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DISCIPLINA

 

DISCIPLINA

Si può dire che la polisemicità del termine, come rilevò già​​ ​​ Comenio, è presente nelle sue origini e uso latini (disciplina:​​ istruzione-ammaestramento, metodo-arte, materia scolastica). Oltre a quello di specifico ambito scientifico, in pedagogia i significati più comuni sono quello di materia scolastica (​​ discipline), di insieme di mezzi, norme e metodi cui adeguarsi per raggiungere determinati obiettivi, e, come effetto del precedente, quello di modo di comportarsi, secondo regole imposte o accettate.

1. Qui interessano gli ultimi due, prevalenti nelle lingue straniere; storicamente (prescindendo dal significato ascetico di penitenza corporale) il concetto di d. è stato collegato, in particolare, alla vita scolastica, che richiedeva, con frequenza, il ricorso a​​ ​​ premi e​​ ​​ castighi, regolati, più recentemente, da disposizioni di legge, per ottenere o mantenere coattivamente un ordine esterno, con cui, spesso, la si è identificata. Si può dunque parlare di un suo versante​​ oggettivo,​​ nel primo dei due sensi in questione (meno interessante educativamente), e di uno​​ soggettivo,​​ nell’altro. Sotto il profilo pedagogico, un’attenzione alla d. è presente fin dall’antichità presso gli autori più significativi, in un senso che privilegia le modalità da seguire, da parte degli educatori, per raggiungere determinati obiettivi, non limitati all’apprendere, ma da estendere prioritariamente al campo morale, in cui si colloca il significato soggettivo della d., che così fuoriesce dagli angusti confini della scuola. Fine della d. non è dunque un ordine esterno, per lo più imposto, bensì un perfezionamento del soggetto. In questa linea, più e meno esplicitamente, si sono mossi i classici della pedagogia, da Comenio, che alla d. dà molta attenzione, a​​ ​​ Locke, a​​ ​​ Herbart, alle​​ ​​ Scuole Nuove e ai pedagogisti contemporanei. Nessuno di loro tralascia l’istanza di un ordine esterno, ma non lo enfatizzano e, comunque, lo iscrivono, almeno a partire dal sec. XIX, all’interno del rapporto tra​​ ​​ autorità e​​ ​​ libertà, inteso in senso ampio, anche sociale e familiare, proprio per preservarne l’educatività.

2. Nel discorso sulla d. vanno richiamate le differenze di ruolo dei protagonisti (educatore, educando, ambiente) in rapporto ai due sensi suindicati e le principali letture che, dell’uno o dell’altro, sono state fatte. Anzitutto i mezzi, i metodi e norme, la dimensione oggettiva della d., sono scelti e decisi solitamente, dall’autorità, che, a volte, si identifica con l’educatore, a volte con governanti (donde le conseguenze giuridiche) o, infine, con tradizioni e costumi locali. In questi casi per l’educando, il tutto sa di imposizione e, facilmente, dà luogo a un rigetto. Quanto all’aspetto soggettivo, cioè al modo di comportarsi, esso dipende, solidalmente, sia dall’autorità che dalla libertà. Dalla prima, perché vi influisce più e meno pesantemente (con le paure che può ingenerare, con l’imposizione, con l’esempio, con ragionamenti...); dalla seconda, in quanto l’interiorizzazione o meno delle norme è una scelta del soggetto, in base a motivazioni. Questi richiami, sul piano dell’educazione, fanno spazio ad altre due letture del fenomeno d., oltre a quella pedagogica: la psicologica e la sociologica. a) La lettura​​ psicologica,​​ che intende interpretarne il senso soprattutto in rapporto al soggetto-educando, è molteplice e variegata, secondo le differenti scuole psicologiche. Quelle di taglio psicoanalitico, specie freudiano, danno una lettura della d. piuttosto negativa, in quanto considerata come ordine esterno, sia pure interiorizzato. Quelle, invece, di tipo umanistico o analoghe, sono più ben disposte verso la d., almeno nel caso di un’assimilazione soggettivamente voluta, tenuto conto di una previa valutazione dei contenuti. b) La lettura​​ sociologica,​​ a sua volta, è pure differenziata secondo le scuole e gli orientamenti di fondo delle singole posizioni: da coloro che esaltano il ruolo delle società, tanto da vedere il singolo strettamente dipendente e come costretto da quelle (N. Elias, per es.); a coloro che, enfatizzando la funzione sociale della stessa educazione, vedono nella d. il «primo elemento della moralità», pur senza trascurarne la valenza e funzione sociale (​​ Durkheim, per es.).

3. Per concludere ancora in​​ chiave pedagogica,​​ è utile un richiamo alla​​ gradualità​​ della d., nelle sue manifestazioni, come nella sua acquisizione, e all’esercizio.​​ Sotto il profilo operativo sono da privilegiare l’osservazione, l’esempio e l’imitazione, il tentativo e la sua ripetizione, la responsabilizzazione, la motivazione, il controllo (esterno e personale) e la correzione. Alla d. va fatto ricorso con sensibilità e criterio, secondo i momenti, i soggetti e le circostanze, cercando di superare l’insensata contrapposizione tra il permissivismo e l’autoritarismo, che pure, nel corso della storia, hanno avuto rappresentanti e sostenitori risoluti, ancora nel sec. scorso.

Bibliografia

a)​​ Classici:​​ Herbart J. F.,​​ Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1997; Id.,​​ Compendio di lezioni di pedagogia,​​ Roma, Armando 1971; Komensky (Comenio) J. A.,​​ Novissima linguarum methodus,​​ in Id.,​​ Opera omnia,​​ vol. 15-II, Praga, Academia, 1989; Id.,​​ Grande didattica,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993. b)​​ Studi:​​ Seccet-Riou F.,​​ La discipline et l’éducation. Du dressage à l’autonomie,​​ Paris, Bourrellier, 1946; Durkheim É.,​​ L’éducation morale,​​ Paris, PUF, 1963;​​ Chamberlin L. J.,​​ Discipline: the managerial approach,​​ St. Louis, Torchlite, 1980; Elias N.,​​ La civiltà delle buone maniere,​​ Bologna, Il Mulino, 1982; Vico G.,​​ Educazione morale e pedagogia attivistica,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1983; Scurati C. (Ed.),​​ La d. nella scuola. Problemi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1987.

