazione viscero-motoria (Rizzolatti-Sinigaglia, 2006).

Bibliografia

Schuster R.,​​ Empathy and mindfullness,​​ in «Journal of Humanistic Psychology» 19 (1979) 71-77; Franta H. - A. R. Colasanti - R. Mastromarino,​​ Formazione al rapporto terapeutico. Relazione e comunicazione empatica,​​ Roma, IFREP, 1992; Rizzolatti G. - C. Sinigaglia,​​ So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio,​​ Milano, Cortina, 2006.

A. R. Colasanti




EMPIRISMO

 

EMPIRISMO

Il termine indica un fondamentale atteggiamento di pensiero che fa derivare dall’esperienza (empeiria)​​ ogni conoscenza.

1. L’e., che trova le sue radici nella teoria aristotelica, fa dell’esperienza sensibile ed empirica la precondizione essenziale della conoscenza intellettuale e teorica e, al pari dell’​​ ​​ innatismo, si presenta nella storia della filosofia occidentale in versioni più o meno ristrette e radicali. Nel pensiero filosofico moderno l’orientamento empirista trova la sua più compiuta espressione nell’e. inglese, ricollegabile in parte alle posizioni sostenute da F. Bacon (1561-1626), che legava strettamente la prospettiva empirista al metodo e agli scopi della ricerca scientifica. A sua volta​​ ​​ Locke considerato il caposcuola dell’e. inglese, identifica nell’origine e nella validità della conoscenza il problema centrale della filosofia e in polemica con il razionalismo cartesiano dimostra l’insostenibilità del concetto di idea innata. Riconducendo inoltre alla​​ sensazione​​ la conoscenza del mondo esterno e alla​​ riflessione​​ (o introspezione come successivamente sarà indicata) la conoscenza del mondo interno della mente, Locke considera l’associazione di idee, e cioè i collegamenti e le connessioni che «naturalmente si creano tra le idee», la sostanza della conoscenza razionale; in tal modo egli dà inizio a quella analisi introspettiva della mente che per duecento anni costituirà il metodo principale della psicologia.

2. G. Berkeley (1685-1753) porta al limite le posizioni di Locke. I suoi contributi più significativi sono essenzialmente riassumibili: a) nella teoria della percezione spaziale (Essay towards a new theory of vision,​​ 1709), che rappresenterà la base di tutte le successive teorie della percezione visiva, da quella di Helmholtz nel XIX sec. a quelle di Gibson, Gregory,​​ ​​ Piaget, Held, e b) nella teoria dei segni (Treatise on the principles of human knowledge,​​ 1710). Berkeley fa coincidere percezione ed esperienza, riducendo la realtà delle cose al loro essere percepite (esse est percipi).​​ D. Hume (1711-1776), approfondendo le posizioni di Berkeley, spiega il funzionamento mentale dell’uomo e dell’animale sulla base delle leggi che regolano l’associazione delle idee e finisce quindi per minare alla base la fiducia stessa nelle capacità razionali della mente umana. Identificando nelle sensazioni, negli istinti, nelle abitudini e nei pregiudizi l’unica guida per il pensiero metterà infatti in discussione la possibilità stessa dell’induzione scientifica, negando in definitiva la possibilità di scoprire una qualsiasi connessione necessaria tra causa ed effetto. Individuando nelle associazioni per​​ somiglianza,​​ per​​ contiguità​​ e per​​ causalità​​ i processi fondamentali che regolano l’intelletto, ritiene che i «legami segreti» che si stabiliscono tra le idee portino la mente a congiungerle con maggiore frequenza. Sostenendo inoltre che la conoscenza si limita necessariamente alla conoscenza dei processi fondamentali della mente, che può tutt’al più inferire l’esistenza di oggetti reali e di altre menti, riducendo poi il soggetto impegnato nell’attività conoscitiva ad un grumo o collezione di percezioni differenti, che si succedono l’un l’altra con incredibile velocità e che sono in perpetuo flusso e movimento, getterà l’e. nel vicolo cieco dello scetticismo radicale.

