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DÉVAUD Michel Eugène

 

DÉVAUD Michel Eugène

n. a Granges-la-Battiaz (Friburgo) nel 1876 - m. a Friburgo nel 1942, pedagogista svizzero.

1. Compiuti gli studi secondari, D. entra in seminario (1897) ed è ordinato sacerdote (1901), ottenendo la laurea in lettere presso l’università di Friburgo (1904). I suoi interessi pedagogici maturano nei viaggi di studio in Francia, Belgio e Germania. Rientrato in patria, è nominato ispettore delle scuole primarie di Friburgo. Nel 1910 diventa professore di pedagogia generale e didattica all’università. Dal 1921 insegna nella scuola normale di Stato ed è redattore del «Bulletin Pédagogique». Le sue opere più importanti:​​ Le systéme Decroly et la pédagogie chrétienne​​ (1909),​​ Pour une école active selon l’ordre chrétienne​​ (1934),​​ L’école affirmative de vie​​ (1936),​​ Dieu à l’è­cole (1941).

2. L’impegno di D. per l’istruzione si tradusse in orientamenti per la promozione della​​ ​​ scuola rurale e per il rinnovamento dei contenuti e della didattica. Un tema centrale è il confronto con i «pedagogisti della​​ educazione nuova».​​ Le critiche (naturalismo, biologismo, ambiguità del concetto di interesse) sono precedute dallo sforzo per individuare le note di «una scuola attiva secondo l’ordine cristiano», richiamando anzitutto i presupposti della «scuola tradizionale»: diritti imprescrittibili della persona umana, ruolo della famiglia nell’educazione, sottomissione del fanciullo all’autorità degli educatori. Nell’ambito della scuola, D. rivendica la «supremazia dell’intelligenza» chiamata a «pronunciare un giudizio chiaro, sicuro, saldamente fondato, su ciò che noi siamo, sulle realtà di tutti i giorni». L’attività del maestro va ordinata all’attività dell’alunno, ma l’attività di questi va ordinata alla verità. La posizione di D. ebbe un notevole influsso sui pedagogisti cristiani negli anni centrali del XX sec. (v. anche​​ ​​ Scuole Nuove).

Bibliografia

Salucci S.,​​ E.D.,​​ Brescia, La Scuola, 1959; Antonello G.,​​ La figura e l’opera di E.D. per l’integrazione cristiana dell’attivismo nell’educazione e nella scuola,​​ Roma, P.U.L., 1979;​​ Prellezo​​ J.M. - R. Lanfranchi (Edd.), «D.M.E.», in Idd.,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 3, Torino, SEI, 2004, 276-280.

J. M. Prellezo




DEVIANZA

 

DEVIANZA

Il termine d. ha perso, negli anni recenti, parte della sua valenza esplicativa, sia perché le diverse teorie sociologiche che interpretano questo fenomeno ne hanno proposto significati contraddittori (fino ad intenderlo come innovazione e stimolo al cambiamento sociale), sia perché nelle società complesse le norme sociali mostrano elevata flessibilità e non definiscono più in termini precisi i criteri di normalità. In psicologia, poi, è sempre stato poco in uso e le caratteristiche di comportamento deviante sono state espresse con termini quali disturbo, sindrome,​​ ​​ psicopatologia,​​ ​​ nevrosi e psicosi. Nonostante queste difficoltà di utilizzazione e di significato, e la frequente sostituzione con il termine disagio, il concetto di d. è ancora rappresentativo per la descrizione di comportamenti non conformi alle norme. In una prospettiva pedagogica, soprattutto, il termine d. è estremamente valido per la descrizione di processi che non conducono alla realizzazione della piena dimensione umana, sociale e relazionale, indipendentemente dal fatto che siano conformi ai modelli normativi istituzionalizzati e diffusi nelle diverse e specifiche culture. Rimane aperto il problema della classificazione dei comportamenti devianti poiché, vista l’indeterminatezza del significato, il termine può rischiare di designare molte e differenti condizioni. Dinitz (1969) propone una classificazione della d. distinguendola in​​ anormalità​​ (i «diversi» e cioè gli handicappati fisici e psichici),​​ malattia​​ (malati mentali, alcoolisti, tossicomani),​​ crimine​​ (quando intervenga una violazione esplicita delle leggi scritte e si entra invece nell’ambito del concetto di delinquenza),​​ alienazione​​ (disadattamento più o meno cosciente nei confronti della realtà sociale),​​ peccato​​ (violazione di valori concernenti il sacro).