B. A. Bellerate




DISCIPLINE

 

DISCIPLINE

Contenuti di insegnamento organizzati sulla base dei campi di sapere di riferimento tenendo conto del livello scolastico e di maturità culturale dei destinatari. Letteralmente d. evoca i termini lat.​​ disco​​ (imparo) e​​ discipulus​​ (uno che impara, prende da un altro); ma l’uso fa riferimento anche allo sviluppo di capacità di gestione del pensiero, dell’​​ ​​ apprendimento in determinati campi del sapere e persino di padronanza del comportamento, della condotta morale e della vita personale.

1.​​ La trasposizione didattica.​​ È il processo di trasformazione operato da e in una istituzione che porta dai contenuti del sapere di riferimento, ad es. il sapere matematico, ai contenuti del sapere da insegnare, ad es. i programmi scolastici di​​ ​​ matematica, e da questi ai contenuti effettivamente insegnati, ad es. la​​ ​​ programmazione didattica di un corso di matematica. Il primo passaggio avviene in Italia in seno al Ministero della Pubblica Istruzione quando, attraverso il lavoro di commissioni ministeriali costituite a questo scopo, vengono definiti i contenuti di insegnamento per i vari ordini e gradi scolastici e la loro organizzazione interna. Dal confronto tra le posizioni degli specialisti universitari, depositari del sapere di riferimento, e quelle dei rappresentanti dell’istituzione scolastica (ispettori scolastici, presidi, direttori, insegnanti), vengono definiti in concreto le d. da insegnare e i loro contenuti. Il secondo passaggio avviene in seno alla singola scuola su proposta dei docenti delle varie d. ed è convalidato dal Collegio dei docenti. Si tratta di quella che è definita programmazione didattica. Sulla base dei​​ ​​ programmi scolastici ufficiali viene elaborato il piano di lavoro per l’anno scolastico in corso, selezionando e ordinando nella loro successione temporale i differenti contenuti, identificando gli obiettivi da raggiungere, i metodi di insegnamento e i modi di​​ ​​ valutazione. Si ha, infine, un ulteriore passaggio: il docente predispone situazioni didattiche concrete in cui gli allievi possano acquisire in maniera significativa e stabile le conoscenze proposte. Questa trasformazione è stata talora definita un’opera di «ingegneria didattica». D’altro canto, nell’attuazione del progetto di​​ ​​ lezione o di unità d’apprendimento entrano in gioco altri fattori trasformativi, come il sistema di relazioni interpersonali instaurato, il clima e l’ordine presente nella classe, lo stato motivazionale dell’insegnante e degli allievi.

2.​​ La vigilanza epistemologica.​​ La trasposizione didattica implica una trasformazione del sapere che comporta una sua istituzionalizzazione. Si tratta di un’operazione squisitamente «politica»: di qui il problema della sua legittimazione. In altre parole il sapere di riferimento subisce una duplice modificazione che può provocare un allontanamento non indifferente dal suo status epistemologico. Per evitare che questo porti a un suo travisamento occorre che a tutti i livelli venga messa in atto una costante vigilanza epistemologica, cioè un’azione continua di controllo della correttezza e sostanziale conformità di quanto proposto per l’insegnamento e di quanto elaborato dalla comunità scientifica. Ciò indica però anche l’apparizione sistematica di uno scarto tra sapere insegnato e i riferimenti culturali che lo legittimano, scarto dovuto ai vincoli che pesano sul funzionamento di un sistema di insegnamento (Arsac, 1992).

3.​​ La struttura delle d.​​ J. S. Bruner (1964, 1971) ha proposto un’idea di​​ ​​ curricolo basato sulle strutture portanti delle varie d. Il curriculum di una d. dovrebbe essere determinato dalla più essenziale comprensione possibile dei princìpi basilari che sorreggono la d. stessa. Ogni contenuto ha poi una sua struttura, coerenza, bellezza. Questa struttura è ciò che conferisce all’argomento la sua fondamentale semplicità, ed è apprendendo la sua natura che riusciamo ad afferrare il significato essenziale dell’argomento stesso. La struttura di una d., d’altra parte, è data dai suoi concetti chiave e dai suoi princìpi organizzatori, che, come tali, permettono d’inquadrare i vari dati dell’esperienza e le varie conoscenze in un quadro organico. In realtà sono proprio tali concetti e tali princìpi che consentono da una parte la comprensione della materia scolastica, dall’altra una sua ulteriore espansione. Inoltre sta proprio nell’acquisizione più per strutture, che per elementi isolati, la radice della possibilità di un’efficace ritenzione e di un valido transfer. Il concetto di struttura è stato visto da Bruner anche come organizzazione cognitiva, come mezzo per andare oltre l’informazione, per ritenere i dati nella memoria e per trasferire abilità apprese a situazioni nuove: è il principio secondo cui si apprende, si ritiene e si generalizza meglio il materiale che presenta un’organizzazione interna. Da tutto questo deriva che le d. possono e debbono essere considerate come insiemi strutturati di conoscenze, abilità che possiedono al loro interno, e anche in riferimento alla realtà esterna, sistemi di relazioni e di connessioni; questi insiemi strutturati formano le d. o campi di conoscenza. Tuttavia, occorre evitare di considerare questi insiemi come architetture statiche e cristallizzate. Di ogni insieme di concetti e di abilità può essere fornita più di una organizzazione sistematica, anche in settori che sembrano i più refrattari a questo pluralismo, come la matematica. Inoltre ogni campo della conoscenza è un organismo vivo e vitale, che cresce sia a causa di nuove conquiste, sia mediante una più profonda autocomprensione, cioè cogliendo meglio la propria identità. In una prospettiva sociologica si potrebbe affermare anche che le d. sono in realtà i gruppi di studiosi che si dedicano alla ricerca e alla sistemazione culturale in quei particolari settori.

