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DIDATTICA

 

DIDATTICA

Disciplina pedagogica che studia il processo di​​ ​​ insegnamento. La d. viene considerata in generale come una​​ ​​ scienza​​ pratico-prescrittiva,​​ cioè come una scienza diretta a dare fondamento e orientamento all’azione di insegnamento o​​ ​​ azione d. Dal gr.​​ didaskein​​ (insegnare). La d. viene anche definita come teoria che studia l’atto didattico (didassi). Se questo studio è basato su metodi di indagine sperimentali, si usa talora l’espressione​​ didassologia.​​ In ingl. è raro trovare l’equivalente​​ didactics.​​ Si preferisce usare l’espressione​​ theory and practice of education​​ oppure​​ methods in education.​​ In ted. oltre a​​ Didaktik​​ viene usato anche il termine​​ Methodik​​ (metodica). Il sostantivo d. viene utilizzato anche per indicare il modo di insegnare proprio di una persona. Si usa dire in questi casi ad es.: il tale professore ha una d. povera.

1.​​ Per una definizione più articolata.​​ Per giungere a una definizione più ricca e comprensiva della d. conviene considerare due suoi aspetti fondamentali, tradizionalmente raccolti nell’espressione «scienza e arte dell’insegnamento», e cioè: a) l’aspetto di sapere generale garantito da riscontri empirici, e che non dipende né dalla modalità con cui si agisce, né dall’inserimento dell’agire in un preciso contesto; b) l’aspetto di sapere pratico, soggettivo, che implica capacità di scelta e decisione in contesti specifici. Per esprimere il collegamento tra questi due aspetti, è stata proposta per la d. la formula «base scientifica dell’arte di insegnamento». Tuttavia, come giustamente fa notare​​ Blankertz, non è possibile impostare una d. senza tener conto di assunzioni generali riguardanti l’uomo, la sua crescita, il suo significato. D’altra parte, questo quadro di riferimento teoretico-filosofico, più che fornire principi dai quali si possano dedurre norme per l’azione d., indica dei confini, segnala delle incoerenze. Inoltre, occorre ricordare come ogni metodo didattico trovi il suo fondamento in assunzioni di natura teorico-filosofica, implicite o esplicite: in motivi, significati, valori che animano lo studioso o l’insegnante stesso.

2.​​ La pratica d.​​ Per esaminare più a fondo la natura della d. occorre definire meglio il concetto di pratica, e di pratica d. in particolare. Riprendendo e parafrasando la definizione di pratica data da A. MacIntyre (1988), si può giungere a identificarla in una forma coerente e complessa di attività umana che si sviluppa in modo collaborativo e che è socialmente stabilita. Nello svolgersi di questa attività si colgono e si realizzano i valori che la caratterizzano e che sono espressi da modelli di eccellenza. Tali modelli non solo sono radicati nella storia, e quindi soggetti a evoluzione nel tempo, ma possono anche essere oggetto di analisi critica teorico-filosofica, scientifica o tecnologica. Da questo punto di vista la d. può essere considerata come un insieme di conoscenze e di competenze che permettono di esercitare la pratica dell’insegnamento in maniera valida e feconda. Essa può essere quindi definita come nel senso tradizionale greco di insieme di competenze operative, sia ideative o progettuali, sia tecnico-pratiche o realizzative. Occorre tuttavia notare come l’azione d. non possa essere considerata come un’azione puramente guidata da regole e principi, anche se questi hanno un ruolo importante nell’esaminare i problemi posti dall’insegnamento e nell’individuare strategie di soluzione: esiste, infatti, una sua componente tacita o personale. M. Polanyi (1990, 139) osserva: «Un’arte non può essere specificata nei dettagli, non può essere trasmessa mediante prescrizioni [...] può essere trasmessa soltanto mediante l’esempio del maestro dell’apprendista». La crescita della conoscenza e della competenza professionale così, anche in campo didattico, è legata in gran parte allo sviluppo di una capacità di riflessione nell’azione, oltre che di riflessione prima e dopo di essa. Se questo tipo di conoscenze e competenze non sono descrivibili per mezzo di un sistema di regole, né possono svilupparsi solo sulla base dell’osservanza di regole espresse e formalmente descritte, come possono essere colte? In genere si risponde: osservando l’azione di persone competenti o esperte e attraverso le interpretazioni che queste ne danno sotto forma di narrazioni. Tali azioni sono caratterizzate in genere dalla capacità di inquadrare immediatamente in modo completo e articolato le varie situazioni e di portare a termine le decisioni conseguenti in modo fluido, appropriato e senza sforzo. Analoga osservazione viene avanzata, evidenziando il ruolo delle intenzioni e delle scelte personali, presenti nell’agire del docente. Pur tenendo conto di queste osservazioni, la pratica d. non solo può, ma deve essere riletta, criticata e sollecitata da vari punti di vista: quello dell’analisi ideale o filosofica (e in questo contesto si può ricollocare l’analisi storica), quello derivante dall’indagine scientifica, e quello proprio dell’approccio tecnologico. Da questi punti di vista la pratica dell’insegnamento diventa essa stessa oggetto di studio, più che di esperienza diretta, di riflessione e di costruzione di competenze personali.

