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DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

 

DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

In senso giuridico l’espressione d.a.e. definisce l’insieme delle prestazioni che assicurano il raggiungimento di un risultato, l’istruzione, mentre da un punto di vista​​ pedagogico​​ si riferisce al complesso delle misure rivolte a garantire l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita.

1.​​ La riflessione pedagogica. Gli anni ’80 hanno segnato l’allargamento del d.a.e., caratterizzato fino ad allora prevalentemente dai tratti della quantità, dell’uniformità e dell’unicità; tale estensione ha portato a comprendere anche gli aspetti della qualità, della differenziazione e della personalizzazione. Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti alla scuola e l’eguaglianza dei risultati fra i vari strati sociali, ma è necessario garantire il​​ d. a un’educazione di qualità.​​ Nella stessa prospettiva si dovrà anche contemperare​​ eguaglianza e diversità,​​ tutela ed eccellenza. Un altro orientamento è consistito nel potenziare la​​ partecipazione alla gestione delle strutture​​ formative perché la riduzione e l’eliminazione delle diseguaglianze di opportunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei gruppi che soffrono direttamente dell’impatto delle disparità. Il concetto di d.a.e. mentre si è esteso e diversificato sul piano dei contenuti, ha dato vita in riferimento ai​​ soggetti​​ tutelati a principi autonomi. In proposito si possono ricordare quello dell’eguaglianza fra i due sessi;​​ l’​​ ​​ educazione interculturale che consiste nella messa in rapporto delle culture, nella comunicazione reciproca, nell’interfecondazione, mentre esclude l’assimilazione;​​ l’integrazione dei disabili​​ nella scuola ordinaria, che significa rispondere ai bisogni di tutti gli alunni e di ciascuno, dare risposte differenziate perché gli alunni sono diversi e fornirle all’interno della scuola ordinaria. Comunque, il cambiamento più profondo sul piano pedagogico consiste nell’accettazione mondiale della strategia dell’​​ ​​ educazione permanente​​ come idea madre delle politiche educative del futuro: essa significa garantire l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita.

2.​​ I risvolti giuridici e politici.​​ L’assistenza scolastica è stata introdotta formalmente in Italia con la legge Daneo-Credaro del 1911, che stabilì l’obbligo di istituire in ogni comune un Patronato scolastico con il compito di assicurare l’iscrizione e la frequenza degli alunni nella scuola. Nel 1924 sono state create presso ogni istituto secondario le casse scolastiche per garantire l’assistenza a tale livello del sistema formativo. A sua volta, l’​​ ​​ obbligo d’istruzione era stato stabilito precedentemente con la legge Casati (1859), ma la normativa è rimasta ampiamente disattesa. Con la Costituzione repubblicana viene compiuto un​​ salto di qualità.​​ Infatti, l’art. 34 stabilisce l’apertura della scuola a tutti, l’obbligo di istruzione, la gratuità dell’istruzione, il d. dei capaci e dei meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti di studi; soprattutto, la nostra Carta fondamentale concepisce la scuola come uno strumento di rinnovamento culturale e di eguaglianza sociale. In altre parole, la Costituzione ha sancito il d. all’istruzione come un vero e proprio​​ d. soggettivo pubblico​​ di prestazione che comporta per la pubblica amministrazione un obbligo positivo a fare. La Costituzione ha anche attribuito alle​​ Regioni​​ la competenza sull’assistenza scolastica. Il relativo trasferimento delle funzioni come anche il decentramento ai Comuni sono stati realizzati durante gli anni ’70. Lo sbocco finale è rappresentato dalla L. 53 / 03 che all’art. 2., co. 1, lettera c) assicura a tutti «il d. all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età» nel quadro della promozione dell’«apprendimento in tutto l’arco della vita» – art. 2., co. 1, lettera a). Il salto di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del​​ D. Lgs. 76 / 05​​ che definisce la norme generali sul d.-dovere all’istruzione e alla formazione. Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate a una transizione soddisfacente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come d. all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un d. soggettivo sia un dovere sociale. I giovani incominciano a beneficiare concretamente del d.-dovere con l’iscrizione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce almeno nella organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e formazione professionale fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata almeno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del d.-dovere, viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. Il nuovo governo di centro-sinistra ha deciso di innalzare di due anni l’obbligo di istruzione (cfr. comma 626 della L. 296 / 06) perché sarebbero necessari per rafforzare ed elevare le competenze di base e per effettuare le scelte di indirizzo e di percorso con una maggiore consapevolezza. Nonostante l’intenzione certamente positiva, nel confronto tra obbligo di istruzione e d.-dovere di istruzione e di formazione mi sembra che vada preferita senz’altro la seconda impostazione perché l’obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi che uno Stato benevolo e lungimirante e sollecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi, mentre il d.-dovere rinvia alla consapevolezza dei cittadini circa la loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria formazione.

Bibliografia

Pototschnig U., «Istruzione (d. alla)», in​​ Enciclopedia del d.,​​ vol. XXIII, Milano, Giuffré, 1973, 96-116;​​ Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D. M. n. 672 del 18 luglio 2001, in «Annali dell’Istruzione» 47 (2001) 1 / 2, 3-176; Montemarano A.,​​ Dall’obbligo scolastico e formativo al d.-dovere all’istruzione e formazione, in «Rassegna CNOS» 21 (2005) 3, 110-116; Malizia G., «La legge 53 / 2003 nel quadro della storia della riforma scolastica in Italia», in R. Franchini - R. Cerri (Edd.),​​ Per​​ una istruzione e formazione professionale di eccellenza, Milano, Angeli, 2005, pp. 42-63;​​ Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura,​​ Scienza e Istruzione​​ (29 giugno 2006), Roma, 2006; Romei P.,​​ D.-dovere all’istruzione e alla formazione: qualche considerazione, in «Dirigenti Scuola» 24 (2005) 4, 20-26.

