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DESIDERIO

 

DESIDERIO

Con il termine d. si designa la tensione psichica con cui si aspira a beni che ancora non si possiedono: in questa tensione sono mobilitate in misura diversa sia le tendenze inferiori dell’uomo, legate ai bisogni fisiologici di autoconservazione e di omeostasi, sia le tendenze più specificamente spirituali, legate ai bisogni di autorealizzazione e di autotrascendimento.

1. Per lungo tempo l’educazione si è proposta soprattutto obiettivi di controllo, contenimento e repressione nei confronti della spontaneità del d., nella presunzione di una sua insanabile contraddizione con i fini etici dell’educazione, all’interno di una visione fondamentalmente pessimistica delle tendenze naturali dell’uomo e di una interpretazione dualistica dell’esperienza morale. A partire da​​ ​​ Rousseau, visioni più ottimistiche della struttura delle tendenze naturali dell’uomo si sono fatte strada nella nostra cultura pedagogica, in corrispondenza con l’affermarsi di una diversa concezione dell’uomo, ma anche con l’abbassarsi delle pretese etiche avanzate dalla pressione sociale nei confronti dei singoli. Così, a una pedagogia del controllo e della repressione, è subentrata una pedagogia della spontaneità, della gratificazione e, al limite, del permissivismo.

2. Oggi sembra farsi strada l’idea che, se ogni educazione, proprio per poter essere efficace, deve poter far presa sugli interessi e le energie interiori dell’educando (e quindi anche sul mondo del d.), i d. come tali non possono essere abbandonati alla loro spontaneità immediata, di cui non è garantita la saggezza, ma devono essere selezionati, elaborati, ristrutturati: in una parola, educati.

Bibliografia

Bloch M. A.,​​ Les tendances et la vie morale,​​ Paris, PUF,​​ 1948; Abbà G.,​​ Felicità,​​ vita buona e virtù,​​ Roma, LAS, 1989.

G. Gatti




DÉVAUD Michel Eugène

 

DÉVAUD Michel Eugène

n. a Granges-la-Battiaz (Friburgo) nel 1876 - m. a Friburgo nel 1942, pedagogista svizzero.

1. Compiuti gli studi secondari, D. entra in seminario (1897) ed è ordinato sacerdote (1901), ottenendo la laurea in lettere presso l’università di Friburgo (1904). I suoi interessi pedagogici maturano nei viaggi di studio in Francia, Belgio e Germania. Rientrato in patria, è nominato ispettore delle scuole primarie di Friburgo. Nel 1910 diventa professore di pedagogia generale e didattica all’università. Dal 1921 insegna nella scuola normale di Stato ed è redattore del «Bulletin Pédagogique». Le sue opere più importanti:​​ Le systéme Decroly et la pédagogie chrétienne​​ (1909),​​ Pour une école active selon l’ordre chrétienne​​ (1934),​​ L’école affirmative de vie​​ (1936),​​ Dieu à l’è­cole (1941).

2. L’impegno di D. per l’istruzione si tradusse in orientamenti per la promozione della​​ ​​ scuola rurale e per il rinnovamento dei contenuti e della didattica. Un tema centrale è il confronto con i «pedagogisti della​​ educazione nuova».​​ Le critiche (naturalismo, biologismo, ambiguità del concetto di interesse) sono precedute dallo sforzo per individuare le note di «una scuola attiva secondo l’ordine cristiano», richiamando anzitutto i presupposti della «scuola tradizionale»: diritti imprescrittibili della persona umana, ruolo della famiglia nell’educazione, sottomissione del fanciullo all’autorità degli educatori. Nell’ambito della scuola, D. rivendica la «supremazia dell’intelligenza» chiamata a «pronunciare un giudizio chiaro, sicuro, saldamente fondato, su ciò che noi siamo, sulle realtà di tutti i giorni». L’attività del maestro va ordinata all’attività dell’alunno, ma l’attività di questi va ordinata alla verità. La posizione di D. ebbe un notevole influsso sui pedagogisti cristiani negli anni centrali del XX sec. (v. anche​​ ​​ Scuole Nuove).

Bibliografia

Salucci S.,​​ E.D.,​​ Brescia, La Scuola, 1959; Antonello G.,​​ La figura e l’opera di E.D. per l’integrazione cristiana dell’attivismo nell’educazione e nella scuola,​​ Roma, P.U.L., 1979;​​ Prellezo​​ J.M. - R. Lanfranchi (Edd.), «D.M.E.», in Idd.,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 3, Torino, SEI, 2004, 276-280.

J. M. Prellezo




DEVIANZA

 

DEVIANZA

Il termine d. ha perso, negli anni recenti, parte della sua valenza esplicativa, sia perché le diverse teorie sociologiche che interpretano questo fenomeno ne hanno proposto significati contraddittori (fino ad intenderlo come innovazione e stimolo al cambiamento sociale), sia perché nelle società complesse le norme sociali mostrano elevata flessibilità e non definiscono più in termini precisi i criteri di normalità. In psicologia, poi, è sempre stato poco in uso e le caratteristiche di comportamento deviante sono state espresse con termini quali disturbo, sindrome,​​ ​​ psicopatologia,​​ ​​ nevrosi e psicosi. Nonostante queste difficoltà di utilizzazione e di significato, e la frequente sostituzione con il termine disagio, il concetto di d. è ancora rappresentativo per la descrizione di comportamenti non conformi alle norme. In una prospettiva pedagogica, soprattutto, il termine d. è estremamente valido per la descrizione di processi che non conducono alla realizzazione della piena dimensione umana, sociale e relazionale, indipendentemente dal fatto che siano conformi ai modelli normativi istituzionalizzati e diffusi nelle diverse e specifiche culture. Rimane aperto il problema della classificazione dei comportamenti devianti poiché, vista l’indeterminatezza del significato, il termine può rischiare di designare molte e differenti condizioni. Dinitz (1969) propone una classificazione della d. distinguendola in​​ anormalità​​ (i «diversi» e cioè gli handicappati fisici e psichici),​​ malattia​​ (malati mentali, alcoolisti, tossicomani),​​ crimine​​ (quando intervenga una violazione esplicita delle leggi scritte e si entra invece nell’ambito del concetto di delinquenza),​​ alienazione​​ (disadattamento più o meno cosciente nei confronti della realtà sociale),​​ peccato​​ (violazione di valori concernenti il sacro).

1.​​ La d. e la psicopatologia.​​ Nella criminologia classica ad orientamento positivista la d. viene descritta come inerente a tipologie somato-psichiche; il determinismo biologico di Lombroso (1878) è ancor oggi il riferimento d’obbligo per la discussione della compromissione delle aree intellettuali e morali in taluni individui; prima di lui, Pritchard (1835) aveva descritto casi di «follia morale» e «imbecillità morale» come prototipi di uno stato psicopatologico; successivamente Koch (1891) coniò il termine​​ inferiorità psicopatica​​ per indicare tratti di comportamento con labilità dell’io ed incapacità di adattamento. Contestate dall’approccio psicologico e sociologico alla d., che invece la descrivono come variazione a norme prodotte socialmente e dunque relativizzabili ai contesti di riferimento, tali ipotesi deterministiche sono riemerse attualmente, in specie per descrivere la predisposizione personale genotipica, l’ereditarietà della propensione all’uso di droghe ed alcool e l’associazione a comportamenti violenti o aggressivi con fattori neurologici presenti in alcune sindromi come il discontrollo episodico, il danno minimo cerebrale e la personalità antisociale.

2.​​ La d. e la psicologia.​​ L’approccio psicologico alla d. può essere classificato come studio dei processi intrapsichici e relazionali che la determinano. In questo quadro le principali costruzioni teoriche del pensiero psicologico propongono la d. come l’effetto di spinte all’azione sociale non contenute dai dispositivi (variamente denominati) interiorizzati dall’individuo. Senza più riferirsi a qualche tratto psicopatologico costituzionale discutono intorno a deficit nell’apprendimento, nella strutturazione della personalità, nelle capacità relazionali, nell’autocontrollo, nella gestione dei conflitti interni e sociali, ecc., conseguenti a percorsi problematici o eventi traumatici in età evolutiva. Il contributo della psicologia è dunque notevole soprattutto perché, pur nelle differenti impostazioni, concettualizzazioni e linguaggi, si muove alla ricerca dell’eziologia del disagio interiore e relazionale che può trasformarsi in esplicito comportamento deviante.