Bibliografia

Bruner J. S.,​​ Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture,​​ Roma, Armando, 1964; Id.,​​ Verso una teoria dell’istruzione,​​ Ibid., 1971; Ausubel D. P.,​​ Educazione e processi cognitivi,​​ Milano, Angeli, 1978;​​ Arsac G.,​​ L’évolution d’une théorie en didactique: l’exemple de la transposition didactique,​​ in «Recherches en Didactique des Mathématiques»​​ 12 (1992) 1, 7-32; Damiano E.,​​ L’azione didattica: per una teoria dell’insegnamento,​​ Roma, Armando, 1993; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica,​​ Torino, SEI,​​ 21994; Gardner H.,​​ Sapere per comprendere. D. di studio e d. della mente, Milano, Feltrinelli, 2001; Monasta A.,​​ Organizzazione del sapere,​​ d. e competenze, Milano, Carocci, 2002.

M. Pellerey




DISCUSSIONE

 

DISCUSSIONE

La d. come mezzo per chiarificare un contenuto o manifestare le proprie opinioni ha trovato un’accoglienza in tutte le società con ideali democratici e pluralistici.

1.​​ Gli obiettivi educativi della d.​​ Gli obiettivi di un metodo d’insegnamento come la d. sono essenzialmente tre: a) rafforzare l’apprendimento; b) promuovere le abilità sociali necessarie per vivere in una società democratica; c) lo sviluppo del giudizio etico. Le ragioni dell’efficacia della d. dipendono dal fatto che si tratta di una situazione che comporta l’uso e il ricupero delle conoscenze previe, il possesso della terminologia, la capacità di sintesi e l’organizzazione macrosemantica dei contenuti, la capacità di stabilire connessioni tra conoscenze interne ai contenuti e tra queste e altre conoscenze esterne già possedute. La d. può anche esigere creatività o pensiero critico; in essa inoltre può essere necessario o stimolante vedere le conseguenze che possono derivare da certi principi o da certe assunzioni, oppure trovarvi applicazioni. In altri casi la d. può essere portata a cercare le assunzioni, i limiti e il confronto critico con altri valori, con altre assunzioni, con le ragioni che provano certe affermazioni, ecc. Oltre a migliorare le abilità cognitive, la d. può essere vista anche come procedimento valido a favorire lo sviluppo e l’integrazione del processo di​​ ​​ socializzazione delle generazioni più giovani. Sono molti oggi a ritenere che alla scuola non spetti più promuovere solo la componente cognitiva della personalità dei giovani, ma che ad essa debba essere affidato anche il compito di favorire la componente socio-relazionale per un inserimento significativo nella società attuale. Gli studenti sono educati al confronto delle idee senza paura o pregiudizi, alla dinamica dell’ascolto attivo degli altri, alla ricerca di soluzioni positive ai conflitti, ad apprezzare il contenuto logico di un’idea invece di avere un attaccamento cieco ed emozionale alle proprie «idee», ad assumere ruoli diversi. Un altro obiettivo significativo del metodo della d. è lo sviluppo del giudizio etico. Generalmente si ritiene che gli anni dell’​​ ​​ adolescenza e della giovinezza siano particolarmente critici per lo sviluppo del ragionamento etico nei​​ ​​ giovani. È questo infatti il periodo in cui essi cercano il senso e il valore delle cose e delle azioni, del pensiero e della vita, nel tentativo di dare un orientamento alla loro esistenza e un fondamento alle loro scelte. Nella d. su valori e orientamenti di vita è possibile giungere ad una valutazione critica dell’attendibilità o della profondità umana e sociale di atteggiamenti, comportamenti e scelte.

2.​​ Lo svolgimento della d.​​ Nella fase di preparazione della d. l’insegnante deve mettere in atto alcune «regole del gioco»: delimitare opportunamente l’argomento, tenere presenti alcune informazioni previe che possono essere molto utili, pianificare e classificare gli obiettivi del confronto, osservare che i partecipanti abbiano un minimo di abilità sociali e comunicative. Nella fase di svolgimento egli deve prestare attenzione a tre tipi d’interazioni tra i partecipanti che possono dar origine a tre forme o tipo di conduzione. Nella​​ d. diretta dall’insegnante,​​ è l’insegnante il punto di riferimento. La d., fortemente controllata da lui, segue lo stile di domanda-risposta. Nella​​ d. centrata sul gruppo,​​ ognuno si esprime liberamente con spirito di cooperazione e apprezzamento e con domande aperte. Qui l’insegnante resta fuori dal confronto ed è soltanto un osservatore. Nella​​ d. collaborativa,​​ il compito da realizzare costituisce l’obiettivo principale del gruppo. Tutti, compreso l’insegnante che si fa membro del gruppo, partecipano responsabilmente per trovare le soluzioni migliori ai problemi. Come nella fase iniziale della d. si definiscono gli orientamenti e i limiti entro i quali essa dovrà essere affrontata e svolta, così al termine si devono raccogliere in una sintesi i punti chiave generali. Il momento​​ successivo alla d.​​ costituisce la fase finale. Ogni d. deve essere rivista e valutata e il processo di valutazione deve essere considerato parte integrante della procedura. Il metodo della d. non è di difficile applicazione se l’insegnante saprà programmare uno sviluppo delle proprie competenze e di quelle degli allievi. Si richiede, però, l’obiettivo di risultati migliori da parte degli studenti, accompagnato da un atteggiamento riflessivo che aiuta a misurare continuamente la sua efficacia attraverso una costante valutazione.

Bibliografia

Wilen W. W. (Ed.),​​ Teaching and learning through discussion. The theory,​​ research and practice of the discussion method,​​ Springfield, Charles Thomas, 1990; Dillon J. T.,​​ Using discussion in classrooms,​​ Buckingham, Open University Press, 1994; Rabow J. et al.,​​ Learning through discussion,​​ Thousand Oaks, Sage,​​ 31994.

