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DIAGNOSI / DIAGNOSTICA

 

DIAGNOSI / DIAGNOSTICA

Sintesi critica di informazioni su una​​ ​​ personalità, organizzate in funzione di categorie (per es. nosografiche) connesse con la programmazione di un intervento.

1. La d. medica, archetipo a cui dialetticamente si riferiscono altri tipi di d., ha come scopo principale identificare la malattia che affligge il paziente, riferendosi a un sistema di categorie noto («nosografia»). Per analogia, la d. psicologica si propone di sintetizzare le informazioni sulla personalità di un individuo inquadrandole in sistemi pertinenti, che si riferiscano a disturbi mentali (cfr. la più recente edizione del​​ Diagnostic and statistical manual of mental disorders),​​ oppure a categorie anche non patologiche, ma desunte dalla​​ ​​ psicologia evolutiva, dalla psicologia dinamica o da teorie o cognitive. Nella d. psicologica in età evolutiva ha un peso fondamentale l’esame delle relazioni con la famiglia e con l’ambiente e della capacità del bambino di svolgere adeguatamente le funzioni tipiche della sua età. La d. educativa e didattica si propone finalità analoghe, anche se le categorie di riferimento sono assai meno rigidamente codificate.

2. La raccolta delle informazioni nel suo insieme va pianificata in modo da raccogliere dati sufficienti sia per inquadrare i fenomeni abnormi, patologici, sia per operare distinzioni esatte fra categorie diverse («d. differenziale»), sia per progettare un intervento, estendendosi quindi all’individuazione di aspetti sani su cui fare forza. Gli strumenti principali della d. sono l’osservazione diretta, il​​ ​​ colloquio con la persona e con persone che la conoscono bene, i​​ ​​ test. Ciascuno di questi strumenti fornisce informazioni non ottenibili con gli altri e comporta distorsioni diverse: l’osservazione dipende molto dalle situazioni, il colloquio dalle capacità referenziali di chi risponde, i test possono essere scelti in modo non appropriato e avere carenze di validità.

3. La sintesi dei dati raccolti, in genere numerosi, richiede tutta l’«arte» e l’esperienza dell’operatore, e comporta sia applicazioni psicometriche (per es. il riferimento a «norme statistiche» che definiscano operativamente la normalità), sia considerazioni etiche ed epistemologiche. Tra queste ultime, è stata segnalata la non ovvietà della definizione di «normalità»: per es. è «normale» il livello di prestazione offerto dalla media del campione, o è «normale» l’assenza di disturbi? o forse si deve pensare che la normalità sia la piena realizzazione delle potenzialità del soggetto? Già da vari anni sono apparsi programmi computerizzati che si pongono come sussidio per la d. medica e psicologica, anche se le prove della loro validità lasciano ancora a desiderare. La sintesi diagnostica è anzitutto un processo mentale con cui l’operatore chiarisce il problema diagnostico a se stesso. La comunicazione all’interessato, o a chi per lui, è un problema successivo e distinto.

Bibliografia

Rapaport D. - M. M. Gill - R. Schafer,​​ Diagnostic psychological testing,​​ New York, International Universities Press, 1968 ; Korchin S. J.,​​ Modern clinical psychology,​​ New York, Basic Books, 1976; Saraceni C. - G. Montesarchio,​​ Introduzione alla psicodiagnostica,​​ Roma, NIS, 1988;​​ Diagnostic and statistical manual of mental disorders,​​ Washington D.C., American Psychiatric Association,​​ 41994; Codispoti O. - P. Bastianoni,​​ La d. psicologica in età evolutiva, Roma, Carocci, 2002.

L. Boncori




DIALETTICA

 

DIALETTICA

Termine logico-filosofico, relativo al momento discorsivo della ragione, con varie applicazioni in​​ ​​ educazione e in​​ ​​ pedagogia.

1. Dal greco​​ dialektikè téchne​​ (arte del ragionare, del discutere), la d. ha assunto notevoli diversificazioni di significato nel corso del pensiero filosofico. Così ad es. per​​ ​​ Platone la d. designa il movimento dell’anima che dall’esperienza sensibile mutevole ascende di grado in grado alla verità ideale immutabile (= d. ascendente) e da essa ritorna alle cose (= d. discendente). Similmente l’idealismo ottocentesco e il neoidealismo del nostro secolo tentano di ricondurre la frammentarietà e la contraddittorietà del reale umano e storico alla logicità e all’assolutezza dello Spirito assoluto per via d. di tesi, antitesi e sintesi. Rispetto ad essa si pone, come d. «rovesciata», la d. marxista che dalle contraddizioni materiali storiche muove all’impegno del cambiamento rivoluzionario del sistema economico-politico. Pure contro il panlogismo hegeliano si pone la d. esistenziale di S. Kierkegaard, che rispetto all’intrinseca insostenibilità della vita estetica (incarnata nel Don Giovanni) e della vita etica (incarnata nel padre di famiglia) non vede che «il salto nel buio» della vita di fede (incarnata nella figura di Abramo). In altri, come in​​ ​​ Aristotele e​​ ​​ Kant, rimane fondamentalmente come tecnica della confutazione e modo di argomentare che urge le contraddizioni logiche di idee, concetti, modi di vedere la realtà.

2. In linea con quest’ultimo ambito di significato, la d. si pone come un aspetto dell’educazione intellettuale, relativamente allo sviluppo delle capacità logiche, critiche ed argomentative. In senso più largo, vale a dire in quanto ricerca del vero, tensione all’uno ed apertura al giusto e al bello, essa può essere fatta rientrare nel processo di sviluppo personale come attenzione autoformativa al senso del limite e al superamento di esso. Più specificamente la d. è vista come una componente della​​ ​​ relazione educativa, in cui sono spesso presenti tensioni non facilmente componibili neppure con il dialogo e in prospettiva dinamica (​​ antinomie pedagogiche).

3. In pedagogia la d. si mostra nella tensione che spesso si ha tra essere e dover essere, tra fatto e valore, tra teoria e pratica, tra rilevazione dell’esistente e sforzo di prospettazione progettuale, tra domanda di formazione ed offerta educativa. In tal senso viene evidenziato il particolare carattere della logica e del discorso pedagogico e in qualche modo della pedagogia come scienza teorico-pratica.

Bibliografia

Verra V.,​​ La d. nel pensiero contemporaneo,​​ Bologna, Il Mulino, 1976; Cacciari M.,​​ D. e critica del momento,​​ Milano, Feltrinelli, 1978; Sichirollo L.,​​ D., Roma, Editori Riuniti, 2003.

C. Nanni




DIALETTO

 

DIALETTO

Il d. è inteso e definito dai sociolinguisti come una varietà geografica, storica e linguistica di una lingua nazionale (es. il piemontese rispetto all’it.).

1. Ruolo e valore storico.​​ La sua dimensione e il suo ruolo sono limitati nell’uso tanto individuale che sociale; esso è parlato generalmente da un individuo e / o da un gruppo in situazioni particolari, in un ambiente geo-sociale ben definito e tra membri della medesima comunità. Il suo ruolo limitato e limitativo lo ha fatto considerare generalmente dai sociolinguisti come una «lingua bassa» (low language),​​ contro la «lingua alta» (high language)​​ rappresentata da una lingua di uso nazionale e ufficiale («lingua standard»). Il valore storico, però, del d. può superare anche quello della lingua nazionale, in quanto ne rappresenta sia il codice più antico e preesistente sia, a volte, la matrice originaria della stessa lingua nazionale (come il toscano rispetto all’it.). Tale valore storico fa sì che il d. riassuma forme e contenuti culturali tradizionali, insiti nell’anima di una comunità di parlanti. Essendo la prima lingua generalmente parlata da un individuo, il d. sta spesso alla base del pensiero e del sentimento di un individuo dialettofono. Da qui l’accresciuta tendenza, in tempi recenti, a ricuperare i d. anche attraverso lo studio storico e scientifico: donde una specifica disciplina denominata dialettologia.