3.​​ La sociologia della d.​​ Lo studio della d. in sociologia è fatto tradizionalmente risalire a​​ ​​ Durkheim (1897). Con i concetti sociologici di anomia e d. si attua un radicale spostamento dall’ottica psicologica e psichiatrica fino a qui prese in considerazione verso l’approccio sociale. Anomia e d. sono due condizioni determinate socialmente, la prima significa mancanza di sufficiente interiorizzazione di norme e valori, la seconda è un «fatto sociale» compiuto da un soggetto in cui si incarnano le tensioni della coscienza collettiva. La letteratura sociologica sulla d. prenderà consistenza solo a partire dai lavori della Scuola Ecologica di Chicago, che analizzerà le sub-culture devianti, l’apprendimento dei processi di d. nel rapporto con individui e gruppi orientati al crimine fino a formulare un vasto repertorio di teorie via via più esplicative e complesse. Con la distinzione di Lemert (1981) tra d. primaria e d. secondaria si attua una svolta nella sociologia della d. Per d. primaria si intende l’atto deviante vero e proprio, originario, e per d. secondaria il rinforzo conseguente all’etichettamento sociale del comportamento deviante. In particolare secondo Matza (1976), ove la reazione sociale attribuisca ad un individuo caratteri di pericolosità, di follia e di d., la persona che trasgredisce sistematicamente una norma sociale sarà invitata a conformarsi alle aspettative degli altri. Ma questo invito al​​ ​​ conformismo per l’individuo avverrebbe in termini tendenzialmente attivi ed a livello cognitivo. Il deviante rimarrebbe sempre, o quasi sempre, consapevole e libero nelle sue scelte, anzi la percezione di un’affinità​​ con individui e gruppi devianti produrrebbe, a catena, maggiore consapevolezza –​​ affiliazione​​ – e maggiore accettazione della definizione sociale –​​ significazione​​ – che gli altri danno di lui. Infatti il suo diventare deviante è conseguenza di rielaborazioni intorno a se stesso, intorno a ciò che lui pensa che gli altri pensino di lui. In altri termini è un processo che avviene intorno alle aspettative di significato che la persona matura attende attraverso la realizzazione di un atto deviante. La teoria della rappresentazione sociale affronta il tema della d. approfondendo il concetto che lo stigma derivi dalle visioni collettive dei diversi gruppi presenti nella società. La conflittualità tra gruppi permette a minoranze attive di imporsi con il loro punto di vista sulla maggioranza e di procedere a far cambiare la visione collettiva di certi comportamenti. Ragion per cui un comportamento considerato più o meno gravemente deviante, può trasformarsi in un comportamento conformista e veder comunque diminuito l’etichettamento precedentemente ricevuto. Il punto saliente del pensiero marxista (​​ marxismo pedagogico) sulla d. è che le norme sociali da cui si devia sono definite dalla classe dominante allo scopo di mantenere il potere politico ed economico sulle classi subalterne. Pertanto, la d. è sintomo delle contraddizioni del capitalismo e la sua repressione è funzionale alla riproduzione sociale del sistema. Dalla presa di coscienza della condizione deprivata di proletario e sottoproletario, e dalla comprensione del contenuto politico del processo di d. messo in atto dal singolo per raggiungere ad ogni costo la felicità negata dal capitalismo, i devianti possono trasformare la loro d. individuale in processo di​​ ​​ emancipazione per tutta la società. Il​​ ​​ controllo sociale è uno strumento preventivo per contenere i processi di d. che scaturiscono nella società, sia per le contraddizioni del sistema, sia per l’amoralità dei singoli. Il controllo sociale è​​ deterrent​​ dei processi di d., ed il suo funzionamento viene analizzato in relazione alla forza persuasiva che esercita, in specie nei giovani. Hirschi (1969) ritiene che le relazioni nel gruppo dei pari siano le strutture di supporto per il coinvolgimento reciproco dei giovani in azioni devianti, qualora essi siano bisognosi del conforto di opinioni concordanti con le loro. In pratica la d. è una ricerca di conformità e conforto nel gruppo in ragione della caduta di conformismo con le norme dominanti, che non sono state recepite ed accettate. Quando un giovane vive carenze di​​ ​​ socializzazione (iposocializzazione) non interiorizzerà norme e valori che costituiscono la prima struttura del controllo sociale (autocontrollo). La mancanza di deterrenza da parte delle istituzioni – timore di essere escluso, etichettato, punito, arrestato, etc. – agevola la propensione alla carriera deviante. Alla luce delle teorie relazionali la d. può essere letta come un’azione comunicativa (​​ comunicazione) del soggetto, costretto entro definizioni sottili e invischianti prodotte dal sistema di relazioni in cui è inserito. La teoria dell’azione comunicativa è molto fertile per colmare alcune lacune delle precedenti teorie. Si tratta di leggere l’atto deviante come espressione comunicativa, anche paradossale, dell’organizzazione interna e relazionale del soggetto che segnala la presenza di un messaggio importante circa l’affermazione della sua identità. Tale messaggio però non è da intendersi come un​​ acting-out​​ dei conflitti intrapsichici come nelle interpretazioni psicologiche della d., né come un comportamento di interazione simbolica più o meno condizionata dalle aspettative previste nel contesto, ma come la ricerca di un effetto reale per ridefinire la posizione del soggetto nel sistema di relazioni cui partecipa. Il concetto di doppio legame di cui un individuo è prigioniero (il doppio legame è un’ingiunzione che contiene a livello metacomunicativo il divieto di obbedire all’ingiunzione) e il concetto di ridondanza (ripetizione di un’azione che sottintende nessi tra atto e contesto) sono centrali per comprendere che nell’azione comunicativa deviante il soggetto ha fatto riferimento a regole ed a significati che ha organizzato internamente sia dal punto di vista cognitivo che emozionale.

4.​​ La d. come processo educativo non riuscito.​​ Alla luce delle teorie relazionali acquista significato più completo l’affermazione della d. come processo educativo non riuscito. Come dimostra H. Franta (1988) le relazioni interpersonali (​​ rapporto educativo) sono sempre state concepite lungo la storia della pedagogia come fenomeno fondamentale dell’educazione. In particolare, nella pedagogia personalista, l’uomo non viene mai considerato nella sua individualità ma nel suo relazionarsi al mondo: la sua stessa esistenza è esistenza relazionale. Questo fa dell’educazione un rapporto a due vie. Se l’​​ ​​ educando non incontra educatori che modellano la propria disposizione relazionale e comunicativa sulla base dei suoi vissuti empatizzati, egli non vedrà soddisfatti i propri bisogni e non riuscirà ad acquisire gli specifici valori indispensabili all’arricchimento della sua personalità. Il bisogno di orientamento dell’educando non sarà autocompreso, con esiti di diminuzione della sua educabilità, autopercezione di disagio esistenziale e relazionale, possibile senso di progressiva affinità con azioni trasgressive, vissute come atti comunicativi che possono sconfinare nella d. primaria. In tal senso la d. come fatto psico-sociologico e personale pone per se stessa in questione la qualità dell’ educazione e si viene a proporre come «ardua» domanda di un’educazione «buona». L’educazione costituisce la prima forma di​​ ​​ prevenzione e, se non c’è stata, richiede un intervento di ri-educazione.

Bibliografia

Cohen A. K.,​​ Controllo sociale e comportamento deviante,​​ Bologna, Il Mulino, 1969; Hirschi T.,​​ Causes of delinquency,​​ Berkeley / Los Angeles, UCP, 1969; Watzalawick P. - J. H. Beavin - D. D. Jackson,​​ Pragmatica della comunicazione umana,​​ Roma, Astrolabio, 1971; Pitch T.,​​ La d.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1975; Matza D.,​​ Come si diventa devianti,​​ Bologna, Il Mulino, 1976; Ciacci M. - V. Gualandi,​​ La costruzione sociale della d.,​​ Ibid., 1977; Lemert E. M.,​​ D.: Problemi sociali e forme di controllo,​​ Milano, Giuffrè, 1981; Bandini T. - U. Gatti,​​ Delinquenza giovanile,​​ Ibid., 1987; Franta H.,​​ Atteggiamenti dell’educatore,​​ Roma, LAS, 1988; De Leo G.,​​ La d. minorile,​​ Roma, NIS,​​ 21998; Williams F. P. - M. D. McShane,​​ D. e criminalità, Bologna, Il Mulino, 2000; Garland D.,​​ La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2001; Melossi D.,​​ Stato,​​ controllo sociale e d., Milano, Mondadori, 2002; Berzano L. - F. Prina,​​ Sociologia della d., Roma, Carocci, 2003.

V. Masini - G. Vettorato




DEWEY John

 

DEWEY John

n. a Burlington (Vermont) nel 1859 - m. a New York nel 1952, filosofo e pedagogista statunitense.