G. Malizia




DISAGIO

 

DISAGIO

Il termine d. riferito al contesto sociale è di recente utilizzo, in quanto in sociologia si preferisce adottare i termini più specifici di​​ disadattamento,​​ ​​ devianza,​​ ​​ emarginazione​​ con i quali si intende, in modo diverso, uno stato soggettivo e / o oggettivo di mancata integrazione nel tessuto sociale.

1. Il d. è in genere una difficoltà ad adattarsi ad un ambiente o a delle situazioni. Più specificamente il​​ d. evolutivo​​ si presenta come una normale e superabile difficoltà che accompagna la crescita soprattutto nel momento adolescenziale e può essere definito come «la manifestazione presso le nuove generazioni della difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi che vengono loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità personale e per l’acquisto delle abilità necessarie alla soddisfacente gestione delle relazioni quotidiane» (Neresini-Ranci, 1992, 31). Esso si trasforma in disadattamento quando il malessere diventa diffuso e si esprime come una difficoltà momentanea a rispondere positivamente ai compiti evolutivi propri dell’età soprattutto in termini di relazione con gli altri e di integrazione nel tessuto sociale. Se questo stato perdura può diventare devianza e marginalità sociale oppure, su un altro versante, può entrare in meccanismi di d. psichico profondo. A livello evolutivo il d. è visto come una categoria trasversale, quasi fenomeno fisiologico, che accompagna il ragazzo nella sua crescita e che è legato con la categoria del​​ rischio.

2.​​ Oggi, nella nostra società complessa ed altamente differenziata con maggior facilità il d. evolutivo può degenerare in​​ d. sociale.​​ Questo capita quando i fattori di malessere individuale sono molteplici e vengono assommati a fattori esterni conseguenti per es. a marginalità sociale. Spesso questa inadeguatezza del giovane a inserirsi in un determinato contesto sociale viene attribuita non solo a fattori interni al soggetto, ma soprattutto ad una generalizzata incapacità del mondo adulto a riconoscere le sue esigenze ed il suo bisogno di realizzazione. «Le espressioni di questa inadeguatezza si distribuiscono lungo l’asse privato-pubblico, con specifiche accentuazioni tematiche: l’abbandono familiare, l’incomunicabilità, l’inutilizzazione, il mantenimento di una dipendenza forzata, la mediocrità della risposta, il giovanilismo ad oltranza, la deresponsabilizzazione, il calcolo e il non riconoscimento, la dispersione delle risorse» (Milanesi, 1989, 130). L’​​ ​​ educazione può entrare a sostegno del giovane come abilitazione a leggere criticamente la propria esperienza ed a progettarla nella prospettiva del valore e del significato della propria esistenza, tenendo conto criticamente delle esigenze della società.

Bibliografia

Butturini E.,​​ D. giovanile e impegno educativo,​​ Brescia, La Scuola, 1985; Milanesi G. C.,​​ I​​ giovani nella società complessa: una lettura educativa della condizione giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989; Neresini F. - C. Ranci,​​ D. giovanile e politiche sociali,​​ Roma, NIS, 1992; Speltini G. (Ed.),​​ Minori,​​ d. e aiuto psicosociale, Bologna, Il Mulino, 2005; Calvanese E.,​​ La reazione sociale alla devianza: adolescenza tra droga e sessualità,​​ immigrazione e giustizialismo, Milano, Angeli, 2005; Mancini G.,​​ L’intervento sul d. scolastico in adolescenza, Ibid., 2006.

L. Ferraroli




DISCALCULIA

 

DISCALCULIA

Disturbo o difficoltà nell’apprendimento delle abilità di calcolo aritmetico e, più in generale, disturbo o difficoltà nell’acquisizione delle conoscenze matematiche, che si riscontra in soggetti per altri versi in grado di imparare validamente a scuola. Le forme più diffuse di d. riguardano il calcolo scritto.

1. L’origine di questi disturbi può essere riscontrata a vari livelli: a) nella difficoltà di astrazione, il bambino non riesce a trattare i numeri indipendentemente dal loro significato concreto; b) nei procedimenti errati, in quanto sono state automatizzate procedure inadeguate di calcolo; c) in una resistenza psicologica al trattare i numeri e le operazioni per iscritto; d) in altri disturbi più generali come 1’​​ ​​ iperattività.

2. Quanto al trattamento, è necessario in primo luogo diagnosticare per quanto possibile l’origine delle difficoltà riscontrate. In base a tale diagnosi si può progettare una terapia opportuna. Nel caso, assai frequente, di procedure errate di calcolo già automatizzate, non basta spiegare le ragioni dell’errore e indicare la procedura giusta. Occorre fornire strumenti di controllo dell’errore o degli errori. Generalmente si fa imparare in forma dichiarativa verbale la procedura corretta e si sollecita un uso sistematico di questa come strumento di controllo dell’esecuzione dell’operazione. Eventualmente si può fornire tale procedura verbale per iscritto e sollecitare il suo uso ogni volta che si deve eseguire un’operazione di quel tipo. Per quanto riguarda difficoltà di astrazione, occorrerà agire a questo livello, impostando opportuni programmi di educazione alla rappresentazione astratta di una pluralità di situazioni concrete. Se si tratta di difficoltà di ordine psicologico più complesso, occorrerà ricorrere alla consulenza di uno psicologo specializzato nel settore.

