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DIAGNOSI / DIAGNOSTICA

 

DIAGNOSI / DIAGNOSTICA

Sintesi critica di informazioni su una​​ ​​ personalità, organizzate in funzione di categorie (per es. nosografiche) connesse con la programmazione di un intervento.

1. La d. medica, archetipo a cui dialetticamente si riferiscono altri tipi di d., ha come scopo principale identificare la malattia che affligge il paziente, riferendosi a un sistema di categorie noto («nosografia»). Per analogia, la d. psicologica si propone di sintetizzare le informazioni sulla personalità di un individuo inquadrandole in sistemi pertinenti, che si riferiscano a disturbi mentali (cfr. la più recente edizione del​​ Diagnostic and statistical manual of mental disorders),​​ oppure a categorie anche non patologiche, ma desunte dalla​​ ​​ psicologia evolutiva, dalla psicologia dinamica o da teorie o cognitive. Nella d. psicologica in età evolutiva ha un peso fondamentale l’esame delle relazioni con la famiglia e con l’ambiente e della capacità del bambino di svolgere adeguatamente le funzioni tipiche della sua età. La d. educativa e didattica si propone finalità analoghe, anche se le categorie di riferimento sono assai meno rigidamente codificate.

2. La raccolta delle informazioni nel suo insieme va pianificata in modo da raccogliere dati sufficienti sia per inquadrare i fenomeni abnormi, patologici, sia per operare distinzioni esatte fra categorie diverse («d. differenziale»), sia per progettare un intervento, estendendosi quindi all’individuazione di aspetti sani su cui fare forza. Gli strumenti principali della d. sono l’osservazione diretta, il​​ ​​ colloquio con la persona e con persone che la conoscono bene, i​​ ​​ test. Ciascuno di questi strumenti fornisce informazioni non ottenibili con gli altri e comporta distorsioni diverse: l’osservazione dipende molto dalle situazioni, il colloquio dalle capacità referenziali di chi risponde, i test possono essere scelti in modo non appropriato e avere carenze di validità.

3. La sintesi dei dati raccolti, in genere numerosi, richiede tutta l’«arte» e l’esperienza dell’operatore, e comporta sia applicazioni psicometriche (per es. il riferimento a «norme statistiche» che definiscano operativamente la normalità), sia considerazioni etiche ed epistemologiche. Tra queste ultime, è stata segnalata la non ovvietà della definizione di «normalità»: per es. è «normale» il livello di prestazione offerto dalla media del campione, o è «normale» l’assenza di disturbi? o forse si deve pensare che la normalità sia la piena realizzazione delle potenzialità del soggetto? Già da vari anni sono apparsi programmi computerizzati che si pongono come sussidio per la d. medica e psicologica, anche se le prove della loro validità lasciano ancora a desiderare. La sintesi diagnostica è anzitutto un processo mentale con cui l’operatore chiarisce il problema diagnostico a se stesso. La comunicazione all’interessato, o a chi per lui, è un problema successivo e distinto.

Bibliografia

Rapaport D. - M. M. Gill - R. Schafer,​​ Diagnostic psychological testing,​​ New York, International Universities Press, 1968 ; Korchin S. J.,​​ Modern clinical psychology,​​ New York, Basic Books, 1976; Saraceni C. - G. Montesarchio,​​ Introduzione alla psicodiagnostica,​​ Roma, NIS, 1988;​​ Diagnostic and statistical manual of mental disorders,​​ Washington D.C., American Psychiatric Association,​​ 41994; Codispoti O. - P. Bastianoni,​​ La d. psicologica in età evolutiva, Roma, Carocci, 2002.

L. Boncori




DIALETTICA

 

DIALETTICA

Termine logico-filosofico, relativo al momento discorsivo della ragione, con varie applicazioni in​​ ​​ educazione e in​​ ​​ pedagogia.