3.​​ L’analisi teorico-filosofica della pratica d.​​ L’analisi ideale o teorico-filosofica della pratica d. ha una lunga storia. Essa si radica nella stessa storia della riflessione critico-propositiva sul modo di insegnare e di imparare, dal mondo assiro-babilonese ai giorni nostri. Basti qui ricordare il ruolo del docente identificato da​​ ​​ Socrate nella metafora della levatrice, o la funzione del dialogo particolarmente sottolineata da​​ ​​ Platone. In questo stesso autore si possono trovare le tracce di un’impostazione diversificata della pratica di insegnamento, una diretta ai comuni cittadini, l’altra a chi è orientato ad assumere funzioni direttive nella società, con conseguente rilievo della selezione. Nel sec. decimosesto si avvia più esplicitamente il discorso relativo ai metodi di insegnamento, di cui è significativa espressione la​​ Grande d.​​ di​​ ​​ Comenio. Possiamo dire che ogni grande corrente di pensiero filosofico e pedagogico ha espresso non solo una sua linea interpretativa della pratica d., ma ha presentato anche modelli di eccellenza per essa. Oggi molte impostazioni teorico-filosofiche del​​ ​​ curricolo, della gestione della classe e dell’azione d. si rifanno alla d. intesa in questo senso. Come esempio si possono citare gli approcci propri dell’​​ ​​ idealismo, del realismo, del​​ ​​ personalismo, del​​ ​​ pragmatismo, del positivismo, delle teorie critiche dell’insegnamento, ecc. La riflessione filosofica inoltre ha spesso criticato le impostazioni sia della d. come scienza, sia della d. come tecnologia. Ad es., è stata esaminata criticamente gran parte delle ricerche sperimentali sull’insegnamento degli anni settanta-ottanta, dirette a rilevare le relazioni esistenti tra le variabili caratterizzanti il comportamento docente e quelle riscontrabili nei risultati formativi raggiunti. Si è osservato come queste fossero poco sensibili all’importanza dell’intenzionalità del docente e degli allievi stessi nella pratica d. Di qui la necessità di estendere o trasformare teorie e metodi di ricerca in modo da includere questa componente della pratica.