2.​​ Valore educativo del d.​​ Il valore storico-culturale del d. – come, del resto, di qualsiasi lingua minoritaria o «etnica» – ha riscosso in questi ultimi anni l’attenzione giustificata dei pedagogisti, al fine di ricuperarne la funzione formativa nell’ambito della cosiddetta «educazione linguistica di base». Il d. diventa così il punto di partenza di ogni sviluppo ulteriore della competenza linguistica e comunicativa fin dalla scuola dell’infanzia. La riflessione più o meno sistematica sulla struttura e sulle funzioni, oltre che sulla storia e sulle valenze socioculturali, del d. parlato fin dall’infanzia dal bambino, anziché ostacolare l’acquisizione e lo sviluppo della competenza nella lingua standard, tende a produrre una capacità di approfondita riflessione analitica sui concetti universali delle lingue e, conseguentemente, un grado notevole di sviluppo delle cosiddette «abilità metalinguistiche». Il risultato è stato non soltanto uno sviluppo più elevato delle capacità di natura specificatamente linguistica, ma anche una trasposizione delle accresciute abilità cognitive ad altri settori del​​ ​​ curricolo scolastico, come la matematica e le scienze. Pertanto, non solo l’apprendimento precoce di una lingua straniera, ma anche di una lingua minoritaria, come il d., può costituire un forte stimolo e sostegno alla formazione delle competenze linguistiche e cognitive in generale. Se è vero che «si educa il linguaggio mediante la lingua» (ossia, si arricchisce e si perfeziona la capacità di verbalizzazione e comunicazione – «linguaggio» – mediante l’assimilazione cosciente di un sistema linguistico storicamente e socialmente valido – «lingua»), anche il d. non può essere escluso da tale processo di valorizzazione.

Bibliografia

Rohlfs G.,​​ Studi e ricerche su lingua e d. d’Italia,​​ Firenze, Le Monnier, 1972; De Mauro T.,​​ Storia linguistica dell’Italia unita,​​ Bari, Laterza, 1974; Grassi C.,​​ Elementi di dialettologia italiana,​​ Torino, UTET,​​ 21982; Titone R.,​​ Educare al linguaggio mediante la lingua,​​ Roma, Armando, 1985; Nero S. J.,​​ Dialects,​​ Englishes,​​ Creoles,​​ and education,​​ Mahwah (NJ), Erlbaum, 2006.

R. Titone




DIALOGO

 

DIALOGO

Il termine, dal gr.​​ lógos​​ (parola, discorso) e​​ diá​​ (preposizione che designa il passaggio attraverso qualcosa, o anche il movimento da un punto ad un altro), significa l’andare e tornare della parola tra due o più interlocutori, il colloquiare. La freddezza concettuale di questa informazione etimologica non esprime tuttavia la ricchezza che, nell’esperienza umana, comporta il d. nel suo significato più denso.

1. Nel sec. XX la filosofia esistenziale, nella sua versione appunto dialogica, ha messo in luce soprattutto le dimensioni personalistiche del d., riconoscendo in esso uno dei momenti essenziali del rapporto io-tu (​​ Buber). In questa prospettiva il d. viene inteso come un uscire dell’io da se stesso nella parola (verbale o gestuale) e mediante essa andare verso il tu, per consegnarsi a lui e a sua volta accogliere la sua parola e in essa la sua stessa intimità. La dinamica dialogale può essere anche pensata e realizzata in senso inverso, a partire dal tu. In ogni caso si vedono già in questa concezione emblematica quali siano le principali caratteristiche e condizioni del d.: coscienza della propria identità, ma anche consapevolezza del proprio limite; apertura fiduciosa e piena di rispetto verso l’altro; capacità di donazione e di accoglienza reciproca. Visto così, il d. si presenta come una possibilità, anzi come una necessità per la formazione dell’identità soggettiva, della relazione interpersonale e della comunitarietà sociale. In tal senso, oltre che al d. interpersonale (e al d. interiore con se stessi) è da pensare al d. sociale, culturale, politico, religioso, e specificamente a quello ecclesiale. Ognuno di essi ha delle connotazioni proprie.

2. Circa il d. ecclesiale si deve rilevare che la Chiesa cattolica ha fatto dei passi notevoli negli ultimi decenni da tale punto di vista. Mentre infatti essa si era ritenuta da secoli, nell’esercizio del suo​​ ​​ Magistero, quale «Madre e Maestra», e quindi in qualche modo proprietaria esclusiva della verità e perciò anche col diritto di insegnarla agli altri, a partire da Paolo VI, che nell’Enc.​​ Ecclesiam suam​​ (1963) dedicò un’ampia riflessione al tema del d., cominciò a cambiare profondamente il suo atteggiamento. Così il Concilio Vaticano II dichiarò apertamente, nella Costituzione pastorale​​ Gaudium et Spes,​​ di voler dialogare con la famiglia umana, apportando ciò che la Chiesa ha di più originale, e cioè la luce che il Vangelo proietta sui problemi e sugli interrogativi umani, ma accogliendo a sua volta dal mondo le luci da esso offerte (GS​​ nn. 3.44). Su questa necessità di dialogare con gli altri uomini, credenti o no, con le loro idee e sensibilità, con il loro modo di vedere le cose e con le loro impostazioni di vita ritornò il Concilio molte volte, sia parlando della formazione e del ministero dei presbiteri (OT n.​​ 19;​​ PO​​ n. 12d), che riferendosi all’attività dei laici (AA​​ nn. 14b.17b.31a)​​ o all’attività missionaria (AG​​ nn. 11b.12a.34.38g) o ancora all’​​ ​​ ecumenismo (UR​​ n. 11e). Da allora in poi questo atteggiamento andò guadagnando terreno e acquistando maggior forza e concretezza. Uno dei punti più alti in questo cammino lo si ritrova nell’Esortazione Apostolica​​ Evangelii Nuntiandi​​ (1975), in cui Paolo VI propose, come modalità-chiave dell’annuncio evangelico, l’inculturazione, e cioè il d. serio e sincero con la cultura (in senso antropologico) e con le culture dell’uomo contemporaneo (EN n.​​ 20).

3. Nell’ambito educativo, e in quello prettamente scolastico, si deve sottolineare l’importanza che il d. ha dal punto di vista metodologico (Stefanini, 1954). Si può dire che un pregio particolare, pure se non esclusivo, dell’​​ ​​ educazione liberatrice è proprio l’essersi proposta come obiettivo la formazione dell’educando all’autodeterminazione e, in questo contesto, l’aver propugnato un’educazione «aperta al d.» (Medellín​​ 8c). In tale modo viene superata quella concezione secondo cui solo l’educatore educa, mentre l’educando sarebbe solo oggetto di educazione, e viene sostituita da quella secondo cui tutti sono educatori ed educandi, ognuno secondo la propria condizione (P. Freire). Educare implica, quindi, intavolare un d. con gli educandi, ricercando insieme con essi la verità. Una ricerca nella quale l’educatore, senza lasciare da parte la propria identità, offre la sua esperienza e le sue conoscenze agli educandi, ma è anche aperto e disponibile ad accogliere quanto essi stessi apportano e ad arricchirsi con il loro contributo. Educare implica inoltre formare gli educandi alla capacità di dialogare con le persone in quanto tali, accogliendole, rispettandole e contribuendo alla loro realizzazione; ma anche ad avere una sempre maggiore disponibilità, nell’ambito dell’educazione umana generale, a mettere in d. rispettoso e sincero le proprie idee con le idee degli altri, le proprie convinzioni con le convinzioni degli altri, le proprie credenze con le credenze degli altri e, nell’ambito dell’​​ ​​ educazione cristiana, a stabilire un corretto d. tra la fede e la scienza, e tra la fede e la cultura.

Bibliografia

Stefanini L.,​​ La scuola del d.: interrogazione ed esame,​​ in «La Scuola Secondaria» 3 (1954) 4-5, 4-17; Delhaye Ph.,​​ D. Chiesa-mondo secondo la «Gaudium et Spes»,​​ Assisi, Cittadella, 1968; Freire P.,​​ L’educazione come pratica della libertà,​​ a cura di L. Bimbi, Milano, Mondadori,​​ 21974;​​ Jiménez Ortiz A.,​​ Por los caminos de la increencia. La fe en diálogo,​​ Madrid,​​ CCS, 1993; Agazzi E. et al.,​​ Dall’Areopago a Internet: quale d. nella società globalizzata?, Milano, In Dialogo, 2002; Jacobucci M.,​​ I nemici del d. Ragioni e perversioni dell’intolleranza, Roma, Armando, 2005.