1.​​ Vita.​​ D. nacque da una modesta famiglia di agricoltori. La Burlington in cui D. trascorse gli anni giovanili aveva una popolazione di circa quindicimila abitanti, molti dei quali oriundi dell’Irlanda e del Quebec. Vi erano rappresentati in buon numero gli​​ old Americans,​​ discendenti delle famiglie del ceto medio anglosassone stabilitesi nel Vermont o in altre parti del New England, e fu nella tradizione di questo gruppo sociale che D. fu allevato. Frequentò le scuole pubbliche di Burlington e poi si iscrisse all’Università del Vermont. Qui gli insegnamenti del quarto anno, in particolare quelli di economia, filosofia e teorie religiose, influirono decisivamente e permanentemente sul giovane D. che era a quel tempo, come egli stesso ebbe a definirsi, un «vorace lettore». Egli alternava agli studi attività fisiche e sportive, di nuoto e di pesca nel lago Champlain e di campeggio nelle​​ Green Mountains.​​ In questo periodo ebbe a soffrire di notevoli restrizioni educative ad opera della madre, che lo sottoponeva a veri e propri interrogatori al suo rientro a casa per sapere se avesse compiuto qualche azione riprovevole, il che gli provocava, com’egli stesso ebbe successivamente a ricordare, angosciosi e acuti sensi di colpa. Completati gli studi al​​ College​​ D. insegnò per tre anni in una​​ high school​​ e alla fine del 1882 si iscrisse alla Johns Hopkins University di Baltimora per intraprendere studi di filosofia superiore. Qui fu allievo di George Sylvester Morris,​​ visiting professor​​ proveniente dall’università del Michigan ed esponente autorevole del neohegelismo. Conseguito il titolo di​​ Philosophy Doctor​​ nel 1884 D. si trasferì all’università del Michigan, dove, per segnalazione di Morris, prestò servizio come​​ instructor in philosophy and psychology.​​ Col solo intervallo di un anno, che tra il 1888 e il 1889 lo vide professore di filosofia all’università del Minnesota, D. passò un intero decennio nel Michigan. Durante questo tempo i suoi interessi si volsero soprattutto alla filosofia hegeliana e ai neohegeliani inglesi, nonché alla nuova psicologia fisiologica e sperimentale introdotta e sviluppata allora negli Stati Uniti da G. Stanley Hall e da​​ ​​ James. In questi anni maturarono i suoi interessi pedagogici. Le letture e le personali osservazioni lo convincevano che l’organizzazione scolastica non corrispondeva alle indicazioni della psicologia scientifica e ai principi e alle esigenze della società democratica. Lo sforzo di elaborare una​​ ​​ filosofia dell’ educazione che ponesse rimedio a questi difetti divenne centrale nello sviluppo del pensiero deweyano, e lo arricchì di una nuova dimensione. Alla maturazione ulteriore degli interessi pedagogici deweyani contribuì il suo matrimonio, nel 1886, con Harriet Alice Chipman, assai impegnata sul terreno educativo e sociale. Entrambi amavano molto i bambini, e avendone perduto due in tenera età ne adottarono uno nel corso di un viaggio in Italia. D. lasciò l’università del Michigan nel 1894 per diventare professore di filosofia e presidente del dipartimento di filosofia, psicologia e pedagogia all’università di Chicago. Di là sarebbe passato nel 1904 alla cattedra di filosofia della Columbia University di New York, dove sarebbe restato per venticinque anni nell’insegnamento attivo, e per altri ventidue come professore emerito. In questo periodo la sua reputazione di filosofo, di pedagogista e di attento e autorevole osservatore e critico dei fatti sociali venne progressivamente crescendo, e la sua presenza pubblica si venne accentuando. Contribuì con S. O. Levinson al Kellog-Briand Pact del 1928, e fu uno dei fondatori e primo presidente dell’Associazione di professori universitari. Sul piano più strettamente politico si adoperò per organizzare un partito, ritenendo che i due partiti maggiori del Congresso non fossero all’altezza dei problemi generati dalla grande depressione degli anni trenta. Nel 1937, all’età di 78 anni, D. ebbe a presiedere una commissione che si recò a Città del Messico per ascoltare e valutare ciò che L. Trotsky aveva da dire in risposta alle imputazioni di cui era stato oggetto nei processi moscoviti del 1936 e del 1937. La reputazione internazionale di D. fece sì che fosse invitato in numerosi Paesi per conferenze e interventi di vario genere (Giappone, Cina, Turchia, Russia, Sud Africa, Messico). Negli anni dell’avanzata maturità, a circa vent’anni dalla morte della prima moglie, avvenuta nel 1927, passò a seconde nozze con Roberta Lowitz Grant, insieme alla quale adottò due bambini belgi, fratello e sorella, orfani di guerra.

2.​​ Produzione scientifica.​​ D. ha profondamente segnato la cultura filosofica e pedagogica del nostro tempo, percorrendo itinerari che sono stati variamente definiti come passaggio dallo spiritualismo al naturalismo, dall’assolutismo allo sperimentalismo, dall’idealismo al pragmatismo «strumentalistico», e di qua al transazionalismo umanistico e «olistico» degli ultimi scritti. La produzione deweyana è talmente vasta che un intero e non esiguo volume è stato destinato, già da alcuni decenni, a raccogliere i titoli delle sue opere e di quelle che espongono, commentano o criticano il suo pensiero.​​ Le opere complete (Collected works)​​ di D. sono pubblicate nei 39 volumi dell’ediz. critica a cura di Jo Ann Boydston, Southern Illinois University Press, Carbondale and Edwardville, 1969-1991 divise in​​ The early works,​​ 1882-1898; The middle works,​​ 1899-1924; The later works,​​ 1925-1953.​​ Dai saggi giovanili pubblicati su riviste teologiche, filosofiche e psicologiche, da​​ Scuola e società​​ (1899) a​​ Democrazia e educazione​​ (1916), da​​ Ricostruzione filosofica​​ (1920),​​ Natura e condotta dell’uomo​​ (1922) ed​​ Esperienza e natura​​ (1925), a​​ La ricerca della certezza​​ (1929), e alla​​ Logica,​​ teoria dell’indagine​​ (1938), fino ai saggi pubblicati nel 1946 col titolo​​ Problems of men​​ (Problemi di tutti​​ nella traduzione italiana curata da Giulio Preti) e a​​ Knowing and the known​​ (Il conoscere e il conosciuto)​​ del 1949, la sua produzione si è articolata in tutti gli ambiti della ricerca teorico-speculativa e scientifico-metodologica, portandovi contributi di fondamentale importanza di cui si riconoscono universalmente la grande originalità e l’eccezionale valore e che oggi, dopo un breve periodo di offuscamento, si ripropongono come punti di riferimento di un pensiero teorico metodologicamente agguerrito ma anche – e diciamo pure «deweyanamente» – affrancato dall’«ossessione» teoricistica e cognitivistica. Sia nella fase giovanile che in quella dell’avanzata e tarda maturità, D. ha svolto un ruolo di​​ trait-d’union​​ fra la cultura filosofica europea e quella d’oltre Atlantico. Non si tratta, ovviamente, di un filosofo «per molte stagioni», ma di un «macrobiòs» e di un maestro le cui prospettive travalicano il tempo di vita individuale e si accampano in un presente e in un futuro denso di incognite e di ombre, ma anche rischiarato da speranze che l’umanità approdante al terzo millennio non pare ancora rassegnata e disposta a cancellare e ad escludere dal proprio orizzonte.

3.​​ Concezione filosofica e pensiero pedagogico.​​ In pochi pensatori moderno-contemporanei la connessione di pensiero filosofico e di pensiero pedagogico è organica e strutturale come in D. Per un lungo periodo, tuttavia, essa restò come in una condizione di latenza. La connessione inizialmente più apprezzabile è quella tra filosofia e psicologia, secondo una curvatura che può ben definirsi di tipo idealistico o neoidealistico, e con una significativa mescolanza di interessi metafisico-speculativi, logici e teologici, testimoniati da saggi di varia ampiezza ed ispirazione. Fino al 1897 (D. aveva all’epoca quasi quarant’anni) gli scritti più vicini al pensiero pedagogico erano stati le poche pagine di​​ The psychology of infant language​​ (1894), il​​ Plan of organization of the University Primary School​​ (1895), rimasto praticamente inedito, la risposta ad un questionario pubblicata col titolo​​ The results of child study applied to education​​ (1895), il​​ «paper» Influence of the High School upon educational methods​​ (1896) e la breve nota​​ Pedagogy as a University discipline​​ (1896). Nel 1897 videro la luce altri brevi saggi, quali​​ Ethical principles underlying education,​​ My pedagogic creed​​ e​​ The aesthetic element in education,​​ a cui vennero ad aggiungersi in quello stesso anno altre brevissime note quali​​ The kindergarten and child-study,​​ The psychological aspect of the school curriculum​​ e​​ The interpretation side of child-study,​​ ed alcuni altri di non grande rilevanza, fino a​​ The school and society​​ del 1899, che fu una pietra miliare non solo nel pensiero deweyano, ma anche, più generalmente, in quello della pedagogia moderno-contemporanea. Da quel momento, e per molti decenni, la produzione pedagogica deweyana fu così intensa e influente che non è possibile riferirne in modo analitico, ma se ne può dare tutt’al più un elenco per grandi tappe e per momenti salienti. A opere minori, seppur significative, si alternano opere maiuscole e culminanti come​​ Moral principles in education​​ (1909),​​ Interest and effort in education​​ (1913),​​ Schools of tomorrow​​ (1915) (in collaborazione con Evelyn D.) e il «classico»​​ Democracy and education​​ (1916). Nel 1927 vide la luce il denso volumetto​​ The sources of a science of education​​ e, nel 1938, a ridosso della «grande logica» deweyana (Logica: teoria dell’indagine),​​ fu pubblicato l’agile volume, anch’esso destinato a diventare un classico con diffusione mondiale,​​ Experience and education.