4.​​ L’analisi scientifica della pratica d.​​ L’indagine scientifica ha una storia assai più breve. In essa si possono segnalare alcuni orientamenti diversi: ricerche di natura biologica e psicologica e indagini di tipo sociologico e antropologico, a cui si sono presto aggiunte prospettive giuridiche, politiche ed economiche. Si tratta delle cosiddette​​ ​​ scienze dell’educazione in quanto si sono occupate della pratica dell’insegnamento. Queste vanno intese come scienze applicate, nel senso di scienze che esaminano la pratica d. utilizzando apparati teorici e metodologici propri delle scienze di riferimento. Nel corso della seconda metà del sec. XX è stata però avviata un’indagine di natura scientifica relativa alla pratica d., che non assume come parametri concettuali e metodologici propri quelli di altre discipline. Si è costituita cioè una d. intesa come scienza autonoma, con un proprio apparato concettuale e teorico e peculiari metodi di indagine. Il quadro di riferimento spesso utilizzato è un triangolo, i cui vertici sono l’insegnante – l’allievo – i contenuti, considerato nel suo contesto istituzionale e sociale. Esso viene usato per identificare gli elementi costitutivi da esaminare e che formano l’essenza della pratica d. Si tratta, ovviamente di un​​ ​​ modello, cioè di una rappresentazione generale e astratta della pratica d., che intende non solo descrivere, ma anche fare da supporto per prevedere gli effetti dell’azione d., orientare le decisioni da prendere, controllare lo sviluppo dell’attività e i suoi risultati. Nel contesto francese il modello più diffuso e valorizzato è quello che descrive il processo di transizione, o trasposizione, della conoscenza dalle discipline di riferimento (quelle degli studiosi), alle discipline da insegnare nella scuola (quelle considerate nei programmi di insegnamento), a quelle effettivamente insegnate dai singoli docenti, a quelle apprese dai singoli allievi. Il gioco che si svolge a quest’ultimo livello, tra insegnanti e allievi, viene riletto assumendo come quadro teorico il concetto di contratto didattico. I metodi di ricerca tendono in questo caso a valorizzare una stretta collaborazione tra ricercatori e insegnanti, anche mediante forme di vera e propria ricerca-azione (​​ metodi di ricerca). Altri modelli elaborati recentemente più o meno nella stessa direzione derivano da metodi e disegni di ricerca sperimentali di tipo quantitativo, oppure da metodi di tipo qualitativo ed ermeneutico, ma si tratta sempre di modelli basati sull’analisi delle pratiche didattiche attivate in contesti scolastici. Recentemente sono stati avanzati anche modelli di tipo logico-erotetico e logico-assiologico, suscettibili di riscontri empirici. Nel primo caso l’insegnamento viene studiato dal punto di vista della congruenza fra domanda di apprendimento presente, anche implicitamente, negli alunni e risposta insegnante in ambiti formativi specifici. Nel secondo, si è elaborato un quadro di riferimento che, partendo dalle intenzioni o finalità educative generali dirette alla costituzione di disposizioni personali derivate da una concezione filosofica della persona educanda, procede verso la definizione degli obiettivi dell’azione d. nell’ordine dell’attuazione di tali intenzioni e, nell’ordine della causazione, verso l’organizzazione di situazioni didattiche atte a promuovere negli alunni le disposizioni intese.

5.​​ L’analisi tecnologica della pratica d.​​ Ancor più recente è l’analisi della pratica d. da un punto di vista tecnologico. In questo caso la tecnologia è intesa nel senso moderno di​​ engineering​​ ed è caratterizzata da un apparato specifico di concetti e rappresentazioni simboliche, metodi e tecniche di lavoro, che rendono possibile una vera e propria mediazione tra le scienze e le discipline di riferimento e l’azione d. Questo carattere implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo operativo e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto elaborato, alle stesse scienze dell’educazione. Nel campo dell’insegnamento le varie scienze dell’educazione, o la d. stessa intesa come scienza autonoma, tendono a prospettare informazioni organizzate circa le situazioni e le pratiche didattiche educative. L’attività tecnologica si svolge in senso inverso e consiste nel trasformare le informazioni strutturate sotto forma di rappresentazioni mentali in informazioni calate in forme organizzative e operative esterne. In altre parole, la tecnologia proietta le informazioni astratte e generali in contesti e situazioni concrete, che ricevono, attraverso queste proiezioni, una struttura organizzativa supplementare. Sotto questo profilo il processo scientifico si presenta come il reciproco di quello tecnologico. D’altra parte la tecnologia procede nell’ordine dell’azione secondo lo stesso modello adottato dalla ricerca scientifica nell’ordine della conoscenza: posizione di un problema, formulazione di ipotesi, loro messa alla prova, ritorno alla situazione iniziale, ma con una sua trasformazione nella direzione della risoluzione del problema o dell’emergenza di nuovi aspetti problematici. In conclusione, sembra che il ruolo della mediazione tecnologica nel caso della d. sia quello di una sorta di interfaccia, di nodo di raccordo, tra scienze e discipline di riferimento e l’azione formativa. Essa infatti si trova in stretta interazione con le prime e ha come compito specifico quello di dare consistenza e efficacia alla seconda. Non sembra infatti sufficiente, in un approccio moderno, utilizzare i contributi delle varie scienze e discipline di riferimento nella risoluzione dei problemi educativi, senza la mediazione di un valido sistema di progettazione, conduzione e valutazione dei piani di intervento concreto. Alla d. vista come tecnologia si ricollegano gran parte delle indicazioni metodologiche relative allo sviluppo del curricolo, agli strumenti e metodi di valutazione, alle tecniche di gestione della classe, alla produzione di testi scolastici, ecc.