L. A. Gallo




DIDATTICA

 

DIDATTICA

Disciplina pedagogica che studia il processo di​​ ​​ insegnamento. La d. viene considerata in generale come una​​ ​​ scienza​​ pratico-prescrittiva,​​ cioè come una scienza diretta a dare fondamento e orientamento all’azione di insegnamento o​​ ​​ azione d. Dal gr.​​ didaskein​​ (insegnare). La d. viene anche definita come teoria che studia l’atto didattico (didassi). Se questo studio è basato su metodi di indagine sperimentali, si usa talora l’espressione​​ didassologia.​​ In ingl. è raro trovare l’equivalente​​ didactics.​​ Si preferisce usare l’espressione​​ theory and practice of education​​ oppure​​ methods in education.​​ In ted. oltre a​​ Didaktik​​ viene usato anche il termine​​ Methodik​​ (metodica). Il sostantivo d. viene utilizzato anche per indicare il modo di insegnare proprio di una persona. Si usa dire in questi casi ad es.: il tale professore ha una d. povera.

1.​​ Per una definizione più articolata.​​ Per giungere a una definizione più ricca e comprensiva della d. conviene considerare due suoi aspetti fondamentali, tradizionalmente raccolti nell’espressione «scienza e arte dell’insegnamento», e cioè: a) l’aspetto di sapere generale garantito da riscontri empirici, e che non dipende né dalla modalità con cui si agisce, né dall’inserimento dell’agire in un preciso contesto; b) l’aspetto di sapere pratico, soggettivo, che implica capacità di scelta e decisione in contesti specifici. Per esprimere il collegamento tra questi due aspetti, è stata proposta per la d. la formula «base scientifica dell’arte di insegnamento». Tuttavia, come giustamente fa notare​​ Blankertz, non è possibile impostare una d. senza tener conto di assunzioni generali riguardanti l’uomo, la sua crescita, il suo significato. D’altra parte, questo quadro di riferimento teoretico-filosofico, più che fornire principi dai quali si possano dedurre norme per l’azione d., indica dei confini, segnala delle incoerenze. Inoltre, occorre ricordare come ogni metodo didattico trovi il suo fondamento in assunzioni di natura teorico-filosofica, implicite o esplicite: in motivi, significati, valori che animano lo studioso o l’insegnante stesso.

2.​​ La pratica d.​​ Per esaminare più a fondo la natura della d. occorre definire meglio il concetto di pratica, e di pratica d. in particolare. Riprendendo e parafrasando la definizione di pratica data da A. MacIntyre (1988), si può giungere a identificarla in una forma coerente e complessa di attività umana che si sviluppa in modo collaborativo e che è socialmente stabilita. Nello svolgersi di questa attività si colgono e si realizzano i valori che la caratterizzano e che sono espressi da modelli di eccellenza. Tali modelli non solo sono radicati nella storia, e quindi soggetti a evoluzione nel tempo, ma possono anche essere oggetto di analisi critica teorico-filosofica, scientifica o tecnologica. Da questo punto di vista la d. può essere considerata come un insieme di conoscenze e di competenze che permettono di esercitare la pratica dell’insegnamento in maniera valida e feconda. Essa può essere quindi definita come nel senso tradizionale greco di insieme di competenze operative, sia ideative o progettuali, sia tecnico-pratiche o realizzative. Occorre tuttavia notare come l’azione d. non possa essere considerata come un’azione puramente guidata da regole e principi, anche se questi hanno un ruolo importante nell’esaminare i problemi posti dall’insegnamento e nell’individuare strategie di soluzione: esiste, infatti, una sua componente tacita o personale. M. Polanyi (1990, 139) osserva: «Un’arte non può essere specificata nei dettagli, non può essere trasmessa mediante prescrizioni [...] può essere trasmessa soltanto mediante l’esempio del maestro dell’apprendista». La crescita della conoscenza e della competenza professionale così, anche in campo didattico, è legata in gran parte allo sviluppo di una capacità di riflessione nell’azione, oltre che di riflessione prima e dopo di essa. Se questo tipo di conoscenze e competenze non sono descrivibili per mezzo di un sistema di regole, né possono svilupparsi solo sulla base dell’osservanza di regole espresse e formalmente descritte, come possono essere colte? In genere si risponde: osservando l’azione di persone competenti o esperte e attraverso le interpretazioni che queste ne danno sotto forma di narrazioni. Tali azioni sono caratterizzate in genere dalla capacità di inquadrare immediatamente in modo completo e articolato le varie situazioni e di portare a termine le decisioni conseguenti in modo fluido, appropriato e senza sforzo. Analoga osservazione viene avanzata, evidenziando il ruolo delle intenzioni e delle scelte personali, presenti nell’agire del docente. Pur tenendo conto di queste osservazioni, la pratica d. non solo può, ma deve essere riletta, criticata e sollecitata da vari punti di vista: quello dell’analisi ideale o filosofica (e in questo contesto si può ricollocare l’analisi storica), quello derivante dall’indagine scientifica, e quello proprio dell’approccio tecnologico. Da questi punti di vista la pratica dell’insegnamento diventa essa stessa oggetto di studio, più che di esperienza diretta, di riflessione e di costruzione di competenze personali.

3.​​ L’analisi teorico-filosofica della pratica d.​​ L’analisi ideale o teorico-filosofica della pratica d. ha una lunga storia. Essa si radica nella stessa storia della riflessione critico-propositiva sul modo di insegnare e di imparare, dal mondo assiro-babilonese ai giorni nostri. Basti qui ricordare il ruolo del docente identificato da​​ ​​ Socrate nella metafora della levatrice, o la funzione del dialogo particolarmente sottolineata da​​ ​​ Platone. In questo stesso autore si possono trovare le tracce di un’impostazione diversificata della pratica di insegnamento, una diretta ai comuni cittadini, l’altra a chi è orientato ad assumere funzioni direttive nella società, con conseguente rilievo della selezione. Nel sec. decimosesto si avvia più esplicitamente il discorso relativo ai metodi di insegnamento, di cui è significativa espressione la​​ Grande d.​​ di​​ ​​ Comenio. Possiamo dire che ogni grande corrente di pensiero filosofico e pedagogico ha espresso non solo una sua linea interpretativa della pratica d., ma ha presentato anche modelli di eccellenza per essa. Oggi molte impostazioni teorico-filosofiche del​​ ​​ curricolo, della gestione della classe e dell’azione d. si rifanno alla d. intesa in questo senso. Come esempio si possono citare gli approcci propri dell’​​ ​​ idealismo, del realismo, del​​ ​​ personalismo, del​​ ​​ pragmatismo, del positivismo, delle teorie critiche dell’insegnamento, ecc. La riflessione filosofica inoltre ha spesso criticato le impostazioni sia della d. come scienza, sia della d. come tecnologia. Ad es., è stata esaminata criticamente gran parte delle ricerche sperimentali sull’insegnamento degli anni settanta-ottanta, dirette a rilevare le relazioni esistenti tra le variabili caratterizzanti il comportamento docente e quelle riscontrabili nei risultati formativi raggiunti. Si è osservato come queste fossero poco sensibili all’importanza dell’intenzionalità del docente e degli allievi stessi nella pratica d. Di qui la necessità di estendere o trasformare teorie e metodi di ricerca in modo da includere questa componente della pratica.

