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DIDATTICA DIFFERENZIALE

 

DIDATTICA DIFFERENZIALE

La ricerca di procedure e di programmi organici di insegnamento / apprendimento che intendono affrontare le situazioni di «diversità» individuale all’interno della classe è oggetto della d.d., indicata in altri contesti come «insegnamento individualizzato» (individualized instruction)​​ o «adattamento dell’insegnamento alle differenze degli studenti» o «insegnamento in una classe eterogenea» o «insegnamento con presenza di portatori di​​ ​​ handicap nelle classi regolari» o «educazione speciale» nel caso in cui si pensa ad un trattamento speciale per situazioni specifiche.

1. La preoccupazione di adattare le procedure di​​ ​​ insegnamento alle difficoltà e alle esigenze individuali era già presente nell’antico oriente e in diversi momenti della storia della scuola. Tuttavia una ricerca del 1989 condotta in 8 nazioni rilevava che solo 1 insegnante su 20 ricorreva molto spesso durante l’anno ad una istruzione individualizzata (​​ individualizzazione). L’idea di accomodare la pratica didattica alle peculiari esigenze di ogni studente ha assunto oggi una tale rilevanza da essere ritenuta da molti insegnanti una delle principali risorse a disposizione della scuola per affrontare un duplice problema: elevare lo​​ standard​​ dell’apprendimento in risposta agli alti livelli di sviluppo della società e fornire a tutti uguali opportunità di formazione e istruzione Vari fattori hanno concorso a rendere attuale l’idea fra gli studiosi delle scienze dell’educazione: l’apprendimento delle conoscenze sulle diversità individuali di intelligenza, di capacità, di stili cognitivi e di livelli motivazionali con i quali gli studenti affrontano l’apprendimento, l’espansione del fenomeno della «multiculturalità» nella maggior parte delle società occidentali, la crescente diffusione di scelte di ordine culturale e politico a favore della piena inclusione nelle classi regolari di individui con particolari deficit di apprendimento, ma anche l’attenzione, seppure limitata, a coloro che mostrano speciali qualità. Tutti questi fattori e il loro intrecciarsi hanno dato origine a categorizzazioni esemplari di studenti: superdotati, normodotati, con ritardo mentale leggero, con ritardo mentale grave o portatori di handicap, ansiosi, con un basso / alto concetto di sé, demotivati, con una incapacità appresa, con motivazione intrinseca / estrinseca, a rischio, aggressivi o violenti, integrati o no con i loro compagni, con un rendimento sotto le reali possibilità (under achievement),​​ ecc.

2. La presenza di una grande varietà di tipologie di studenti nella stessa classe (o scuola) ha portato molti a cercare una risposta adeguata. Le soluzioni sono state diverse. Corno e Snow (1986) categorizzano le risposte a due livelli: macro-adattamenti e micro-adattamenti dell’insegnamento. Nei primi possono essere compresi programmi vasti e complessi come il​​ ​​ mastery learning,​​ l’IGE (Individually Guided Education)​​ e l’ALEM (Adaptive Learning Environment Model).​​ Nei secondi rientrano strategie che intendono venire incontro a particolari difficoltà o problemi da parte degli insegnanti (formazione di gruppi secondo i livelli di abilità, assegnazione di compiti diversificati, strutturazione dell’aula e dell’insegnamento compatibile con diversi stili cognitivi, adattamento agli interessi e motivazioni degli studenti attraverso contratti stabiliti tra studenti e insegnanti, attenzione al ritmo di apprendimento di ciascuno, uso di programmi computerizzati). Corno e Snow, oltre ad indicare le diverse strategie possibili per affrontare le differenti esigenze, sottolineano anche l’utilità di alcuni criteri valutativi per verificare l’efficacia di qualsiasi soluzione venga intrapresa per affrontare il problema: a) con le strategie e i programmi che vengono utilizzati sono raggiunti gli scopi dell’istruzione con particolare riferimento a quelli che sono in maggior difficoltà? b) le soluzioni intraprese mantengono o producono differenze per quanto riguarda acquisizione, transfer e arricchimento nell’apprendimento? c) vi sono studenti che si trovano a disagio per i programmi che vengono attuati?

Bibliografia

Corno L. - R. E. Snow, «Adapting teaching to individual differences among learners», in M. C. Wittrock (Ed.),​​ Handbook of research on teaching,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 605-629; Wittrock M. C. (Ed.),​​ Handbook of teaching research,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 630-647; Masters L. F. - B. A. Mori - A. A. Mori,​​ Teaching secondary students with mild learning and behavior problems. Methods,​​ materials,​​ strategies,​​ Austin, Pro-Ed.,​​ 21993; Dunn R. et al.,​​ A meta-analytic validation of the Dunn and Dunn model of learning-style preferences,​​ in «Journal of Educational Research» 88 (1995) 353-362; Villa R. A. - J. S. Thousand,​​ Creating an inclusive school,​​ Alexandria, Association for Supervision and Curriculum Development, 1995.

M. Comoglio




DIDATTICA SPECIALE

 

DIDATTICA SPECIALE

Processo attraverso il quale l’itinerario formativo definito per rispondere ai bisogni, alle potenzialità, alle peculiarità dei soggetti in situazione di​​ ​​ handicap e di grave svantaggio socio-culturale trova attuazione concreta in specifiche sequenze di apprendimento.

1. L’evoluzione storica del concetto di d.s. è strettamente connessa a quella dell’​​ ​​ educazione speciale. All’approccio sensista di Itard segue la visione più mirata allo sviluppo intellettuale di Séguin. Soltanto con​​ ​​ Montessori viene superata la concezione medico-assistenzialistica e si giunge alla centralità di un alunno da educare attraverso un itinerario didattico rispondente ad uno sviluppo mentale che procede per fasi (anticipazione dei concetti di assimilazione e accomodamento che saranno successivamente sperimentati e teorizzati da​​ ​​ Piaget). L’alunno handicappato, proprio in quanto presenta un’evoluzione in cui determinati stadi assumono carattere patologico o non sono ancora presenti e / o superati, necessita di un approccio didattico specialistico. Tali teorie intorno all’handicap trovano piena attuazione in una struttura scolastica che si configura come scuola speciale e classe differenziale in cui «alla diversità» viene data una specifica risposta didattica. Questa concezione della d.s., presente all’inizio del sec. XX nei laboratori protetti e nelle scuole ad indirizzo didattico differenziato, si può tuttora riscontrare nei sistemi scolastici di molti Paesi dove la scolarizzazione avviene in condizioni di completa o parziale separatezza.

2. In Italia l’inserimento degli alunni normali nella scuola comune, disposto dalla L. 517 del 4 agosto 1977, è pienamente consolidato nella scuola dell’infanzia e in quella dell’obbligo. Più complesso appare il processo d’integrazione nella scuola secondaria superiore, dove i percorsi didattici e l’organizzazione della struttura scolastica assumono configurazioni molto differenti rispetto alla scuola di base. In stretto riferimento con la pedagogia della differenza, la d. non si riferisce a percorsi standard da utilizzare in base alle tipologie dell’handicap, ma assume il carattere della risposta concreta ad un diritto allo studio che diviene diritto all’apprendimento, vale a dire diritto a ricevere la prestazione didattica più rispondente ai propri bisogni personali. Conseguentemente la prestazione didattica è connotata dalla flessibilità e dalla modularità e si situa in un contesto progettuale intenzionale e scientificamente valutabile. Con la L. 104 del 5 febbraio 1992 il processo di integrazione, inteso secondo questa prospettiva, raggiunge piena significazione in quanto appare ben chiaramente delineata la struttura organizzativa che si presta ad accogliere, inserire, integrare gli alunni handicappati. I percorsi didattici, pertanto, poggiano su una base razionale che pone i suoi punti di forza nel profilo dinamico funzionale (lettura dei requisiti d’ingresso e delle potenzialità residue) e nel piano educativo individualizzato (sottosistema progettuale nel sistema progettuale della scuola e della classe).