3. Nella sua polemica contro le posizioni di Hume, il filosofo scozzese T. Reid (1710-1796), che fa derivare la possibilità stessa del ragionamento dalla esistenza di una dotazione innata di istinti e di intuizioni e che rivolge particolare attenzione allo studio delle strutture del linguaggio nonché al corso dell’azione e della condotta umana, modifica l’e. radicale introducendovi una serie di presupposti innatisti. In particolare Reid identifica nel​​ ​​ senso comune – e cioè nella credenza condivisa nell’esistenza di un mondo oggettivo dotato di qualità secondarie, nella consapevolezza della propria identità ed esistenza reale e della persistenza delle altre persone – la base di tutta la filosofia e la garanzia della conoscenza.

4. Il suo pensiero, da cui T. Brown prenderà le mosse per formulare le leggi della associazione secondaria, influenzerà profondamente l’associazionismo di​​ ​​ James e J. S. Mill (1806-1873). In particolare Mill, che propone nel suo​​ Analysis of the phenomena of the human mind​​ (1829) – «la più pura espressione della filosofia associazionista» – il principio della «associazione sincrona», considera gli oggetti della nostra conoscenza come costituiti da una somma di sensazioni diverse che, associate strettamente l’una all’altra costituiscono i «percetti» e quindi le «idee». A sua volta Mill, con la sua «chimica mentale» estende il principio delle idee sincrone anche alla formazione delle idee complesse e reintroduce nella prospettiva empirista elementi che riconoscono alla mente una possibilità di attività autonoma. Per Mill dunque – che nel​​ Sistema di logica​​ (1843) sostiene la plausibilità della «scienza della natura umana» e cioè della psicologia – proprio l’esperienza fornisce l’idea della uniformità dei fenomeni naturali: sino a che tale idea non venga di fatto smentita, si ha dunque il diritto di estendere universalmente il valore delle conoscenze particolari acquisite sulla base della osservazione induttiva, nonché di confermare la validità, sia pure provvisoria, delle leggi e dei concetti scientifici.

5. L’orientamento empirista, che si era manifestato in Francia in forme estreme ed esasperate nel sensismo di Condillac, nel meccanicismo di La Mettrie nonché nel riduzionismo di Cabanis e di Helvetius, assumerà in Germania caratteristiche peculiari. L’e., dunque, sottolineando il ruolo della sensazione e dell’esperienza nella formazione delle idee, contribuirà a determinare la definizione wundtiana dell’oggetto e del metodo della psicologia e costituirà non solo il riferimento teorico privilegiato della teoria wundtiana e dello strutturalismo di E. B. Titchener, del funzionalismo e del comportamentismo watsoniano, ma continuerà ad esercitare, in forme spesso non facilmente riconoscibili, un notevole peso nell’impostazione del problema del rapporto tra esperienza e strutture innate che si presenta ancor oggi come di non facile soluzione.

Bibliografia

Geymonat L.,​​ Storia del pensiero filosofico e scientifico,​​ Milano, Garzanti, 1976; Mecacci L.,​​ Storia della psicologia del novecento,​​ Roma / Bari, Laterza, 1992; Danzinger K.,​​ La costruzione del soggetto,​​ Ibid., 1995; Sellars W.,​​ E. e filosofia della mente, Torino, Einaudi, 2004.

F. Ortu - N. Dazzi




EMPIRISMO METODOLOGICO

 

EMPIRISMO METODOLOGICO

L’espressione sta ad indicare un approccio di sociologia della scuola che, pur collocandosi sostanzialmente nell’ambito del​​ ​​ funzionalismo, assume caratteristiche proprie rispetto ad altri orientamenti presenti nello stesso quadro teorico.