4.​​ L’analisi scientifica della pratica d.​​ L’indagine scientifica ha una storia assai più breve. In essa si possono segnalare alcuni orientamenti diversi: ricerche di natura biologica e psicologica e indagini di tipo sociologico e antropologico, a cui si sono presto aggiunte prospettive giuridiche, politiche ed economiche. Si tratta delle cosiddette​​ ​​ scienze dell’educazione in quanto si sono occupate della pratica dell’insegnamento. Queste vanno intese come scienze applicate, nel senso di scienze che esaminano la pratica d. utilizzando apparati teorici e metodologici propri delle scienze di riferimento. Nel corso della seconda metà del sec. XX è stata però avviata un’indagine di natura scientifica relativa alla pratica d., che non assume come parametri concettuali e metodologici propri quelli di altre discipline. Si è costituita cioè una d. intesa come scienza autonoma, con un proprio apparato concettuale e teorico e peculiari metodi di indagine. Il quadro di riferimento spesso utilizzato è un triangolo, i cui vertici sono l’insegnante – l’allievo – i contenuti, considerato nel suo contesto istituzionale e sociale. Esso viene usato per identificare gli elementi costitutivi da esaminare e che formano l’essenza della pratica d. Si tratta, ovviamente di un​​ ​​ modello, cioè di una rappresentazione generale e astratta della pratica d., che intende non solo descrivere, ma anche fare da supporto per prevedere gli effetti dell’azione d., orientare le decisioni da prendere, controllare lo sviluppo dell’attività e i suoi risultati. Nel contesto francese il modello più diffuso e valorizzato è quello che descrive il processo di transizione, o trasposizione, della conoscenza dalle discipline di riferimento (quelle degli studiosi), alle discipline da insegnare nella scuola (quelle considerate nei programmi di insegnamento), a quelle effettivamente insegnate dai singoli docenti, a quelle apprese dai singoli allievi. Il gioco che si svolge a quest’ultimo livello, tra insegnanti e allievi, viene riletto assumendo come quadro teorico il concetto di contratto didattico. I metodi di ricerca tendono in questo caso a valorizzare una stretta collaborazione tra ricercatori e insegnanti, anche mediante forme di vera e propria ricerca-azione (​​ metodi di ricerca). Altri modelli elaborati recentemente più o meno nella stessa direzione derivano da metodi e disegni di ricerca sperimentali di tipo quantitativo, oppure da metodi di tipo qualitativo ed ermeneutico, ma si tratta sempre di modelli basati sull’analisi delle pratiche didattiche attivate in contesti scolastici. Recentemente sono stati avanzati anche modelli di tipo logico-erotetico e logico-assiologico, suscettibili di riscontri empirici. Nel primo caso l’insegnamento viene studiato dal punto di vista della congruenza fra domanda di apprendimento presente, anche implicitamente, negli alunni e risposta insegnante in ambiti formativi specifici. Nel secondo, si è elaborato un quadro di riferimento che, partendo dalle intenzioni o finalità educative generali dirette alla costituzione di disposizioni personali derivate da una concezione filosofica della persona educanda, procede verso la definizione degli obiettivi dell’azione d. nell’ordine dell’attuazione di tali intenzioni e, nell’ordine della causazione, verso l’organizzazione di situazioni didattiche atte a promuovere negli alunni le disposizioni intese.

5.​​ L’analisi tecnologica della pratica d.​​ Ancor più recente è l’analisi della pratica d. da un punto di vista tecnologico. In questo caso la tecnologia è intesa nel senso moderno di​​ engineering​​ ed è caratterizzata da un apparato specifico di concetti e rappresentazioni simboliche, metodi e tecniche di lavoro, che rendono possibile una vera e propria mediazione tra le scienze e le discipline di riferimento e l’azione d. Questo carattere implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo operativo e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto elaborato, alle stesse scienze dell’educazione. Nel campo dell’insegnamento le varie scienze dell’educazione, o la d. stessa intesa come scienza autonoma, tendono a prospettare informazioni organizzate circa le situazioni e le pratiche didattiche educative. L’attività tecnologica si svolge in senso inverso e consiste nel trasformare le informazioni strutturate sotto forma di rappresentazioni mentali in informazioni calate in forme organizzative e operative esterne. In altre parole, la tecnologia proietta le informazioni astratte e generali in contesti e situazioni concrete, che ricevono, attraverso queste proiezioni, una struttura organizzativa supplementare. Sotto questo profilo il processo scientifico si presenta come il reciproco di quello tecnologico. D’altra parte la tecnologia procede nell’ordine dell’azione secondo lo stesso modello adottato dalla ricerca scientifica nell’ordine della conoscenza: posizione di un problema, formulazione di ipotesi, loro messa alla prova, ritorno alla situazione iniziale, ma con una sua trasformazione nella direzione della risoluzione del problema o dell’emergenza di nuovi aspetti problematici. In conclusione, sembra che il ruolo della mediazione tecnologica nel caso della d. sia quello di una sorta di interfaccia, di nodo di raccordo, tra scienze e discipline di riferimento e l’azione formativa. Essa infatti si trova in stretta interazione con le prime e ha come compito specifico quello di dare consistenza e efficacia alla seconda. Non sembra infatti sufficiente, in un approccio moderno, utilizzare i contributi delle varie scienze e discipline di riferimento nella risoluzione dei problemi educativi, senza la mediazione di un valido sistema di progettazione, conduzione e valutazione dei piani di intervento concreto. Alla d. vista come tecnologia si ricollegano gran parte delle indicazioni metodologiche relative allo sviluppo del curricolo, agli strumenti e metodi di valutazione, alle tecniche di gestione della classe, alla produzione di testi scolastici, ecc.

6.​​ Articolazioni della d.​​ Dal momento che il campo della d. si è esteso verso il basso, includendo l’azione di insegnamento rivolta a soggetti minori di sei anni, e verso l’alto, tenendo conto delle attività formative a livello universitario, professionale, e in generale svolte lungo tutto l’arco della vita, la d. può essere a sua volta articolata tenendo conto sia dei contenuti considerati, sia dei destinatari, sia degli strumenti di comunicazione adottati. Tenendo conto delle discipline di insegnamento si hanno le varie d. disciplinari, talora incluse entro quelle che sono state denominate d. speciali e / o d. specifiche. Se si considera invece l’età degli studenti, e si ha la d. evolutiva e quella degli adulti. Se si è attenti alle differenze esistenti tra gli studenti, maschi e femmine, soggetti portatori di handicap e soggetti normali, soggetti disabili e soggetti particolarmente dotati, è questo il campo di studio della​​ ​​ d. differenziale. Naturalmente altre articolazioni riguardano il tipo di scuola e di ambiente considerato (d. della scuola materna, della scuola elementare, della scuola secondaria, universitaria, della formazione professionale; urbana, rurale, ecc.) oppure le tecnologie di comunicazione utilizzate (d. a distanza,​​ ​​ e-learning,​​ ecc.).

Bibliografia

Titone R.,​​ Metodologia d.,​​ Roma, LAS,​​ 31975; Bertoldi F.,​​ Trattato di d. 1° D. generale,​​ Bergamo, Minerva Italica, 1977; Blankertz H.,​​ Teorie e modelli della d.,​​ Roma, Armando, 1977; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Polanyi M.,​​ La conoscenza personale,​​ Milano, Rusconi, 1990; Gagné R. M. - L. J. Briggs,​​ Fondamenti di progettazione d.,​​ Torino, SEI, 1990; Borich G. D.,​​ Effective teaching methods,​​ New York, Macmillan,​​ 21992; Frabboni F.,​​ Manuale di d.,​​ Bari, Laterza, 1992;​​ Cornu L. - A. Vergioux,​​ La didactique en question,​​ Paris, Hachette,​​ 1992; Laneve C.,​​ Per una teoria della d. Modelli e linee di ricerca,​​ Brescia, La Scuola, 1993; Pellerey M.,​​ Progettazione d.,​​ Torino, SEI,​​ 21994; Laneve C.,​​ Il campo della d.,​​ Ibid., 1997; Id.,​​ Elementi di d. generale,​​ Ibid., 1998; Id.,​​ La d. tra teoria e pratica,​​ Ibid., 2003; Baldacci M.,​​ I modelli della d., Roma, Carocci, 2004; Damiano E.,​​ La Nuova Alleanza. Temi,​​ problemi,​​ prospettive della nuova ricerca d., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey




didattica della MATEMATICA

 

MATEMATICA: didattica della

Disciplina che studia i processi di insegnamento e apprendimento della m. nel contesto scolastico e più in generale formativo (e concretamente il modo di intendere e di praticare tale insegnamento e apprendimento).