3. In tale contesto la d.s. non è percorso di semplice socializzazione «in presenza», non è percorso di omologazione, è percorso di «normalizzazione», intesa come potenziamento delle «aree sane» per compensare i deficit e le compromissioni. Progettazione ed attuazione di questi percorsi didattici non costituiscono competenza esclusiva dell’insegnante di sostegno, ma sono prerogativa di un intero gruppo docente, dove le conoscenze e le capacità specialistiche sono al servizio di un’intera comunità scolastica in cui vanno sempre più emergendo nuove «diversità» generate dal carattere complesso e conflittuale della società contemporanea.

Bibliografia

Canevaro A.,​​ Handicap e scuola,​​ Roma, NIS, 1983; Cancrini L.,​​ Bambini diversi a scuola,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1991; Trisciuzzi L.,​​ Manuale di d. per l’handicap,​​ Bari, Laterza, 1993; Vico G.,​​ Handicap,​​ diversità,​​ scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1994.

A. Augenti




DIFFERENZA / DIFFERENZIAZIONE

 

DIFFERENZA /​​ DIFFERENZIAZIONE

I concetti di d. e di differenziazione sono ampi e complessi. La loro articolazione di viene sempre più sofisticata in relazione allo sviluppo della ricerca scientifica medico biologica e sociologico-sociale. Né vanno trascurate le implicazioni filosofiche, teologiche e morali che si intersecano con la scoperta di varietà umane da considerare sotto ogni profilo. La d. si riferisce ad uno stato psicologico e sociale dell’individuo che si percepisce e / o è percepito come differente, altro, rispetto ad un universo di per sé compatto ed integrato. La differenziazione è invece un processo e richiama esplicitamente quei cambiamenti progressivi che riguardano lo sviluppo dell’individuo e / o il carattere evolutivo concernente la specie o la razza. Si distingue la differenziazione in senso biologico, dalla modificazione in senso ambientale.

1.​​ Evoluzione del concetto.​​ Soprattutto all’inizio del ’900 si tendeva a considerare il differente come la persona anticonformista che poteva facilmente scivolare nel patologico e nel criminologico: si propendeva quindi per l’identificazione delle definizioni di differente e di deviante. Nei decenni successivi gli studi hanno ripetuta mente dimostrato che i termini non esprimono la stessa realtà e che il passaggio dal differente / diverso al deviante e al delinquente non rappresenta un continuum nel percorso esistenziale della persona. Proprio nel primo caso il soggetto chiede di vivere entro una società che ne legittimi la presenza, eventualmente con modifiche normative. Nel secondo e nel terzo caso vi è invece una trasgressione ora dei codici culturali, ora dei codici penali. In sociologia e in psicologia si parla di​​ teoria dell’associazione differenziata,​​ che sostiene che l’apprendimento di comportamenti subculturali anticonformisti avverrebbe attraverso forme di comunicazione negativa e la relativa possibilità di azioni di rinforzo o discriminazione. In base a materiale empirico comparato, la​​ ​​ psicologia sociale e l’antropologia culturale notano come le differenziazioni culturali relative a valori e norme intervengono orientando la​​ ​​ comunicazione che può favorire situazioni di conflitto o di comprensione tra appartenenti a culture diverse. Le d. individuali sono state anche studiate nella tendenza al​​ ​​ conformismo: gli individui reagiscono diversamente alla pressione di gruppo. In questo caso la d. registrabile è quella relativa al soggetto e al gruppo, ma ci si riferisce sempre ad una misura che pone a confronto elementi considerati oggetto di analisi di laboratorio. Altra cosa è la d. che negli anni ’70 si è cominciata a valutare guardando al suo carattere di alternativa culturale e politica con risvolti anche comportamentali. Soggetti determinati sono andati a formare categorie specifiche di analisi, al punto da permettere letture circoscritte della struttura e della dinamica sociale. Pensiamo ad es. ai giovani, alle donne, all’infanzia, ai tossicodipendenti, agli omosessuali, al dissenso religioso, ai soggetti con handicap, agli emarginati, alle minoranze, agli stranieri e agli extracomunitari. La d. di queste categorie individuali e sociali viene di volta in volta descritta rispetto alla separazione da un insieme omogeneo per​​ ​​ cultura, razza, religione, morale, stile di vita ed altro.

2.​​ Diritto alla d. e pedagogia della d.​​ Tra le tesi che esaltano la d. come opposto dell’omologazione culturale, vi sono quelle che considerano l’uguaglianza fra uomo e donna realizzabile solo in un «pensiero del genere» appartenente culturalmente a due sessi distinti, ma senza una riscrittura che differenzia diritti e doveri ora per un sesso ora per l’altro. La d. sessuale è una realtà insopprimibile; ciò che appare importante è la definizione dei valori di appartenenza a un genere nel rispetto di ciascuno dei due sessi. Secondo questa visione la d. sessuale risulterebbe necessaria alla conservazione della specie umana, legata alla cultura e ai linguaggi della società di riferimento. C’è poi chi individua nella d. un vero e proprio traguardo formativo nel senso che ogni persona ha diritto a non essere considerata parte indistinta di un tutto amorfo, di un «pluralismo informe». Altra questione è quella della non-d., intesa come diritto all’inserimento sociale e umano di minorati fisici, sensoriali e psichici che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (fine degli anni ’80), riguardano il 13% della popolazione; l’80% delle minorazioni si registrano nel cosiddetto Terzo Mondo. La differenziazione in pedagogia va dall’idea dell’educazione all’unità nella molteplicità, alle questioni metodologiche connesse al superamento della univocità dei programmi di studio. Nella differenziazione didattica si tiene conto della varietà di metodi di insegnamento capaci di attuare i programmi scolastici ufficiali attraverso interventi e mezzi riferibili ad una specifica ispirazione pedagogica, come nel caso delle scuole di metodo (es. metodo​​ ​​ Steiner, metodo​​ ​​ Montessori). Né va dimenticato l’ampio capitolo delle d. individuali e del rendimento scolastico al centro del dibattito tra ambientalisti ed innatisti; nonché la differenziazione della pedagogia come scienza sempre più articolata in nuove discipline.

Bibliografia

Ballanti G.,​​ Modelli di apprendimento e schemi di insegnamento,​​ Teramo, Lisciani & Giunti, 1988; Chistolini S.,​​ Tagore Aurobindo Krishnamurti. Unità dell’uomo e universalità dell’educazione,​​ Roma, Euroma-La Goliardica, 1990; Mayor Zaragoza F.,​​ Domani è troppo tardi. Sviluppo,​​ istruzione,​​ democrazia,​​ Roma, Studium, 1991; Irigaray L.,​​ Io,​​ tu,​​ noi. Per una cultura della d.,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Rossi B.,​​ Identità e d. I compiti dell’educazione,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Vattimo G.,​​ Le avventure della d., Milano, Garzanti, 2001; Sartini A.,​​ Figure della d.: percorsi della filosofia francese del Novecento, Milano, Mondadori, 2006.