6.​​ Articolazioni della d.​​ Dal momento che il campo della d. si è esteso verso il basso, includendo l’azione di insegnamento rivolta a soggetti minori di sei anni, e verso l’alto, tenendo conto delle attività formative a livello universitario, professionale, e in generale svolte lungo tutto l’arco della vita, la d. può essere a sua volta articolata tenendo conto sia dei contenuti considerati, sia dei destinatari, sia degli strumenti di comunicazione adottati. Tenendo conto delle discipline di insegnamento si hanno le varie d. disciplinari, talora incluse entro quelle che sono state denominate d. speciali e / o d. specifiche. Se si considera invece l’età degli studenti, e si ha la d. evolutiva e quella degli adulti. Se si è attenti alle differenze esistenti tra gli studenti, maschi e femmine, soggetti portatori di handicap e soggetti normali, soggetti disabili e soggetti particolarmente dotati, è questo il campo di studio della​​ ​​ d. differenziale. Naturalmente altre articolazioni riguardano il tipo di scuola e di ambiente considerato (d. della scuola materna, della scuola elementare, della scuola secondaria, universitaria, della formazione professionale; urbana, rurale, ecc.) oppure le tecnologie di comunicazione utilizzate (d. a distanza,​​ ​​ e-learning,​​ ecc.).

Bibliografia

Titone R.,​​ Metodologia d.,​​ Roma, LAS,​​ 31975; Bertoldi F.,​​ Trattato di d. 1° D. generale,​​ Bergamo, Minerva Italica, 1977; Blankertz H.,​​ Teorie e modelli della d.,​​ Roma, Armando, 1977; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Polanyi M.,​​ La conoscenza personale,​​ Milano, Rusconi, 1990; Gagné R. M. - L. J. Briggs,​​ Fondamenti di progettazione d.,​​ Torino, SEI, 1990; Borich G. D.,​​ Effective teaching methods,​​ New York, Macmillan,​​ 21992; Frabboni F.,​​ Manuale di d.,​​ Bari, Laterza, 1992;​​ Cornu L. - A. Vergioux,​​ La didactique en question,​​ Paris, Hachette,​​ 1992; Laneve C.,​​ Per una teoria della d. Modelli e linee di ricerca,​​ Brescia, La Scuola, 1993; Pellerey M.,​​ Progettazione d.,​​ Torino, SEI,​​ 21994; Laneve C.,​​ Il campo della d.,​​ Ibid., 1997; Id.,​​ Elementi di d. generale,​​ Ibid., 1998; Id.,​​ La d. tra teoria e pratica,​​ Ibid., 2003; Baldacci M.,​​ I modelli della d., Roma, Carocci, 2004; Damiano E.,​​ La Nuova Alleanza. Temi,​​ problemi,​​ prospettive della nuova ricerca d., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey




didattica della MATEMATICA

 

MATEMATICA: didattica della

Disciplina che studia i processi di insegnamento e apprendimento della m. nel contesto scolastico e più in generale formativo (e concretamente il modo di intendere e di praticare tale insegnamento e apprendimento).