1.​​ Natura e sviluppi.​​ Tradizionalmente si coagulava sotto il titolo di​​ ​​ didattica un insieme di suggerimenti e di norme pratiche derivanti dall’esperienza pratica e dalla riflessione critica su di essa. Talora si includevano in essa anche derivazioni più o meno deduttive da principi e teorie di natura filosofica. Non si trattava tanto di una scienza autonoma, quanto di un condensato organizzato e ragionato di quanto di meglio era stato possibile trovare nel contesto dell’attività didattica, oppure di norme e orientamenti proposti come applicazione di concetti e principi di origine teorica. Spesso questi ultimi erano utilizzati per spiegare o legittimare esperienze ben riuscite. Recentemente il quadro è abbastanza mutato. Due tendenze sembrano emergenti: la prima di natura scientifica, l’altra tecnologica. L’approccio scientifico alla didattica della m. è stato propugnato soprattutto in Francia, dove un ruolo non indifferente in questa direzione è stato svolto da vari Centri di ricerca presenti in Istituti Universitari e in collaborazione con insegnanti di scuola primaria e secondaria. Si è voluta impostare tale disciplina come una scienza autonoma, con suoi peculiari oggetti di ricerca e specifiche metodologie di indagine. Il sistema concettuale o quadro teorico di riferimento non è così derivato da altre​​ ​​ discipline o campi di investigazione, ma è originale e, per dirla alla Feyerabend, incommensurabile con i quadri concettuali di discipline anche prossime, come la​​ ​​ psicologia dell’educazione o la​​ ​​ pedagogia istituzionale. Sono stati così sviluppati in modo originale apparati teorici di notevole interesse (Brousseau, 1986). La seconda tendenza vede la didattica della m., come del resto la didattica delle altre discipline, come un «engineering», cioè una mediazione tecnologica e sociale tra le scienze dell’educazione, la m. e le discipline a essa correlate (come la storia della m., l’epistemologia della m., ecc.), e l’azione concreta di insegnamento (Freudenthal, 1978). Il carattere di mediazione implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo didattico, e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto e alle stesse scienze sia dell’educazione, sia matematiche.

2.​​ La concezione della m.​​ È stato spesso evidenziato il ruolo che ha nell’impostazione dell’azione di insegnamento della m. la concezione che di questa hanno sia il docente che lo studente. È stato elaborato da Pellerey (1983) un quadro di riferimento a due dimensioni che consente di esplorare e descrivere tali concezioni. La prima dimensione contrappone una concezione formale a una sostanziale dei vari concetti e procedimenti. La seconda, considera su polarità opposte una concezione descrittiva e una costruttiva delle differenti conoscenze. Ne derivano quattro quadranti. Il primo riguarda una concezione formale e descrittiva: la m. è vista come una scienza già formata e caratterizzata dai suoi aspetti formali. Nel secondo quadrante la m. è concepita come una scienza che ognuno deve ricostruire personalmente approfondendo i significati dei suoi vari elementi costitutivi. Il terzo quadrante si riferisce a processi costruttivi di abilità solo formali mediante esercizi graduati ed esecuzione accurata di algoritmi. Nel quarto quadrante la m. esiste già fuori di noi ben ordinata nella sua organizzazione concettuale, a noi basta scoprirne le varie componenti e i differenti significati.

3.​​ Gli ostacoli epistemologici.​​ Uno dei concetti introdotti dalla scuola francese che ha avuto un buon riscontro empirico è quello di ostacolo epistemologico. G. Bachelard ha introdotto tale concetto definendolo come una pre-comprensione che impedisce l’accesso delle conoscenze a uno status scientifico. Un campo di ricerca, secondo tale filosofo, diviene scienza solo dopo che siano stati superati tutti i suoi ostacoli epistemologici. Per Bachelard la m. per sua natura è priva di questi ostacoli, ma se si riconosce a questa disciplina uno statuto più empirico, allora occorre tenerne conto. È questa la tendenza sviluppatasi a partire dalle indicazioni epistemologiche di I. Lakatos (1976), che considerava la m. come una scienza quasi-empirica. Nell’ambito didattico un ostacolo epistemologico può quindi essere concepito come un complesso di difficoltà concettuali connesse con una teorizzazione non adeguata. Gli errori ripetuti sistematicamente ne possono essere un segnale, in quanto sono il risultato del sistema concettuale dello studente, delle sue intuizioni, dei modi di affrontare i problemi in genere o in particolari ambiti di studio. Il compito dell’insegnante sta nell’aiutare lo studente a prender coscienza delle sue concezioni inadeguate, a scoprirne le inconsistenze o le conseguenze errate e, quindi, a superarle. Diventano perciò necessari interventi didattici mirati e convenientemente strutturati, pena la permanenza di concezioni inadeguate e conseguenti incomprensioni ed errori.

4.​​ La costruzione delle conoscenze matematiche.​​ Si è abbastanza concordi oggi nel sostenere che le conoscenze matematiche possono essere acquisite in maniera significativa, stabile e fruibile solo se il soggetto viene impegnato attivamente nel costruirne i significati concettuali e le abilità procedurali. Le differenze di posizione riguardano i contesti in cui tale costruzione si svolge. Il costruttivismo radicale, detto anche endogeno, che deriva in ultima analisi dalle teorie piagetiane, afferma che ciascuno costruisce il proprio sapere interagendo con l’ambiente e il risultato di questa costruzione ha caratteri pronunciati di soggettività. Il costruttivismo esogeno si appoggia al concetto di apprendistato cognitivo e valorizza il ruolo di un modello che esplicita i processi implicati nell’apprendimento e nel pensiero matematico e guida poi l’acquisizione di tali processi mediante un esercizio prima seguito e corretto da vicino, poi sempre più autonomo. Il costruttivismo dialettico o sociale punta invece sul ruolo della discussione e del confronto interpersonale nello sviluppo di significati e di metodi di lavoro. I tre citati approcci al costruttivismo (endogeno, esogeno e dialettico) possono essere opportunamente valorizzati al fine di garantire la significatività e la stabilità degli apprendimenti.

5.​​ L’atteggiamento verso la m.​​ La m. costituisce tradizionalmente per molti allievi una sorgente di ansia e di paura. Un atteggiamento negativo verso la m. può emergere abbastanza presto nel corso dell’esperienza scolastica. Varie ricerche hanno messo in risalto come già in terza elementare emergano segni di tensione. Le esperienze cognitive ed emozionali connesse con l’incomprensione e con l’insuccesso stabiliscono a poco a poco una percezione di sé negativa sia per quanto riguarda la propria capacità, sia per quanto concerne le attese future. Ne consegue una caduta motivazionale e un conseguente minor impegno nello studio, cosa che a sua volta rinforza non solo la paura dell’insuccesso, ma anche il suo verificarsi. Si spiega così come tutte le indagini sia nazionali, sia internazionali abbiano evidenziato un progressivo calo di interesse e di atteggiamento positivo fino a raggiungere per una elevata percentuale di soggetti un vero e proprio rifiuto psicologico. Ne consegue la necessità di impostare progetti didattici che tengano maggiormente in conto questa dimensione dell’apprendimento matematico.

Bibliografia

Lakatos L,​​ Proofs and refutations,​​ the logic of mathematical discovery,​​ Cambridge, Cambridge University Press, 1976; Freudenthal H.,​​ Weeding and sowing. Preface to a science of mathematical education,​​ Dordrecht, Reidel, 1978;​​ Pellerey M.,​​ Per un insegnamento della m. dal volto umano,​​ Torino, SEI, 1983; Id.,​​ Esplorazioni di m.,​​ Milano, Mursia,​​ 1985; Id., «Mathematics instruction», in T. Husen - T. N. Postlethwaite,​​ International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon, 1985, 3246-3257;​​ Brousseau G.,​​ Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques,​​ in «Recherches en Didactique des Mathématiques»​​ 7 (1986) 2, 33-115;​​ Pellerey M., «Didattica della m. e acquisizione delle conoscenze e delle competenze matematiche», in M. Laeng et al.,​​ Atlante della pedagogia,​​ vol.​​ 2.​​ Le didattiche,​​ Napoli, Tecnodid, 1991, 205-232; Resnick L. B. - W. W. Ford,​​ Psicologia della m. e apprendimento scolastico,​​ Torino, SEI, 1991; Artigue M. et al.​​ (Edd.),​​ Vingt ans de didactique des mathématiques en France,​​ Grenoble, La Pensée Sauvage, 1994;​​ D’Amore B.,​​ Didattica della m., Bologna, Pitagora, 2001; Id.,​​ Didattica della m. e processi di apprendimento, Ibid., 2004; Zan R.,​​ Difficoltà in m., Milano, Springer, 2007.