S. Chistolini




dinamica di GRUPPO

 

GRUPPO: dinamica di

Per dinamica di g. si intende lo studio della natura dei g., le leggi del loro sviluppo, le relazioni tra individui e g., le relazioni reciproche tra i g. e le loro organizzazioni. Altre due accezioni trovano notevole consenso tra gli studiosi: a) la dinamica di g. come ideologia politica riguardante il modo di organizzare e dirigere i g.; acquistano importanza in questa concezione la leadership democratica, la partecipazione di tutti nel processo decisionale, i vantaggi della mutua collaborazione sia per l’individuo che per la società in generale; b) la dinamica di g., soprattutto dopo gli anni ’70, è stata vista spesso come processo di sensibilizzazione, di esperienze di g., di discussioni non strutturate che dovrebbero portare alla capacità di comprensione reciproca e di apertura in un ambiente pluralistico (Scilligo, 1992).

1.​​ La produttività nel g.​​ Le persone si inseriscono nei g. per ragioni funzionali. Tipiche ragioni funzionali sono le seguenti: l’​​ ​​ appartenenza,​​ cioè per ritrovarsi con persone ed amici; il​​ confronto sociale,​​ per avere un luogo di riferimento nelle situazioni di incertezza; la​​ realizzazione di​​ ​​ valori,​​ per sentirsi protette e accompagnate nell’attuazione di valori importanti;​​ la produttività,​​ per vantaggi di lavoro mediante la divisione dei compiti; la​​ ​​ stima di sé,​​ per lo status proveniente dall’appartenenza; la​​ protezione,​​ per difendersi da minacce esterne. Spesso solo la presenza di altri aumenta la produttività se i compiti sono relativamente facili (l’effetto della facilitazione sociale), ma la produttività tende a diminuire se i compiti sono difficili (l’effetto della inibizione sociale) (Zajonc, 1965). Il lavoro fatto interagendo con altri viene ritenuto di solito come vantaggioso, anche se non è sempre così: spesso infatti si produce il fenomeno della deresponsabilizzazione di alcune persone nel g. Nel lavoro di g. si possono avere risultati più efficienti se i compiti sono suddivisibili e si introduce un’adeguata organizzazione, altrimenti il lavoro di g. può diminuire la produttività. Perché il g. sia produttivo, occorre adeguata motivazione e organizzazione. Se i membri del g. hanno bassi livelli di difensività, si abbassano i livelli di esclusione competitiva dell’altro e aumenta la capacità di collaborazione assertiva che tiene conto della protezione di sé e dell’altro.

2.​​ La struttura del g.​​ Nei g. interattivi molto presto si produce struttura, cioè avviene una suddivisione di ruoli definiti da precise regole di comportamento che stabiliscono le norme che deve osservare la persona che occupa il ruolo; ad es. in un ristorante ben presto ci sarà chi fa da cuoco, chi fa da cassiere, chi prende gli ordini dai clienti, chi li serve. Per mantenere la struttura del g. sono importanti la comunicazione e l’attrazione tra i membri. Normalmente emergono due capi diversi: il capo che si incarica dell’organizzazione e il capo che si cura delle relazioni tra le persone (Bales e Slater, 1955).

3.​​ Il​​ capogruppo o leader.​​ Quando i g. crescono nella numerosità dei membri, si sviluppa necessariamente una struttura ed emerge un capogruppo. Di solito per l’affermarsi del capogruppo, oltre alla numerosità dei membri (= più di quattro o cinque persone), occorre anche che il g. abbia la sensazione che può riuscire nel suo compito, che la riuscita è apprezzata, ed è presente una persona che sia in grado di assumersi la funzione di leader. Il g. nel creare il leader rinuncia a una parte del potere e quindi il leader emerge solo sotto condizioni particolari, ad es. se c’è il pericolo che non si riesca a portare a termine i compiti che il g. si propone e se c’è bisogno di distribuire equamente i risultati del lavoro di g. Oggi si sa anche (Fiedler, 1978) che l’emergere del leader e lo stile richiesto nel leader dipende dalle caratteristiche della situazione. Tipicamente si riscontrano due tipi di leader, quello orientato alle relazioni con le persone e quello orientato alla soluzione dei problemi riguardanti i compiti del g. Le situazioni possono essere favorevoli, in quanto i compiti sono relativamente semplici, il rapporto leader-membri è buono e il leader ha potere nell’ottenere benefici per i membri; se queste condizioni non si verificano allora le condizioni sono sfavorevoli. In generale nelle condizioni molto favorevoli e molto poco favorevoli emerge un leader capace di organizzare e gestire i compiti, mentre invece nelle situazioni mediamente favorevoli tende ad emergere il leader che è capace di gestire le relazioni tra le persone. I g. di solito hanno bisogno della presenza di tutti e due i tipi di leader e difficilmente i due stili di leader si possono riscontrare nella stessa persona. Di qui non solo la difficoltà di avere un solo leader che faccia tutto in un g., ma anche la pratica impossibilità di avere un leader uguale per tutte le situazioni.

4.​​ La comunicazione nei g.​​ Esistono diversi modi di comunicare nei g. Prototipici sono due: la rete di comunicazione centralizzata e la rete circolare. Nella rete centralizzata la comunicazione passa necessariamente attraverso un distributore centrale per arrivare agli altri membri. Nelle reti circolari la comunicazione passa da un membro all’altro senza passare necessariamente attraverso un distributore centrale dell’informazione. Si è riscontrato che nelle situazioni di compiti semplici le reti centralizzate sono più efficienti, mentre sono più efficienti quelle circolari per compiti complessi (Shaw, 1964). Con problemi complessi nella rete decentralizzata, rispetto a quella centralizzata, tende ad essere presente maggiore soddisfazione nel g. Quando l’informazione da passare è eccessiva le reti centralizzate tendono ad intasarsi e a creare inefficienza.

5.​​ Conformismo sociale nei g.​​ Soprattutto nelle situazioni ambigue, le persone, di fronte ai pareri degli altri con i quali fanno g., cambiano idea e trasformano le proprie opinioni, e tale cambiamento tende a permanere anche dopo l’avvenuta pressione di g. (Jacobs & Campbell, 1961). Nelle situazioni dove il g. sostiene in maggioranza un’opinione di fronte a un individuo che non può consultarsi con altri, l’individuo può talora accettare come corretto anche ciò che è ovviamente incorretto (Asch, 1951). Sembra che il fenomeno si verifichi perché la persona si fida di più degli altri che di sé (influsso informativo) o per il suo desiderio di essere come gli altri e di non essere rifiutato (influsso normativo). Moscovici (1976) ha dimostrato che una minoranza compatta può avere un grande impatto nel provocare un cambiamento verso l’innovazione, anche se va contro il parere della maggioranza. L’impatto della minoranza coerente sembra particolarmente forte se essa si presenta flessibile nelle sue negoziazioni; la minoranza coerente ha meno impatto se è rigida e dogmatica. Secondo Moscovici l’opinione della maggioranza provoca un processo di confronto sociale in cui la persona confronta la propria risposta con quella degli altri, mentre l’opinione della minoranza coerente provoca un processo di verifica, cioè un processo cognitivo avente lo scopo di capire perché la minoranza persiste con coerenza nel mantenere le opinioni che sostiene.