Bibliografia

Gaddes W. H.,​​ Learning disabilities and brain function.​​ A neuropsychological approach,​​ New York, Springer,​​ 21985; Cornoldi C. (Ed.),​​ I disturbi dell’apprendimento,​​ Bologna, Il Mulino, 1991; Reid D. K. - W. P. Hresko - H. L. Swanson,​​ A cognitive approach to learning disabilities,​​ Austin, Pro-Ed.,​​ 21991; McCarthy R. A. - E. K. Warrington,​​ Neuropsicologia cognitiva,​​ Milano, Cortina, 1992; Brodini M.,​​ Le difficoltà di apprendimento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 1998; Zan R.,​​ Difficoltà in matematica, Milano, Springer, 2007.

M. Pellerey




DISCERNIMENTO

 

DISCERNIMENTO

Termine proprio della teologia biblica e spirituale (dal lat.​​ dis-cerno:​​ ponderare, separare, decidere), ma che indica un’esperienza tipicamente umana.

1. Il d. è una riflessione critica sull’essere e agire umani culminante in una decisione.​​ Punto di riferimento​​ del d. sono le convinzioni e gli ideali personali; suo​​ oggetto​​ sono azioni e motivazioni, atteggiamenti mentali e affettivi (consci e inconsci) dell’individuo di fronte a situazioni problematiche e provocanti, dinanzi a se stessi, agli altri e a Dio, circa la propria vita. Si tratta di un’operazione complessa, non spontanea; articolata, non immediata; individuale o comunitaria, ma sempre aperta al confronto. Per questo è necessaria un’educazione al d., specie in prospettiva vocazionale.

2. Tale educazione comporta l’attenzione ad alcune operazioni tipiche del modello operativo dell’intelligenza e del processo decisionale (Lonergan, 1975): a)​​ Percezione esperienziale:​​ è il momento della raccolta dei dati, e dunque anche della formazione​​ all’attenzione,​​ per poter percepire quanto, in sé e fuori di sé, è connesso con l’oggetto del d. (attrazioni, repulsioni, memoria affettiva, segni dei tempi ecc). b)​​ Comprensione intuitiva:​​ in questa fase avviene un’interpretazione immediata e istintiva dei dati d’esperienza, gestita in buona parte dall’emozione; se ad essa facesse seguito l’azione, sarebbe un’azione impulsiva, che non tiene granché conto del reale né dell’ideale. Sarà necessario, allora, educare a tener sotto controllo quest’emozione e, in genere, quelle emozioni legate alle proprie inconsistenze che tendono a ridurre il campo percettivo-interpretativo condizionando il d. c)​​ Giudizio:​​ l’intuizione emotiva è valutata alla luce dei valori; s’estende così lo spazio ideale e s’arricchiscono i criteri in base a cui giudicare ciò che è bene per il soggetto. Tale fase è gestita soprattutto dalla mente pensante, ma progressivamente anche il cuore dovrebbe lasciarsi attrarre dalla bellezza e verità del bene. Si tratterà proprio di educare l’emozione a questo tipo d’attrazione libera e liberante. d)​​ Decisione:​​ il momento di decidersi giunge, idealmente, quando giudizio riflessivo ed emozione del cuore convergono. Ne deriverà un’azione tipicamente umana perché espressione d’una partecipazione «totale» di cuore, mente, volontà. Si tratta di un d. che, nel caso del credente, diviene coraggio di scegliere «ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto» (Rm 12,2).

Bibliografia

Lonergan B.,​​ Il​​ metodo in teologia,​​ Brescia, Queriniana, 1975; Rulla L. M.,​​ The discernment of spirits and Christian anthropology,​​ in «Gregorianum» 59 (1978) 537-569; Rupnik M. I.,​​ Il d.,​​ 1: verso il gusto di Dio,​​ Roma, Lipa, 2001; Id.,​​ Il d.,​​ 2: come rimanere in Cristo,​​ Ibid, 2002; Martini C. M.,​​ Il conflitto di interpretazioni nel d.,​​ in «Tre Dimensioni» 2 (2006) 124-129; O’ Leary B.,​​ Pietro Favre e il d. spirituale,​​ Roma, AdP, 2006.

A. Cencini




DISCIPLINA

 

DISCIPLINA

Si può dire che la polisemicità del termine, come rilevò già​​ ​​ Comenio, è presente nelle sue origini e uso latini (disciplina:​​ istruzione-ammaestramento, metodo-arte, materia scolastica). Oltre a quello di specifico ambito scientifico, in pedagogia i significati più comuni sono quello di materia scolastica (​​ discipline), di insieme di mezzi, norme e metodi cui adeguarsi per raggiungere determinati obiettivi, e, come effetto del precedente, quello di modo di comportarsi, secondo regole imposte o accettate.

1. Qui interessano gli ultimi due, prevalenti nelle lingue straniere; storicamente (prescindendo dal significato ascetico di penitenza corporale) il concetto di d. è stato collegato, in particolare, alla vita scolastica, che richiedeva, con frequenza, il ricorso a​​ ​​ premi e​​ ​​ castighi, regolati, più recentemente, da disposizioni di legge, per ottenere o mantenere coattivamente un ordine esterno, con cui, spesso, la si è identificata. Si può dunque parlare di un suo versante​​ oggettivo,​​ nel primo dei due sensi in questione (meno interessante educativamente), e di uno​​ soggettivo,​​ nell’altro. Sotto il profilo pedagogico, un’attenzione alla d. è presente fin dall’antichità presso gli autori più significativi, in un senso che privilegia le modalità da seguire, da parte degli educatori, per raggiungere determinati obiettivi, non limitati all’apprendere, ma da estendere prioritariamente al campo morale, in cui si colloca il significato soggettivo della d., che così fuoriesce dagli angusti confini della scuola. Fine della d. non è dunque un ordine esterno, per lo più imposto, bensì un perfezionamento del soggetto. In questa linea, più e meno esplicitamente, si sono mossi i classici della pedagogia, da Comenio, che alla d. dà molta attenzione, a​​ ​​ Locke, a​​ ​​ Herbart, alle​​ ​​ Scuole Nuove e ai pedagogisti contemporanei. Nessuno di loro tralascia l’istanza di un ordine esterno, ma non lo enfatizzano e, comunque, lo iscrivono, almeno a partire dal sec. XIX, all’interno del rapporto tra​​ ​​ autorità e​​ ​​ libertà, inteso in senso ampio, anche sociale e familiare, proprio per preservarne l’educatività.