M. Pellerey




DIDATTICA DIFFERENZIALE

 

DIDATTICA DIFFERENZIALE

La ricerca di procedure e di programmi organici di insegnamento / apprendimento che intendono affrontare le situazioni di «diversità» individuale all’interno della classe è oggetto della d.d., indicata in altri contesti come «insegnamento individualizzato» (individualized instruction)​​ o «adattamento dell’insegnamento alle differenze degli studenti» o «insegnamento in una classe eterogenea» o «insegnamento con presenza di portatori di​​ ​​ handicap nelle classi regolari» o «educazione speciale» nel caso in cui si pensa ad un trattamento speciale per situazioni specifiche.

1. La preoccupazione di adattare le procedure di​​ ​​ insegnamento alle difficoltà e alle esigenze individuali era già presente nell’antico oriente e in diversi momenti della storia della scuola. Tuttavia una ricerca del 1989 condotta in 8 nazioni rilevava che solo 1 insegnante su 20 ricorreva molto spesso durante l’anno ad una istruzione individualizzata (​​ individualizzazione). L’idea di accomodare la pratica didattica alle peculiari esigenze di ogni studente ha assunto oggi una tale rilevanza da essere ritenuta da molti insegnanti una delle principali risorse a disposizione della scuola per affrontare un duplice problema: elevare lo​​ standard​​ dell’apprendimento in risposta agli alti livelli di sviluppo della società e fornire a tutti uguali opportunità di formazione e istruzione Vari fattori hanno concorso a rendere attuale l’idea fra gli studiosi delle scienze dell’educazione: l’apprendimento delle conoscenze sulle diversità individuali di intelligenza, di capacità, di stili cognitivi e di livelli motivazionali con i quali gli studenti affrontano l’apprendimento, l’espansione del fenomeno della «multiculturalità» nella maggior parte delle società occidentali, la crescente diffusione di scelte di ordine culturale e politico a favore della piena inclusione nelle classi regolari di individui con particolari deficit di apprendimento, ma anche l’attenzione, seppure limitata, a coloro che mostrano speciali qualità. Tutti questi fattori e il loro intrecciarsi hanno dato origine a categorizzazioni esemplari di studenti: superdotati, normodotati, con ritardo mentale leggero, con ritardo mentale grave o portatori di handicap, ansiosi, con un basso / alto concetto di sé, demotivati, con una incapacità appresa, con motivazione intrinseca / estrinseca, a rischio, aggressivi o violenti, integrati o no con i loro compagni, con un rendimento sotto le reali possibilità (under achievement),​​ ecc.

2. La presenza di una grande varietà di tipologie di studenti nella stessa classe (o scuola) ha portato molti a cercare una risposta adeguata. Le soluzioni sono state diverse. Corno e Snow (1986) categorizzano le risposte a due livelli: macro-adattamenti e micro-adattamenti dell’insegnamento. Nei primi possono essere compresi programmi vasti e complessi come il​​ ​​ mastery learning,​​ l’IGE (Individually Guided Education)​​ e l’ALEM (Adaptive Learning Environment Model).​​ Nei secondi rientrano strategie che intendono venire incontro a particolari difficoltà o problemi da parte degli insegnanti (formazione di gruppi secondo i livelli di abilità, assegnazione di compiti diversificati, strutturazione dell’aula e dell’insegnamento compatibile con diversi stili cognitivi, adattamento agli interessi e motivazioni degli studenti attraverso contratti stabiliti tra studenti e insegnanti, attenzione al ritmo di apprendimento di ciascuno, uso di programmi computerizzati). Corno e Snow, oltre ad indicare le diverse strategie possibili per affrontare le differenti esigenze, sottolineano anche l’utilità di alcuni criteri valutativi per verificare l’efficacia di qualsiasi soluzione venga intrapresa per affrontare il problema: a) con le strategie e i programmi che vengono utilizzati sono raggiunti gli scopi dell’istruzione con particolare riferimento a quelli che sono in maggior difficoltà? b) le soluzioni intraprese mantengono o producono differenze per quanto riguarda acquisizione, transfer e arricchimento nell’apprendimento? c) vi sono studenti che si trovano a disagio per i programmi che vengono attuati?

Bibliografia

Corno L. - R. E. Snow, «Adapting teaching to individual differences among learners», in M. C. Wittrock (Ed.),​​ Handbook of research on teaching,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 605-629; Wittrock M. C. (Ed.),​​ Handbook of teaching research,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 630-647; Masters L. F. - B. A. Mori - A. A. Mori,​​ Teaching secondary students with mild learning and behavior problems. Methods,​​ materials,​​ strategies,​​ Austin, Pro-Ed.,​​ 21993; Dunn R. et al.,​​ A meta-analytic validation of the Dunn and Dunn model of learning-style preferences,​​ in «Journal of Educational Research» 88 (1995) 353-362; Villa R. A. - J. S. Thousand,​​ Creating an inclusive school,​​ Alexandria, Association for Supervision and Curriculum Development, 1995.

M. Comoglio




DIDATTICA SPECIALE

 

DIDATTICA SPECIALE

Processo attraverso il quale l’itinerario formativo definito per rispondere ai bisogni, alle potenzialità, alle peculiarità dei soggetti in situazione di​​ ​​ handicap e di grave svantaggio socio-culturale trova attuazione concreta in specifiche sequenze di apprendimento.

1. L’evoluzione storica del concetto di d.s. è strettamente connessa a quella dell’​​ ​​ educazione speciale. All’approccio sensista di Itard segue la visione più mirata allo sviluppo intellettuale di Séguin. Soltanto con​​ ​​ Montessori viene superata la concezione medico-assistenzialistica e si giunge alla centralità di un alunno da educare attraverso un itinerario didattico rispondente ad uno sviluppo mentale che procede per fasi (anticipazione dei concetti di assimilazione e accomodamento che saranno successivamente sperimentati e teorizzati da​​ ​​ Piaget). L’alunno handicappato, proprio in quanto presenta un’evoluzione in cui determinati stadi assumono carattere patologico o non sono ancora presenti e / o superati, necessita di un approccio didattico specialistico. Tali teorie intorno all’handicap trovano piena attuazione in una struttura scolastica che si configura come scuola speciale e classe differenziale in cui «alla diversità» viene data una specifica risposta didattica. Questa concezione della d.s., presente all’inizio del sec. XX nei laboratori protetti e nelle scuole ad indirizzo didattico differenziato, si può tuttora riscontrare nei sistemi scolastici di molti Paesi dove la scolarizzazione avviene in condizioni di completa o parziale separatezza.

2. In Italia l’inserimento degli alunni normali nella scuola comune, disposto dalla L. 517 del 4 agosto 1977, è pienamente consolidato nella scuola dell’infanzia e in quella dell’obbligo. Più complesso appare il processo d’integrazione nella scuola secondaria superiore, dove i percorsi didattici e l’organizzazione della struttura scolastica assumono configurazioni molto differenti rispetto alla scuola di base. In stretto riferimento con la pedagogia della differenza, la d. non si riferisce a percorsi standard da utilizzare in base alle tipologie dell’handicap, ma assume il carattere della risposta concreta ad un diritto allo studio che diviene diritto all’apprendimento, vale a dire diritto a ricevere la prestazione didattica più rispondente ai propri bisogni personali. Conseguentemente la prestazione didattica è connotata dalla flessibilità e dalla modularità e si situa in un contesto progettuale intenzionale e scientificamente valutabile. Con la L. 104 del 5 febbraio 1992 il processo di integrazione, inteso secondo questa prospettiva, raggiunge piena significazione in quanto appare ben chiaramente delineata la struttura organizzativa che si presta ad accogliere, inserire, integrare gli alunni handicappati. I percorsi didattici, pertanto, poggiano su una base razionale che pone i suoi punti di forza nel profilo dinamico funzionale (lettura dei requisiti d’ingresso e delle potenzialità residue) e nel piano educativo individualizzato (sottosistema progettuale nel sistema progettuale della scuola e della classe).

3. In tale contesto la d.s. non è percorso di semplice socializzazione «in presenza», non è percorso di omologazione, è percorso di «normalizzazione», intesa come potenziamento delle «aree sane» per compensare i deficit e le compromissioni. Progettazione ed attuazione di questi percorsi didattici non costituiscono competenza esclusiva dell’insegnante di sostegno, ma sono prerogativa di un intero gruppo docente, dove le conoscenze e le capacità specialistiche sono al servizio di un’intera comunità scolastica in cui vanno sempre più emergendo nuove «diversità» generate dal carattere complesso e conflittuale della società contemporanea.