Nelle discussioni di g. si è riscontrato che avviene uno spostamento verso i pareri inizialmente mediamente condivisi dal g. (Myers, 1982), provocando spostamenti verso posizioni estreme e di maggiore rischio o maggiore cautela; il fenomeno è comunemente conosciuto sotto il nome di polarizzazione di g. Il fenomeno si verifica nelle più svariate situazioni: nell’uso degli stereotipi, nelle impressioni interpersonali, nel comportamento prosociale o antisociale, nelle contrattazioni, nelle decisioni delle giurie, nei g. di consulenza, nei g. di sostegno sociale, nei g. religiosi e nei giochi d’azzardo. Alla base dello spostamento di opinione verso posizioni più estreme sembra ci siano i fenomeni dell’influsso informativo e normativo ai quali è stato accennato parlando del conformismo. Le implicanze del fenomeno sono importanti, soprattutto in riferimento ai g. nei quali i membri pensano la stessa cosa: nelle decisioni delle giurie, dei comitati, dei governi, avviene una polarizzazione anche verso posizioni sbagliate, poco sagge e talora disastrose; di qui l’utilità della presenza di g. di opposizione. Una conseguenza pericolosa dei processi implicanti il conformismo è l’ubbidienza cieca all’autorità nelle dittature e nei plagi di g.; alcune conseguenze sono ben note nei comportamenti implicanti pulizie etniche, stermini nei campi di prigionia e suicidi di massa. Come si può vedere, nelle pressioni di g. sono implicati gravi problemi di natura etica e morale (Milgram, 1974).

Bibliografia

Asch S. E., «Effects of group pressure on the modification and distortions of judgments», in H. Guetzkow (Ed.),​​ Groups,​​ leadership and men,​​ Pittsburg, Carnegie, 1951; Bales R. F. - P. E. Slater, «Role differentiation in small decision-making groups», in T. Parsons - R. F. Bales (Edd.),​​ Family,​​ socialization and interaction process,​​ Glencoe, Free Press, 1955; Jacobs R. C. - D. T. Campbell,​​ The perpetuation of an arbitrary tradition through several generations of a laboratory microculture,​​ in «Journal of Abnormal and Social Psychology» 62 (1961) 649-658; Moscovici S.,​​ Social influence and social change,​​ London, Academic Press, 1976; Myers D. G., «Polarizing effects of social interaction», in H. Brandstätter - J. H. Davis - G. Stocker-Kreigauer (Edd.),​​ Group decision making,​​ New York, Academic Press, 1982; Scilligo P.,​​ G. di incontro: teoria e pratica,​​ Roma, IFREP, 1992; Zanardi A.,​​ Dinamiche Interpersonali e sviluppo del sé, Milano, Angeli, 2001.

P. Scilligo




DIPARTIMENTO

 

DIPARTIMENTO

Nell’​​ ​​ istruzione superiore il d. si definisce come l’organizzazione di uno o più settori di ricerca omogenei per fini o per metodo e dei relativi insegnamenti anche afferenti a più facoltà. È presente anche nella scuola secondaria dove indica un’articolazione interna del corpo docente per aree disciplinari o interdisciplinari: il d. contribuisce alle interrelazioni sociali e professionali degli insegnanti e offre una sede per decisioni importanti sui corsi.

1. Nell’Europa continentale l’organizzazione dell’istruzione superiore è fondata tradizionalmente sulle facoltà, e solo di recente ha adottato anche la formula dei d. Questi ultimi erano l’unità di base in Gran Bretagna all’inizio del ’900 e negli Stati Uniti dal sec. XIX.

2. In Italia, dopo la creazione dello Stato unitario, le facoltà hanno fornito la struttura fondamentale delle​​ ​​ università con funzioni organizzative primariamente riguardo all’insegnamento e in secondo luogo alla ricerca. Circa quest’ultima furono col tempo creati gli istituti che hanno registrato una grande espansione dagli anni ’60. Tale modello organizzativo della ricerca comportava, però, irrazionalità, sprechi, sovrapposizioni di competenze e difficoltà di programmazione. Per ovviare a tali limiti veniva avanzata la proposta di introdurre i d. e il dibattito ha trovato una soluzione di compromesso con la L. n. 382 / 80, che ha autorizzato la sperimentazione dei d. La normativa li prevede come facoltativi, sottopone la loro costituzione a vari controlli di fattibilità, ne focalizza la competenza sulla ricerca, riconosce la loro autonomia amministrativa e stabilisce un numero minimo di docenti e di ricercatori per la loro costituzione. Tale innovazione ha aperto la strada per la creazione di d. di​​ ​​ scienze dell’educazione, che rendono possibile la ricerca, sostengono l’insegnamento e sono divenuti centri di educazione permanente.

Bibliografia

Gattullo M., «Crisi e cambiamento dell’Università», in R. Moscati,​​ La sociologia dell’educazione in Italia,​​ Bologna, Zanichelli, 1989, 88-117; Clark B. R. - G. Neave (Edd.),​​ The International encyclopedia of higher education,​​ Oxford, Pergamon Press, 1992; Associazione Treellle,​​ Università italiana,​​ università europea, 2003, quaderno 3, 8-182; Torcivia S.,​​ L’autonomia dei d. universitari, Bologna, Giappichelli, 2003; Elevati C. - F. Lanzoni,​​ 3+2= La nuova università, Milano, Alpha Test, 2004.

G. Malizia




DIPENDENZA DA INTERNET

 

DIPENDENZA DA INTERNET

Per d.d.I. (IAD o Internet Addiction Disorder) si intende una psicopatologia che si presenta in misura notevolmente crescente, in persone affette da sindromi organizzate e note clinicamente come disturbi di personalità, specialmente del tipo ossessivo-compulsivo e dipendente, come depressione e distimia, come DOC (disturbo ossessivo-compulsivo) e infine come fobia sociale e difficoltà nella socializzazione con conseguente ritiro o isolamento sociale.

1. IAD​​ (Internet Addiction Disorder) è l’acronimo che identifica la sindrome da d.d.I. Reale quanto l’alcolismo, provoca gli stessi disagi e le stesse conseguenze di altre patologie da d. (Cantelmi e D’Andrea, 2000). Colpisce la fascia di utenza che va dai 15 ai 40 anni. L’evidente quadro sintomatologico del disagio si manifesta con difficoltà relazionali, eccessivo attaccamento al computer e all’essere sempre connessi (to be always on); inganno circa il tempo trascorso in Rete, ansia e depressione e progressivo allontanamento da qualsiasi altra attività da tempo libero. Inoltre, si manifesta con la fuga, l’isolamento, l’allontanamento dalla realtà, il rifugio nel mondo virtuale con la conseguente rottura delle relazioni sociali più vicine. Secondo Cantelmi e D’Andrea (2000), tra le nuove dipendenze maggiormente più diffuse c’è​​ la d. da​​ cyber-relazioni​​ (cyber relationship addiction),​​ la d. dai giochi online della tipologia​​ MUD​​ (Muds addiction), la d. da informazioni (information overload addiction), il​​ tech-abuse​​ e la​​ trance​​ dissociativa da (Cantelmi e Giardina Grifo, 2002).