1.​​ Natura e sviluppi.​​ Tradizionalmente si coagulava sotto il titolo di​​ ​​ didattica un insieme di suggerimenti e di norme pratiche derivanti dall’esperienza pratica e dalla riflessione critica su di essa. Talora si includevano in essa anche derivazioni più o meno deduttive da principi e teorie di natura filosofica. Non si trattava tanto di una scienza autonoma, quanto di un condensato organizzato e ragionato di quanto di meglio era stato possibile trovare nel contesto dell’attività didattica, oppure di norme e orientamenti proposti come applicazione di concetti e principi di origine teorica. Spesso questi ultimi erano utilizzati per spiegare o legittimare esperienze ben riuscite. Recentemente il quadro è abbastanza mutato. Due tendenze sembrano emergenti: la prima di natura scientifica, l’altra tecnologica. L’approccio scientifico alla didattica della m. è stato propugnato soprattutto in Francia, dove un ruolo non indifferente in questa direzione è stato svolto da vari Centri di ricerca presenti in Istituti Universitari e in collaborazione con insegnanti di scuola primaria e secondaria. Si è voluta impostare tale disciplina come una scienza autonoma, con suoi peculiari oggetti di ricerca e specifiche metodologie di indagine. Il sistema concettuale o quadro teorico di riferimento non è così derivato da altre​​ ​​ discipline o campi di investigazione, ma è originale e, per dirla alla Feyerabend, incommensurabile con i quadri concettuali di discipline anche prossime, come la​​ ​​ psicologia dell’educazione o la​​ ​​ pedagogia istituzionale. Sono stati così sviluppati in modo originale apparati teorici di notevole interesse (Brousseau, 1986). La seconda tendenza vede la didattica della m., come del resto la didattica delle altre discipline, come un «engineering», cioè una mediazione tecnologica e sociale tra le scienze dell’educazione, la m. e le discipline a essa correlate (come la storia della m., l’epistemologia della m., ecc.), e l’azione concreta di insegnamento (Freudenthal, 1978). Il carattere di mediazione implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo didattico, e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto e alle stesse scienze sia dell’educazione, sia matematiche.

2.​​ La concezione della m.​​ È stato spesso evidenziato il ruolo che ha nell’impostazione dell’azione di insegnamento della m. la concezione che di questa hanno sia il docente che lo studente. È stato elaborato da Pellerey (1983) un quadro di riferimento a due dimensioni che consente di esplorare e descrivere tali concezioni. La prima dimensione contrappone una concezione formale a una sostanziale dei vari concetti e procedimenti. La seconda, considera su polarità opposte una concezione descrittiva e una costruttiva delle differenti conoscenze. Ne derivano quattro quadranti. Il primo riguarda una concezione formale e descrittiva: la m. è vista come una scienza già formata e caratterizzata dai suoi aspetti formali. Nel secondo quadrante la m. è concepita come una scienza che ognuno deve ricostruire personalmente approfondendo i significati dei suoi vari elementi costitutivi. Il terzo quadrante si riferisce a processi costruttivi di abilità solo formali mediante esercizi graduati ed esecuzione accurata di algoritmi. Nel quarto quadrante la m. esiste già fuori di noi ben ordinata nella sua organizzazione concettuale, a noi basta scoprirne le varie componenti e i differenti significati.

3.​​ Gli ostacoli epistemologici.​​ Uno dei concetti introdotti dalla scuola francese che ha avuto un buon riscontro empirico è quello di ostacolo epistemologico. G. Bachelard ha introdotto tale concetto definendolo come una pre-comprensione che impedisce l’accesso delle conoscenze a uno status scientifico. Un campo di ricerca, secondo tale filosofo, diviene scienza solo dopo che siano stati superati tutti i suoi ostacoli epistemologici. Per Bachelard la m. per sua natura è priva di questi ostacoli, ma se si riconosce a questa disciplina uno statuto più empirico, allora occorre tenerne conto. È questa la tendenza sviluppatasi a partire dalle indicazioni epistemologiche di I. Lakatos (1976), che considerava la m. come una scienza quasi-empirica. Nell’ambito didattico un ostacolo epistemologico può quindi essere concepito come un complesso di difficoltà concettuali connesse con una teorizzazione non adeguata. Gli errori ripetuti sistematicamente ne possono essere un segnale, in quanto sono il risultato del sistema concettuale dello studente, delle sue intuizioni, dei modi di affrontare i problemi in genere o in particolari ambiti di studio. Il compito dell’insegnante sta nell’aiutare lo studente a prender coscienza delle sue concezioni inadeguate, a scoprirne le inconsistenze o le conseguenze errate e, quindi, a superarle. Diventano perciò necessari interventi didattici mirati e convenientemente strutturati, pena la permanenza di concezioni inadeguate e conseguenti incomprensioni ed errori.