1.​​ La d. e la psicopatologia.​​ Nella criminologia classica ad orientamento positivista la d. viene descritta come inerente a tipologie somato-psichiche; il determinismo biologico di Lombroso (1878) è ancor oggi il riferimento d’obbligo per la discussione della compromissione delle aree intellettuali e morali in taluni individui; prima di lui, Pritchard (1835) aveva descritto casi di «follia morale» e «imbecillità morale» come prototipi di uno stato psicopatologico; successivamente Koch (1891) coniò il termine​​ inferiorità psicopatica​​ per indicare tratti di comportamento con labilità dell’io ed incapacità di adattamento. Contestate dall’approccio psicologico e sociologico alla d., che invece la descrivono come variazione a norme prodotte socialmente e dunque relativizzabili ai contesti di riferimento, tali ipotesi deterministiche sono riemerse attualmente, in specie per descrivere la predisposizione personale genotipica, l’ereditarietà della propensione all’uso di droghe ed alcool e l’associazione a comportamenti violenti o aggressivi con fattori neurologici presenti in alcune sindromi come il discontrollo episodico, il danno minimo cerebrale e la personalità antisociale.

2.​​ La d. e la psicologia.​​ L’approccio psicologico alla d. può essere classificato come studio dei processi intrapsichici e relazionali che la determinano. In questo quadro le principali costruzioni teoriche del pensiero psicologico propongono la d. come l’effetto di spinte all’azione sociale non contenute dai dispositivi (variamente denominati) interiorizzati dall’individuo. Senza più riferirsi a qualche tratto psicopatologico costituzionale discutono intorno a deficit nell’apprendimento, nella strutturazione della personalità, nelle capacità relazionali, nell’autocontrollo, nella gestione dei conflitti interni e sociali, ecc., conseguenti a percorsi problematici o eventi traumatici in età evolutiva. Il contributo della psicologia è dunque notevole soprattutto perché, pur nelle differenti impostazioni, concettualizzazioni e linguaggi, si muove alla ricerca dell’eziologia del disagio interiore e relazionale che può trasformarsi in esplicito comportamento deviante.