2. La comunicazione​​ online, caratterizzata da velocità, immediatezza, economicità, anonimità, facile gruppalità, può avviare le giovani personalità in formazione – quando eccessiva – verso situazioni di d. La Rete affascina i giovani e i giovanissimi per la sua vastità e per l’interattività, ma soprattutto per l’offerta di relazionalità. La Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive (SIIPAC), nella sezione Internet, denuncia che in Italia un adolescente su tre (il 27%) è affetto da patologie da d. L’età a rischio è compresa tra i 13 e i 17 anni e per le nuove droghe non servono sostanze, basta un computer. Il vizio ha radici precoci e si parla di assuefazione e crisi di astinenza da​​ videogame​​ già per bambini di 7 / 8 anni. Quelle che vengono classificate come patologie di d.d.I. si manifestano a livello somatico e comportamentale con manifestazioni riconducibili alla d. vera e propria e, nei casi estremi, anche alla dissociazione.

Bibliografia

Young K.,​​ Caught in the net: how to recognize the signs of Internet addiction and a winning strategy for recovery,​​ New York (NY), John Wiley and Sons, 1998; Cantelmi T. - A. D’Andrea, «Fenomeni psicopatologici Internet-correlati: osservazioni cliniche»,​​ in T. Cantelmi (Ed.),​​ La mente in Internet.​​ Psicopatologie delle condotte on-line,​​ Padova, Piccin, 2000, 55-93; Cantelmi T. - L. Giardina Grifo,​​ La mente virtuale. L’affascinante ragnatela di Internet,​​ Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002.

C. Cangià




DIRETTORE

 

DIRETTORE

È la persona che ha l’incarico di promuovere, coordinare e guidare le strutture e gli atti operativi di un’istituzione educativa (​​ dirigente scolastico).

1. Il suo sistema di riferimento sono la natura dell’istituzione, gli operatori di varia forma e funzione, i programmi e gli altri mezzi, da far agire nelle condizioni migliori per attuare gli scopi e i fini educativi propri di ogni specifica istituzione educativa. Ordinariamente l’attenzione viene portata sul controllo e il buon uso dei mezzi. In realtà il fattore dominante sono i fini e gli obiettivi per avviare, promuovere e mantenere ogni fattore dell’intero sistema nella giusta «direzione» verso di essi. Un «principio di autorità» è inerente al sistema oggettivo di cui il d. è solo gestore. Anzi, la personalizzazione del principio, per sé necessaria, potrebbe avvenire con la partecipazione di pochi, di molti, di tutti, di un gruppo dirigente organico, dove il d. precisa la sua funzione in termini di «presidenza» o di «dirigenza» di un lavoro convergente e articolato di precise competenze responsabili e attive (​​ comunità educativa / scolastica). Un d. può essere a sua volta dipendente, con vari spazi di autonomia e iniziativa, oppure essere iniziatore e primo responsabile. Deve evitare inoltre di vedere sotto di sé solo esecutori e favorire l’iniziativa e la responsabilità, soprattutto riguardo ai modi ed alle strategie d’azione.

2. A chi dirige si chiede legittimità, competenza,​​ ​​ autorità; ma anche abilità nel saper raccogliere informazioni dal basso, elaborandole personalmente e collegialmente, condividendo con i propri collaboratori obiettivi e motivazioni. In caso di conflitti di ruolo o di problemi amministrativi o di altra natura, il d. deve fare ogni sforzo per mantenere i primi al centro come ispiratori e regolatori degli altri. Deve provvedere alla buona organizzazione dei fattori, alla buona​​ ​​ comunicazione, al coinvolgimento attivo, competente e responsabile di tutti in modo che ognuno trovi gratificazione delle proprie aspirazioni e soddisfazione nel conseguimento dei fini condivisi, nell’azione collaborante, nella istituzione sentita come propria. Forse c’è da andare oltre la buona direzione «tecnica». I diretti non chiedono di essere solo organizzati e comandati, ma anche maturati, istruiti e motivati. Fa parte dei doveri del d. l’innovazione e l’adattamento dell’istituzione, coinvolgendovi l’intero sistema.

Bibliografia

Peters R.,​​ Il nuovo volto dell’autorità,​​ Roma, Armando, 1975;​​ Melese J.,​​ La gestion par les systèmes,​​ Suresne, Hommes et Techniques,​​ 1976; Scurati C. - E. Damiano - M. Riboldi,​​ La funzione dirigente nella scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1986; Armone A. - R. Visocchi,​​ La responsabilità del dirigente scolastico, Roma, Carocci, 2005.

P. Gianola




DIREZIONE SPIRITUALE

 

DIREZIONE SPIRITUALE

Lo scopo principale della d.s. consiste nel favorire la relazione tra l’uomo e Dio e nel vivere profondamente la dimensione interiore e religiosa della vita. Essa, quindi, rappresenta un aiuto specifico che alcuni cristiani si danno per crescere, individualmente e come comunità di fede, nella relazione con Dio, con gli altri, con il mondo, con la storia. Qui, per d.s. intendiamo la modalità che avviene sia al di fuori che all’interno del sacramento della riconciliazione, senza richiamare le questioni specifiche della d.s. istituzionalizzata e che ha luogo nelle situazioni di formazione alla vita consacrata o al sacerdozio. Il tema della d.s. si potrebbe facilmente allargare, per es., all’antichità classica, richiamando i nomi di Plotino, Epitteto, Plutarco, Cicerone, Seneca. Sappiamo pure che forme di aiuto ascetico-morale molto efficaci sono conosciute anche nell’ambito di altre religioni.

1.​​ L’uso del termine.​​ Nonostante alcuni tentativi fatti in questi ultimi decenni per sostituire nel linguaggio cristiano il termine d.s., e di conseguenza eliminare dall’uso anche il termine stesso di​​ ​​ direttore o padre spirituale, è maturata la convinzione che proprio questi vocaboli risultano i migliori. L’idea della sostituzione dei termini tradizionali è stata motivata da una documentabile esperienza di d.s. che, in qualche misura, si è trovata in contrasto con gli orientamenti offerti una volta dalla teologia ascetica e mistica e che oggi con maggiore competenza ancora offrono la pedagogia, la psicologia e la teologia spirituale. Non si può negare che molte volte un direttore spirituale sicuro più di sé che fiducioso di Dio, ricade in forme di dirigismo, di direttività, di paternalismo.

2.​​ Crisi e attualità della d.s.​​ Fino agli anni settanta, del sec. scorso, non si può parlare di crisi d’identità della d.s. Poi, è sembrato che il contributo che le scienze dell’uomo offrivano per la comprensione e la soluzione dei problemi della persona umana fosse talmente sufficiente da far considerare ormai superata la d.s. Si era così sicuri dell’esistenza di tante terapie di vario genere da considerare la d.s. non all’altezza, perché troppo settoriale, delle finalità per le quali aveva lavorato fino a quel momento. Inoltre, si era nel pieno di una cultura «senza padre», per cui sembrava che la parola «padre» o «direttore» potesse favorire la riproduzione simbolica e bloccante della figura paterna e compromettere la relazione padre-figlio. Questa sfiducia nei confronti della d.s. sembrava sostenuta dal fatto che anche la stessa teologia, essendosi liberata dal linguaggio di un un’antropologia dualista, aveva cominciato ad esprimersi con quello di un’antropologia integrale. In questo clima di critiche della d.s. è nata anche la proposta dell’animazione comunitaria, intesa come alternativa al tradizionale modo di attuare la d.s. Non si può ignorare l’attualità della d.s., né per il passato, né per il presente. Oggi, poi, vediamo che la ricerca di nuovi maestri si presenta, talvolta, perfino febbrile. Purtroppo, quasi sempre li si considera una specie di maghi, competenti sul piano spirituale, su quello delle tecniche e su quello dei metodi ascetici, così da dare una soluzione a qualsiasi problema.