4.​​ La filosofia pedagogica.​​ Appare materia di riflessione attualizzante, e motivo storico-teorico fondamentale di un ripensamento critico del pensiero deweyano, il problema se la pedagogicità del pensiero di questo filosofo-pedagogista debba esser fatta consistere nelle opere più specificamente dedicate ad approfondire le questioni educative ed a proporre metodologie di vario livello (epistemologiche e pratiche) sul terreno della formazione scolastica, o di quella più generalmente intesa, teorizzata e praticata; o se invece non debba ricercarsi nella chiave e con la chiave di quella filosoficità pedagogica, e quindi non rigidamente teorizzante e cognitivistica, della quale D., non da solo, ma con particolare incisività, ha dato testimonianza in questo e nello scorso secolo. Già se si pensa a opere culminanti e maiuscole come la​​ Logica​​ del 1938, la questione si prospetta con grande importanza e con grande interesse. La logica teorizza e serve all’indagine, e l’indagine risponde a sua volta ad un’esigenza di «accertamento» che non concerne in primo luogo il piano cognitivo, ma la formatività di un soggetto, come l’uomo, dipendente e precario, e che tuttavia aspira e tende ad autodeterminarsi attivamente e a farsi padrone della propria realtà e del proprio destino, pur in un contesto che lo trascende e lo supera. Anche altre opere fondamentali (già prima citate) come​​ Ricostruzione filosofica,​​ Natura e condotta dell’uomo,​​ La ricerca della certezza,​​ Esperienza e natura,​​ Il conoscere e il conosciuto,​​ hanno questo carattere. Più che una pedagogia filosofica o una filosofia dell’educazione quella di D. è una filosofia pedagogica, vale a dire una filosofia – qual è in generale quella pragmatistica e strumentalistica – il cui significato e il cui valore fondamentale è quello di un programma formativo, sia sul piano della costituzione dei soggetti individuali, che della costituzione e della cura dei soggetti collettivi. Di questo si ha un esempio eminente in quella che è forse l’opera più conosciuta e più generalmente apprezzata di D.:​​ Democrazia e educazione.​​ Qui la comprensività etico-sociale del programma democratico allontana da una pedagogia di corto raggio e di piccola curvatura, così come tiene distanti da una filosofia del pensiero «puro» o della speculazione fine a se stessa. Il programma democratico è un programma di formatività individuale e collettiva pensato nei termini di un pensiero concretamente astraente che s’innalza comprensivamente sui particolari, e al tempo stesso rifugge da ogni astrazione «platonicamente» elusiva di ciò che l’esperienza umana, come fatto e come valore, esige di sottoporre alla verifica e al giudizio del pensiero critico e intelligente. In questo D. corrisponde ad una tendenza permanentemente presente nella cultura occidentale fin dal tempo in cui la grecità venne imprimendovi i segni delle sue geniali intuizioni e raffigurazioni: quella di comporre l’alto esercizio spirituale della cura e della formatività praticata nella medicina, nella politica, nella paideia, con la pratica teorica del pensiero concettualizzante e riflessivo. Ed alla luce dei grandi percorsi del pensiero classico, ellenistico, cristiano e moderno contemporaneo l’opera di D. appare pienamente comprensibile ed assume il suo più peculiare ed alto significato, come anche testimoniano le interpretazioni e le utilizzazioni più strettamente contemporanee del suo pensiero.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ un elenco completo delle opere di D. e delle trad., aggiornato al 1962 è contenuto nel vol. a cura di M. H. Thomas,​​ J.D.: A centennial bibliography.​​ Il volume include inoltre un elenco pressoché completo degli scritti su D. b)​​ Studi:​​ Corallo G.,​​ La pedagogia di J.D.,​​ Torino, SEI, 1950; Borghi L.,​​ J.D.​​ e il pensiero pedagogico contemporaneo negli Stati Uniti,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1951; Visalberghi A.,​​ J.D.,​​ Ibid., 1951; Bausola A.,​​ L’etica di J.D.,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1960; Raggiunti R.,​​ Esperienza artistica ed esperienza scientifica in D.,​​ Torino, Edizioni di Filosofia, 1966; Granese A.,​​ Il giovane D.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1967; Boydston J. A. - K. Poulos,​​ Checklist of writings of J.D.,​​ Carbondale, University Press, 1978; Verda I.,​​ Attualità di J .D.,​​ Roma, Armando, 1979; Granese A.,​​ Introduzione a D.,​​ Bari, Laterza, 2005.

A. Granese




DIAGNOSI / DIAGNOSTICA

 

DIAGNOSI / DIAGNOSTICA

Sintesi critica di informazioni su una​​ ​​ personalità, organizzate in funzione di categorie (per es. nosografiche) connesse con la programmazione di un intervento.

1. La d. medica, archetipo a cui dialetticamente si riferiscono altri tipi di d., ha come scopo principale identificare la malattia che affligge il paziente, riferendosi a un sistema di categorie noto («nosografia»). Per analogia, la d. psicologica si propone di sintetizzare le informazioni sulla personalità di un individuo inquadrandole in sistemi pertinenti, che si riferiscano a disturbi mentali (cfr. la più recente edizione del​​ Diagnostic and statistical manual of mental disorders),​​ oppure a categorie anche non patologiche, ma desunte dalla​​ ​​ psicologia evolutiva, dalla psicologia dinamica o da teorie o cognitive. Nella d. psicologica in età evolutiva ha un peso fondamentale l’esame delle relazioni con la famiglia e con l’ambiente e della capacità del bambino di svolgere adeguatamente le funzioni tipiche della sua età. La d. educativa e didattica si propone finalità analoghe, anche se le categorie di riferimento sono assai meno rigidamente codificate.

2. La raccolta delle informazioni nel suo insieme va pianificata in modo da raccogliere dati sufficienti sia per inquadrare i fenomeni abnormi, patologici, sia per operare distinzioni esatte fra categorie diverse («d. differenziale»), sia per progettare un intervento, estendendosi quindi all’individuazione di aspetti sani su cui fare forza. Gli strumenti principali della d. sono l’osservazione diretta, il​​ ​​ colloquio con la persona e con persone che la conoscono bene, i​​ ​​ test. Ciascuno di questi strumenti fornisce informazioni non ottenibili con gli altri e comporta distorsioni diverse: l’osservazione dipende molto dalle situazioni, il colloquio dalle capacità referenziali di chi risponde, i test possono essere scelti in modo non appropriato e avere carenze di validità.

3. La sintesi dei dati raccolti, in genere numerosi, richiede tutta l’«arte» e l’esperienza dell’operatore, e comporta sia applicazioni psicometriche (per es. il riferimento a «norme statistiche» che definiscano operativamente la normalità), sia considerazioni etiche ed epistemologiche. Tra queste ultime, è stata segnalata la non ovvietà della definizione di «normalità»: per es. è «normale» il livello di prestazione offerto dalla media del campione, o è «normale» l’assenza di disturbi? o forse si deve pensare che la normalità sia la piena realizzazione delle potenzialità del soggetto? Già da vari anni sono apparsi programmi computerizzati che si pongono come sussidio per la d. medica e psicologica, anche se le prove della loro validità lasciano ancora a desiderare. La sintesi diagnostica è anzitutto un processo mentale con cui l’operatore chiarisce il problema diagnostico a se stesso. La comunicazione all’interessato, o a chi per lui, è un problema successivo e distinto.

Bibliografia

Rapaport D. - M. M. Gill - R. Schafer,​​ Diagnostic psychological testing,​​ New York, International Universities Press, 1968 ; Korchin S. J.,​​ Modern clinical psychology,​​ New York, Basic Books, 1976; Saraceni C. - G. Montesarchio,​​ Introduzione alla psicodiagnostica,​​ Roma, NIS, 1988;​​ Diagnostic and statistical manual of mental disorders,​​ Washington D.C., American Psychiatric Association,​​ 41994; Codispoti O. - P. Bastianoni,​​ La d. psicologica in età evolutiva, Roma, Carocci, 2002.

L. Boncori




DIALETTICA

 

DIALETTICA

Termine logico-filosofico, relativo al momento discorsivo della ragione, con varie applicazioni in​​ ​​ educazione e in​​ ​​ pedagogia.

1. Dal greco​​ dialektikè téchne​​ (arte del ragionare, del discutere), la d. ha assunto notevoli diversificazioni di significato nel corso del pensiero filosofico. Così ad es. per​​ ​​ Platone la d. designa il movimento dell’anima che dall’esperienza sensibile mutevole ascende di grado in grado alla verità ideale immutabile (= d. ascendente) e da essa ritorna alle cose (= d. discendente). Similmente l’idealismo ottocentesco e il neoidealismo del nostro secolo tentano di ricondurre la frammentarietà e la contraddittorietà del reale umano e storico alla logicità e all’assolutezza dello Spirito assoluto per via d. di tesi, antitesi e sintesi. Rispetto ad essa si pone, come d. «rovesciata», la d. marxista che dalle contraddizioni materiali storiche muove all’impegno del cambiamento rivoluzionario del sistema economico-politico. Pure contro il panlogismo hegeliano si pone la d. esistenziale di S. Kierkegaard, che rispetto all’intrinseca insostenibilità della vita estetica (incarnata nel Don Giovanni) e della vita etica (incarnata nel padre di famiglia) non vede che «il salto nel buio» della vita di fede (incarnata nella figura di Abramo). In altri, come in​​ ​​ Aristotele e​​ ​​ Kant, rimane fondamentalmente come tecnica della confutazione e modo di argomentare che urge le contraddizioni logiche di idee, concetti, modi di vedere la realtà.