1. Dal greco​​ dialektikè téchne​​ (arte del ragionare, del discutere), la d. ha assunto notevoli diversificazioni di significato nel corso del pensiero filosofico. Così ad es. per​​ ​​ Platone la d. designa il movimento dell’anima che dall’esperienza sensibile mutevole ascende di grado in grado alla verità ideale immutabile (= d. ascendente) e da essa ritorna alle cose (= d. discendente). Similmente l’idealismo ottocentesco e il neoidealismo del nostro secolo tentano di ricondurre la frammentarietà e la contraddittorietà del reale umano e storico alla logicità e all’assolutezza dello Spirito assoluto per via d. di tesi, antitesi e sintesi. Rispetto ad essa si pone, come d. «rovesciata», la d. marxista che dalle contraddizioni materiali storiche muove all’impegno del cambiamento rivoluzionario del sistema economico-politico. Pure contro il panlogismo hegeliano si pone la d. esistenziale di S. Kierkegaard, che rispetto all’intrinseca insostenibilità della vita estetica (incarnata nel Don Giovanni) e della vita etica (incarnata nel padre di famiglia) non vede che «il salto nel buio» della vita di fede (incarnata nella figura di Abramo). In altri, come in​​ ​​ Aristotele e​​ ​​ Kant, rimane fondamentalmente come tecnica della confutazione e modo di argomentare che urge le contraddizioni logiche di idee, concetti, modi di vedere la realtà.

2. In linea con quest’ultimo ambito di significato, la d. si pone come un aspetto dell’educazione intellettuale, relativamente allo sviluppo delle capacità logiche, critiche ed argomentative. In senso più largo, vale a dire in quanto ricerca del vero, tensione all’uno ed apertura al giusto e al bello, essa può essere fatta rientrare nel processo di sviluppo personale come attenzione autoformativa al senso del limite e al superamento di esso. Più specificamente la d. è vista come una componente della​​ ​​ relazione educativa, in cui sono spesso presenti tensioni non facilmente componibili neppure con il dialogo e in prospettiva dinamica (​​ antinomie pedagogiche).

3. In pedagogia la d. si mostra nella tensione che spesso si ha tra essere e dover essere, tra fatto e valore, tra teoria e pratica, tra rilevazione dell’esistente e sforzo di prospettazione progettuale, tra domanda di formazione ed offerta educativa. In tal senso viene evidenziato il particolare carattere della logica e del discorso pedagogico e in qualche modo della pedagogia come scienza teorico-pratica.

Bibliografia

Verra V.,​​ La d. nel pensiero contemporaneo,​​ Bologna, Il Mulino, 1976; Cacciari M.,​​ D. e critica del momento,​​ Milano, Feltrinelli, 1978; Sichirollo L.,​​ D., Roma, Editori Riuniti, 2003.

C. Nanni




DIALETTO

 

DIALETTO

Il d. è inteso e definito dai sociolinguisti come una varietà geografica, storica e linguistica di una lingua nazionale (es. il piemontese rispetto all’it.).

1. Ruolo e valore storico.​​ La sua dimensione e il suo ruolo sono limitati nell’uso tanto individuale che sociale; esso è parlato generalmente da un individuo e / o da un gruppo in situazioni particolari, in un ambiente geo-sociale ben definito e tra membri della medesima comunità. Il suo ruolo limitato e limitativo lo ha fatto considerare generalmente dai sociolinguisti come una «lingua bassa» (low language),​​ contro la «lingua alta» (high language)​​ rappresentata da una lingua di uso nazionale e ufficiale («lingua standard»). Il valore storico, però, del d. può superare anche quello della lingua nazionale, in quanto ne rappresenta sia il codice più antico e preesistente sia, a volte, la matrice originaria della stessa lingua nazionale (come il toscano rispetto all’it.). Tale valore storico fa sì che il d. riassuma forme e contenuti culturali tradizionali, insiti nell’anima di una comunità di parlanti. Essendo la prima lingua generalmente parlata da un individuo, il d. sta spesso alla base del pensiero e del sentimento di un individuo dialettofono. Da qui l’accresciuta tendenza, in tempi recenti, a ricuperare i d. anche attraverso lo studio storico e scientifico: donde una specifica disciplina denominata dialettologia.