2. Nel discorso sulla d. vanno richiamate le differenze di ruolo dei protagonisti (educatore, educando, ambiente) in rapporto ai due sensi suindicati e le principali letture che, dell’uno o dell’altro, sono state fatte. Anzitutto i mezzi, i metodi e norme, la dimensione oggettiva della d., sono scelti e decisi solitamente, dall’autorità, che, a volte, si identifica con l’educatore, a volte con governanti (donde le conseguenze giuridiche) o, infine, con tradizioni e costumi locali. In questi casi per l’educando, il tutto sa di imposizione e, facilmente, dà luogo a un rigetto. Quanto all’aspetto soggettivo, cioè al modo di comportarsi, esso dipende, solidalmente, sia dall’autorità che dalla libertà. Dalla prima, perché vi influisce più e meno pesantemente (con le paure che può ingenerare, con l’imposizione, con l’esempio, con ragionamenti...); dalla seconda, in quanto l’interiorizzazione o meno delle norme è una scelta del soggetto, in base a motivazioni. Questi richiami, sul piano dell’educazione, fanno spazio ad altre due letture del fenomeno d., oltre a quella pedagogica: la psicologica e la sociologica. a) La lettura​​ psicologica,​​ che intende interpretarne il senso soprattutto in rapporto al soggetto-educando, è molteplice e variegata, secondo le differenti scuole psicologiche. Quelle di taglio psicoanalitico, specie freudiano, danno una lettura della d. piuttosto negativa, in quanto considerata come ordine esterno, sia pure interiorizzato. Quelle, invece, di tipo umanistico o analoghe, sono più ben disposte verso la d., almeno nel caso di un’assimilazione soggettivamente voluta, tenuto conto di una previa valutazione dei contenuti. b) La lettura​​ sociologica,​​ a sua volta, è pure differenziata secondo le scuole e gli orientamenti di fondo delle singole posizioni: da coloro che esaltano il ruolo delle società, tanto da vedere il singolo strettamente dipendente e come costretto da quelle (N. Elias, per es.); a coloro che, enfatizzando la funzione sociale della stessa educazione, vedono nella d. il «primo elemento della moralità», pur senza trascurarne la valenza e funzione sociale (​​ Durkheim, per es.).

3. Per concludere ancora in​​ chiave pedagogica,​​ è utile un richiamo alla​​ gradualità​​ della d., nelle sue manifestazioni, come nella sua acquisizione, e all’esercizio.​​ Sotto il profilo operativo sono da privilegiare l’osservazione, l’esempio e l’imitazione, il tentativo e la sua ripetizione, la responsabilizzazione, la motivazione, il controllo (esterno e personale) e la correzione. Alla d. va fatto ricorso con sensibilità e criterio, secondo i momenti, i soggetti e le circostanze, cercando di superare l’insensata contrapposizione tra il permissivismo e l’autoritarismo, che pure, nel corso della storia, hanno avuto rappresentanti e sostenitori risoluti, ancora nel sec. scorso.

Bibliografia

a)​​ Classici:​​ Herbart J. F.,​​ Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1997; Id.,​​ Compendio di lezioni di pedagogia,​​ Roma, Armando 1971; Komensky (Comenio) J. A.,​​ Novissima linguarum methodus,​​ in Id.,​​ Opera omnia,​​ vol. 15-II, Praga, Academia, 1989; Id.,​​ Grande didattica,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993. b)​​ Studi:​​ Seccet-Riou F.,​​ La discipline et l’éducation. Du dressage à l’autonomie,​​ Paris, Bourrellier, 1946; Durkheim É.,​​ L’éducation morale,​​ Paris, PUF, 1963;​​ Chamberlin L. J.,​​ Discipline: the managerial approach,​​ St. Louis, Torchlite, 1980; Elias N.,​​ La civiltà delle buone maniere,​​ Bologna, Il Mulino, 1982; Vico G.,​​ Educazione morale e pedagogia attivistica,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1983; Scurati C. (Ed.),​​ La d. nella scuola. Problemi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1987.

B. A. Bellerate




DISCIPLINE

 

DISCIPLINE

Contenuti di insegnamento organizzati sulla base dei campi di sapere di riferimento tenendo conto del livello scolastico e di maturità culturale dei destinatari. Letteralmente d. evoca i termini lat.​​ disco​​ (imparo) e​​ discipulus​​ (uno che impara, prende da un altro); ma l’uso fa riferimento anche allo sviluppo di capacità di gestione del pensiero, dell’​​ ​​ apprendimento in determinati campi del sapere e persino di padronanza del comportamento, della condotta morale e della vita personale.