1. Gli elementi distintivi vanno ricercati nell’uso sofisticato del metodo​​ quantitativo​​ e nell’oggetto che è costituito dal problema della diseguaglianza delle opportunità nell’istruzione. Sulla nascita di tali prospettive ha influito il​​ contesto​​ degli anni ’60. Lo​​ ​​ Stato sociale è in piena crescita e assume sempre più un atteggiamento interventistico anche nell’istruzione ai fini di realizzare una maggiore eguaglianza. Esso intende procedere sulla base di indicazioni scientificamente corrette: pertanto, potenzia gli investimenti pubblici nella ricerca anche educativa.

2. L’approccio sotto esame concentra la sua attenzione sul problema delle​​ disparità​​ tra i ceti nell’educazione, cercando di misurare con più precisione la loro consistenza e di identificare i fattori che le condizionano. Questi ultimi vengono individuati in genere nella classe di appartenenza, mentre le posizioni divergono circa l’impatto della scuola, anche se prevale l’opinione che le attribuisce un ruolo significativo. Il metodo utilizzato è principalmente numerico, empirico, statistico; al tempo stesso, non mancano esempi di ricerca-azione nella forma di una quasi sperimentazione.

Bibliografia

Karabel J. - A. H. Halsey (Edd.),​​ Power and ideology in education,​​ New York, Oxford University Press, 1977; Morgagni E. - A. Russo (Edd.),​​ L’educazione in sociologia.​​ Testi scelti,​​ Bologna, CLUEB, 1997; Schizzerotto A. - C. Barone,​​ Sociologia dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006.

G. Malizia




EMULAZIONE

 

EMULAZIONE

È «desiderio e sforzo di eguagliare o superare qualcuno» (Zanichelli); è misurarsi per migliorare (il termine indica oggi anche peculiarità di un sistema informatico).

1. Sotto il profilo psicologico e sociale possiamo constatare differenti declinazioni di e. Si va dall’esigenza innata nell’età evolutiva di raffrontarsi agli altri per riprodurne tratti significativi (​​ identificazione), allo sforzo conscio nell’età adulta per raggiungere o sopravanzare livelli o qualità altrui (rivalità); dal bisogno di autoaffermazione che conduce al confronto sociale continuato (competizione), alla sfida per raggiungere prestazioni sportive sempre più elevate, misurandosi secondo regole convenute (agonismo), o ancora a un metodo di apprendimento scolastico basato sulla competizione degli esiti raggiunti (meritocrazia). Questi fenomeni sono interpretabili quali espressioni dell’aggressività umana, in contesto collettivo. In realtà non è facile rintracciare situazioni di interazione che manifestino percorsi di semplice comparazione. Del resto lo stesso processo di​​ ​​ socializzazione comporta riferimenti a modelli da valutare, anche in contraddizione. A spiegazione del fenomeno vengono formulate diverse teorie: l’innato istinto di aggressività dominerebbe l’uomo (​​ Freud,​​ ​​ Lorenz), la volontà di potenza sarebbe la base per comprendere la personalità dell’individuo (​​ Adler), la sequenza frustrazione-aggressione spiegherebbe opportunamente il legame tra stimoli ed esiti (Berkowitz). Senza dubbio la tendenza alla competizione è un fattore di rilevanza primaria nella spiegazione della​​ ​​ dinamica di gruppo.