2.​​ Valore educativo del d.​​ Il valore storico-culturale del d. – come, del resto, di qualsiasi lingua minoritaria o «etnica» – ha riscosso in questi ultimi anni l’attenzione giustificata dei pedagogisti, al fine di ricuperarne la funzione formativa nell’ambito della cosiddetta «educazione linguistica di base». Il d. diventa così il punto di partenza di ogni sviluppo ulteriore della competenza linguistica e comunicativa fin dalla scuola dell’infanzia. La riflessione più o meno sistematica sulla struttura e sulle funzioni, oltre che sulla storia e sulle valenze socioculturali, del d. parlato fin dall’infanzia dal bambino, anziché ostacolare l’acquisizione e lo sviluppo della competenza nella lingua standard, tende a produrre una capacità di approfondita riflessione analitica sui concetti universali delle lingue e, conseguentemente, un grado notevole di sviluppo delle cosiddette «abilità metalinguistiche». Il risultato è stato non soltanto uno sviluppo più elevato delle capacità di natura specificatamente linguistica, ma anche una trasposizione delle accresciute abilità cognitive ad altri settori del​​ ​​ curricolo scolastico, come la matematica e le scienze. Pertanto, non solo l’apprendimento precoce di una lingua straniera, ma anche di una lingua minoritaria, come il d., può costituire un forte stimolo e sostegno alla formazione delle competenze linguistiche e cognitive in generale. Se è vero che «si educa il linguaggio mediante la lingua» (ossia, si arricchisce e si perfeziona la capacità di verbalizzazione e comunicazione – «linguaggio» – mediante l’assimilazione cosciente di un sistema linguistico storicamente e socialmente valido – «lingua»), anche il d. non può essere escluso da tale processo di valorizzazione.

Bibliografia

Rohlfs G.,​​ Studi e ricerche su lingua e d. d’Italia,​​ Firenze, Le Monnier, 1972; De Mauro T.,​​ Storia linguistica dell’Italia unita,​​ Bari, Laterza, 1974; Grassi C.,​​ Elementi di dialettologia italiana,​​ Torino, UTET,​​ 21982; Titone R.,​​ Educare al linguaggio mediante la lingua,​​ Roma, Armando, 1985; Nero S. J.,​​ Dialects,​​ Englishes,​​ Creoles,​​ and education,​​ Mahwah (NJ), Erlbaum, 2006.

R. Titone




DIALOGO

 

DIALOGO

Il termine, dal gr.​​ lógos​​ (parola, discorso) e​​ diá​​ (preposizione che designa il passaggio attraverso qualcosa, o anche il movimento da un punto ad un altro), significa l’andare e tornare della parola tra due o più interlocutori, il colloquiare. La freddezza concettuale di questa informazione etimologica non esprime tuttavia la ricchezza che, nell’esperienza umana, comporta il d. nel suo significato più denso.

1. Nel sec. XX la filosofia esistenziale, nella sua versione appunto dialogica, ha messo in luce soprattutto le dimensioni personalistiche del d., riconoscendo in esso uno dei momenti essenziali del rapporto io-tu (​​ Buber). In questa prospettiva il d. viene inteso come un uscire dell’io da se stesso nella parola (verbale o gestuale) e mediante essa andare verso il tu, per consegnarsi a lui e a sua volta accogliere la sua parola e in essa la sua stessa intimità. La dinamica dialogale può essere anche pensata e realizzata in senso inverso, a partire dal tu. In ogni caso si vedono già in questa concezione emblematica quali siano le principali caratteristiche e condizioni del d.: coscienza della propria identità, ma anche consapevolezza del proprio limite; apertura fiduciosa e piena di rispetto verso l’altro; capacità di donazione e di accoglienza reciproca. Visto così, il d. si presenta come una possibilità, anzi come una necessità per la formazione dell’identità soggettiva, della relazione interpersonale e della comunitarietà sociale. In tal senso, oltre che al d. interpersonale (e al d. interiore con se stessi) è da pensare al d. sociale, culturale, politico, religioso, e specificamente a quello ecclesiale. Ognuno di essi ha delle connotazioni proprie.