1.​​ La trasposizione didattica.​​ È il processo di trasformazione operato da e in una istituzione che porta dai contenuti del sapere di riferimento, ad es. il sapere matematico, ai contenuti del sapere da insegnare, ad es. i programmi scolastici di​​ ​​ matematica, e da questi ai contenuti effettivamente insegnati, ad es. la​​ ​​ programmazione didattica di un corso di matematica. Il primo passaggio avviene in Italia in seno al Ministero della Pubblica Istruzione quando, attraverso il lavoro di commissioni ministeriali costituite a questo scopo, vengono definiti i contenuti di insegnamento per i vari ordini e gradi scolastici e la loro organizzazione interna. Dal confronto tra le posizioni degli specialisti universitari, depositari del sapere di riferimento, e quelle dei rappresentanti dell’istituzione scolastica (ispettori scolastici, presidi, direttori, insegnanti), vengono definiti in concreto le d. da insegnare e i loro contenuti. Il secondo passaggio avviene in seno alla singola scuola su proposta dei docenti delle varie d. ed è convalidato dal Collegio dei docenti. Si tratta di quella che è definita programmazione didattica. Sulla base dei​​ ​​ programmi scolastici ufficiali viene elaborato il piano di lavoro per l’anno scolastico in corso, selezionando e ordinando nella loro successione temporale i differenti contenuti, identificando gli obiettivi da raggiungere, i metodi di insegnamento e i modi di​​ ​​ valutazione. Si ha, infine, un ulteriore passaggio: il docente predispone situazioni didattiche concrete in cui gli allievi possano acquisire in maniera significativa e stabile le conoscenze proposte. Questa trasformazione è stata talora definita un’opera di «ingegneria didattica». D’altro canto, nell’attuazione del progetto di​​ ​​ lezione o di unità d’apprendimento entrano in gioco altri fattori trasformativi, come il sistema di relazioni interpersonali instaurato, il clima e l’ordine presente nella classe, lo stato motivazionale dell’insegnante e degli allievi.

2.​​ La vigilanza epistemologica.​​ La trasposizione didattica implica una trasformazione del sapere che comporta una sua istituzionalizzazione. Si tratta di un’operazione squisitamente «politica»: di qui il problema della sua legittimazione. In altre parole il sapere di riferimento subisce una duplice modificazione che può provocare un allontanamento non indifferente dal suo status epistemologico. Per evitare che questo porti a un suo travisamento occorre che a tutti i livelli venga messa in atto una costante vigilanza epistemologica, cioè un’azione continua di controllo della correttezza e sostanziale conformità di quanto proposto per l’insegnamento e di quanto elaborato dalla comunità scientifica. Ciò indica però anche l’apparizione sistematica di uno scarto tra sapere insegnato e i riferimenti culturali che lo legittimano, scarto dovuto ai vincoli che pesano sul funzionamento di un sistema di insegnamento (Arsac, 1992).

3.​​ La struttura delle d.​​ J. S. Bruner (1964, 1971) ha proposto un’idea di​​ ​​ curricolo basato sulle strutture portanti delle varie d. Il curriculum di una d. dovrebbe essere determinato dalla più essenziale comprensione possibile dei princìpi basilari che sorreggono la d. stessa. Ogni contenuto ha poi una sua struttura, coerenza, bellezza. Questa struttura è ciò che conferisce all’argomento la sua fondamentale semplicità, ed è apprendendo la sua natura che riusciamo ad afferrare il significato essenziale dell’argomento stesso. La struttura di una d., d’altra parte, è data dai suoi concetti chiave e dai suoi princìpi organizzatori, che, come tali, permettono d’inquadrare i vari dati dell’esperienza e le varie conoscenze in un quadro organico. In realtà sono proprio tali concetti e tali princìpi che consentono da una parte la comprensione della materia scolastica, dall’altra una sua ulteriore espansione. Inoltre sta proprio nell’acquisizione più per strutture, che per elementi isolati, la radice della possibilità di un’efficace ritenzione e di un valido transfer. Il concetto di struttura è stato visto da Bruner anche come organizzazione cognitiva, come mezzo per andare oltre l’informazione, per ritenere i dati nella memoria e per trasferire abilità apprese a situazioni nuove: è il principio secondo cui si apprende, si ritiene e si generalizza meglio il materiale che presenta un’organizzazione interna. Da tutto questo deriva che le d. possono e debbono essere considerate come insiemi strutturati di conoscenze, abilità che possiedono al loro interno, e anche in riferimento alla realtà esterna, sistemi di relazioni e di connessioni; questi insiemi strutturati formano le d. o campi di conoscenza. Tuttavia, occorre evitare di considerare questi insiemi come architetture statiche e cristallizzate. Di ogni insieme di concetti e di abilità può essere fornita più di una organizzazione sistematica, anche in settori che sembrano i più refrattari a questo pluralismo, come la matematica. Inoltre ogni campo della conoscenza è un organismo vivo e vitale, che cresce sia a causa di nuove conquiste, sia mediante una più profonda autocomprensione, cioè cogliendo meglio la propria identità. In una prospettiva sociologica si potrebbe affermare anche che le d. sono in realtà i gruppi di studiosi che si dedicano alla ricerca e alla sistemazione culturale in quei particolari settori.

Bibliografia

Bruner J. S.,​​ Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture,​​ Roma, Armando, 1964; Id.,​​ Verso una teoria dell’istruzione,​​ Ibid., 1971; Ausubel D. P.,​​ Educazione e processi cognitivi,​​ Milano, Angeli, 1978;​​ Arsac G.,​​ L’évolution d’une théorie en didactique: l’exemple de la transposition didactique,​​ in «Recherches en Didactique des Mathématiques»​​ 12 (1992) 1, 7-32; Damiano E.,​​ L’azione didattica: per una teoria dell’insegnamento,​​ Roma, Armando, 1993; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica,​​ Torino, SEI,​​ 21994; Gardner H.,​​ Sapere per comprendere. D. di studio e d. della mente, Milano, Feltrinelli, 2001; Monasta A.,​​ Organizzazione del sapere,​​ d. e competenze, Milano, Carocci, 2002.