M. Comoglio




DISEGNO DELLE RICERCHE

 

DISEGNO DELLE RICERCHE

Progetto che definisce i campioni inclusi nella ricerca, le modalità di controllo e di misurazione delle variabili studiate e degli effetti, l’assegnazione dei trattamenti. Il d.d.r. si può definire come la schematizzazione del ragionamento in cui si formalizza l’indagine scientifica su un problema. Ad es., un ragionamento quale: «il rapporto tra la variabile dipendente y e le due variabili indipendenti​​ x1​​ e​​ x2​​ è una funzione lineare della somma tra una costante​​ b0, l’effetto della variabile indipendente x1​​ con peso​​ b1​​ e l’effetto della variabile​​ x2​​ con peso​​ b2,​​ più un insieme di fluttuazioni​​ e​​ dovute a errori casuali», si può sintetizzare in:

y = b0​​ +b1x1​​ + b2x2​​ + e.

1.​​ Fasi della ricerca.​​ Il momento iniziale della ricerca empirica solitamente è una ricerca sulla letteratura scientifica pertinente, che induce a focalizzare gli obiettivi della ricerca, a formulare ipotesi in termini operativi che ne consentano la verifica o la falsificazione, a identificare gli strumenti di misura più validi per il progetto. Segue la descrizione accurata delle variabili oggetto di studio, sia in riferimento a teorie sia in riferimento agli indicatori empirici su cui si baseranno le misurazioni. A questo punto può essere delineato il d.d.r., in rapporto a cui viene definito anche il d. della campionatura e sono scelti gli strumenti di misura e i test statistici appropriati.

2.​​ Controllo della variabile sperimentale.​​ Il d.d.r. controlla la variabile sperimentale per: a) ridurre l’effetto della «varianza erronea», cioè dell’insieme degli effetti imputabili al caso; b) escludere l’effetto di variabili importanti che possano interferire con la variabile studiata, distorcendo il significato dei risultati. Le decisioni sul grado e le modalità del controllo sono fondamentali. Il massimo controllo si ha negli esperimenti di laboratorio, in cui si esplicitano tutti i possibili aspetti della relazione fra​​ x e y,​​ incluso l’influsso del ricercatore. In questo caso è massima la «validità interna» del d., ma viene meno la «validità esterna», cioè la possibilità di generalizzare i risultati estendendoli a situazioni della vita reale. Nelle «ricerche sul campo» il controllo sulla validità interna è minimo, perché il ricercatore non può modificare la maggior parte dei fattori che influiscono sulla variabile sperimentale. È però massima la possibilità di generalizzare i risultati a situazioni analoghe di vita reale, e quindi è maggiore la «validità esterna».

3.​​ Tipologia dei d.d.r.​​ Per le​​ ​​ scienze dell’educazione sono particolarmente rilevanti le contrapposizioni fra d. che mirano prevalentemente a: a) ridurre la variabilità erronea («rumore di disturbo») o, viceversa, ad aumentare il «volume» dell’informazione, incrementando il numero dei casi esaminati; b) controllare la validità interna garantendo il rigore della connessione ipotesi-risultati o, viceversa, controllare la validità esterna privilegiando la generalizzabilità; c) esaminare simultaneamente più campioni (d. «trasversali»), guadagnando tempo, o viceversa sottoporre lo stesso campione a misurazioni ripetute a distanza di tempo (d. «longitudinali»), guadagnando predittività; d) verificare o falsificare ipotesi rigorosamente formulate, o viceversa privilegiare funzioni prevalentemente esplorative (ricerche descrittive e​​ surveys);​​ in quest’ultima categoria si possono includere i modelli di «ricerca-azione», che mirano prevalentemente alla messa a punto di modelli operativi.

Bibliografia

Kerlinger F. N.,​​ Foundations of behavioral research,​​ New York, Holt,​​ 21973: Ercolani A. P. - L. Mannetti - A. Areni,​​ La ricerca in psicologia, Roma, NIS, 1990; Luccio R.,​​ Ricerca e analisi dei dati in psicologia, 2 voll.,​​ Bologna, Il Mulino, 1996; McBurney D. H.,​​ Metodologia della ricerca in psicologia,​​ Ibid.,​​ 32001; Nigro G.,​​ Metodi di ricerca in psicologia, Roma, Carocci, 2001; Di Nuovo S.,​​ Fare ricerca. Introduzione alla metodologia per le scienze sociali, Acireale / Roma, Bonanno, 2003.

L. Boncori




DISEGNO INFANTILE

 

DISEGNO INFANTILE

I primi studi sul d. libero dei bambini risalgono alla fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. In questo periodo, si distinguono i contributi di C. Ricci (1887), di K. Lamprecht (1905), di​​ ​​ Claparède (1907), di G. Rouma (1912) e di G. H. Luquet(1913).

Le tappe di sviluppo del d.i. appaiono essere sorprendentemente costanti e riscontrabili in tutte le varie culture. Verso i due anni il bambino inizia a comprendere che la matita può essere uno strumento di espressione di sé. Dopo i primi tracciati, che appaiono piuttosto automatici anche se già differenziati da bambino a bambino, emerge la capacità di scegliere un punto e, partendo da questo, seguire una direzione con un andamento a spirale. Successivamente vengono disegnate delle forme chiuse più o meno circolari, con un intento in qualche modo rappresentativo sia dei propri vissuti personali che degli oggetti. Verso i tre anni il bambino incomincia a fare d. più o meno riconoscibili come una persona (fase del cefalopode),​​ in cui lo schema umano è costituito da un cerchio, da cui emergono direttamente le gambe. Segue una fase nella quale allo schema precedente viene aggiunto un altro cerchio considerato come il tronco. Dopo i quattro anni il bambino giunge alla rappresentazione completa della persona in posizione frontale con aggiunta progressiva di particolari del corpo. Verso i sei anni, per indicare il movimento, la figura umana viene rappresentata anche di profilo.