2. Circa il d. ecclesiale si deve rilevare che la Chiesa cattolica ha fatto dei passi notevoli negli ultimi decenni da tale punto di vista. Mentre infatti essa si era ritenuta da secoli, nell’esercizio del suo​​ ​​ Magistero, quale «Madre e Maestra», e quindi in qualche modo proprietaria esclusiva della verità e perciò anche col diritto di insegnarla agli altri, a partire da Paolo VI, che nell’Enc.​​ Ecclesiam suam​​ (1963) dedicò un’ampia riflessione al tema del d., cominciò a cambiare profondamente il suo atteggiamento. Così il Concilio Vaticano II dichiarò apertamente, nella Costituzione pastorale​​ Gaudium et Spes,​​ di voler dialogare con la famiglia umana, apportando ciò che la Chiesa ha di più originale, e cioè la luce che il Vangelo proietta sui problemi e sugli interrogativi umani, ma accogliendo a sua volta dal mondo le luci da esso offerte (GS​​ nn. 3.44). Su questa necessità di dialogare con gli altri uomini, credenti o no, con le loro idee e sensibilità, con il loro modo di vedere le cose e con le loro impostazioni di vita ritornò il Concilio molte volte, sia parlando della formazione e del ministero dei presbiteri (OT n.​​ 19;​​ PO​​ n. 12d), che riferendosi all’attività dei laici (AA​​ nn. 14b.17b.31a)​​ o all’attività missionaria (AG​​ nn. 11b.12a.34.38g) o ancora all’​​ ​​ ecumenismo (UR​​ n. 11e). Da allora in poi questo atteggiamento andò guadagnando terreno e acquistando maggior forza e concretezza. Uno dei punti più alti in questo cammino lo si ritrova nell’Esortazione Apostolica​​ Evangelii Nuntiandi​​ (1975), in cui Paolo VI propose, come modalità-chiave dell’annuncio evangelico, l’inculturazione, e cioè il d. serio e sincero con la cultura (in senso antropologico) e con le culture dell’uomo contemporaneo (EN n.​​ 20).

3. Nell’ambito educativo, e in quello prettamente scolastico, si deve sottolineare l’importanza che il d. ha dal punto di vista metodologico (Stefanini, 1954). Si può dire che un pregio particolare, pure se non esclusivo, dell’​​ ​​ educazione liberatrice è proprio l’essersi proposta come obiettivo la formazione dell’educando all’autodeterminazione e, in questo contesto, l’aver propugnato un’educazione «aperta al d.» (Medellín​​ 8c). In tale modo viene superata quella concezione secondo cui solo l’educatore educa, mentre l’educando sarebbe solo oggetto di educazione, e viene sostituita da quella secondo cui tutti sono educatori ed educandi, ognuno secondo la propria condizione (P. Freire). Educare implica, quindi, intavolare un d. con gli educandi, ricercando insieme con essi la verità. Una ricerca nella quale l’educatore, senza lasciare da parte la propria identità, offre la sua esperienza e le sue conoscenze agli educandi, ma è anche aperto e disponibile ad accogliere quanto essi stessi apportano e ad arricchirsi con il loro contributo. Educare implica inoltre formare gli educandi alla capacità di dialogare con le persone in quanto tali, accogliendole, rispettandole e contribuendo alla loro realizzazione; ma anche ad avere una sempre maggiore disponibilità, nell’ambito dell’educazione umana generale, a mettere in d. rispettoso e sincero le proprie idee con le idee degli altri, le proprie convinzioni con le convinzioni degli altri, le proprie credenze con le credenze degli altri e, nell’ambito dell’​​ ​​ educazione cristiana, a stabilire un corretto d. tra la fede e la scienza, e tra la fede e la cultura.

Bibliografia

Stefanini L.,​​ La scuola del d.: interrogazione ed esame,​​ in «La Scuola Secondaria» 3 (1954) 4-5, 4-17; Delhaye Ph.,​​ D. Chiesa-mondo secondo la «Gaudium et Spes»,​​ Assisi, Cittadella, 1968; Freire P.,​​ L’educazione come pratica della libertà,​​ a cura di L. Bimbi, Milano, Mondadori,​​ 21974;​​ Jiménez Ortiz A.,​​ Por los caminos de la increencia. La fe en diálogo,​​ Madrid,​​ CCS, 1993; Agazzi E. et al.,​​ Dall’Areopago a Internet: quale d. nella società globalizzata?, Milano, In Dialogo, 2002; Jacobucci M.,​​ I nemici del d. Ragioni e perversioni dell’intolleranza, Roma, Armando, 2005.

L. A. Gallo