3.​​ Il senso della d.s.​​ È necessario chiarire il peso che si dà sia al termine d.s. sia a quello di direttore spirituale. A favore di questi vocaboli non è solo una lunga tradizione, ma anzitutto il significato teologico e spirituale che essi esprimono. I termini d. e s. rappresentano due istanze di quell’aiuto che è indispensabile per un credente bisognoso nel suo cammino di fede. Tali istanze non si possono interpretare in modo arbitrario, attribuendo ad esse un significato immaginario, come per es., assegnando allo «spirituale» l’interesse per un’anima disincarnata secondo l’antropologia dualista di una volta e alla d. una volontà di padronanza sulle persone, e quindi un’autorizzazione ad assoggettarsi il diretto o addirittura a plagiarlo. È vero che nel passato, essendosi badato solo al senso del progresso spirituale visto nella luce del dato oggettivo, offerto dalla fede della rivelazione di Gesù Cristo, di solito veniva trascesa la corporeità del diretto. L’equilibrio di cui parla Th. Merton rimaneva sconosciuto: «Il direttore spirituale si interessa a​​ tutta la persona,​​ perché la vita spirituale non è semplicemente la vita della mente, o degli affetti, o della “sommità dell’anima”: è la vita di tutta la​​ persona.​​ Perché l’uomo spirituale (pneumatikós)​​ è colui la cui vita intera, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue attività, è stata spiritualizzata dall’azione dello Spirito santo, sia per mezzo dei sacramenti, sia dalle ispirazioni personali e interiori». La d.s. è molto più di un consiglio, di un dialogo, di un incoraggiamento. Essa si radica nell’opera dello Spirito santo che è il protagonista principale della nostra crescita spirituale. Il livello su cui si muove la d.s. è quello spirituale, mentre le competenze che offrono le scienze dell’uomo rimangono sul piano psicologico. Alla nostra attenzione non deve sfuggire che nella relazione della d.s. i protagonisti sono tre: lo Spirito santo, che è il vero direttore spirituale, il diretto, che è il vero soggetto nella d.s., e il direttore spirituale umano, che svolge l’opera di mediazione tra i due.

4.​​ D.s. e azione dello Spirito.​​ Per liberare la d.s. da un’immagine di vincolo che lega strettamente e in modo permanente, e per sottolineare il suo carattere transitorio, si dice che essa «è nata per finire». Questa sintesi mette in rilievo la finalità pedagogica della d.s.: aiutare la persona diretta a mettersi in piedi e a camminare da sola. Ecco il motivo per cui il diretto deve avere un pieno spazio di libertà nel suo cammino di ricerca e la coscienza che spetta a lui stesso il dovere di decidere. Perciò il direttore non è colui che si sostituisce alla persona diretta e tanto meno prende il posto dello Spirito santo. È «direttore spirituale» perché collabora con lo Spirito santo per il progresso spirituale della persona diretta. A questo proposito, l’Oriente cristiano, sottolineando l’importanza e il significato spirituale del ruolo che svolge il mediatore tra l’uomo e Dio, fin dai primi tempi parla di «padre spirituale» o, nel caso delle donne, di «madre spirituale» perché particolarmente in quel contesto di vita cristiana il padre spirituale esercita la sua funzione non in virtù di un’autorità ufficiale, ma dell’autorevolezza spirituale.

5.​​ L’itinerario spirituale e i compiti della d.s.​​ Per capire i motivi della perenne attualità della d.s. occorre sapere quali sono i suoi compiti. Adulti nella fede, santi e uomini spirituali, non si nasce, ma si diventa. La storia della spiritualità cristiana conosce il tema dell’itinerario spirituale: tappe o gradi che aprono su tappe successive di crescita spirituale. Il che esprime la convinzione che adulti nella fede, santi e uomini spirituali, si diventa in modo progressivo. L’idea dell’itinerario spirituale è quella che la vita spirituale, sviluppandosi nel tempo, ha le sue leggi proprie che un direttore spirituale deve conoscere per agire di conseguenza. Oggi, inoltre, si è convinti che il progresso spirituale avviene in modo non indipendente dalle leggi della crescita e dello sviluppo umano. Tra le numerose proposte di itinerario, la più corrispondente al realismo del progresso spirituale è quella che lo articola in principianti, proficienti e perfetti. In ogni proposta di itinerario spirituale importanti sono i contenuti delle rispettive tappe perché aiutano il soggetto a riorientare la propria vita verso i valori superiori di cui la carità è il centro. Risulta, anzitutto, urgente che nella d.s. si giunga all’essenziale senza perdere tempo soffermandosi più del necessario su un terreno antistante i veri problemi della persona diretta. Sono proprio i vantaggi che se ne ricavano a mantenere sempre attuale e utile la d.s. Essa, infatti, permette a chi la esercita di influire in maniera forte, significativa e talvolta determinante sul destino delle persone che gli sono state affidate da Dio. Ne sono l’esempio santi come Ambrogio, Agostino, Francesco di Sales, Giovanni​​ ​​ Bosco e tanti altri.

6.​​ La realtà del direttore spirituale.​​ Tra i diversi problemi pratici che la d.s. pone, il primo e il più difficile riguarda la scelta indovinata di un direttore spirituale. È emblematico il pensiero di s. Teresa d’Avila a proposito dell’utilità di avere un direttore spirituale capace: «Se io ho sofferto molto e ho perduto molto tempo, fu appunto per non sapere quello che dovevo fare» (Il​​ libro della Vita,​​ 14,7). S. Giovanni della Croce, a sua volta, in diversi momenti del suo insegnamento avverte che per incompetenza dei direttori spirituali si verificano numerosi danni spirituali.

Bibliografia

Merton Th.,​​ D.s.​​ e meditazione,​​ Milano, Garzanti, 1965; Besnard A. M. et al.,​​ Le maître spirituel,​​ Paris, Cerf, 1980; Serenthà L. - G. Moioli - R. Corti,​​ La d.s. oggi.​​ Atti della Quattro giorni Assistenti dell’A.C. di Milano, Milano, Ancora, 1982; Sudbrack J.,​​ D.s. La questione del maestro,​​ dell’accompagnatore spirituale e dello Spirito di Dio,​​ Roma, Paoline, 1985; Fossati G. et al.,​​ Per essere una guida spirituale,​​ Roma, Libreria Editrice Murialdo, 1987; Barry W. A. - W. J. Connolly,​​ Pratica della d.s.,​​ Milano, O. R., 1990; Mendizábal L. M.,​​ La d.s. Teoria e pratica,​​ Bologna, Dehoniane, 1990;​​ Vernette​​ J.,​​ Nuove spiritualità e nuove saggezze.​​ Le vie odierne dell’avventura spirituale, Padova, Edizioni Messaggero, 2001; Capello A. et al.,​​ Mistagogia e accompagnamento spirituale.​​ Atti e relazioni della 44a​​ Settimana di Spiritualità, Roma, Teresianum, 2003;​​ Goya​​ B.,​​ Luce e guida nel cammino.​​ Manuale di d.s., Bologna, Dehoniane, 2004;​​ Frattallone​​ R.,​​ D.s.​​ Un cammino verso la pienezza della vita di Cristo, Roma, LAS, 2006.