2. In linea con quest’ultimo ambito di significato, la d. si pone come un aspetto dell’educazione intellettuale, relativamente allo sviluppo delle capacità logiche, critiche ed argomentative. In senso più largo, vale a dire in quanto ricerca del vero, tensione all’uno ed apertura al giusto e al bello, essa può essere fatta rientrare nel processo di sviluppo personale come attenzione autoformativa al senso del limite e al superamento di esso. Più specificamente la d. è vista come una componente della​​ ​​ relazione educativa, in cui sono spesso presenti tensioni non facilmente componibili neppure con il dialogo e in prospettiva dinamica (​​ antinomie pedagogiche).

3. In pedagogia la d. si mostra nella tensione che spesso si ha tra essere e dover essere, tra fatto e valore, tra teoria e pratica, tra rilevazione dell’esistente e sforzo di prospettazione progettuale, tra domanda di formazione ed offerta educativa. In tal senso viene evidenziato il particolare carattere della logica e del discorso pedagogico e in qualche modo della pedagogia come scienza teorico-pratica.

Bibliografia

Verra V.,​​ La d. nel pensiero contemporaneo,​​ Bologna, Il Mulino, 1976; Cacciari M.,​​ D. e critica del momento,​​ Milano, Feltrinelli, 1978; Sichirollo L.,​​ D., Roma, Editori Riuniti, 2003.

C. Nanni




DIALETTO

 

DIALETTO

Il d. è inteso e definito dai sociolinguisti come una varietà geografica, storica e linguistica di una lingua nazionale (es. il piemontese rispetto all’it.).

1. Ruolo e valore storico.​​ La sua dimensione e il suo ruolo sono limitati nell’uso tanto individuale che sociale; esso è parlato generalmente da un individuo e / o da un gruppo in situazioni particolari, in un ambiente geo-sociale ben definito e tra membri della medesima comunità. Il suo ruolo limitato e limitativo lo ha fatto considerare generalmente dai sociolinguisti come una «lingua bassa» (low language),​​ contro la «lingua alta» (high language)​​ rappresentata da una lingua di uso nazionale e ufficiale («lingua standard»). Il valore storico, però, del d. può superare anche quello della lingua nazionale, in quanto ne rappresenta sia il codice più antico e preesistente sia, a volte, la matrice originaria della stessa lingua nazionale (come il toscano rispetto all’it.). Tale valore storico fa sì che il d. riassuma forme e contenuti culturali tradizionali, insiti nell’anima di una comunità di parlanti. Essendo la prima lingua generalmente parlata da un individuo, il d. sta spesso alla base del pensiero e del sentimento di un individuo dialettofono. Da qui l’accresciuta tendenza, in tempi recenti, a ricuperare i d. anche attraverso lo studio storico e scientifico: donde una specifica disciplina denominata dialettologia.

2.​​ Valore educativo del d.​​ Il valore storico-culturale del d. – come, del resto, di qualsiasi lingua minoritaria o «etnica» – ha riscosso in questi ultimi anni l’attenzione giustificata dei pedagogisti, al fine di ricuperarne la funzione formativa nell’ambito della cosiddetta «educazione linguistica di base». Il d. diventa così il punto di partenza di ogni sviluppo ulteriore della competenza linguistica e comunicativa fin dalla scuola dell’infanzia. La riflessione più o meno sistematica sulla struttura e sulle funzioni, oltre che sulla storia e sulle valenze socioculturali, del d. parlato fin dall’infanzia dal bambino, anziché ostacolare l’acquisizione e lo sviluppo della competenza nella lingua standard, tende a produrre una capacità di approfondita riflessione analitica sui concetti universali delle lingue e, conseguentemente, un grado notevole di sviluppo delle cosiddette «abilità metalinguistiche». Il risultato è stato non soltanto uno sviluppo più elevato delle capacità di natura specificatamente linguistica, ma anche una trasposizione delle accresciute abilità cognitive ad altri settori del​​ ​​ curricolo scolastico, come la matematica e le scienze. Pertanto, non solo l’apprendimento precoce di una lingua straniera, ma anche di una lingua minoritaria, come il d., può costituire un forte stimolo e sostegno alla formazione delle competenze linguistiche e cognitive in generale. Se è vero che «si educa il linguaggio mediante la lingua» (ossia, si arricchisce e si perfeziona la capacità di verbalizzazione e comunicazione – «linguaggio» – mediante l’assimilazione cosciente di un sistema linguistico storicamente e socialmente valido – «lingua»), anche il d. non può essere escluso da tale processo di valorizzazione.

Bibliografia

Rohlfs G.,​​ Studi e ricerche su lingua e d. d’Italia,​​ Firenze, Le Monnier, 1972; De Mauro T.,​​ Storia linguistica dell’Italia unita,​​ Bari, Laterza, 1974; Grassi C.,​​ Elementi di dialettologia italiana,​​ Torino, UTET,​​ 21982; Titone R.,​​ Educare al linguaggio mediante la lingua,​​ Roma, Armando, 1985; Nero S. J.,​​ Dialects,​​ Englishes,​​ Creoles,​​ and education,​​ Mahwah (NJ), Erlbaum, 2006.

R. Titone




DIALOGO

 

DIALOGO

Il termine, dal gr.​​ lógos​​ (parola, discorso) e​​ diá​​ (preposizione che designa il passaggio attraverso qualcosa, o anche il movimento da un punto ad un altro), significa l’andare e tornare della parola tra due o più interlocutori, il colloquiare. La freddezza concettuale di questa informazione etimologica non esprime tuttavia la ricchezza che, nell’esperienza umana, comporta il d. nel suo significato più denso.

1. Nel sec. XX la filosofia esistenziale, nella sua versione appunto dialogica, ha messo in luce soprattutto le dimensioni personalistiche del d., riconoscendo in esso uno dei momenti essenziali del rapporto io-tu (​​ Buber). In questa prospettiva il d. viene inteso come un uscire dell’io da se stesso nella parola (verbale o gestuale) e mediante essa andare verso il tu, per consegnarsi a lui e a sua volta accogliere la sua parola e in essa la sua stessa intimità. La dinamica dialogale può essere anche pensata e realizzata in senso inverso, a partire dal tu. In ogni caso si vedono già in questa concezione emblematica quali siano le principali caratteristiche e condizioni del d.: coscienza della propria identità, ma anche consapevolezza del proprio limite; apertura fiduciosa e piena di rispetto verso l’altro; capacità di donazione e di accoglienza reciproca. Visto così, il d. si presenta come una possibilità, anzi come una necessità per la formazione dell’identità soggettiva, della relazione interpersonale e della comunitarietà sociale. In tal senso, oltre che al d. interpersonale (e al d. interiore con se stessi) è da pensare al d. sociale, culturale, politico, religioso, e specificamente a quello ecclesiale. Ognuno di essi ha delle connotazioni proprie.

2. Circa il d. ecclesiale si deve rilevare che la Chiesa cattolica ha fatto dei passi notevoli negli ultimi decenni da tale punto di vista. Mentre infatti essa si era ritenuta da secoli, nell’esercizio del suo​​ ​​ Magistero, quale «Madre e Maestra», e quindi in qualche modo proprietaria esclusiva della verità e perciò anche col diritto di insegnarla agli altri, a partire da Paolo VI, che nell’Enc.​​ Ecclesiam suam​​ (1963) dedicò un’ampia riflessione al tema del d., cominciò a cambiare profondamente il suo atteggiamento. Così il Concilio Vaticano II dichiarò apertamente, nella Costituzione pastorale​​ Gaudium et Spes,​​ di voler dialogare con la famiglia umana, apportando ciò che la Chiesa ha di più originale, e cioè la luce che il Vangelo proietta sui problemi e sugli interrogativi umani, ma accogliendo a sua volta dal mondo le luci da esso offerte (GS​​ nn. 3.44). Su questa necessità di dialogare con gli altri uomini, credenti o no, con le loro idee e sensibilità, con il loro modo di vedere le cose e con le loro impostazioni di vita ritornò il Concilio molte volte, sia parlando della formazione e del ministero dei presbiteri (OT n.​​ 19;​​ PO​​ n. 12d), che riferendosi all’attività dei laici (AA​​ nn. 14b.17b.31a)​​ o all’attività missionaria (AG​​ nn. 11b.12a.34.38g) o ancora all’​​ ​​ ecumenismo (UR​​ n. 11e). Da allora in poi questo atteggiamento andò guadagnando terreno e acquistando maggior forza e concretezza. Uno dei punti più alti in questo cammino lo si ritrova nell’Esortazione Apostolica​​ Evangelii Nuntiandi​​ (1975), in cui Paolo VI propose, come modalità-chiave dell’annuncio evangelico, l’inculturazione, e cioè il d. serio e sincero con la cultura (in senso antropologico) e con le culture dell’uomo contemporaneo (EN n.​​ 20).