4.​​ La costruzione delle conoscenze matematiche.​​ Si è abbastanza concordi oggi nel sostenere che le conoscenze matematiche possono essere acquisite in maniera significativa, stabile e fruibile solo se il soggetto viene impegnato attivamente nel costruirne i significati concettuali e le abilità procedurali. Le differenze di posizione riguardano i contesti in cui tale costruzione si svolge. Il costruttivismo radicale, detto anche endogeno, che deriva in ultima analisi dalle teorie piagetiane, afferma che ciascuno costruisce il proprio sapere interagendo con l’ambiente e il risultato di questa costruzione ha caratteri pronunciati di soggettività. Il costruttivismo esogeno si appoggia al concetto di apprendistato cognitivo e valorizza il ruolo di un modello che esplicita i processi implicati nell’apprendimento e nel pensiero matematico e guida poi l’acquisizione di tali processi mediante un esercizio prima seguito e corretto da vicino, poi sempre più autonomo. Il costruttivismo dialettico o sociale punta invece sul ruolo della discussione e del confronto interpersonale nello sviluppo di significati e di metodi di lavoro. I tre citati approcci al costruttivismo (endogeno, esogeno e dialettico) possono essere opportunamente valorizzati al fine di garantire la significatività e la stabilità degli apprendimenti.

5.​​ L’atteggiamento verso la m.​​ La m. costituisce tradizionalmente per molti allievi una sorgente di ansia e di paura. Un atteggiamento negativo verso la m. può emergere abbastanza presto nel corso dell’esperienza scolastica. Varie ricerche hanno messo in risalto come già in terza elementare emergano segni di tensione. Le esperienze cognitive ed emozionali connesse con l’incomprensione e con l’insuccesso stabiliscono a poco a poco una percezione di sé negativa sia per quanto riguarda la propria capacità, sia per quanto concerne le attese future. Ne consegue una caduta motivazionale e un conseguente minor impegno nello studio, cosa che a sua volta rinforza non solo la paura dell’insuccesso, ma anche il suo verificarsi. Si spiega così come tutte le indagini sia nazionali, sia internazionali abbiano evidenziato un progressivo calo di interesse e di atteggiamento positivo fino a raggiungere per una elevata percentuale di soggetti un vero e proprio rifiuto psicologico. Ne consegue la necessità di impostare progetti didattici che tengano maggiormente in conto questa dimensione dell’apprendimento matematico.

Bibliografia

Lakatos L,​​ Proofs and refutations,​​ the logic of mathematical discovery,​​ Cambridge, Cambridge University Press, 1976; Freudenthal H.,​​ Weeding and sowing. Preface to a science of mathematical education,​​ Dordrecht, Reidel, 1978;​​ Pellerey M.,​​ Per un insegnamento della m. dal volto umano,​​ Torino, SEI, 1983; Id.,​​ Esplorazioni di m.,​​ Milano, Mursia,​​ 1985; Id., «Mathematics instruction», in T. Husen - T. N. Postlethwaite,​​ International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon, 1985, 3246-3257;​​ Brousseau G.,​​ Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques,​​ in «Recherches en Didactique des Mathématiques»​​ 7 (1986) 2, 33-115;​​ Pellerey M., «Didattica della m. e acquisizione delle conoscenze e delle competenze matematiche», in M. Laeng et al.,​​ Atlante della pedagogia,​​ vol.​​ 2.​​ Le didattiche,​​ Napoli, Tecnodid, 1991, 205-232; Resnick L. B. - W. W. Ford,​​ Psicologia della m. e apprendimento scolastico,​​ Torino, SEI, 1991; Artigue M. et al.​​ (Edd.),​​ Vingt ans de didactique des mathématiques en France,​​ Grenoble, La Pensée Sauvage, 1994;​​ D’Amore B.,​​ Didattica della m., Bologna, Pitagora, 2001; Id.,​​ Didattica della m. e processi di apprendimento, Ibid., 2004; Zan R.,​​ Difficoltà in m., Milano, Springer, 2007.

M. Pellerey




DIDATTICA DIFFERENZIALE

 

DIDATTICA DIFFERENZIALE

La ricerca di procedure e di programmi organici di insegnamento / apprendimento che intendono affrontare le situazioni di «diversità» individuale all’interno della classe è oggetto della d.d., indicata in altri contesti come «insegnamento individualizzato» (individualized instruction)​​ o «adattamento dell’insegnamento alle differenze degli studenti» o «insegnamento in una classe eterogenea» o «insegnamento con presenza di portatori di​​ ​​ handicap nelle classi regolari» o «educazione speciale» nel caso in cui si pensa ad un trattamento speciale per situazioni specifiche.