Bibliografia

Canevaro A.,​​ Handicap e scuola,​​ Roma, NIS, 1983; Cancrini L.,​​ Bambini diversi a scuola,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1991; Trisciuzzi L.,​​ Manuale di d. per l’handicap,​​ Bari, Laterza, 1993; Vico G.,​​ Handicap,​​ diversità,​​ scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1994.

A. Augenti




DIFFERENZA / DIFFERENZIAZIONE

 

DIFFERENZA /​​ DIFFERENZIAZIONE

I concetti di d. e di differenziazione sono ampi e complessi. La loro articolazione di viene sempre più sofisticata in relazione allo sviluppo della ricerca scientifica medico biologica e sociologico-sociale. Né vanno trascurate le implicazioni filosofiche, teologiche e morali che si intersecano con la scoperta di varietà umane da considerare sotto ogni profilo. La d. si riferisce ad uno stato psicologico e sociale dell’individuo che si percepisce e / o è percepito come differente, altro, rispetto ad un universo di per sé compatto ed integrato. La differenziazione è invece un processo e richiama esplicitamente quei cambiamenti progressivi che riguardano lo sviluppo dell’individuo e / o il carattere evolutivo concernente la specie o la razza. Si distingue la differenziazione in senso biologico, dalla modificazione in senso ambientale.

1.​​ Evoluzione del concetto.​​ Soprattutto all’inizio del ’900 si tendeva a considerare il differente come la persona anticonformista che poteva facilmente scivolare nel patologico e nel criminologico: si propendeva quindi per l’identificazione delle definizioni di differente e di deviante. Nei decenni successivi gli studi hanno ripetuta mente dimostrato che i termini non esprimono la stessa realtà e che il passaggio dal differente / diverso al deviante e al delinquente non rappresenta un continuum nel percorso esistenziale della persona. Proprio nel primo caso il soggetto chiede di vivere entro una società che ne legittimi la presenza, eventualmente con modifiche normative. Nel secondo e nel terzo caso vi è invece una trasgressione ora dei codici culturali, ora dei codici penali. In sociologia e in psicologia si parla di​​ teoria dell’associazione differenziata,​​ che sostiene che l’apprendimento di comportamenti subculturali anticonformisti avverrebbe attraverso forme di comunicazione negativa e la relativa possibilità di azioni di rinforzo o discriminazione. In base a materiale empirico comparato, la​​ ​​ psicologia sociale e l’antropologia culturale notano come le differenziazioni culturali relative a valori e norme intervengono orientando la​​ ​​ comunicazione che può favorire situazioni di conflitto o di comprensione tra appartenenti a culture diverse. Le d. individuali sono state anche studiate nella tendenza al​​ ​​ conformismo: gli individui reagiscono diversamente alla pressione di gruppo. In questo caso la d. registrabile è quella relativa al soggetto e al gruppo, ma ci si riferisce sempre ad una misura che pone a confronto elementi considerati oggetto di analisi di laboratorio. Altra cosa è la d. che negli anni ’70 si è cominciata a valutare guardando al suo carattere di alternativa culturale e politica con risvolti anche comportamentali. Soggetti determinati sono andati a formare categorie specifiche di analisi, al punto da permettere letture circoscritte della struttura e della dinamica sociale. Pensiamo ad es. ai giovani, alle donne, all’infanzia, ai tossicodipendenti, agli omosessuali, al dissenso religioso, ai soggetti con handicap, agli emarginati, alle minoranze, agli stranieri e agli extracomunitari. La d. di queste categorie individuali e sociali viene di volta in volta descritta rispetto alla separazione da un insieme omogeneo per​​ ​​ cultura, razza, religione, morale, stile di vita ed altro.

2.​​ Diritto alla d. e pedagogia della d.​​ Tra le tesi che esaltano la d. come opposto dell’omologazione culturale, vi sono quelle che considerano l’uguaglianza fra uomo e donna realizzabile solo in un «pensiero del genere» appartenente culturalmente a due sessi distinti, ma senza una riscrittura che differenzia diritti e doveri ora per un sesso ora per l’altro. La d. sessuale è una realtà insopprimibile; ciò che appare importante è la definizione dei valori di appartenenza a un genere nel rispetto di ciascuno dei due sessi. Secondo questa visione la d. sessuale risulterebbe necessaria alla conservazione della specie umana, legata alla cultura e ai linguaggi della società di riferimento. C’è poi chi individua nella d. un vero e proprio traguardo formativo nel senso che ogni persona ha diritto a non essere considerata parte indistinta di un tutto amorfo, di un «pluralismo informe». Altra questione è quella della non-d., intesa come diritto all’inserimento sociale e umano di minorati fisici, sensoriali e psichici che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (fine degli anni ’80), riguardano il 13% della popolazione; l’80% delle minorazioni si registrano nel cosiddetto Terzo Mondo. La differenziazione in pedagogia va dall’idea dell’educazione all’unità nella molteplicità, alle questioni metodologiche connesse al superamento della univocità dei programmi di studio. Nella differenziazione didattica si tiene conto della varietà di metodi di insegnamento capaci di attuare i programmi scolastici ufficiali attraverso interventi e mezzi riferibili ad una specifica ispirazione pedagogica, come nel caso delle scuole di metodo (es. metodo​​ ​​ Steiner, metodo​​ ​​ Montessori). Né va dimenticato l’ampio capitolo delle d. individuali e del rendimento scolastico al centro del dibattito tra ambientalisti ed innatisti; nonché la differenziazione della pedagogia come scienza sempre più articolata in nuove discipline.

Bibliografia

Ballanti G.,​​ Modelli di apprendimento e schemi di insegnamento,​​ Teramo, Lisciani & Giunti, 1988; Chistolini S.,​​ Tagore Aurobindo Krishnamurti. Unità dell’uomo e universalità dell’educazione,​​ Roma, Euroma-La Goliardica, 1990; Mayor Zaragoza F.,​​ Domani è troppo tardi. Sviluppo,​​ istruzione,​​ democrazia,​​ Roma, Studium, 1991; Irigaray L.,​​ Io,​​ tu,​​ noi. Per una cultura della d.,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Rossi B.,​​ Identità e d. I compiti dell’educazione,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Vattimo G.,​​ Le avventure della d., Milano, Garzanti, 2001; Sartini A.,​​ Figure della d.: percorsi della filosofia francese del Novecento, Milano, Mondadori, 2006.

S. Chistolini




dinamica di GRUPPO

 

GRUPPO: dinamica di

Per dinamica di g. si intende lo studio della natura dei g., le leggi del loro sviluppo, le relazioni tra individui e g., le relazioni reciproche tra i g. e le loro organizzazioni. Altre due accezioni trovano notevole consenso tra gli studiosi: a) la dinamica di g. come ideologia politica riguardante il modo di organizzare e dirigere i g.; acquistano importanza in questa concezione la leadership democratica, la partecipazione di tutti nel processo decisionale, i vantaggi della mutua collaborazione sia per l’individuo che per la società in generale; b) la dinamica di g., soprattutto dopo gli anni ’70, è stata vista spesso come processo di sensibilizzazione, di esperienze di g., di discussioni non strutturate che dovrebbero portare alla capacità di comprensione reciproca e di apertura in un ambiente pluralistico (Scilligo, 1992).