3.​​ La sociologia della d.​​ Lo studio della d. in sociologia è fatto tradizionalmente risalire a​​ ​​ Durkheim (1897). Con i concetti sociologici di anomia e d. si attua un radicale spostamento dall’ottica psicologica e psichiatrica fino a qui prese in considerazione verso l’approccio sociale. Anomia e d. sono due condizioni determinate socialmente, la prima significa mancanza di sufficiente interiorizzazione di norme e valori, la seconda è un «fatto sociale» compiuto da un soggetto in cui si incarnano le tensioni della coscienza collettiva. La letteratura sociologica sulla d. prenderà consistenza solo a partire dai lavori della Scuola Ecologica di Chicago, che analizzerà le sub-culture devianti, l’apprendimento dei processi di d. nel rapporto con individui e gruppi orientati al crimine fino a formulare un vasto repertorio di teorie via via più esplicative e complesse. Con la distinzione di Lemert (1981) tra d. primaria e d. secondaria si attua una svolta nella sociologia della d. Per d. primaria si intende l’atto deviante vero e proprio, originario, e per d. secondaria il rinforzo conseguente all’etichettamento sociale del comportamento deviante. In particolare secondo Matza (1976), ove la reazione sociale attribuisca ad un individuo caratteri di pericolosità, di follia e di d., la persona che trasgredisce sistematicamente una norma sociale sarà invitata a conformarsi alle aspettative degli altri. Ma questo invito al​​ ​​ conformismo per l’individuo avverrebbe in termini tendenzialmente attivi ed a livello cognitivo. Il deviante rimarrebbe sempre, o quasi sempre, consapevole e libero nelle sue scelte, anzi la percezione di un’affinità​​ con individui e gruppi devianti produrrebbe, a catena, maggiore consapevolezza –​​ affiliazione​​ – e maggiore accettazione della definizione sociale –​​ significazione​​ – che gli altri danno di lui. Infatti il suo diventare deviante è conseguenza di rielaborazioni intorno a se stesso, intorno a ciò che lui pensa che gli altri pensino di lui. In altri termini è un processo che avviene intorno alle aspettative di significato che la persona matura attende attraverso la realizzazione di un atto deviante. La teoria della rappresentazione sociale affronta il tema della d. approfondendo il concetto che lo stigma derivi dalle visioni collettive dei diversi gruppi presenti nella società. La conflittualità tra gruppi permette a minoranze attive di imporsi con il loro punto di vista sulla maggioranza e di procedere a far cambiare la visione collettiva di certi comportamenti. Ragion per cui un comportamento considerato più o meno gravemente deviante, può trasformarsi in un comportamento conformista e veder comunque diminuito l’etichettamento precedentemente ricevuto. Il punto saliente del pensiero marxista (​​ marxismo pedagogico) sulla d. è che le norme sociali da cui si devia sono definite dalla classe dominante allo scopo di mantenere il potere politico ed economico sulle classi subalterne. Pertanto, la d. è sintomo delle contraddizioni del capitalismo e la sua repressione è funzionale alla riproduzione sociale del sistema. Dalla presa di coscienza della condizione deprivata di proletario e sottoproletario, e dalla comprensione del contenuto politico del processo di d. messo in atto dal singolo per raggiungere ad ogni costo la felicità negata dal capitalismo, i devianti possono trasformare la loro d. individuale in processo di​​ ​​ emancipazione per tutta la società. Il​​ ​​ controllo sociale è uno strumento preventivo per contenere i processi di d. che scaturiscono nella società, sia per le contraddizioni del sistema, sia per l’amoralità dei singoli. Il controllo sociale è​​ deterrent​​ dei processi di d., ed il suo funzionamento viene analizzato in relazione alla forza persuasiva che esercita, in specie nei giovani. Hirschi (1969) ritiene che le relazioni nel gruppo dei pari siano le strutture di supporto per il coinvolgimento reciproco dei giovani in azioni devianti, qualora essi siano bisognosi del conforto di opinioni concordanti con le loro. In pratica la d. è una ricerca di conformità e conforto nel gruppo in ragione della caduta di conformismo con le norme dominanti, che non sono state recepite ed accettate. Quando un giovane vive carenze di​​ ​​ socializzazione (iposocializzazione) non interiorizzerà norme e valori che costituiscono la prima struttura del controllo sociale (autocontrollo). La mancanza di deterrenza da parte delle istituzioni – timore di essere escluso, etichettato, punito, arrestato, etc. – agevola la propensione alla carriera deviante. Alla luce delle teorie relazionali la d. può essere letta come un’azione comunicativa (​​ comunicazione) del soggetto, costretto entro definizioni sottili e invischianti prodotte dal sistema di relazioni in cui è inserito. La teoria dell’azione comunicativa è molto fertile per colmare alcune lacune delle precedenti teorie. Si tratta di leggere l’atto deviante come espressione comunicativa, anche paradossale, dell’organizzazione interna e relazionale del soggetto che segnala la presenza di un messaggio importante circa l’affermazione della sua identità. Tale messaggio però non è da intendersi come un​​ acting-out​​ dei conflitti intrapsichici come nelle interpretazioni psicologiche della d., né come un comportamento di interazione simbolica più o meno condizionata dalle aspettative previste nel contesto, ma come la ricerca di un effetto reale per ridefinire la posizione del soggetto nel sistema di relazioni cui partecipa. Il concetto di doppio legame di cui un individuo è prigioniero (il doppio legame è un’ingiunzione che contiene a livello metacomunicativo il divieto di obbedire all’ingiunzione) e il concetto di ridondanza (ripetizione di un’azione che sottintende nessi tra atto e contesto) sono centrali per comprendere che nell’azione comunicativa deviante il soggetto ha fatto riferimento a regole ed a significati che ha organizzato internamente sia dal punto di vista cognitivo che emozionale.