1. La preoccupazione di adattare le procedure di​​ ​​ insegnamento alle difficoltà e alle esigenze individuali era già presente nell’antico oriente e in diversi momenti della storia della scuola. Tuttavia una ricerca del 1989 condotta in 8 nazioni rilevava che solo 1 insegnante su 20 ricorreva molto spesso durante l’anno ad una istruzione individualizzata (​​ individualizzazione). L’idea di accomodare la pratica didattica alle peculiari esigenze di ogni studente ha assunto oggi una tale rilevanza da essere ritenuta da molti insegnanti una delle principali risorse a disposizione della scuola per affrontare un duplice problema: elevare lo​​ standard​​ dell’apprendimento in risposta agli alti livelli di sviluppo della società e fornire a tutti uguali opportunità di formazione e istruzione Vari fattori hanno concorso a rendere attuale l’idea fra gli studiosi delle scienze dell’educazione: l’apprendimento delle conoscenze sulle diversità individuali di intelligenza, di capacità, di stili cognitivi e di livelli motivazionali con i quali gli studenti affrontano l’apprendimento, l’espansione del fenomeno della «multiculturalità» nella maggior parte delle società occidentali, la crescente diffusione di scelte di ordine culturale e politico a favore della piena inclusione nelle classi regolari di individui con particolari deficit di apprendimento, ma anche l’attenzione, seppure limitata, a coloro che mostrano speciali qualità. Tutti questi fattori e il loro intrecciarsi hanno dato origine a categorizzazioni esemplari di studenti: superdotati, normodotati, con ritardo mentale leggero, con ritardo mentale grave o portatori di handicap, ansiosi, con un basso / alto concetto di sé, demotivati, con una incapacità appresa, con motivazione intrinseca / estrinseca, a rischio, aggressivi o violenti, integrati o no con i loro compagni, con un rendimento sotto le reali possibilità (under achievement),​​ ecc.

2. La presenza di una grande varietà di tipologie di studenti nella stessa classe (o scuola) ha portato molti a cercare una risposta adeguata. Le soluzioni sono state diverse. Corno e Snow (1986) categorizzano le risposte a due livelli: macro-adattamenti e micro-adattamenti dell’insegnamento. Nei primi possono essere compresi programmi vasti e complessi come il​​ ​​ mastery learning,​​ l’IGE (Individually Guided Education)​​ e l’ALEM (Adaptive Learning Environment Model).​​ Nei secondi rientrano strategie che intendono venire incontro a particolari difficoltà o problemi da parte degli insegnanti (formazione di gruppi secondo i livelli di abilità, assegnazione di compiti diversificati, strutturazione dell’aula e dell’insegnamento compatibile con diversi stili cognitivi, adattamento agli interessi e motivazioni degli studenti attraverso contratti stabiliti tra studenti e insegnanti, attenzione al ritmo di apprendimento di ciascuno, uso di programmi computerizzati). Corno e Snow, oltre ad indicare le diverse strategie possibili per affrontare le differenti esigenze, sottolineano anche l’utilità di alcuni criteri valutativi per verificare l’efficacia di qualsiasi soluzione venga intrapresa per affrontare il problema: a) con le strategie e i programmi che vengono utilizzati sono raggiunti gli scopi dell’istruzione con particolare riferimento a quelli che sono in maggior difficoltà? b) le soluzioni intraprese mantengono o producono differenze per quanto riguarda acquisizione, transfer e arricchimento nell’apprendimento? c) vi sono studenti che si trovano a disagio per i programmi che vengono attuati?

Bibliografia

Corno L. - R. E. Snow, «Adapting teaching to individual differences among learners», in M. C. Wittrock (Ed.),​​ Handbook of research on teaching,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 605-629; Wittrock M. C. (Ed.),​​ Handbook of teaching research,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 630-647; Masters L. F. - B. A. Mori - A. A. Mori,​​ Teaching secondary students with mild learning and behavior problems. Methods,​​ materials,​​ strategies,​​ Austin, Pro-Ed.,​​ 21993; Dunn R. et al.,​​ A meta-analytic validation of the Dunn and Dunn model of learning-style preferences,​​ in «Journal of Educational Research» 88 (1995) 353-362; Villa R. A. - J. S. Thousand,​​ Creating an inclusive school,​​ Alexandria, Association for Supervision and Curriculum Development, 1995.