2. Sotto il profilo educativo la questione si pone in termini ambivalenti. L’e. può essere considerata positiva, se viene orientata a promuovere le proprie abilità per giungere a un armonico miglioramento personale (sviluppo di sé); oppure se ci si impegna a eguagliarle nell’accettazione delle qualità altrui (reciprocità). Assume invece un accento problematico, se non negativo, quando prevale la volontà di dominio sull’altro al fine di soverchiarlo (oppressione) o allorché si esige da se stessi uno sforzo insensato per superarsi (perfezionismo). Lo sviluppo dell’io esige un buon rapporto con sé e un’equilibrata relazione con gli altri: ciò avviene nella possibilità di scegliere tra rivalità o cooperazione, reciprocità o selezione, superiorità o opportunità. La conferma proviene dai bambini dei Kibbuz, più portati alla collaborazione; mentre i bambini americani (classe media) si mettono in competizione anche quando non sarebbe ragionevole. Di certo lo spirito di rivalità presenta grossi rischi, che si chiamano egocentrismo,​​ ​​ individualismo, disinteresse egoistico. È determinante la motivazione che sta alla base dell’e.: si vuol crescere nell’autoaffermazione sugli altri o tendere allo sviluppo delle proprie potenzialità? La prospettiva educativa si rifà in questo a una scelta antropologica, culturale ed etica. L’«Éducation Nouvelle» (Europa del ’900) fonda la sua teoria pedagogica sul principio della collaborazione nel rispetto delle differenze, e dell’esplicitazione delle potenzialità. L’ideologia dominante dell’organizzazione economica moderna (libero mercato) guarda alla competitività quale proposta risolutiva e la considera come legittima modalità d’azione pedagogica e di cambiamento istituzionale. È attuale oggi considerare la competizione e la meritocrazia come possibili percorsi per superare l’appiattimento e l’egualitarismo, anche in istituzioni educative. Al contempo si sta sviluppando una rilevante corrente che vede nella cooperazione educativa una pertinente e valida soluzione. La realtà umana rimane comunque terreno di ambiguità: sarà sempre compito dell’educazione qualificare la comunicazione e i rapporti, perché si possa giungere a intese soddisfacenti e a relazioni adeguate. Si tratta in definitiva di monitorare la tendenza alla competizione, perché si risolva in modo benefico per tutti e di orientare l’e. a tradurre in tensione migliorativa la reciprocità, facilitando un ambiente di educazione partecipata.

Bibliografia

Netzer H. (Ed.),​​ Der Wetteifer in der Erziehung,​​ Weinheim, Beltz,​​ 1961;​​ Rich J. M.,​​ Competition in education, Springfield Illinois,​​ C.C. Thomas, 1992; Reboul O.,​​ I valori dell’educazione, Milano, Ancora, 1995.

G. B. Bosco




ENCICLOPEDIA

 

ENCICLOPEDIA

Presso i greci e. significò «ciclo educativo», sistema completo di educazione, che comprende tutte le discipline ed il loro fondamento. Il termine riapparve nel sec. XV, indicando l’insieme delle conoscenze esposte in forma sintetica ed in ordine alfabetico.

1. A volte non è facile distinguere tra e. e dizionario.​​ ​​ Isidoro di Siviglia, V. de Beauvais,​​ ​​ Llull, e F. Bacon trasmisero il loro scibile in opere di carattere enciclopedico. L’e. più famosa è quella francese, il cui titolo completo è​​ Encyclopédie,​​ ou Dictionnaire raisonné des sciences,​​ des arts et des métiers,​​ par une société de gens de lettres,​​ la cui pubblicazione ebbe inizio nel 1751 e si concluse nel 1776. Ad essa collaborarono, tra gli altri, Voltaire,​​ ​​ Rousseau, D’Alembert, Diderot, Holbach ed Helvetius. Benché gli estensori degli articoli avessero idee differenti, erano d’accordo sui principi comuni del pensiero dell’epoca: ottimismo sul futuro dell’umanità, tolleranza religiosa, importanza dello sviluppo della tecnica, dell’industria, dell’agricoltura e delle arti, fiducia nella capacità razionale dell’uomo, nella libertà, nel progresso indefinito, considerazione per le scienze applicate, interesse per lo studio e l’osservazione della natura, opposizione all’eccessivo potere del clero e della Chiesa, valorizzazione dell’esperienza personale, ecc.

2. L’E.​​ fu allo stesso tempo apprezzata e contrastata. Si è discusso molto sulla sua possibile influenza sulla Rivoluzione francese; per alcuni costituì una sua causa remota mentre per altri fu un apporto in più nel vasto processo di trasformazioni sociali e politiche che determinarono inevitabilmente la fine del cosiddetto antico regime. Anche in sede pedagogica le idee dell’e. hanno avuto la loro influenza, soprattutto in termini di anti-tradizionalismo e di centramento sul soggetto dell’educazione e sullo sviluppo della sua «naturale» libertà.