4.​​ La d. come processo educativo non riuscito.​​ Alla luce delle teorie relazionali acquista significato più completo l’affermazione della d. come processo educativo non riuscito. Come dimostra H. Franta (1988) le relazioni interpersonali (​​ rapporto educativo) sono sempre state concepite lungo la storia della pedagogia come fenomeno fondamentale dell’educazione. In particolare, nella pedagogia personalista, l’uomo non viene mai considerato nella sua individualità ma nel suo relazionarsi al mondo: la sua stessa esistenza è esistenza relazionale. Questo fa dell’educazione un rapporto a due vie. Se l’​​ ​​ educando non incontra educatori che modellano la propria disposizione relazionale e comunicativa sulla base dei suoi vissuti empatizzati, egli non vedrà soddisfatti i propri bisogni e non riuscirà ad acquisire gli specifici valori indispensabili all’arricchimento della sua personalità. Il bisogno di orientamento dell’educando non sarà autocompreso, con esiti di diminuzione della sua educabilità, autopercezione di disagio esistenziale e relazionale, possibile senso di progressiva affinità con azioni trasgressive, vissute come atti comunicativi che possono sconfinare nella d. primaria. In tal senso la d. come fatto psico-sociologico e personale pone per se stessa in questione la qualità dell’ educazione e si viene a proporre come «ardua» domanda di un’educazione «buona». L’educazione costituisce la prima forma di​​ ​​ prevenzione e, se non c’è stata, richiede un intervento di ri-educazione.

Bibliografia

Cohen A. K.,​​ Controllo sociale e comportamento deviante,​​ Bologna, Il Mulino, 1969; Hirschi T.,​​ Causes of delinquency,​​ Berkeley / Los Angeles, UCP, 1969; Watzalawick P. - J. H. Beavin - D. D. Jackson,​​ Pragmatica della comunicazione umana,​​ Roma, Astrolabio, 1971; Pitch T.,​​ La d.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1975; Matza D.,​​ Come si diventa devianti,​​ Bologna, Il Mulino, 1976; Ciacci M. - V. Gualandi,​​ La costruzione sociale della d.,​​ Ibid., 1977; Lemert E. M.,​​ D.: Problemi sociali e forme di controllo,​​ Milano, Giuffrè, 1981; Bandini T. - U. Gatti,​​ Delinquenza giovanile,​​ Ibid., 1987; Franta H.,​​ Atteggiamenti dell’educatore,​​ Roma, LAS, 1988; De Leo G.,​​ La d. minorile,​​ Roma, NIS,​​ 21998; Williams F. P. - M. D. McShane,​​ D. e criminalità, Bologna, Il Mulino, 2000; Garland D.,​​ La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2001; Melossi D.,​​ Stato,​​ controllo sociale e d., Milano, Mondadori, 2002; Berzano L. - F. Prina,​​ Sociologia della d., Roma, Carocci, 2003.

V. Masini - G. Vettorato




DEWEY John

 

DEWEY John

n. a Burlington (Vermont) nel 1859 - m. a New York nel 1952, filosofo e pedagogista statunitense.