J. Struś




DIRIGENTE SCOLASTICO

 

DIRIGENTE SCOLASTICO

Per chi è a capo di una scuola è ormai invalsa la dizione formale «capo d’istituto» laddove si usava dire «preside» per le scuole secondarie e «direttore didattico» per la scuola elementare. Rientrano nella nozione anche tutte le funzioni di sostituzione (vicepreside, vicario, facente funzione) e di coordinamento di settori disciplinari o comunque indicanti responsabilità particolari (middle management).​​ Un termine molto comprensivo, riferito anche alle funzioni di ordine gestionale-amministrativo, è quello di​​ school manager.​​ La dizione​​ school management​​ indica il campo degli studi sulla dirigenza scolastica.

1.​​ Posizione e accesso.​​ In linea di massima possiamo avere:

A - capo di istituto

Tipo di sistema

 

modalità

di accesso

Requisiti

 

A- centralizzato burocratico

 

concorso

pubblico

titoli culturali,

curricolo

professionale,

superamento di un esame

B- collettivistico

 

elezione

 

prestigio, consenso

 

C- decentralizzato autonomo

 

selezione

 

curricolo professionale: qualificazioni, esperienze

 

D- totalitario

 

designazione

 

appartenenza politica

 

 

B - responsabile intermedio

l’accesso avviene per designazione da parte del capo di istituto o per richiesta da parte dei colleghi o per incarico da parte dei gestori o dell’amministrazione della scuola.

La caratteristica centrale del «capo di istituto» è di essere responsabile in senso globale della propria scuola e di rappresentarla a tutti gli effetti; le altre posizioni rispondono invece a compiti più delimitati e settoriali. In alcuni sistemi l’adempimento di tali compiti costituisce presupposto e titolo per l’accesso alla posizione di capo di istituto.

2. Contenuti.​​ Il d.s. viene considerato secondo tre fondamentali accezioni: a) funzionario; b) leader educativo; c) operatore dell’«educazionale». La prima configurazione – particolarmente presente nei sistemi scolastici europei continentali di derivazione napoleonica e prussiana – considera il d.s. come una figura completamente e compiutamente inclusa nella logica dell’amministrazione di natura burocratica, ultimo anello della catena gerarchica di disposizioni e poteri formali (uffici, programmi, circolari, ordinanze) che governano il funzionamento dell’apparato. Egli deve assicurare, quindi, il rispetto delle norme, vigilare sull’operato del personale, esaudire tutti gli adempimenti che gli vengono attribuiti allo scopo di promuovere l’istruzione e di perseguire gli obiettivi assegnati alla scuola. Il secondo profilo trova le sue radici nelle tradizioni basate sui principi della decentralizzazione e dell’appartenenza della scuola alla comunità, che vedono nel d.s. soprattutto il perno animatore di realtà educativamente significative. La sua attività, pertanto, è considerata rilevante non tanto dal punto di vista della correttezza formale quanto da quello della efficacia nei confronti delle finalità sostanziali della scuola e dei suoi agenti principali, vale a dire gli alunni e gli insegnanti. La funzione primaria del d.s., allora, è di contribuire alla «qualità» della propria scuola come luogo formativo. La terza indicazione rimanda alla identificazione dell’«educazionale» come campo intermedio fra il terreno dell’«educativo» e quello dell’«amministrativo» come tali, rispettivamente specifici dell’azione dell’​​ ​​ insegnante e di quella dell’amministratore vero e proprio. L’«educazionale» costituisce una sorta di nodo centrale di una linea che ha per oggetto le strutture funzionali della scuola e che, provenendo dall’amministrativo, finisce con l’attraversare il campo dell’educativo. La dirigenza scolastica, in quanto settore di attività professionale, si concretizza prevalentemente nell’ordine delle strutture funzionali, ma non è lontana in assoluto da quello dei rapporti; in questo senso, vengono ad emergere due principali componenti della professionalità dirigenziale, che hanno rispettivamente a che fare con l’​​ ​​ organizzazione scolastica e con la​​ ​​ relazione educativa. Spetta quindi al d.s. espletare compiti di garanzia, animazione, chiarificazione, facilitazione, controllo, innovazione, guida, sostegno, contatto, rassicurazione, protezione.

3.​​ Prospettive.​​ Gli sviluppi più rimarchevoli toccano due precisi settori di attenzione, costituiti dalla ristrutturazione del sistema secondo il principio dell’​​ ​​ autonomia delle scuole e dall’introduzione di forme specifiche di preparazione. Per quanto riguarda il primo punto, la figura del d.s. risulta fortemente modificata in senso manageriale nell’ipotesi che ad ogni istituzione scolastica vengano riconosciute delle possibilità di autonomia – vale a dire di autodecisione ed autodeterminazione progettuale – sul piano amministrativo, curricolare e didattico. Come conseguenza, il profilo del d.s. si andrebbe sempre più decisamente staccando dalle connotazioni burocratiche per accedere a valori e competenze di impresa, con un considerevole aumento dei poteri e delle responsabilità reali (es.: selezione del personale, gestione budgetaria, ecc.). La seconda questione si riferisce alla costituzione di forme apposite di preparazione alla professione di d.s., che è presente da tempo in alcuni Paesi (es.: Stati Uniti), si sta diffondendo con grande rapidità in molti altri (es.: Gran Bretagna, Olanda, Svezia) ed è ancora assente in Italia, dove si è invece assistito al fenomeno della diffusione su vasta scala della formazione in servizio. L’ipotesi di maggiore interesse è rappresentata dall’introduzione di gradi di studio universitario postlaurea (master) appositamente finalizzati.

Bibliografia

Bush T.,​​ Theories of educational management,​​ London, Routledge and Kegan, 1986; Sheive L. T. - M. B. Schonheit (Edd.),​​ Leadership. Examining the elusive,​​ Alexandria (Virg.), Association for Supervision and Curriculum Development, 1987; Smyth J. (Ed.),​​ Critical perspectives on educational leadership,​​ London, The Falmer Press, 1989; Dalle Fratte G. (Ed.),​​ Autonomia risorsa della scuola,​​ Milano, Angeli, 1991; Scurati C. - A. Ceriani,​​ La dirigenza scolastica.​​ Vicende sviluppi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Romei P.,​​ Autonomia e progettualità, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995; Susi F. (Ed.),​​ Il leader educativo, Roma, Armando, 2000; Sergiovanni T. J.,​​ Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; Artini A.,​​ I leader educativi, Milano, Angeli, 2004.

C. Scurati

DIRITTI DEI MINORI​​ ​​ Minori




DIRITTI UMANI

 

DIRITTI UMANI

Indicano le​​ esigenze fondamentali della persona​​ che vanno soddisfatte per assicurare una realizzazione adeguata di ciascuno nella globalità delle sue dimensioni materiali e spirituali.