Bibliografia

Collison​​ R. L.,​​ Encyclopedias: their history through the ages,​​ New York, 1966; Walsh S. P.,​​ Anglo-American general encyclopedias.​​ A historical bibliography,​​ 1703-1967,​​ New York / London, 1968; Reoyo C. (Ed.),​​ E. temática Espasa, Madrid, Espasa-Calpe, 2000.

B. Delgado




EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA

 

EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA

L’e.p. è quella parte della riflessione e del discorso sull’educazione che affronta problemi quali: a) se la​​ ​​ pedagogia sia scienza e quale tipo di scienza; se sia scienza unica o il nome collettivo di una pluralità di scienze; b) nel secondo caso, ricerca il fondamento epistemologico della loro collaborazione interdisciplinare (​​ interdisciplinarità). Questa problematica ha una sua storia che in questa sede non è possibile richiamare anche solo sommariamente. Allo stato attuale della ricerca, le risposte a questi interrogativi sono molteplici e discordanti; tuttavia nuovi orientamenti dell’e. contemporanea rendono possibile una migliore impostazione dei problemi e fanno intravedere interessanti piste di soluzione.

1.​​ La nozione di scientificità.​​ Per rispondere al primo gruppo di problemi, occorre chiarire la nozione di scientificità. Nel linguaggio ordinario il​​ rigore​​ e l’oggettività​​ sono generalmente ritenuti i caratteri fondamentali della scienza. Però a livello delle teorie epistemologiche, essi sono interpretati in modo notevolmente diverso. Il successo innegabile avuto dalle scienze fisico-matematiche nell’epoca moderna comporta sempre il pericolo di una concezione riduzionista della nozione di scientificità. Si deve riconoscere tuttavia che, in questi ultimi decenni, sta diffondendosi tra gli epistemologi un nuovo orientamento: senza sminuire la grande lezione di rigore e oggettività data dal modello rappresentato dalle scienze empirico-matematiche, si tende a concepire la scientificità, non più in modo rigidamente univoco ma secondo un significato analogico che ammetta altri modelli di lettura scientifica del reale, rigorosi e oggettivi anche se diversi da quello matematico. All’interno di questa prospettiva si colloca la presente trattazione. Conveniamo di chiamare​​ scienza​​ qualunque complesso di conoscenze, espresse mediante uno specifico linguaggio formale, frutto di ricerche fatte secondo un determinato​​ ​​ metodo e riguardanti un determinato oggetto, caratterizzate sia dal rigore e dall’oggettività che dalla sistematicità e dall’autocrescita. Questo concetto di scienza dovrebbe essere applicabile in modo analogico a tutte le scienze: dalle scienze della natura alle scienze umane, alla filosofia e secondo alcuni anche alla teologia. Il​​ rigore​​ e l’oggettività​​ restano caratteristiche prime e fondamentali della scienza.​​ Attribuiamo però al termine «oggettività» due significati distinti. Il primo è il più immediato: dire che la scienza è oggettiva significa che le sue affermazioni trovano riscontro nella realtà, sono vere. Il secondo significato è invece più tecnico; forse sarebbe meglio esprimerlo col termine «oggettualità», perché significa che ciò di cui si occupa la scienza non è la realtà esterna al conoscente, ma il punto di vista con cui la scienza guarda questa realtà e che per convenzione viene detto «oggetto». Nonostante