M. Pellerey




DISCUSSIONE

 

DISCUSSIONE

La d. come mezzo per chiarificare un contenuto o manifestare le proprie opinioni ha trovato un’accoglienza in tutte le società con ideali democratici e pluralistici.

1.​​ Gli obiettivi educativi della d.​​ Gli obiettivi di un metodo d’insegnamento come la d. sono essenzialmente tre: a) rafforzare l’apprendimento; b) promuovere le abilità sociali necessarie per vivere in una società democratica; c) lo sviluppo del giudizio etico. Le ragioni dell’efficacia della d. dipendono dal fatto che si tratta di una situazione che comporta l’uso e il ricupero delle conoscenze previe, il possesso della terminologia, la capacità di sintesi e l’organizzazione macrosemantica dei contenuti, la capacità di stabilire connessioni tra conoscenze interne ai contenuti e tra queste e altre conoscenze esterne già possedute. La d. può anche esigere creatività o pensiero critico; in essa inoltre può essere necessario o stimolante vedere le conseguenze che possono derivare da certi principi o da certe assunzioni, oppure trovarvi applicazioni. In altri casi la d. può essere portata a cercare le assunzioni, i limiti e il confronto critico con altri valori, con altre assunzioni, con le ragioni che provano certe affermazioni, ecc. Oltre a migliorare le abilità cognitive, la d. può essere vista anche come procedimento valido a favorire lo sviluppo e l’integrazione del processo di​​ ​​ socializzazione delle generazioni più giovani. Sono molti oggi a ritenere che alla scuola non spetti più promuovere solo la componente cognitiva della personalità dei giovani, ma che ad essa debba essere affidato anche il compito di favorire la componente socio-relazionale per un inserimento significativo nella società attuale. Gli studenti sono educati al confronto delle idee senza paura o pregiudizi, alla dinamica dell’ascolto attivo degli altri, alla ricerca di soluzioni positive ai conflitti, ad apprezzare il contenuto logico di un’idea invece di avere un attaccamento cieco ed emozionale alle proprie «idee», ad assumere ruoli diversi. Un altro obiettivo significativo del metodo della d. è lo sviluppo del giudizio etico. Generalmente si ritiene che gli anni dell’​​ ​​ adolescenza e della giovinezza siano particolarmente critici per lo sviluppo del ragionamento etico nei​​ ​​ giovani. È questo infatti il periodo in cui essi cercano il senso e il valore delle cose e delle azioni, del pensiero e della vita, nel tentativo di dare un orientamento alla loro esistenza e un fondamento alle loro scelte. Nella d. su valori e orientamenti di vita è possibile giungere ad una valutazione critica dell’attendibilità o della profondità umana e sociale di atteggiamenti, comportamenti e scelte.

2.​​ Lo svolgimento della d.​​ Nella fase di preparazione della d. l’insegnante deve mettere in atto alcune «regole del gioco»: delimitare opportunamente l’argomento, tenere presenti alcune informazioni previe che possono essere molto utili, pianificare e classificare gli obiettivi del confronto, osservare che i partecipanti abbiano un minimo di abilità sociali e comunicative. Nella fase di svolgimento egli deve prestare attenzione a tre tipi d’interazioni tra i partecipanti che possono dar origine a tre forme o tipo di conduzione. Nella​​ d. diretta dall’insegnante,​​ è l’insegnante il punto di riferimento. La d., fortemente controllata da lui, segue lo stile di domanda-risposta. Nella​​ d. centrata sul gruppo,​​ ognuno si esprime liberamente con spirito di cooperazione e apprezzamento e con domande aperte. Qui l’insegnante resta fuori dal confronto ed è soltanto un osservatore. Nella​​ d. collaborativa,​​ il compito da realizzare costituisce l’obiettivo principale del gruppo. Tutti, compreso l’insegnante che si fa membro del gruppo, partecipano responsabilmente per trovare le soluzioni migliori ai problemi. Come nella fase iniziale della d. si definiscono gli orientamenti e i limiti entro i quali essa dovrà essere affrontata e svolta, così al termine si devono raccogliere in una sintesi i punti chiave generali. Il momento​​ successivo alla d.​​ costituisce la fase finale. Ogni d. deve essere rivista e valutata e il processo di valutazione deve essere considerato parte integrante della procedura. Il metodo della d. non è di difficile applicazione se l’insegnante saprà programmare uno sviluppo delle proprie competenze e di quelle degli allievi. Si richiede, però, l’obiettivo di risultati migliori da parte degli studenti, accompagnato da un atteggiamento riflessivo che aiuta a misurare continuamente la sua efficacia attraverso una costante valutazione.

Bibliografia

Wilen W. W. (Ed.),​​ Teaching and learning through discussion. The theory,​​ research and practice of the discussion method,​​ Springfield, Charles Thomas, 1990; Dillon J. T.,​​ Using discussion in classrooms,​​ Buckingham, Open University Press, 1994; Rabow J. et al.,​​ Learning through discussion,​​ Thousand Oaks, Sage,​​ 31994.

M. Comoglio




DISEGNO DELLE RICERCHE

 

DISEGNO DELLE RICERCHE

Progetto che definisce i campioni inclusi nella ricerca, le modalità di controllo e di misurazione delle variabili studiate e degli effetti, l’assegnazione dei trattamenti. Il d.d.r. si può definire come la schematizzazione del ragionamento in cui si formalizza l’indagine scientifica su un problema. Ad es., un ragionamento quale: «il rapporto tra la variabile dipendente y e le due variabili indipendenti​​ x1​​ e​​ x2​​ è una funzione lineare della somma tra una costante​​ b0, l’effetto della variabile indipendente x1​​ con peso​​ b1​​ e l’effetto della variabile​​ x2​​ con peso​​ b2,​​ più un insieme di fluttuazioni​​ e​​ dovute a errori casuali», si può sintetizzare in:

y = b0​​ +b1x1​​ + b2x2​​ + e.