1.​​ Vita.​​ D. nacque da una modesta famiglia di agricoltori. La Burlington in cui D. trascorse gli anni giovanili aveva una popolazione di circa quindicimila abitanti, molti dei quali oriundi dell’Irlanda e del Quebec. Vi erano rappresentati in buon numero gli​​ old Americans,​​ discendenti delle famiglie del ceto medio anglosassone stabilitesi nel Vermont o in altre parti del New England, e fu nella tradizione di questo gruppo sociale che D. fu allevato. Frequentò le scuole pubbliche di Burlington e poi si iscrisse all’Università del Vermont. Qui gli insegnamenti del quarto anno, in particolare quelli di economia, filosofia e teorie religiose, influirono decisivamente e permanentemente sul giovane D. che era a quel tempo, come egli stesso ebbe a definirsi, un «vorace lettore». Egli alternava agli studi attività fisiche e sportive, di nuoto e di pesca nel lago Champlain e di campeggio nelle​​ Green Mountains.​​ In questo periodo ebbe a soffrire di notevoli restrizioni educative ad opera della madre, che lo sottoponeva a veri e propri interrogatori al suo rientro a casa per sapere se avesse compiuto qualche azione riprovevole, il che gli provocava, com’egli stesso ebbe successivamente a ricordare, angosciosi e acuti sensi di colpa. Completati gli studi al​​ College​​ D. insegnò per tre anni in una​​ high school​​ e alla fine del 1882 si iscrisse alla Johns Hopkins University di Baltimora per intraprendere studi di filosofia superiore. Qui fu allievo di George Sylvester Morris,​​ visiting professor​​ proveniente dall’università del Michigan ed esponente autorevole del neohegelismo. Conseguito il titolo di​​ Philosophy Doctor​​ nel 1884 D. si trasferì all’università del Michigan, dove, per segnalazione di Morris, prestò servizio come​​ instructor in philosophy and psychology.​​ Col solo intervallo di un anno, che tra il 1888 e il 1889 lo vide professore di filosofia all’università del Minnesota, D. passò un intero decennio nel Michigan. Durante questo tempo i suoi interessi si volsero soprattutto alla filosofia hegeliana e ai neohegeliani inglesi, nonché alla nuova psicologia fisiologica e sperimentale introdotta e sviluppata allora negli Stati Uniti da G. Stanley Hall e da​​ ​​ James. In questi anni maturarono i suoi interessi pedagogici. Le letture e le personali osservazioni lo convincevano che l’organizzazione scolastica non corrispondeva alle indicazioni della psicologia scientifica e ai principi e alle esigenze della società democratica. Lo sforzo di elaborare una​​ ​​ filosofia dell’ educazione che ponesse rimedio a questi difetti divenne centrale nello sviluppo del pensiero deweyano, e lo arricchì di una nuova dimensione. Alla maturazione ulteriore degli interessi pedagogici deweyani contribuì il suo matrimonio, nel 1886, con Harriet Alice Chipman, assai impegnata sul terreno educativo e sociale. Entrambi amavano molto i bambini, e avendone perduto due in tenera età ne adottarono uno nel corso di un viaggio in Italia. D. lasciò l’università del Michigan nel 1894 per diventare professore di filosofia e presidente del dipartimento di filosofia, psicologia e pedagogia all’università di Chicago. Di là sarebbe passato nel 1904 alla cattedra di filosofia della Columbia University di New York, dove sarebbe restato per venticinque anni nell’insegnamento attivo, e per altri ventidue come professore emerito. In questo periodo la sua reputazione di filosofo, di pedagogista e di attento e autorevole osservatore e critico dei fatti sociali venne progressivamente crescendo, e la sua presenza pubblica si venne accentuando. Contribuì con S. O. Levinson al Kellog-Briand Pact del 1928, e fu uno dei fondatori e primo presidente dell’Associazione di professori universitari. Sul piano più strettamente politico si adoperò per organizzare un partito, ritenendo che i due partiti maggiori del Congresso non fossero all’altezza dei problemi generati dalla grande depressione degli anni trenta. Nel 1937, all’età di 78 anni, D. ebbe a presiedere una commissione che si recò a Città del Messico per ascoltare e valutare ciò che L. Trotsky aveva da dire in risposta alle imputazioni di cui era stato oggetto nei processi moscoviti del 1936 e del 1937. La reputazione internazionale di D. fece sì che fosse invitato in numerosi Paesi per conferenze e interventi di vario genere (Giappone, Cina, Turchia, Russia, Sud Africa, Messico). Negli anni dell’avanzata maturità, a circa vent’anni dalla morte della prima moglie, avvenuta nel 1927, passò a seconde nozze con Roberta Lowitz Grant, insieme alla quale adottò due bambini belgi, fratello e sorella, orfani di guerra.