2. I numerosi studi sul d.i. sono unanimemente giunti alla conclusione che il bambino attraverso di esso esprime il suo mondo interiore (sentimenti, desideri, ansie, conflitti, relazioni). In altri termini, proietta in qualche modo la sua storia di vita. Per questo motivo, è considerato come uno strumento privilegiato per la diagnosi. Ma il d., oltre che essere un mezzo diagnostico, si dimostra utile anche sul piano psicoterapeutico. Tenuto conto della difficoltà da parte del bambino di verbalizzare le proprie emozioni, è infatti molto proficuo nell’ambito del trattamento psicoterapeutico ricorrere, oltre che all’attività ludica, anche a quella grafica. Sono da segnalare in questo campo i contributi di​​ ​​ Klein, di A.​​ ​​ Freud e di​​ ​​ Winnicott.

Bibliografia

Winnicott D.W.,​​ Colloqui terapeutici con i bambini, Roma, Armando, 1974; Medioli Cavara F.,​​ Il d. nell’età evolutiva. Esercitazioni psicodiagnostiche,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Balconi M. - G. Del Carlo Giannini,​​ Il​​ d. e la psicoanalisi infantile,​​ Milano, Cortina, 1987; Pizzo Russo L.,​​ Il​​ d.: Storia,​​ teoria,​​ pratiche,​​ Palermo, Aesthetica, 1988; Malchiodi C. A.,​​ Capire i d.i., Torino, Centro Scientifico, 2000;​​ Quaglia R. et al.,​​ Il d.i., Torino, UTET, 2001; Golomb C.,​​ L’arte dei bambini. Contesti culturali e teorie psicologiche, Milano, Cortina, 2004; Avalle V.,​​ Il d. del bimbo. Un linguaggio universale per seguire il suo sviluppo intellettivo, Ivrea, Hever, 2004;​​ Castellazzi V. L.,​​ Il test del d. della famiglia, Roma, LAS, 2006; Id.,​​ Il test del. d. della figura umana,​​ Ibid., 2007.

V. L. Castellazzi




DISEGNO SPERIMENTALE

 

DISEGNO SPERIMENTALE

Progetto che definisce i criteri di scelta dei soggetti, le modalità del trattamento sperimentale, i procedimenti di somministrazione del trattamento sperimentale e i metodi di misura e di analisi statistica usati nell’esperimento.

1. Il d.s. è un caso particolare di​​ ​​ d. della ricerca. Come quello, si può definire come la schematizzazione del ragionamento in cui si formalizza l’indagine scientifica su un problema. Gli esperimenti, nell’ambito delle «scienze umane», si propongono di descrivere l’effetto di «trattamenti» sperimentali (un metodo d’insegnamento, l’assunzione di un farmaco, la quantità di tempo d’esercizio, ecc.) su una qualche caratteristica di una determinata popolazione, oppure di verificare o falsificare ipotesi su tale effetto. Lo scopo principale del d.s. è evidenziare le relazioni tra variabili indipendenti e variabile dipendente, riducendo al minimo il «rumore» costituito dalla varianza erronea, ossia dall’effetto imputabile al caso. L’entità degli influssi casuali viene stimata in base alla varianza delle differenze tra individui: se questi non sono stati estratti a caso dalla popolazione che si vuole studiare (garanzia di «validità esterna» e quindi di generalizzabilità) e se non sono stati assegnati a caso ai vari trattamenti (garanzia di «validità interna» e quindi di non distorsione degli effetti), viene meno il termine di confronto su cui basa tutta la logica del d.s. I dati solitamente sono elaborati mediante analisi della varianza, più raramente con riferimento a modelli lineari, peraltro interpretabili anche in termini di analisi della varianza.

2. I d.s. fondamentali sono: a)​​ d. casualizzati semplici:​​ si estraggono più campioni casuali dalla stessa popolazione e a ciascun campione si somministra un trattamento diverso; b)​​ «trattamenti per livelli»:​​ dopo aver appaiato i soggetti con riferimento a una variabile di controllo (per es.: età) da ciascuno dei «livelli» vengono estratti tanti campioni quanti sono i trattamenti da somministrare; c)​​ «trattamenti per soggetti»:​​ tutti i trattamenti sono somministrati a tutti i soggetti successivamente, in ordine casuale; d)​​ d. fattoriali:​​ si confrontano gli effetti e le interazioni di due o più variabili sperimentali (nulla a che vedere con il metodo dell’analisi fattoriale); e)​​ d. basati su «blocchi»:​​ ogni trattamento è somministrato a un campione casuale di «blocchi» (per es. di classi scolastiche); ogni soggetto viene assegnato a un blocco secondo un preciso schema di casualizzazione, il più noto dei quali è il «quadrato latino», in cui ogni trattamento ricorre solo una volta per ogni blocco e solo una volta per ogni soggetto. Se i trattamenti confrontati sono più di due, l’analisi della varianza che include tutti gli elementi dell’esperimento può essere seguita da uno o più test «post hoc» in cui i trattamenti vengono confrontati due a due. I d.s., come in genere i d. di ricerca, possono essere attuati con un approccio trasversale (campioni diversi esaminati simultaneamente) o longitudinale («prove ripetute»).

Bibliografia

Lindquist E. F.,​​ Design and analysis of experiments in psychology and education,​​ Boston, Houghton Mifflin, 1953; Cochran W. G. - G. M. Cox,​​ Experimental designs,​​ New York, John Wiley & Sons,​​ 21957; Mendenhall W.,​​ Introduction to linear models and the design and analysis of experiments,​​ Belmont, Duxbury Press, 1968; Kerlinger F. N.,​​ Foundations of behavioral research,​​ New York, Holt,​​ 21973; Luccio R.,​​ Ricerca e analisi dei dati in psicologia, 2 voll.,​​ Bologna, Il Mulino, 1996.