3. Nell’ambito educativo, e in quello prettamente scolastico, si deve sottolineare l’importanza che il d. ha dal punto di vista metodologico (Stefanini, 1954). Si può dire che un pregio particolare, pure se non esclusivo, dell’​​ ​​ educazione liberatrice è proprio l’essersi proposta come obiettivo la formazione dell’educando all’autodeterminazione e, in questo contesto, l’aver propugnato un’educazione «aperta al d.» (Medellín​​ 8c). In tale modo viene superata quella concezione secondo cui solo l’educatore educa, mentre l’educando sarebbe solo oggetto di educazione, e viene sostituita da quella secondo cui tutti sono educatori ed educandi, ognuno secondo la propria condizione (P. Freire). Educare implica, quindi, intavolare un d. con gli educandi, ricercando insieme con essi la verità. Una ricerca nella quale l’educatore, senza lasciare da parte la propria identità, offre la sua esperienza e le sue conoscenze agli educandi, ma è anche aperto e disponibile ad accogliere quanto essi stessi apportano e ad arricchirsi con il loro contributo. Educare implica inoltre formare gli educandi alla capacità di dialogare con le persone in quanto tali, accogliendole, rispettandole e contribuendo alla loro realizzazione; ma anche ad avere una sempre maggiore disponibilità, nell’ambito dell’educazione umana generale, a mettere in d. rispettoso e sincero le proprie idee con le idee degli altri, le proprie convinzioni con le convinzioni degli altri, le proprie credenze con le credenze degli altri e, nell’ambito dell’​​ ​​ educazione cristiana, a stabilire un corretto d. tra la fede e la scienza, e tra la fede e la cultura.

Bibliografia

Stefanini L.,​​ La scuola del d.: interrogazione ed esame,​​ in «La Scuola Secondaria» 3 (1954) 4-5, 4-17; Delhaye Ph.,​​ D. Chiesa-mondo secondo la «Gaudium et Spes»,​​ Assisi, Cittadella, 1968; Freire P.,​​ L’educazione come pratica della libertà,​​ a cura di L. Bimbi, Milano, Mondadori,​​ 21974;​​ Jiménez Ortiz A.,​​ Por los caminos de la increencia. La fe en diálogo,​​ Madrid,​​ CCS, 1993; Agazzi E. et al.,​​ Dall’Areopago a Internet: quale d. nella società globalizzata?, Milano, In Dialogo, 2002; Jacobucci M.,​​ I nemici del d. Ragioni e perversioni dell’intolleranza, Roma, Armando, 2005.

L. A. Gallo




DIDATTICA

 

DIDATTICA

Disciplina pedagogica che studia il processo di​​ ​​ insegnamento. La d. viene considerata in generale come una​​ ​​ scienza​​ pratico-prescrittiva,​​ cioè come una scienza diretta a dare fondamento e orientamento all’azione di insegnamento o​​ ​​ azione d. Dal gr.​​ didaskein​​ (insegnare). La d. viene anche definita come teoria che studia l’atto didattico (didassi). Se questo studio è basato su metodi di indagine sperimentali, si usa talora l’espressione​​ didassologia.​​ In ingl. è raro trovare l’equivalente​​ didactics.​​ Si preferisce usare l’espressione​​ theory and practice of education​​ oppure​​ methods in education.​​ In ted. oltre a​​ Didaktik​​ viene usato anche il termine​​ Methodik​​ (metodica). Il sostantivo d. viene utilizzato anche per indicare il modo di insegnare proprio di una persona. Si usa dire in questi casi ad es.: il tale professore ha una d. povera.

1.​​ Per una definizione più articolata.​​ Per giungere a una definizione più ricca e comprensiva della d. conviene considerare due suoi aspetti fondamentali, tradizionalmente raccolti nell’espressione «scienza e arte dell’insegnamento», e cioè: a) l’aspetto di sapere generale garantito da riscontri empirici, e che non dipende né dalla modalità con cui si agisce, né dall’inserimento dell’agire in un preciso contesto; b) l’aspetto di sapere pratico, soggettivo, che implica capacità di scelta e decisione in contesti specifici. Per esprimere il collegamento tra questi due aspetti, è stata proposta per la d. la formula «base scientifica dell’arte di insegnamento». Tuttavia, come giustamente fa notare​​ Blankertz, non è possibile impostare una d. senza tener conto di assunzioni generali riguardanti l’uomo, la sua crescita, il suo significato. D’altra parte, questo quadro di riferimento teoretico-filosofico, più che fornire principi dai quali si possano dedurre norme per l’azione d., indica dei confini, segnala delle incoerenze. Inoltre, occorre ricordare come ogni metodo didattico trovi il suo fondamento in assunzioni di natura teorico-filosofica, implicite o esplicite: in motivi, significati, valori che animano lo studioso o l’insegnante stesso.

2.​​ La pratica d.​​ Per esaminare più a fondo la natura della d. occorre definire meglio il concetto di pratica, e di pratica d. in particolare. Riprendendo e parafrasando la definizione di pratica data da A. MacIntyre (1988), si può giungere a identificarla in una forma coerente e complessa di attività umana che si sviluppa in modo collaborativo e che è socialmente stabilita. Nello svolgersi di questa attività si colgono e si realizzano i valori che la caratterizzano e che sono espressi da modelli di eccellenza. Tali modelli non solo sono radicati nella storia, e quindi soggetti a evoluzione nel tempo, ma possono anche essere oggetto di analisi critica teorico-filosofica, scientifica o tecnologica. Da questo punto di vista la d. può essere considerata come un insieme di conoscenze e di competenze che permettono di esercitare la pratica dell’insegnamento in maniera valida e feconda. Essa può essere quindi definita come nel senso tradizionale greco di insieme di competenze operative, sia ideative o progettuali, sia tecnico-pratiche o realizzative. Occorre tuttavia notare come l’azione d. non possa essere considerata come un’azione puramente guidata da regole e principi, anche se questi hanno un ruolo importante nell’esaminare i problemi posti dall’insegnamento e nell’individuare strategie di soluzione: esiste, infatti, una sua componente tacita o personale. M. Polanyi (1990, 139) osserva: «Un’arte non può essere specificata nei dettagli, non può essere trasmessa mediante prescrizioni [...] può essere trasmessa soltanto mediante l’esempio del maestro dell’apprendista». La crescita della conoscenza e della competenza professionale così, anche in campo didattico, è legata in gran parte allo sviluppo di una capacità di riflessione nell’azione, oltre che di riflessione prima e dopo di essa. Se questo tipo di conoscenze e competenze non sono descrivibili per mezzo di un sistema di regole, né possono svilupparsi solo sulla base dell’osservanza di regole espresse e formalmente descritte, come possono essere colte? In genere si risponde: osservando l’azione di persone competenti o esperte e attraverso le interpretazioni che queste ne danno sotto forma di narrazioni. Tali azioni sono caratterizzate in genere dalla capacità di inquadrare immediatamente in modo completo e articolato le varie situazioni e di portare a termine le decisioni conseguenti in modo fluido, appropriato e senza sforzo. Analoga osservazione viene avanzata, evidenziando il ruolo delle intenzioni e delle scelte personali, presenti nell’agire del docente. Pur tenendo conto di queste osservazioni, la pratica d. non solo può, ma deve essere riletta, criticata e sollecitata da vari punti di vista: quello dell’analisi ideale o filosofica (e in questo contesto si può ricollocare l’analisi storica), quello derivante dall’indagine scientifica, e quello proprio dell’approccio tecnologico. Da questi punti di vista la pratica dell’insegnamento diventa essa stessa oggetto di studio, più che di esperienza diretta, di riflessione e di costruzione di competenze personali.