2.​​ Produzione scientifica.​​ D. ha profondamente segnato la cultura filosofica e pedagogica del nostro tempo, percorrendo itinerari che sono stati variamente definiti come passaggio dallo spiritualismo al naturalismo, dall’assolutismo allo sperimentalismo, dall’idealismo al pragmatismo «strumentalistico», e di qua al transazionalismo umanistico e «olistico» degli ultimi scritti. La produzione deweyana è talmente vasta che un intero e non esiguo volume è stato destinato, già da alcuni decenni, a raccogliere i titoli delle sue opere e di quelle che espongono, commentano o criticano il suo pensiero.​​ Le opere complete (Collected works)​​ di D. sono pubblicate nei 39 volumi dell’ediz. critica a cura di Jo Ann Boydston, Southern Illinois University Press, Carbondale and Edwardville, 1969-1991 divise in​​ The early works,​​ 1882-1898; The middle works,​​ 1899-1924; The later works,​​ 1925-1953.​​ Dai saggi giovanili pubblicati su riviste teologiche, filosofiche e psicologiche, da​​ Scuola e società​​ (1899) a​​ Democrazia e educazione​​ (1916), da​​ Ricostruzione filosofica​​ (1920),​​ Natura e condotta dell’uomo​​ (1922) ed​​ Esperienza e natura​​ (1925), a​​ La ricerca della certezza​​ (1929), e alla​​ Logica,​​ teoria dell’indagine​​ (1938), fino ai saggi pubblicati nel 1946 col titolo​​ Problems of men​​ (Problemi di tutti​​ nella traduzione italiana curata da Giulio Preti) e a​​ Knowing and the known​​ (Il conoscere e il conosciuto)​​ del 1949, la sua produzione si è articolata in tutti gli ambiti della ricerca teorico-speculativa e scientifico-metodologica, portandovi contributi di fondamentale importanza di cui si riconoscono universalmente la grande originalità e l’eccezionale valore e che oggi, dopo un breve periodo di offuscamento, si ripropongono come punti di riferimento di un pensiero teorico metodologicamente agguerrito ma anche – e diciamo pure «deweyanamente» – affrancato dall’«ossessione» teoricistica e cognitivistica. Sia nella fase giovanile che in quella dell’avanzata e tarda maturità, D. ha svolto un ruolo di​​ trait-d’union​​ fra la cultura filosofica europea e quella d’oltre Atlantico. Non si tratta, ovviamente, di un filosofo «per molte stagioni», ma di un «macrobiòs» e di un maestro le cui prospettive travalicano il tempo di vita individuale e si accampano in un presente e in un futuro denso di incognite e di ombre, ma anche rischiarato da speranze che l’umanità approdante al terzo millennio non pare ancora rassegnata e disposta a cancellare e ad escludere dal proprio orizzonte.

3.​​ Concezione filosofica e pensiero pedagogico.​​ In pochi pensatori moderno-contemporanei la connessione di pensiero filosofico e di pensiero pedagogico è organica e strutturale come in D. Per un lungo periodo, tuttavia, essa restò come in una condizione di latenza. La connessione inizialmente più apprezzabile è quella tra filosofia e psicologia, secondo una curvatura che può ben definirsi di tipo idealistico o neoidealistico, e con una significativa mescolanza di interessi metafisico-speculativi, logici e teologici, testimoniati da saggi di varia ampiezza ed ispirazione. Fino al 1897 (D. aveva all’epoca quasi quarant’anni) gli scritti più vicini al pensiero pedagogico erano stati le poche pagine di​​ The psychology of infant language​​ (1894), il​​ Plan of organization of the University Primary School​​ (1895), rimasto praticamente inedito, la risposta ad un questionario pubblicata col titolo​​ The results of child study applied to education​​ (1895), il​​ «paper» Influence of the High School upon educational methods​​ (1896) e la breve nota​​ Pedagogy as a University discipline​​ (1896). Nel 1897 videro la luce altri brevi saggi, quali​​ Ethical principles underlying education,​​ My pedagogic creed​​ e​​ The aesthetic element in education,​​ a cui vennero ad aggiungersi in quello stesso anno altre brevissime note quali​​ The kindergarten and child-study,​​ The psychological aspect of the school curriculum​​ e​​ The interpretation side of child-study,​​ ed alcuni altri di non grande rilevanza, fino a​​ The school and society​​ del 1899, che fu una pietra miliare non solo nel pensiero deweyano, ma anche, più generalmente, in quello della pedagogia moderno-contemporanea. Da quel momento, e per molti decenni, la produzione pedagogica deweyana fu così intensa e influente che non è possibile riferirne in modo analitico, ma se ne può dare tutt’al più un elenco per grandi tappe e per momenti salienti. A opere minori, seppur significative, si alternano opere maiuscole e culminanti come​​ Moral principles in education​​ (1909),​​ Interest and effort in education​​ (1913),​​ Schools of tomorrow​​ (1915) (in collaborazione con Evelyn D.) e il «classico»​​ Democracy and education​​ (1916). Nel 1927 vide la luce il denso volumetto​​ The sources of a science of education​​ e, nel 1938, a ridosso della «grande logica» deweyana (Logica: teoria dell’indagine),​​ fu pubblicato l’agile volume, anch’esso destinato a diventare un classico con diffusione mondiale,​​ Experience and education.