L. Boncori




DISGRAFIA

 

DISGRAFIA

Disturbo dell’apprendimento nelle abilità di scrittura. Esso è spesso associato a forme di​​ ​​ dislessia. Più specificatamente si parla di d. quando si evidenziano difficoltà a riprodurre i segni alfabetici e numerici. In questo caso è coinvolto prevalentemente il grafismo dell’alunno, anche se si hanno conseguenze sulla difficoltà a seguire regole ortografiche e grammaticali. La diagnosi e la terapia conseguente prendono in considerazione le difficoltà di natura percettiva e di organizzazione spaziale e temporale, la lateralità e l’orientamento destra-sinistra, la rappresentazione dello​​ ​​ schema corporeo, la coordinazione motoria e la​​ ​​ memoria.

Bibliografia

Cornoldi C. (Ed.),​​ I disturbi dell’apprendimento,​​ Bologna, Il Mulino, 1991; Reid D. K. - W. P. Hresko - H. L. Swanson,​​ A cognitive approach to learning disabilities,​​ Austin, Pro-Ed,​​ 21991; Mc-Carthy R. A. - E. K. Warrington,​​ Neuropsicologia cognitiva,​​ Milano, Cortina, 1992; Pratelli M.,​​ D. e recupero delle difficoltà grafo-motorie,​​ Trento, Erickson, 1994; Brodini M.,​​ Le difficoltà di apprendimento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 1998; Basagli C. (Ed.),​​ La d. senza dislessia. Dalla diagnosi alla riabilitazione, Ibid., 2007.

M. Pellerey




DISLESSIA

 

DISLESSIA

Disturbo o difficoltà permanente nell’apprendimento delle abilità di lettura. Esso può consistere: a) in una d. fonologica, nella difficoltà cioè di collegare fonemi a lettere, anche se si è in grado di leggere parole familiari (d. superficiale); b) in una d. di origine visiva, che si manifesta nella difficoltà a riconoscere correttamente le lettere di una parola; c) in una lettura senza significato, che si evidenzia in una capacità di lettura ad alta voce senza saper cogliere il significato di quello che si legge.

1. In ambito neuropsicologico si distingue tra d. acquisita e d. evolutiva e tra d. superficiale e d. profonda. La d. acquisita, come dice il nome, si riferisce a una difficoltà di lettura che interviene successivamente a uno sviluppo normale di tale capacità a causa di un trauma, di una emorragia o di un intervento chirurgico al cervello. La d. evolutiva, invece, emerge nel corso della crescita del soggetto, in genere quando egli apprende a scuola le tecniche di lettura. La d. superficiale si riferisce alla difficoltà di collegamento tra fonemi e grafemi, mentre quella profonda concerne la capacità stessa di riconoscere le parole e di collegarle al loro significato.

2. Le cause della d. sono state attribuite a vari fattori. Alcune correnti psicologiche la fanno risalire a disturbi emozionali legati alle relazioni interpersonali famigliari; altre, a disturbi nell’evoluzione biologica o a un minimo danno cerebrale; altre ancora, a mal funzionamento dei processi cognitivi. Da queste diverse interpretazioni della causa della d. derivano anche differenti indicazioni terapeutiche. Occorre però ricordare come gran parte dei soggetti che nel corso dei primi anni della scuola elementare manifestano forme di d. evolutiva superi tale disturbo negli anni scolastici seguenti. Gli studi sulle d. acquisite a seguito di lesioni cerebrali, dovute a incidenti, ictus o altro, forniscono indicazioni utili per interpretare i differenti fenomeni di d. registrati. Questo è un campo di indagine privilegiato degli studi di neuropsicologia cognitiva.

Bibliografia

Jadoulle A.,​​ Apprendimento della lettura e d.,​​ Roma, Armando, 1978;​​ Boltanski E.,​​ Dyslexie et dyslatéralité,​​ Paris, PUF, 1982;​​ Sartori G.,​​ La lettura: processi normali e d.,​​ Bologna, Il Mulino, 1984; Cornoldi C. (Ed.),​​ I disturbi dell’apprendimento,​​ Ibid., 1991; Reid D. K. - W. P. Hresko - H. L. Swanson,​​ A cognitive approach to learning disabilities,​​ Austin, Pro-Ed.,​​ 21991; Ellis A. W.,​​ Lettura,​​ scrittura e d.,​​ Torino, SEI, 1992; Leddomade B.,​​ La d.,​​ problema relazionale,​​ Roma, Armando, 1992; McCarthy R. A. - E. K. Warrington,​​ Neuropsicologia cognitiva,​​ Milano, Cortina, 1992; Stella G.,​​ D., Bologna, Il Mulino, 2004; Trisciuzzi L. - T . Zappaterra,​​ La d. Una didattica speciale per le difficoltà nella lettura, Milano, Guerini, 2005.

M. Pellerey




DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

 

DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Limitando l’area di osservazione alle dimensioni europee della d.g., si rileva un primo elemento quantitativo diversificante: l’incidenza della d. di coloro che hanno meno di 25 anni e la portata dei suoi problemi variano notevolmente tra gli Stati membri della Unione Europea. «Il problema è particolarmente sentito in Italia, dove, nel maggio 1994, oltre la metà dei disoccupati era al di sotto dei 25 anni, anche se tale cifra risultava considerevolmente inferiore a quella registrata nel 1985, quando superava il 60%» (Commissione europea, 1994, 147).

1. Al di là di adeguate precisazioni sulle variazioni quantitative del fenomeno (decremento del tasso di natalità, permanenza prolungata o parcheggio nei sistemi formativi) e sulle indiscusse caratteristiche strutturali del medesimo, occorre rilevare come si sia attualmente più attenti a collegare le analisi economiche a quelle sociali e, per quanto attiene la d.g., alle situazioni problematiche della transizione dei​​ ​​ giovani alla vita attiva. Le categorie dei giovani dai 15 ai 29 anni, nella crisi strutturale dell’occupazione delle società industrializzate, vivono infatti esperienze personali diversificate per condizionamenti oggettivi e soggettivi, a cui si sommano spesso i ritardi e i limiti degli interventi istituzionali rivolti a discriminare positivamente le categorie svantaggiate culturalmente, socialmente, economicamente (giovani del Sud, ragazze, emigranti, disadattati,​​ drop-out...).