1.​​ Fasi della ricerca.​​ Il momento iniziale della ricerca empirica solitamente è una ricerca sulla letteratura scientifica pertinente, che induce a focalizzare gli obiettivi della ricerca, a formulare ipotesi in termini operativi che ne consentano la verifica o la falsificazione, a identificare gli strumenti di misura più validi per il progetto. Segue la descrizione accurata delle variabili oggetto di studio, sia in riferimento a teorie sia in riferimento agli indicatori empirici su cui si baseranno le misurazioni. A questo punto può essere delineato il d.d.r., in rapporto a cui viene definito anche il d. della campionatura e sono scelti gli strumenti di misura e i test statistici appropriati.

2.​​ Controllo della variabile sperimentale.​​ Il d.d.r. controlla la variabile sperimentale per: a) ridurre l’effetto della «varianza erronea», cioè dell’insieme degli effetti imputabili al caso; b) escludere l’effetto di variabili importanti che possano interferire con la variabile studiata, distorcendo il significato dei risultati. Le decisioni sul grado e le modalità del controllo sono fondamentali. Il massimo controllo si ha negli esperimenti di laboratorio, in cui si esplicitano tutti i possibili aspetti della relazione fra​​ x e y,​​ incluso l’influsso del ricercatore. In questo caso è massima la «validità interna» del d., ma viene meno la «validità esterna», cioè la possibilità di generalizzare i risultati estendendoli a situazioni della vita reale. Nelle «ricerche sul campo» il controllo sulla validità interna è minimo, perché il ricercatore non può modificare la maggior parte dei fattori che influiscono sulla variabile sperimentale. È però massima la possibilità di generalizzare i risultati a situazioni analoghe di vita reale, e quindi è maggiore la «validità esterna».

3.​​ Tipologia dei d.d.r.​​ Per le​​ ​​ scienze dell’educazione sono particolarmente rilevanti le contrapposizioni fra d. che mirano prevalentemente a: a) ridurre la variabilità erronea («rumore di disturbo») o, viceversa, ad aumentare il «volume» dell’informazione, incrementando il numero dei casi esaminati; b) controllare la validità interna garantendo il rigore della connessione ipotesi-risultati o, viceversa, controllare la validità esterna privilegiando la generalizzabilità; c) esaminare simultaneamente più campioni (d. «trasversali»), guadagnando tempo, o viceversa sottoporre lo stesso campione a misurazioni ripetute a distanza di tempo (d. «longitudinali»), guadagnando predittività; d) verificare o falsificare ipotesi rigorosamente formulate, o viceversa privilegiare funzioni prevalentemente esplorative (ricerche descrittive e​​ surveys);​​ in quest’ultima categoria si possono includere i modelli di «ricerca-azione», che mirano prevalentemente alla messa a punto di modelli operativi.

Bibliografia

Kerlinger F. N.,​​ Foundations of behavioral research,​​ New York, Holt,​​ 21973: Ercolani A. P. - L. Mannetti - A. Areni,​​ La ricerca in psicologia, Roma, NIS, 1990; Luccio R.,​​ Ricerca e analisi dei dati in psicologia, 2 voll.,​​ Bologna, Il Mulino, 1996; McBurney D. H.,​​ Metodologia della ricerca in psicologia,​​ Ibid.,​​ 32001; Nigro G.,​​ Metodi di ricerca in psicologia, Roma, Carocci, 2001; Di Nuovo S.,​​ Fare ricerca. Introduzione alla metodologia per le scienze sociali, Acireale / Roma, Bonanno, 2003.

L. Boncori




DISEGNO INFANTILE

 

DISEGNO INFANTILE

I primi studi sul d. libero dei bambini risalgono alla fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. In questo periodo, si distinguono i contributi di C. Ricci (1887), di K. Lamprecht (1905), di​​ ​​ Claparède (1907), di G. Rouma (1912) e di G. H. Luquet(1913).

Le tappe di sviluppo del d.i. appaiono essere sorprendentemente costanti e riscontrabili in tutte le varie culture. Verso i due anni il bambino inizia a comprendere che la matita può essere uno strumento di espressione di sé. Dopo i primi tracciati, che appaiono piuttosto automatici anche se già differenziati da bambino a bambino, emerge la capacità di scegliere un punto e, partendo da questo, seguire una direzione con un andamento a spirale. Successivamente vengono disegnate delle forme chiuse più o meno circolari, con un intento in qualche modo rappresentativo sia dei propri vissuti personali che degli oggetti. Verso i tre anni il bambino incomincia a fare d. più o meno riconoscibili come una persona (fase del cefalopode),​​ in cui lo schema umano è costituito da un cerchio, da cui emergono direttamente le gambe. Segue una fase nella quale allo schema precedente viene aggiunto un altro cerchio considerato come il tronco. Dopo i quattro anni il bambino giunge alla rappresentazione completa della persona in posizione frontale con aggiunta progressiva di particolari del corpo. Verso i sei anni, per indicare il movimento, la figura umana viene rappresentata anche di profilo.