l’apparenza contraria, questi due significati non si escludono, sono invece strettamente connessi e interdipendenti, almeno all’interno della teoria gnoseologica del realismo critico. Questa infatti suppone che dalla realtà esterna al conoscente (ricca di tanti aspetti differenti che nel conoscente diventano punti di vista diversi) la scienza, mediante una particolare griglia di lettura, detta «metodo di ricerca», si ritaglia e costruisce mentalmente il suo oggetto, che poi esprime con un linguaggio «formale» ma non necessariamente matematico. Quindi oggetto e metodo di una scienza sono interdipendenti, per cui l’opzione per un determinato oggetto è condizionata dal metodo scelto per conoscerlo; per conseguenza la scelta di un determinato metodo rende possibile la costruzione mentale di un oggetto, il quale, non essendo totalmente estraneo alla realtà esterna perché astratto da essa, ne esprime degli aspetti reali, senza tuttavia esaurirne la ricchezza. Fine intrinseco di ogni scienza è di dare una spiegazione rigorosa del suo oggetto. Perciò decide quali sono i problemi importanti posti da tale oggetto; formula ipotesi plausibili per la loro soluzione e definisce i criteri in base ai quali sarà in grado di verificare l’oggettività delle ipotesi formulate. Questi criteri (detti protocolli o anche postulati-base) sono costituiti da proposizioni che esprimono generalmente «dati di fatto» ritenuti evidenti all’interno della scienza; però possono essere anche parametri concettuali, quali ad es. i risultati di ricerche raggiunti da altre scienze e riconosciuti come sicuri all’interno della scienza in questione. Sulla base di questi criteri viene verificata l’oggettività o verità delle «spiegazioni» che la scienza dà del suo oggetto. Questa verifica deve poter essere fatta da tutti i soggetti che hanno accettato tali criteri. Così intesa, l’oggettività​​ del sapere scientifico si identifica con «l’intersoggettività» ed è detta «debole» e sempre parziale, in quanto non riguarda mai tutti gli aspetti della realtà esterna al soggetto ma solo quelli contenuti nell’oggetto; infine è anche contingente, nel senso che può essere sempre perfezionata o sostituita da spiegazioni più adeguate. La seconda caratteristica della scienza è costituita dalla​​ sistematicità​​ e dall’autocrescita.​​ La ricerca scientifica non si accontenta di ricerche frammentarie, ma tende a organizzare tutte le sue conquiste in sintesi organiche. Si conviene pertanto di chiamare scienza solo quel tipo di sapere che si presenta come​​ sistema​​ di conoscenze collegate da nessi logici formalmente corretti, il cui scopo è quello di arrivare a creare​​ teorie​​ complessive del proprio oggetto. Una scienza, che, affinando sempre più il suo metodo di ricerca, progredisce in estensione e comprensione del suo oggetto, è capace di​​ autocrescita,​​ perché scopre in esso nuovi ambiti (estensione)​​ e più profondi livelli di intelligibilità (comprensione),​​ prima inaccessibili a causa dell’inadeguatezza o grossolanità della griglia di realtà (cioè del metodo e dei criteri di protocollarità) utilizzata o anche a motivo delle novità insorte nella realtà, prima impensabili. L’autocrescita della scienza comporta un continuo processo di revisione e riformulazione delle sue teorie per adeguarle sempre più alla realtà.