2. Nei Paesi del Nord Europa, come nel caso della Francia, le conclusioni di recenti indagini sulla situazione dei giovani disoccupati individuano due modelli estremi di precarietà giovanile. Il primo, riferito a giovani che si presentano sul mercato del lavoro con il solo titolo della scolarità dell’obbligo, si caratterizza per una situazione di «differimento subito» della tradizionale istantaneità e contemporaneità del reperimento di un’occupazione-matrimonio-autonomia dalla famiglia di origine. Un secondo modello, tipico dei giovani che dispongono di un titolo di livello secondario generico o con professionalità limitata, rivela situazioni di «istituzionalizzazione della precarietà», che potrebbero instaurare un processo di fissazione o di regresso rispetto al responsabile inserimento nella vita adulta.

3. Nei Paesi del Sud Europa le ricerche rilevano situazioni più diversificate, da cui non sono estranei i modelli culturali interiorizzati dai giovani durante il positivo o negativo percorso scolastico-formativo, la configurazione del mercato locale del lavoro, l’incidenza degli interventi normativi e legislativi rapportati a particolari situazioni di ragazze e ragazzi svantaggiati. Rispetto al ruolo del sistema scolastico, la sesta indagine Isfol sui «percorsi giovanili di studio e lavoro» conferma i risultati di varie ricerche rilevando come il sistema scolastico italiano, in tutte le sue articolazioni, tende a sovradimensionare le aspettative di inserimento-successo-soddisfazione professionale dei giovani, accanto ad un servizio insufficiente di orientamento, nonché ad un processo di selezione a più stadi di tipo non solo meritocratico, ma determinato dall’ambiente sociale e culturale di appartenenza, al quale si accompagna, però, una certa nuova tendenza dei giovani ad effettuare scelte formative in funzione (o in vista) di un dato progetto o obiettivo professionale, anche se realizzabile da una ristretta fascia giovanile (Isfol, 1989).

4. Quanto alla configurazione del mercato locale del lavoro, i risultati delle ricerche confermano empiricamente un ampliamento concettuale dell’occupazione / d.g., evidenziando un​​ continuum​​ di situazioni e di ruoli assunti da un medesimo soggetto, con conseguenti forme di lavori saltuari o precari assunte perlopiù da studenti che cercano poco attivamente lavoro e da quanti lo cercano ma ne accettano solo di un certo tipo, rifiutando ogni altra opportunità (Zucchetti, 1991).

5. Infine, nel raffronto tra le iniziative legislative e le politiche dell’Unione Europea – più orientate a sostenere e qualificare l’apprendistato (​​ formazione professionale), i contratti a tempo parziale, i contratti formazione / lavoro si constata in Italia il prevalere della tendenza ad affidare le soluzioni di tali problemi ad interventi settoriali o alle dinamiche del mercato del lavoro sia ufficiale, sia informale o sommerso (Censis, 1987). Le prospettive di contenimento, più che di soluzione, del problema della d.g., soprattutto in Italia, sembrano richiedere sia interventi complessivi ed articolati, che segnino un superamento della fase dell’emergenza, sia il potenziamento di strategie di progetto.

6. Tra la fine degli anni 2000 e l’inizio del nuovo millennio si sono registrati in Italia un aumento costante dell’occupazione e una riduzione corrispondente della d. e questo per effetto della vitalità e maggiore flessibilità del sistema (Censis, 2006). A sua volta, la d.g. (gruppo di età 15-24 anni) cala dal 27, 1% del 2002 al 20, 6% del 2006; come si vede, anche se il progresso è notevole, tuttavia l’entità del fenomeno rimane sempre grave in quanto il tasso si colloca intorno a un quarto della popolazione. Il dato inoltre presenta una notevole variabilità e il problema riguarda maggiormente le femmine, il Sud e i laureati. Nel confronto con gli altri Paesi dell’Europa, se è vero che l’Italia presenta una bassissima propensione al lavoro che la svantaggia nella competizione con gli altri Stati, è anche vero che al 2005 il tasso di d. era inferiore alla media europea.

Bibliografia

Cavalli A.,​​ La gioventù: condizione o processo?,​​ in «Rassegna Italiana di Sociologia» 21 (1980) 519-542; Censis,​​ Rapporto sulla situazione sociale del Paese,​​ Milano, Angeli, 1987; Isfol,​​ Percorsi giovanili di studio e lavoro, Ibid., 1989; Zucchetti E.,​​ Approccio locale al mercato del lavoro,​​ in «Professionalità» 11 (1991) 2; Commissione Europea,​​ L’occupazione in Europa 1994,​​ Lussemburgo, Comunità Europee, 1994; Minardi E.,​​ Dove va il lavoro in Italia, Faenza, Homeless Book, 1999; Censis,​​ 40° rapporto sulla situazione sociale del Paese. 2006, Milano, Angeli, 2006.

P. Ransenigo




disturbi dell’APPRENDIMENTO

 

APPRENDIMENTO: disturbi dell’

Difficoltà o incapacità di raggiungere i livelli scolastici attesi dall’ambiente socioculturale.

1. Si possono distinguere due tipi di disturbi: a)​​ disturbi generali di a.​​ e cioè difficoltà presenti in tutte le aree dell’a., per cui si verifica un rendimento scolastico globale inferiore alla media. È possibile individuare l’origine di tali disturbi nei fattori:​​ fisici​​ (lesioni cerebrali, sordità, cecità, o altri handicap di carattere organico);​​ intellettuali​​ (inibizione intellettiva);​​ affettivi​​ (carenze affettive, presenza di un elevato livello di​​ ​​ ansia, disturbi nevrotici o psicotici, stati depressivi, iperattività);​​ familiari​​ (disturbi psichici di uno o di entrambi i genitori, conflitti coniugali, separazione o​​ ​​ divorzio, elevate richieste e attese da parte dei genitori circa il rendimento scolastico o all’opposto loro incapacità a motivare adeguatamente i figli allo studio, eccessiva rivalità fraterna alimentata da sistematici confronti da parte dei genitori);​​ socio-culturali​​ (condizioni economiche sfavorevoli, basso livello sociale dove non è presente come valore l’istruzione scolastica); b)​​ disturbi specifici dell’a.,​​ per cui compaiono difficoltà in un settore particolare dell’attività scolastica. I soggetti interessati a tali disturbi abitualmente hanno un QI normale.