M. Comoglio




DIDATTICA SPECIALE

 

DIDATTICA SPECIALE

Processo attraverso il quale l’itinerario formativo definito per rispondere ai bisogni, alle potenzialità, alle peculiarità dei soggetti in situazione di​​ ​​ handicap e di grave svantaggio socio-culturale trova attuazione concreta in specifiche sequenze di apprendimento.

1. L’evoluzione storica del concetto di d.s. è strettamente connessa a quella dell’​​ ​​ educazione speciale. All’approccio sensista di Itard segue la visione più mirata allo sviluppo intellettuale di Séguin. Soltanto con​​ ​​ Montessori viene superata la concezione medico-assistenzialistica e si giunge alla centralità di un alunno da educare attraverso un itinerario didattico rispondente ad uno sviluppo mentale che procede per fasi (anticipazione dei concetti di assimilazione e accomodamento che saranno successivamente sperimentati e teorizzati da​​ ​​ Piaget). L’alunno handicappato, proprio in quanto presenta un’evoluzione in cui determinati stadi assumono carattere patologico o non sono ancora presenti e / o superati, necessita di un approccio didattico specialistico. Tali teorie intorno all’handicap trovano piena attuazione in una struttura scolastica che si configura come scuola speciale e classe differenziale in cui «alla diversità» viene data una specifica risposta didattica. Questa concezione della d.s., presente all’inizio del sec. XX nei laboratori protetti e nelle scuole ad indirizzo didattico differenziato, si può tuttora riscontrare nei sistemi scolastici di molti Paesi dove la scolarizzazione avviene in condizioni di completa o parziale separatezza.

2. In Italia l’inserimento degli alunni normali nella scuola comune, disposto dalla L. 517 del 4 agosto 1977, è pienamente consolidato nella scuola dell’infanzia e in quella dell’obbligo. Più complesso appare il processo d’integrazione nella scuola secondaria superiore, dove i percorsi didattici e l’organizzazione della struttura scolastica assumono configurazioni molto differenti rispetto alla scuola di base. In stretto riferimento con la pedagogia della differenza, la d. non si riferisce a percorsi standard da utilizzare in base alle tipologie dell’handicap, ma assume il carattere della risposta concreta ad un diritto allo studio che diviene diritto all’apprendimento, vale a dire diritto a ricevere la prestazione didattica più rispondente ai propri bisogni personali. Conseguentemente la prestazione didattica è connotata dalla flessibilità e dalla modularità e si situa in un contesto progettuale intenzionale e scientificamente valutabile. Con la L. 104 del 5 febbraio 1992 il processo di integrazione, inteso secondo questa prospettiva, raggiunge piena significazione in quanto appare ben chiaramente delineata la struttura organizzativa che si presta ad accogliere, inserire, integrare gli alunni handicappati. I percorsi didattici, pertanto, poggiano su una base razionale che pone i suoi punti di forza nel profilo dinamico funzionale (lettura dei requisiti d’ingresso e delle potenzialità residue) e nel piano educativo individualizzato (sottosistema progettuale nel sistema progettuale della scuola e della classe).

3. In tale contesto la d.s. non è percorso di semplice socializzazione «in presenza», non è percorso di omologazione, è percorso di «normalizzazione», intesa come potenziamento delle «aree sane» per compensare i deficit e le compromissioni. Progettazione ed attuazione di questi percorsi didattici non costituiscono competenza esclusiva dell’insegnante di sostegno, ma sono prerogativa di un intero gruppo docente, dove le conoscenze e le capacità specialistiche sono al servizio di un’intera comunità scolastica in cui vanno sempre più emergendo nuove «diversità» generate dal carattere complesso e conflittuale della società contemporanea.

Bibliografia

Canevaro A.,​​ Handicap e scuola,​​ Roma, NIS, 1983; Cancrini L.,​​ Bambini diversi a scuola,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1991; Trisciuzzi L.,​​ Manuale di d. per l’handicap,​​ Bari, Laterza, 1993; Vico G.,​​ Handicap,​​ diversità,​​ scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1994.

A. Augenti