1.​​ Il fondamento e i contenuti.​​ I d.u. rappresentano un​​ dato ontico​​ che trova nella dignità della persona la fonte ultima: di conseguenza, essi precedono la legge scritta, che può soltanto riconoscerli e non invece crearli. Nella dottrina giuridica attuale, questa posizione giusnaturalista sembra sopravanzare sia l’interpretazione contrattualistica, che fonda i d.u. su un patto intervenuto tra i gruppi sociali e quindi destinato a cambiare in base ai rapporti di forza reciproci, sia la spiegazione positiva dell’autolimitazione dello Stato sovrano che, pertanto, concederebbe i d.u. e non li riconoscerebbe in quanto preesistenti. Il medesimo orientamento è adottato più o meno esplicitamente anche dalle​​ ​​ organizzazioni internazionali, tra cui vanno segnalate a livello mondiale le Nazioni Unite e sul piano regionale il Consiglio d’Europa. In seguito all’esperienza delle dittature e delle barbarie perpetrate soprattutto nell’ultimo conflitto mondiale, il processo di​​ internazionalizzazione​​ dei d.u. ha trovato un sbocco solenne con l’adozione, il 10 dicembre del 1948, della Dichiarazione universale ad opera dell’Assemblea generale dell’ONU. Il passaggio dalla condizione di pura raccomandazione a norma giuridica vincolante si è successivamente compiuto con l’entrata in vigore nel 1976 di due Convenzioni, o Patti internazionali, rispettivamente sui d. civili e politici e sui d. economici, sociali e culturali. Tra i d.​​ finora riconosciuti​​ a livello internazionale, una prima categoria è costituita da quelli civili e politici, i cosiddetti d.u. della «prima generazione». Sono stati infatti i primi ad essere sanciti sul piano interno a partire dalla seconda metà del sec. XVIII e sono denominati d. «negativi», in quanto fanno divieto all’autorità pubblica di ingerirsi nell’ambito di libertà della persona: si tratta dei d. alla vita, all’identità personale, alla riservatezza, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, al voto libero e segreto, alla libertà associativa, alle garanzie processuali. La seconda categoria consiste nei d. economici, sociali e culturali o d.u. della «seconda generazione»: vengono anche chiamati d. positivi, in quanto l’autorità pubblica è tenuta a porre in essere interventi specifici per la loro realizzazione, e il loro riconoscimento sul piano statuale è iniziato nella seconda metà del sec. XIX. Di questo gruppo vanno ricordati in particolare i d. all’alimentazione, alla casa, all’educazione, al lavoro, alla salute, all’assistenza. A livello internazionale la prima categoria gode di una tutela più forte rispetto alla seconda. Recentemente si parla anche di d.u. della «terza generazione» o di solidarietà come il d. alla pace, a un ambiente sano, allo sviluppo: su questi il dibattito è ancora aperto, anche se si sta progredendo verso il loro riconoscimento internazionale.

2.​​ L’educazione ai d.u.​​ Sotto la spinta del processo di internazionalizzazione appena descritto ha preso​​ l’avvio​​ anche l’ educazione ai d.u. Infatti, «La comprensione e l’esperienza vissuta dei d. dell’uomo sono, per i giovani, un elemento importante della preparazione alla vita in una società democratica e pluralista» (Council of Europe, 1985, 2). L’elaborazione della disciplina sul piano curricolare ha portato a identificarne gli​​ obiettivi.​​ Tra l’altro, vengono indicati i seguenti: conoscenza degli sviluppi storici relativi ai d.u.; conoscenza delle dichiarazioni, convenzioni e patti contemporanei; conoscenza di alcune delle maggiori violazioni dei d.u.; comprensione della distinzione tra d. politici / legali e sociali / economici, dei concetti di base e delle relazioni tra individui, gruppi e d. nazionali; valutazione critica dei propri pregiudizi e sviluppo degli atteggiamenti di tolleranza; apprezzamento dei d. degli altri; simpatia per coloro a cui sono negati i d.; abilità intellettuali; abilità operative. Passando poi ai​​ contenuti,​​ va anzitutto richiamato un criterio organizzatore fondamentale: l’educazione ai d.u. andrà strutturata in modo da tener conto dell’età dell’allievo, delle sue condizioni e delle situazioni particolari delle scuole e del sistema educativo. Gli argomenti possono essere articolati in quattro gruppi: le principali categorie di d., doveri, obbligazioni e responsabilità dell’uomo; le diverse forme di ingiustizia, diseguaglianza e discriminazione; le personalità, i movimenti e i grandi eventi che nella storia hanno contrassegnato la lotta costante a favore dei d. dell’uomo; le principali dichiarazioni e convenzioni internazionali. La​​ didattica​​ di questa disciplina mantiene la lezione tradizionale, purché si ispiri alle migliori pratiche: essa deve riuscire a trasmettere le informazioni essenziali, a spiegare i concetti in modo comprensibile e a stimolare gli studenti a porre domande. Al tempo stesso bisognerà utilizzare altri metodi quali: la discussione di gruppo, i progetti di ricerca, la drammatizzazione e il «role-play», i giochi e le simulazioni e la partecipazione ad attività pratiche. Il coronamento di queste metodologie è costituito dalla realizzazione della «scuola dei d.u.», cioè di una scuola il cui clima sia propizio per l’apprendimento dei d.u. Nonostante gli sviluppi accennati, rimane il problema di trovare​​ una collocazione​​ per l’educazione ai d.u. all’interno del​​ ​​ curricolo. Infatti, i programmi d’insegnamento sono già sovraccarichi di contenuti e molte aree di nuove conoscenze, finora escluse dalla scuola, sono in lista di attesa. In generale si cerca di risolvere il problema con un compromesso: non una nuova materia separata, ma una dimensione dell’​​ ​​ educazione socio-politica, in particolare dell’educazione alla cittadinanza democratica. Altre difficoltà riguardano la delimitazione di un minimo di saperi ammessi da tutti, che è continuamente rimessa in discussione. Quanto ai metodi, si constata un’oscillazione continua tra la lezione di morale, la descrizione di organigrammi astratti dei processi politici e sociali e il ricorso alla ricerca. Riguardo poi alla valutazione, è certamente possibile introdurre esami e votazioni, ma la loro importanza è molto relativa per una disciplina che intende fornire conoscenze rilevanti per la vita. Da ultimo, lo scopo ricercato è quello di un influsso sull’agire delle persone, cioè sul modo di vivere con gli altri e con la società, ma una tale proposizione costituisce un problema per una parte notevole degli insegnanti che è legata a una concezione sbagliata della laicità della scuola, intesa come neutralità.

Bibliografia

Council of Europe,​​ Recommendation No. R (85) 7 of the Committee of Ministers to member States on teaching and learning about human rights in schools,​​ 14 May 1985; Papisca A., «D.u.», in E. Berti - G. Campanini (Edd.),​​ Dizionario delle idee politiche,​​ Roma, AVE, 1993, 189-199; Marino M.,​​ Per una pedagogia dei d.u., Roma, Anicia, 2003; Brander P. - R. Gomes - E. Keen,​​ Compass.​​ Manuale per l’educazione ai d.u. con i giovani, Roma, Sapere 2000, 2004; Di Pol Redi S.,​​ Educazione e d.u., Torino, Marco Valerio, 2004; Gramigna A. - M. Righetti,​​ D.u. Interventi formativi nel sociale, Pisa, ETS, 2005; Cassese A.,​​ I d.u. oggi, Bari, Laterza, 2006.

G. Malizia