2. I numerosi studi sul d.i. sono unanimemente giunti alla conclusione che il bambino attraverso di esso esprime il suo mondo interiore (sentimenti, desideri, ansie, conflitti, relazioni). In altri termini, proietta in qualche modo la sua storia di vita. Per questo motivo, è considerato come uno strumento privilegiato per la diagnosi. Ma il d., oltre che essere un mezzo diagnostico, si dimostra utile anche sul piano psicoterapeutico. Tenuto conto della difficoltà da parte del bambino di verbalizzare le proprie emozioni, è infatti molto proficuo nell’ambito del trattamento psicoterapeutico ricorrere, oltre che all’attività ludica, anche a quella grafica. Sono da segnalare in questo campo i contributi di​​ ​​ Klein, di A.​​ ​​ Freud e di​​ ​​ Winnicott.

Bibliografia

Winnicott D.W.,​​ Colloqui terapeutici con i bambini, Roma, Armando, 1974; Medioli Cavara F.,​​ Il d. nell’età evolutiva. Esercitazioni psicodiagnostiche,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Balconi M. - G. Del Carlo Giannini,​​ Il​​ d. e la psicoanalisi infantile,​​ Milano, Cortina, 1987; Pizzo Russo L.,​​ Il​​ d.: Storia,​​ teoria,​​ pratiche,​​ Palermo, Aesthetica, 1988; Malchiodi C. A.,​​ Capire i d.i., Torino, Centro Scientifico, 2000;​​ Quaglia R. et al.,​​ Il d.i., Torino, UTET, 2001; Golomb C.,​​ L’arte dei bambini. Contesti culturali e teorie psicologiche, Milano, Cortina, 2004; Avalle V.,​​ Il d. del bimbo. Un linguaggio universale per seguire il suo sviluppo intellettivo, Ivrea, Hever, 2004;​​ Castellazzi V. L.,​​ Il test del d. della famiglia, Roma, LAS, 2006; Id.,​​ Il test del. d. della figura umana,​​ Ibid., 2007.

V. L. Castellazzi




DISEGNO SPERIMENTALE

 

DISEGNO SPERIMENTALE

Progetto che definisce i criteri di scelta dei soggetti, le modalità del trattamento sperimentale, i procedimenti di somministrazione del trattamento sperimentale e i metodi di misura e di analisi statistica usati nell’esperimento.

1. Il d.s. è un caso particolare di​​ ​​ d. della ricerca. Come quello, si può definire come la schematizzazione del ragionamento in cui si formalizza l’indagine scientifica su un problema. Gli esperimenti, nell’ambito delle «scienze umane», si propongono di descrivere l’effetto di «trattamenti» sperimentali (un metodo d’insegnamento, l’assunzione di un farmaco, la quantità di tempo d’esercizio, ecc.) su una qualche caratteristica di una determinata popolazione, oppure di verificare o falsificare ipotesi su tale effetto. Lo scopo principale del d.s. è evidenziare le relazioni tra variabili indipendenti e variabile dipendente, riducendo al minimo il «rumore» costituito dalla varianza erronea, ossia dall’effetto imputabile al caso. L’entità degli influssi casuali viene stimata in base alla varianza delle differenze tra individui: se questi non sono stati estratti a caso dalla popolazione che si vuole studiare (garanzia di «validità esterna» e quindi di generalizzabilità) e se non sono stati assegnati a caso ai vari trattamenti (garanzia di «validità interna» e quindi di non distorsione degli effetti), viene meno il termine di confronto su cui basa tutta la logica del d.s. I dati solitamente sono elaborati mediante analisi della varianza, più raramente con riferimento a modelli lineari, peraltro interpretabili anche in termini di analisi della varianza.

2. I d.s. fondamentali sono: a)​​ d. casualizzati semplici:​​ si estraggono più campioni casuali dalla stessa popolazione e a ciascun campione si somministra un trattamento diverso; b)​​ «trattamenti per livelli»:​​ dopo aver appaiato i soggetti con riferimento a una variabile di controllo (per es.: età) da ciascuno dei «livelli» vengono estratti tanti campioni quanti sono i trattamenti da somministrare; c)​​ «trattamenti per soggetti»:​​ tutti i trattamenti sono somministrati a tutti i soggetti successivamente, in ordine casuale; d)​​ d. fattoriali:​​ si confrontano gli effetti e le interazioni di due o più variabili sperimentali (nulla a che vedere con il metodo dell’analisi fattoriale); e)​​ d. basati su «blocchi»:​​ ogni trattamento è somministrato a un campione casuale di «blocchi» (per es. di classi scolastiche); ogni soggetto viene assegnato a un blocco secondo un preciso schema di casualizzazione, il più noto dei quali è il «quadrato latino», in cui ogni trattamento ricorre solo una volta per ogni blocco e solo una volta per ogni soggetto. Se i trattamenti confrontati sono più di due, l’analisi della varianza che include tutti gli elementi dell’esperimento può essere seguita da uno o più test «post hoc» in cui i trattamenti vengono confrontati due a due. I d.s., come in genere i d. di ricerca, possono essere attuati con un approccio trasversale (campioni diversi esaminati simultaneamente) o longitudinale («prove ripetute»).

Bibliografia

Lindquist E. F.,​​ Design and analysis of experiments in psychology and education,​​ Boston, Houghton Mifflin, 1953; Cochran W. G. - G. M. Cox,​​ Experimental designs,​​ New York, John Wiley & Sons,​​ 21957; Mendenhall W.,​​ Introduction to linear models and the design and analysis of experiments,​​ Belmont, Duxbury Press, 1968; Kerlinger F. N.,​​ Foundations of behavioral research,​​ New York, Holt,​​ 21973; Luccio R.,​​ Ricerca e analisi dei dati in psicologia, 2 voll.,​​ Bologna, Il Mulino, 1996.

L. Boncori