1.​​ La produttività nel g.​​ Le persone si inseriscono nei g. per ragioni funzionali. Tipiche ragioni funzionali sono le seguenti: l’​​ ​​ appartenenza,​​ cioè per ritrovarsi con persone ed amici; il​​ confronto sociale,​​ per avere un luogo di riferimento nelle situazioni di incertezza; la​​ realizzazione di​​ ​​ valori,​​ per sentirsi protette e accompagnate nell’attuazione di valori importanti;​​ la produttività,​​ per vantaggi di lavoro mediante la divisione dei compiti; la​​ ​​ stima di sé,​​ per lo status proveniente dall’appartenenza; la​​ protezione,​​ per difendersi da minacce esterne. Spesso solo la presenza di altri aumenta la produttività se i compiti sono relativamente facili (l’effetto della facilitazione sociale), ma la produttività tende a diminuire se i compiti sono difficili (l’effetto della inibizione sociale) (Zajonc, 1965). Il lavoro fatto interagendo con altri viene ritenuto di solito come vantaggioso, anche se non è sempre così: spesso infatti si produce il fenomeno della deresponsabilizzazione di alcune persone nel g. Nel lavoro di g. si possono avere risultati più efficienti se i compiti sono suddivisibili e si introduce un’adeguata organizzazione, altrimenti il lavoro di g. può diminuire la produttività. Perché il g. sia produttivo, occorre adeguata motivazione e organizzazione. Se i membri del g. hanno bassi livelli di difensività, si abbassano i livelli di esclusione competitiva dell’altro e aumenta la capacità di collaborazione assertiva che tiene conto della protezione di sé e dell’altro.

2.​​ La struttura del g.​​ Nei g. interattivi molto presto si produce struttura, cioè avviene una suddivisione di ruoli definiti da precise regole di comportamento che stabiliscono le norme che deve osservare la persona che occupa il ruolo; ad es. in un ristorante ben presto ci sarà chi fa da cuoco, chi fa da cassiere, chi prende gli ordini dai clienti, chi li serve. Per mantenere la struttura del g. sono importanti la comunicazione e l’attrazione tra i membri. Normalmente emergono due capi diversi: il capo che si incarica dell’organizzazione e il capo che si cura delle relazioni tra le persone (Bales e Slater, 1955).

3.​​ Il​​ capogruppo o leader.​​ Quando i g. crescono nella numerosità dei membri, si sviluppa necessariamente una struttura ed emerge un capogruppo. Di solito per l’affermarsi del capogruppo, oltre alla numerosità dei membri (= più di quattro o cinque persone), occorre anche che il g. abbia la sensazione che può riuscire nel suo compito, che la riuscita è apprezzata, ed è presente una persona che sia in grado di assumersi la funzione di leader. Il g. nel creare il leader rinuncia a una parte del potere e quindi il leader emerge solo sotto condizioni particolari, ad es. se c’è il pericolo che non si riesca a portare a termine i compiti che il g. si propone e se c’è bisogno di distribuire equamente i risultati del lavoro di g. Oggi si sa anche (Fiedler, 1978) che l’emergere del leader e lo stile richiesto nel leader dipende dalle caratteristiche della situazione. Tipicamente si riscontrano due tipi di leader, quello orientato alle relazioni con le persone e quello orientato alla soluzione dei problemi riguardanti i compiti del g. Le situazioni possono essere favorevoli, in quanto i compiti sono relativamente semplici, il rapporto leader-membri è buono e il leader ha potere nell’ottenere benefici per i membri; se queste condizioni non si verificano allora le condizioni sono sfavorevoli. In generale nelle condizioni molto favorevoli e molto poco favorevoli emerge un leader capace di organizzare e gestire i compiti, mentre invece nelle situazioni mediamente favorevoli tende ad emergere il leader che è capace di gestire le relazioni tra le persone. I g. di solito hanno bisogno della presenza di tutti e due i tipi di leader e difficilmente i due stili di leader si possono riscontrare nella stessa persona. Di qui non solo la difficoltà di avere un solo leader che faccia tutto in un g., ma anche la pratica impossibilità di avere un leader uguale per tutte le situazioni.

4.​​ La comunicazione nei g.​​ Esistono diversi modi di comunicare nei g. Prototipici sono due: la rete di comunicazione centralizzata e la rete circolare. Nella rete centralizzata la comunicazione passa necessariamente attraverso un distributore centrale per arrivare agli altri membri. Nelle reti circolari la comunicazione passa da un membro all’altro senza passare necessariamente attraverso un distributore centrale dell’informazione. Si è riscontrato che nelle situazioni di compiti semplici le reti centralizzate sono più efficienti, mentre sono più efficienti quelle circolari per compiti complessi (Shaw, 1964). Con problemi complessi nella rete decentralizzata, rispetto a quella centralizzata, tende ad essere presente maggiore soddisfazione nel g. Quando l’informazione da passare è eccessiva le reti centralizzate tendono ad intasarsi e a creare inefficienza.

5.​​ Conformismo sociale nei g.​​ Soprattutto nelle situazioni ambigue, le persone, di fronte ai pareri degli altri con i quali fanno g., cambiano idea e trasformano le proprie opinioni, e tale cambiamento tende a permanere anche dopo l’avvenuta pressione di g. (Jacobs & Campbell, 1961). Nelle situazioni dove il g. sostiene in maggioranza un’opinione di fronte a un individuo che non può consultarsi con altri, l’individuo può talora accettare come corretto anche ciò che è ovviamente incorretto (Asch, 1951). Sembra che il fenomeno si verifichi perché la persona si fida di più degli altri che di sé (influsso informativo) o per il suo desiderio di essere come gli altri e di non essere rifiutato (influsso normativo). Moscovici (1976) ha dimostrato che una minoranza compatta può avere un grande impatto nel provocare un cambiamento verso l’innovazione, anche se va contro il parere della maggioranza. L’impatto della minoranza coerente sembra particolarmente forte se essa si presenta flessibile nelle sue negoziazioni; la minoranza coerente ha meno impatto se è rigida e dogmatica. Secondo Moscovici l’opinione della maggioranza provoca un processo di confronto sociale in cui la persona confronta la propria risposta con quella degli altri, mentre l’opinione della minoranza coerente provoca un processo di verifica, cioè un processo cognitivo avente lo scopo di capire perché la minoranza persiste con coerenza nel mantenere le opinioni che sostiene.

Nelle discussioni di g. si è riscontrato che avviene uno spostamento verso i pareri inizialmente mediamente condivisi dal g. (Myers, 1982), provocando spostamenti verso posizioni estreme e di maggiore rischio o maggiore cautela; il fenomeno è comunemente conosciuto sotto il nome di polarizzazione di g. Il fenomeno si verifica nelle più svariate situazioni: nell’uso degli stereotipi, nelle impressioni interpersonali, nel comportamento prosociale o antisociale, nelle contrattazioni, nelle decisioni delle giurie, nei g. di consulenza, nei g. di sostegno sociale, nei g. religiosi e nei giochi d’azzardo. Alla base dello spostamento di opinione verso posizioni più estreme sembra ci siano i fenomeni dell’influsso informativo e normativo ai quali è stato accennato parlando del conformismo. Le implicanze del fenomeno sono importanti, soprattutto in riferimento ai g. nei quali i membri pensano la stessa cosa: nelle decisioni delle giurie, dei comitati, dei governi, avviene una polarizzazione anche verso posizioni sbagliate, poco sagge e talora disastrose; di qui l’utilità della presenza di g. di opposizione. Una conseguenza pericolosa dei processi implicanti il conformismo è l’ubbidienza cieca all’autorità nelle dittature e nei plagi di g.; alcune conseguenze sono ben note nei comportamenti implicanti pulizie etniche, stermini nei campi di prigionia e suicidi di massa. Come si può vedere, nelle pressioni di g. sono implicati gravi problemi di natura etica e morale (Milgram, 1974).

Bibliografia

Asch S. E., «Effects of group pressure on the modification and distortions of judgments», in H. Guetzkow (Ed.),​​ Groups,​​ leadership and men,​​ Pittsburg, Carnegie, 1951; Bales R. F. - P. E. Slater, «Role differentiation in small decision-making groups», in T. Parsons - R. F. Bales (Edd.),​​ Family,​​ socialization and interaction process,​​ Glencoe, Free Press, 1955; Jacobs R. C. - D. T. Campbell,​​ The perpetuation of an arbitrary tradition through several generations of a laboratory microculture,​​ in «Journal of Abnormal and Social Psychology» 62 (1961) 649-658; Moscovici S.,​​ Social influence and social change,​​ London, Academic Press, 1976; Myers D. G., «Polarizing effects of social interaction», in H. Brandstätter - J. H. Davis - G. Stocker-Kreigauer (Edd.),​​ Group decision making,​​ New York, Academic Press, 1982; Scilligo P.,​​ G. di incontro: teoria e pratica,​​ Roma, IFREP, 1992; Zanardi A.,​​ Dinamiche Interpersonali e sviluppo del sé, Milano, Angeli, 2001.

P. Scilligo