3.​​ L’analisi teorico-filosofica della pratica d.​​ L’analisi ideale o teorico-filosofica della pratica d. ha una lunga storia. Essa si radica nella stessa storia della riflessione critico-propositiva sul modo di insegnare e di imparare, dal mondo assiro-babilonese ai giorni nostri. Basti qui ricordare il ruolo del docente identificato da​​ ​​ Socrate nella metafora della levatrice, o la funzione del dialogo particolarmente sottolineata da​​ ​​ Platone. In questo stesso autore si possono trovare le tracce di un’impostazione diversificata della pratica di insegnamento, una diretta ai comuni cittadini, l’altra a chi è orientato ad assumere funzioni direttive nella società, con conseguente rilievo della selezione. Nel sec. decimosesto si avvia più esplicitamente il discorso relativo ai metodi di insegnamento, di cui è significativa espressione la​​ Grande d.​​ di​​ ​​ Comenio. Possiamo dire che ogni grande corrente di pensiero filosofico e pedagogico ha espresso non solo una sua linea interpretativa della pratica d., ma ha presentato anche modelli di eccellenza per essa. Oggi molte impostazioni teorico-filosofiche del​​ ​​ curricolo, della gestione della classe e dell’azione d. si rifanno alla d. intesa in questo senso. Come esempio si possono citare gli approcci propri dell’​​ ​​ idealismo, del realismo, del​​ ​​ personalismo, del​​ ​​ pragmatismo, del positivismo, delle teorie critiche dell’insegnamento, ecc. La riflessione filosofica inoltre ha spesso criticato le impostazioni sia della d. come scienza, sia della d. come tecnologia. Ad es., è stata esaminata criticamente gran parte delle ricerche sperimentali sull’insegnamento degli anni settanta-ottanta, dirette a rilevare le relazioni esistenti tra le variabili caratterizzanti il comportamento docente e quelle riscontrabili nei risultati formativi raggiunti. Si è osservato come queste fossero poco sensibili all’importanza dell’intenzionalità del docente e degli allievi stessi nella pratica d. Di qui la necessità di estendere o trasformare teorie e metodi di ricerca in modo da includere questa componente della pratica.

4.​​ L’analisi scientifica della pratica d.​​ L’indagine scientifica ha una storia assai più breve. In essa si possono segnalare alcuni orientamenti diversi: ricerche di natura biologica e psicologica e indagini di tipo sociologico e antropologico, a cui si sono presto aggiunte prospettive giuridiche, politiche ed economiche. Si tratta delle cosiddette​​ ​​ scienze dell’educazione in quanto si sono occupate della pratica dell’insegnamento. Queste vanno intese come scienze applicate, nel senso di scienze che esaminano la pratica d. utilizzando apparati teorici e metodologici propri delle scienze di riferimento. Nel corso della seconda metà del sec. XX è stata però avviata un’indagine di natura scientifica relativa alla pratica d., che non assume come parametri concettuali e metodologici propri quelli di altre discipline. Si è costituita cioè una d. intesa come scienza autonoma, con un proprio apparato concettuale e teorico e peculiari metodi di indagine. Il quadro di riferimento spesso utilizzato è un triangolo, i cui vertici sono l’insegnante – l’allievo – i contenuti, considerato nel suo contesto istituzionale e sociale. Esso viene usato per identificare gli elementi costitutivi da esaminare e che formano l’essenza della pratica d. Si tratta, ovviamente di un​​ ​​ modello, cioè di una rappresentazione generale e astratta della pratica d., che intende non solo descrivere, ma anche fare da supporto per prevedere gli effetti dell’azione d., orientare le decisioni da prendere, controllare lo sviluppo dell’attività e i suoi risultati. Nel contesto francese il modello più diffuso e valorizzato è quello che descrive il processo di transizione, o trasposizione, della conoscenza dalle discipline di riferimento (quelle degli studiosi), alle discipline da insegnare nella scuola (quelle considerate nei programmi di insegnamento), a quelle effettivamente insegnate dai singoli docenti, a quelle apprese dai singoli allievi. Il gioco che si svolge a quest’ultimo livello, tra insegnanti e allievi, viene riletto assumendo come quadro teorico il concetto di contratto didattico. I metodi di ricerca tendono in questo caso a valorizzare una stretta collaborazione tra ricercatori e insegnanti, anche mediante forme di vera e propria ricerca-azione (​​ metodi di ricerca). Altri modelli elaborati recentemente più o meno nella stessa direzione derivano da metodi e disegni di ricerca sperimentali di tipo quantitativo, oppure da metodi di tipo qualitativo ed ermeneutico, ma si tratta sempre di modelli basati sull’analisi delle pratiche didattiche attivate in contesti scolastici. Recentemente sono stati avanzati anche modelli di tipo logico-erotetico e logico-assiologico, suscettibili di riscontri empirici. Nel primo caso l’insegnamento viene studiato dal punto di vista della congruenza fra domanda di apprendimento presente, anche implicitamente, negli alunni e risposta insegnante in ambiti formativi specifici. Nel secondo, si è elaborato un quadro di riferimento che, partendo dalle intenzioni o finalità educative generali dirette alla costituzione di disposizioni personali derivate da una concezione filosofica della persona educanda, procede verso la definizione degli obiettivi dell’azione d. nell’ordine dell’attuazione di tali intenzioni e, nell’ordine della causazione, verso l’organizzazione di situazioni didattiche atte a promuovere negli alunni le disposizioni intese.

5.​​ L’analisi tecnologica della pratica d.​​ Ancor più recente è l’analisi della pratica d. da un punto di vista tecnologico. In questo caso la tecnologia è intesa nel senso moderno di​​ engineering​​ ed è caratterizzata da un apparato specifico di concetti e rappresentazioni simboliche, metodi e tecniche di lavoro, che rendono possibile una vera e propria mediazione tra le scienze e le discipline di riferimento e l’azione d. Questo carattere implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo operativo e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto elaborato, alle stesse scienze dell’educazione. Nel campo dell’insegnamento le varie scienze dell’educazione, o la d. stessa intesa come scienza autonoma, tendono a prospettare informazioni organizzate circa le situazioni e le pratiche didattiche educative. L’attività tecnologica si svolge in senso inverso e consiste nel trasformare le informazioni strutturate sotto forma di rappresentazioni mentali in informazioni calate in forme organizzative e operative esterne. In altre parole, la tecnologia proietta le informazioni astratte e generali in contesti e situazioni concrete, che ricevono, attraverso queste proiezioni, una struttura organizzativa supplementare. Sotto questo profilo il processo scientifico si presenta come il reciproco di quello tecnologico. D’altra parte la tecnologia procede nell’ordine dell’azione secondo lo stesso modello adottato dalla ricerca scientifica nell’ordine della conoscenza: posizione di un problema, formulazione di ipotesi, loro messa alla prova, ritorno alla situazione iniziale, ma con una sua trasformazione nella direzione della risoluzione del problema o dell’emergenza di nuovi aspetti problematici. In conclusione, sembra che il ruolo della mediazione tecnologica nel caso della d. sia quello di una sorta di interfaccia, di nodo di raccordo, tra scienze e discipline di riferimento e l’azione formativa. Essa infatti si trova in stretta interazione con le prime e ha come compito specifico quello di dare consistenza e efficacia alla seconda. Non sembra infatti sufficiente, in un approccio moderno, utilizzare i contributi delle varie scienze e discipline di riferimento nella risoluzione dei problemi educativi, senza la mediazione di un valido sistema di progettazione, conduzione e valutazione dei piani di intervento concreto. Alla d. vista come tecnologia si ricollegano gran parte delle indicazioni metodologiche relative allo sviluppo del curricolo, agli strumenti e metodi di valutazione, alle tecniche di gestione della classe, alla produzione di testi scolastici, ecc.

6.​​ Articolazioni della d.​​ Dal momento che il campo della d. si è esteso verso il basso, includendo l’azione di insegnamento rivolta a soggetti minori di sei anni, e verso l’alto, tenendo conto delle attività formative a livello universitario, professionale, e in generale svolte lungo tutto l’arco della vita, la d. può essere a sua volta articolata tenendo conto sia dei contenuti considerati, sia dei destinatari, sia degli strumenti di comunicazione adottati. Tenendo conto delle discipline di insegnamento si hanno le varie d. disciplinari, talora incluse entro quelle che sono state denominate d. speciali e / o d. specifiche. Se si considera invece l’età degli studenti, e si ha la d. evolutiva e quella degli adulti. Se si è attenti alle differenze esistenti tra gli studenti, maschi e femmine, soggetti portatori di handicap e soggetti normali, soggetti disabili e soggetti particolarmente dotati, è questo il campo di studio della​​ ​​ d. differenziale. Naturalmente altre articolazioni riguardano il tipo di scuola e di ambiente considerato (d. della scuola materna, della scuola elementare, della scuola secondaria, universitaria, della formazione professionale; urbana, rurale, ecc.) oppure le tecnologie di comunicazione utilizzate (d. a distanza,​​ ​​ e-learning,​​ ecc.).

Bibliografia

Titone R.,​​ Metodologia d.,​​ Roma, LAS,​​ 31975; Bertoldi F.,​​ Trattato di d. 1° D. generale,​​ Bergamo, Minerva Italica, 1977; Blankertz H.,​​ Teorie e modelli della d.,​​ Roma, Armando, 1977; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Polanyi M.,​​ La conoscenza personale,​​ Milano, Rusconi, 1990; Gagné R. M. - L. J. Briggs,​​ Fondamenti di progettazione d.,​​ Torino, SEI, 1990; Borich G. D.,​​ Effective teaching methods,​​ New York, Macmillan,​​ 21992; Frabboni F.,​​ Manuale di d.,​​ Bari, Laterza, 1992;​​ Cornu L. - A. Vergioux,​​ La didactique en question,​​ Paris, Hachette,​​ 1992; Laneve C.,​​ Per una teoria della d. Modelli e linee di ricerca,​​ Brescia, La Scuola, 1993; Pellerey M.,​​ Progettazione d.,​​ Torino, SEI,​​ 21994; Laneve C.,​​ Il campo della d.,​​ Ibid., 1997; Id.,​​ Elementi di d. generale,​​ Ibid., 1998; Id.,​​ La d. tra teoria e pratica,​​ Ibid., 2003; Baldacci M.,​​ I modelli della d., Roma, Carocci, 2004; Damiano E.,​​ La Nuova Alleanza. Temi,​​ problemi,​​ prospettive della nuova ricerca d., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey




didattica della MATEMATICA

 

MATEMATICA: didattica della

Disciplina che studia i processi di insegnamento e apprendimento della m. nel contesto scolastico e più in generale formativo (e concretamente il modo di intendere e di praticare tale insegnamento e apprendimento).