2.​​ Scientificità e pedagogia: le​​ ​​ scienze dell’educazione.​​ Alla luce di questa concezione della scientificità possiamo dare una risposta al primo gruppo di problemi che ci siamo posti nei riguardi della pedagogia. Siccome qualunque frammento di realtà è suscettibile, dal punto di vista della conoscenza, di una molteplicità di punti di vista, cioè di oggetti e di relativi metodi, e quindi di scienze differenti, è evidente che la realtà «educazione» diventa necessariamente fonte di una pluralità di scienze differenti, ognuna delle quali rappresenta solo una spiegazione parziale di essa. Quindi non è solo legittimo ma è necessario parlare di «scienze dell’educazione». Ognuna di esse, definendo in precedenza i suoi postulati-base e il suo metodo di ricerca, ritaglia dalla complessa realtà educativa solo quegli aspetti conoscibili attraverso il metodo scelto e, partendo da ipotesi plausibili, costruisce teorie passibili di verifiche alla luce dei postulati-base decisi in partenza. Da questo punto di vista, il termine​​ ​​ «pedagogia», se inteso come studio scientifico della realtà educativa, deve considerarsi il nome collettivo delle scienze dell’educazione. E che esistano effettivamente numerosi studi scientifici sull’educazione, differenti dal punto di vista dell’oggetto e del metodo, è un dato incontrovertibile. Ciascuno di essi appartiene ad una scienza «madre» differente (filosofia, storia, psicologia, biologia, medicina, sociologia, antropologia, diritto, ecc.) dal punto di vista dell’oggetto e del metodo; tutti però hanno come scopo comune di contribuire, ciascuno con il suo apporto, limitato ma insostituibile, a «spiegare» quella realtà esterna al soggetto che è l’educazione. Ma l’educazione non è soltanto una realtà da conoscere; è anche e soprattutto una prassi, un complesso di azioni da compiere, caratterizzate dalla libertà e dall’intenzionalità, che fanno riferimento, consapevolmente o no, a norme più o meno tradizionali di un’arte educativa, la quale a sua volta dipende da una concezione del mondo e dell’uomo. Questa prassi educativa esige di essere «valutata» in quanto progetto in funzione di finalità plurime, ordinate gerarchicamente in rapporto alla finalità suprema della qualificazione della vita personale, individuale e comunitaria. Quindi l’educazione, da questo angolo di visuale, dà origine ad una pluralità di oggetti studiati da molteplici discipline, che richiedono per una loro composizione ed integrazione una fattiva collaborazione interdisciplinare.

3.​​ Il fondamento epistemologico dell’interdisciplinarità tra le scienze dell’educazione.​​ Il problema delle condizioni che rendono possibile la collaborazione interdisciplinare tra le scienze dell’educazione è affrontato alla voce​​ ​​ interdisciplinarità. Nella diversità delle opinioni antiche e nuove a riguardo, ci si riferisce in particolare alla teoria delle «tradizioni di ricerca» di L. Laudan (Austin, Texas, 1941). Essa, pur essendo ampiamente debitrice verso i contributi di K. Popper, di Th. Kuhn, di P. Feyerabend e di I. Lakatos, rappresenta una forma aggiornata e equilibrata nell’ambito dell’e. contemporanea. Considerando i problemi scientifici nella duplice prospettiva, diacronica e sincronica, Laudan evidenzia un fenomeno caratteristico, e cioè che le teorie scientifiche, prodotte dalle varie scienze, non operano mai da sole ma sempre a gruppi, in cui si completano, si precisano, si sostengono a vicenda. Si tratta di teorie di scienze diverse (però aventi come scopo comune di studiare una determinata realtà, nel caso nostro l’educazione) che condividono un insieme di assunti generali riguardanti questa realtà (denominabili costrutti mentali «transpecifici»); e determinati principi metodologici per la soluzione dei problemi che riguardano l’oggetto di ciascuna. Tali teorie, pur appartenendo a scienze diverse, sono in un certo senso imparentate tra di loro, cioè formano un gruppo omogeneo, una «tradizione di ricerca»; possono pertanto dare origine ad un’autentica collaborazione interdisciplinare. In questa prospettiva all’interno delle scienze dell’educazione si possono individuare un gruppo di teorie filosofiche psicologiche sociologiche etiche tecnologiche, riguardanti l’educazione sia come realtà da spiegare sia come prassi da valutare, progettare e operazionalizzare, che siano compatibili tra di loro per il fatto di possedere costrutti concettuali e parametri metodologici transdisciplinari. Una loro collaborazione effettiva renderà possibile un’interpretazione dell’educazione ed una progettazione della prassi educativa più vicina alla realtà e più conforme alle finalità educative viste nella loro integralità. Nel caso di una pedagogia cristianamente ispirata, tale collaborazione tra le scienze dell’educazione include anche la​​ ​​ teologia dell’educazione.

Bibliografia

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G. Groppo