4.​​ La filosofia pedagogica.​​ Appare materia di riflessione attualizzante, e motivo storico-teorico fondamentale di un ripensamento critico del pensiero deweyano, il problema se la pedagogicità del pensiero di questo filosofo-pedagogista debba esser fatta consistere nelle opere più specificamente dedicate ad approfondire le questioni educative ed a proporre metodologie di vario livello (epistemologiche e pratiche) sul terreno della formazione scolastica, o di quella più generalmente intesa, teorizzata e praticata; o se invece non debba ricercarsi nella chiave e con la chiave di quella filosoficità pedagogica, e quindi non rigidamente teorizzante e cognitivistica, della quale D., non da solo, ma con particolare incisività, ha dato testimonianza in questo e nello scorso secolo. Già se si pensa a opere culminanti e maiuscole come la​​ Logica​​ del 1938, la questione si prospetta con grande importanza e con grande interesse. La logica teorizza e serve all’indagine, e l’indagine risponde a sua volta ad un’esigenza di «accertamento» che non concerne in primo luogo il piano cognitivo, ma la formatività di un soggetto, come l’uomo, dipendente e precario, e che tuttavia aspira e tende ad autodeterminarsi attivamente e a farsi padrone della propria realtà e del proprio destino, pur in un contesto che lo trascende e lo supera. Anche altre opere fondamentali (già prima citate) come​​ Ricostruzione filosofica,​​ Natura e condotta dell’uomo,​​ La ricerca della certezza,​​ Esperienza e natura,​​ Il conoscere e il conosciuto,​​ hanno questo carattere. Più che una pedagogia filosofica o una filosofia dell’educazione quella di D. è una filosofia pedagogica, vale a dire una filosofia – qual è in generale quella pragmatistica e strumentalistica – il cui significato e il cui valore fondamentale è quello di un programma formativo, sia sul piano della costituzione dei soggetti individuali, che della costituzione e della cura dei soggetti collettivi. Di questo si ha un esempio eminente in quella che è forse l’opera più conosciuta e più generalmente apprezzata di D.:​​ Democrazia e educazione.​​ Qui la comprensività etico-sociale del programma democratico allontana da una pedagogia di corto raggio e di piccola curvatura, così come tiene distanti da una filosofia del pensiero «puro» o della speculazione fine a se stessa. Il programma democratico è un programma di formatività individuale e collettiva pensato nei termini di un pensiero concretamente astraente che s’innalza comprensivamente sui particolari, e al tempo stesso rifugge da ogni astrazione «platonicamente» elusiva di ciò che l’esperienza umana, come fatto e come valore, esige di sottoporre alla verifica e al giudizio del pensiero critico e intelligente. In questo D. corrisponde ad una tendenza permanentemente presente nella cultura occidentale fin dal tempo in cui la grecità venne imprimendovi i segni delle sue geniali intuizioni e raffigurazioni: quella di comporre l’alto esercizio spirituale della cura e della formatività praticata nella medicina, nella politica, nella paideia, con la pratica teorica del pensiero concettualizzante e riflessivo. Ed alla luce dei grandi percorsi del pensiero classico, ellenistico, cristiano e moderno contemporaneo l’opera di D. appare pienamente comprensibile ed assume il suo più peculiare ed alto significato, come anche testimoniano le interpretazioni e le utilizzazioni più strettamente contemporanee del suo pensiero.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ un elenco completo delle opere di D. e delle trad., aggiornato al 1962 è contenuto nel vol. a cura di M. H. Thomas,​​ J.D.: A centennial bibliography.​​ Il volume include inoltre un elenco pressoché completo degli scritti su D. b)​​ Studi:​​ Corallo G.,​​ La pedagogia di J.D.,​​ Torino, SEI, 1950; Borghi L.,​​ J.D.​​ e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1951; Visalberghi A.,​​ J.D.,​​ Ibid., 1951; Bausola A.,​​ L’etica di J.D.,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1960; Raggiunti R.,​​ Esperienza artistica ed esperienza scientifica in D.,​​ Torino, Edizioni di Filosofia, 1966; Granese A.,​​ Il giovane D.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1967; Boydston J. A. - K. Poulos,​​ Checklist of writings of J.D.,​​ Carbondale, University Press, 1978; Verda I.,​​ Attualità di J .D.,​​ Roma, Armando, 1979; Granese A.,​​ Introduzione a D.,​​ Bari, Laterza, 2005.

A. Granese