2. I principali disturbi specifici dell’a. sono: la​​ ​​ dislessia e la​​ ​​ discalculia. Il termine dislessia (dal gr.​​ dis:​​ difficile e​​ lexis:​​ parola) sta ad indicare la presenza di una difficoltà di lettura, per cui soggetti scolarizzati e d’intelligenza normale denunciano una grave difficoltà a decodificare le parole stampate. Non si può parlare di dislessia se non dopo i 7 anni. Prima di questa età infatti gli errori di lettura sono banali e frequenti. Tale disturbo è abitualmente accompagnato anche dalla​​ disortografia​​ e cioè da una difficoltà a scrivere correttamente. Inoltre esso è più presente nei maschi che nelle femmine, in rapporto da 4 a 1, e nei soggetti di età scolare lo si riscontra in una percentuale che oscilla tra il 5 e il 15%. Non si è di fronte ad una vera e propria dislessia, se la difficoltà di lettura è connessa con disturbi presenti anche in altri settori di a. (aritmetica, storia, geografia). Le principali modalità di espressione della dislessia sono: confusione di lettere con grafia simile (e-a, l-h, m-n); confusione di suoni simili (p-d, v-f); inversione cinetica di alcune lettere nella parola (in-ni, al-la); confusione di lettere graficamente simmetriche (n-u); omissione o aggiunta di lettere, sillabe o parole; contrazione e deformazione di sillabe, lettere o parole; righe saltate; punteggiatura e tono inesistenti; non distinzione delle parole simili tra loro. Da segnalare che oltre alla dislessia esiste anche il disturbo dell’iperlessia.​​ Esso consiste nella capacità, superiore alla media, di decodificare le parole senza però capirne il significato.

3. Circa l’eziologia​​ della dislessia ci sono due grandi correnti: a)​​ teoria del singolo fattore​​ che individua la causa in una disfunzione del processo visivo-spaziale; b)​​ teoria multifattoriale​​ che vede la dislessia come il risultato dell’influsso più o meno accentuato di due o più fattori tra loro connessi. Possono essere: fattori genetici, disturbi cerebrali, mancinismo contrastato, turbe della comunicazione verbale, cattivo orientamento visivo-spaziale, debolezza uditiva; disturbi dello schema corporeo, identificazione inadeguata, fissazione o regressione affettiva, inibizione intellettiva, turbe della funzione simbolica, carenze culturali. Relativamente al peso che i fattori elencati rivestono, si possono distinguere diversi tipi di dislessia: a)​​ costituzionale.​​ È la più grave e la più difficile da curare. Essa è collegata ad una cattiva lateralizzazione, a disturbi del linguaggio, a perturbazioni gravi a livello dell’orientamento, con conseguenti disturbi a livello intellettivo e di personalità; b)​​ evolutiva.​​ È determinata dalla mancata individuazione del mancinismo fin dai primi esercizi scolastici o da un metodo difettoso di apprendimento; c)​​ affettiva.​​ È legata ad un blocco affettivo-relazionale.

4. Rispetto alla dislessia, la discalculia è più rara. Essa consiste in una difficoltà a comprendere ed utilizzare i numeri e quindi in una incapacità di effettuare operazioni aritmetiche elementari (addizione, sottrazione, ecc.) e conseguentemente, nelle scuole superiori, in un insuccesso nel campo della geometria, della fisica e della chimica, pur in assenza di una compromissione delle altre forme di ragionamento logico e di simbolizzazione. La discalculia è più presente nelle femmine che nei maschi. Nelle espressioni più correnti la discalculia è associata alla disgnosia digitale (difficoltà di riconoscere le dita) e all’aprassia costruttiva (difficoltà a riconoscere e a riprodurre i gesti e le figure nello spazio, come, ad es., un triangolo o una croce). La forma più completa di tale disturbo è la​​ sindrome di Gerstmann.​​ Essa comprende i seguenti sintomi: discalculia, disgnosia digitale, difficoltà di strutturazione spaziale e cioè indistinzione sinistra-destra, disgrafia, aprassia costruttiva, disprassia digitale. Circa l’eziologia​​ della discalculia vale quanto detto a riguardo della dislessia.

5. Si calcola che il 10-15% dei soggetti in età scolare denunci dei disturbi generali dell’a. e che il 5-10% sia coinvolto in un qualche disturbo specifico.

Bibliografia

Salzberger-Wittenberg I. - G. Henry-Polacco - E. Osborne,​​ L’esperienza emotiva nei processi d’insegnamento e di a.,​​ Napoli, Liguori, 1987; Jadoulle A.,​​ A. della lettura e dislessia,​​ Roma, Armando, 1988; Leddomade B.,​​ La dislessia. Problema relazionale,​​ Ibid., 1988; Cornoldi C.,​​ I disturbi dell’a., Bologna, Il Mulino, 1991; Tarnopol L. (Ed.),​​ I disturbi dell’a. nell’infanzia,​​ Roma, Armando, 1993; Van Hout A. - C. Meljac,​​ Troubles du calcul et dyscalculies chez l’enfant, Paris, Masson, 2004; Martini A.,​​ Le difficoltà di a. della lingua scritta. Criteri di diagnosi e indirizzi di trattamento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 2004; Pratelli M.,​​ Le difficoltà di a. e dislessia. Diagnosi,​​ prevenzione,​​ terapia e consulenza alla famiglia, Bergamo, Junior, 2004; Catalano Sanchez R. - M. C. Ruffini Lasagna,​​ Disturbi dell’a. scolastico, Roma, Armando, 2004.

V. L. Castellazzi