1.​​ Natura e sviluppi.​​ Tradizionalmente si coagulava sotto il titolo di​​ ​​ didattica un insieme di suggerimenti e di norme pratiche derivanti dall’esperienza pratica e dalla riflessione critica su di essa. Talora si includevano in essa anche derivazioni più o meno deduttive da principi e teorie di natura filosofica. Non si trattava tanto di una scienza autonoma, quanto di un condensato organizzato e ragionato di quanto di meglio era stato possibile trovare nel contesto dell’attività didattica, oppure di norme e orientamenti proposti come applicazione di concetti e principi di origine teorica. Spesso questi ultimi erano utilizzati per spiegare o legittimare esperienze ben riuscite. Recentemente il quadro è abbastanza mutato. Due tendenze sembrano emergenti: la prima di natura scientifica, l’altra tecnologica. L’approccio scientifico alla didattica della m. è stato propugnato soprattutto in Francia, dove un ruolo non indifferente in questa direzione è stato svolto da vari Centri di ricerca presenti in Istituti Universitari e in collaborazione con insegnanti di scuola primaria e secondaria. Si è voluta impostare tale disciplina come una scienza autonoma, con suoi peculiari oggetti di ricerca e specifiche metodologie di indagine. Il sistema concettuale o quadro teorico di riferimento non è così derivato da altre​​ ​​ discipline o campi di investigazione, ma è originale e, per dirla alla Feyerabend, incommensurabile con i quadri concettuali di discipline anche prossime, come la​​ ​​ psicologia dell’educazione o la​​ ​​ pedagogia istituzionale. Sono stati così sviluppati in modo originale apparati teorici di notevole interesse (Brousseau, 1986). La seconda tendenza vede la didattica della m., come del resto la didattica delle altre discipline, come un «engineering», cioè una mediazione tecnologica e sociale tra le scienze dell’educazione, la m. e le discipline a essa correlate (come la storia della m., l’epistemologia della m., ecc.), e l’azione concreta di insegnamento (Freudenthal, 1978). Il carattere di mediazione implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo didattico, e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto e alle stesse scienze sia dell’educazione, sia matematiche.

2.​​ La concezione della m.​​ È stato spesso evidenziato il ruolo che ha nell’impostazione dell’azione di insegnamento della m. la concezione che di questa hanno sia il docente che lo studente. È stato elaborato da Pellerey (1983) un quadro di riferimento a due dimensioni che consente di esplorare e descrivere tali concezioni. La prima dimensione contrappone una concezione formale a una sostanziale dei vari concetti e procedimenti. La seconda, considera su polarità opposte una concezione descrittiva e una costruttiva delle differenti conoscenze. Ne derivano quattro quadranti. Il primo riguarda una concezione formale e descrittiva: la m. è vista come una scienza già formata e caratterizzata dai suoi aspetti formali. Nel secondo quadrante la m. è concepita come una scienza che ognuno deve ricostruire personalmente approfondendo i significati dei suoi vari elementi costitutivi. Il terzo quadrante si riferisce a processi costruttivi di abilità solo formali mediante esercizi graduati ed esecuzione accurata di algoritmi. Nel quarto quadrante la m. esiste già fuori di noi ben ordinata nella sua organizzazione concettuale, a noi basta scoprirne le varie componenti e i differenti significati.

3.​​ Gli ostacoli epistemologici.​​ Uno dei concetti introdotti dalla scuola francese che ha avuto un buon riscontro empirico è quello di ostacolo epistemologico. G. Bachelard ha introdotto tale concetto definendolo come una pre-comprensione che impedisce l’accesso delle conoscenze a uno status scientifico. Un campo di ricerca, secondo tale filosofo, diviene scienza solo dopo che siano stati superati tutti i suoi ostacoli epistemologici. Per Bachelard la m. per sua natura è priva di questi ostacoli, ma se si riconosce a questa disciplina uno statuto più empirico, allora occorre tenerne conto. È questa la tendenza sviluppatasi a partire dalle indicazioni epistemologiche di I. Lakatos (1976), che considerava la m. come una scienza quasi-empirica. Nell’ambito didattico un ostacolo epistemologico può quindi essere concepito come un complesso di difficoltà concettuali connesse con una teorizzazione non adeguata. Gli errori ripetuti sistematicamente ne possono essere un segnale, in quanto sono il risultato del sistema concettuale dello studente, delle sue intuizioni, dei modi di affrontare i problemi in genere o in particolari ambiti di studio. Il compito dell’insegnante sta nell’aiutare lo studente a prender coscienza delle sue concezioni inadeguate, a scoprirne le inconsistenze o le conseguenze errate e, quindi, a superarle. Diventano perciò necessari interventi didattici mirati e convenientemente strutturati, pena la permanenza di concezioni inadeguate e conseguenti incomprensioni ed errori.

4.​​ La costruzione delle conoscenze matematiche.​​ Si è abbastanza concordi oggi nel sostenere che le conoscenze matematiche possono essere acquisite in maniera significativa, stabile e fruibile solo se il soggetto viene impegnato attivamente nel costruirne i significati concettuali e le abilità procedurali. Le differenze di posizione riguardano i contesti in cui tale costruzione si svolge. Il costruttivismo radicale, detto anche endogeno, che deriva in ultima analisi dalle teorie piagetiane, afferma che ciascuno costruisce il proprio sapere interagendo con l’ambiente e il risultato di questa costruzione ha caratteri pronunciati di soggettività. Il costruttivismo esogeno si appoggia al concetto di apprendistato cognitivo e valorizza il ruolo di un modello che esplicita i processi implicati nell’apprendimento e nel pensiero matematico e guida poi l’acquisizione di tali processi mediante un esercizio prima seguito e corretto da vicino, poi sempre più autonomo. Il costruttivismo dialettico o sociale punta invece sul ruolo della discussione e del confronto interpersonale nello sviluppo di significati e di metodi di lavoro. I tre citati approcci al costruttivismo (endogeno, esogeno e dialettico) possono essere opportunamente valorizzati al fine di garantire la significatività e la stabilità degli apprendimenti.

5.​​ L’atteggiamento verso la m.​​ La m. costituisce tradizionalmente per molti allievi una sorgente di ansia e di paura. Un atteggiamento negativo verso la m. può emergere abbastanza presto nel corso dell’esperienza scolastica. Varie ricerche hanno messo in risalto come già in terza elementare emergano segni di tensione. Le esperienze cognitive ed emozionali connesse con l’incomprensione e con l’insuccesso stabiliscono a poco a poco una percezione di sé negativa sia per quanto riguarda la propria capacità, sia per quanto concerne le attese future. Ne consegue una caduta motivazionale e un conseguente minor impegno nello studio, cosa che a sua volta rinforza non solo la paura dell’insuccesso, ma anche il suo verificarsi. Si spiega così come tutte le indagini sia nazionali, sia internazionali abbiano evidenziato un progressivo calo di interesse e di atteggiamento positivo fino a raggiungere per una elevata percentuale di soggetti un vero e proprio rifiuto psicologico. Ne consegue la necessità di impostare progetti didattici che tengano maggiormente in conto questa dimensione dell’apprendimento matematico.

Bibliografia

Lakatos L,​​ Proofs and refutations,​​ the logic of mathematical discovery,​​ Cambridge, Cambridge University Press, 1976; Freudenthal H.,​​ Weeding and sowing. Preface to a science of mathematical education,​​ Dordrecht, Reidel, 1978;​​ Pellerey M.,​​ Per un insegnamento della m. dal volto umano,​​ Torino, SEI, 1983; Id.,​​ Esplorazioni di m.,​​ Milano, Mursia,​​ 1985; Id., «Mathematics instruction», in T. Husen - T. N. Postlethwaite,​​ International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon, 1985, 3246-3257;​​ Brousseau G.,​​ Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques,​​ in «Recherches en Didactique des Mathématiques»​​ 7 (1986) 2, 33-115;​​ Pellerey M., «Didattica della m. e acquisizione delle conoscenze e delle competenze matematiche», in M. Laeng et al.,​​ Atlante della pedagogia,​​ vol.​​ 2.​​ Le didattiche,​​ Napoli, Tecnodid, 1991, 205-232; Resnick L. B. - W. W. Ford,​​ Psicologia della m. e apprendimento scolastico,​​ Torino, SEI, 1991; Artigue M. et al.​​ (Edd.),​​ Vingt ans de didactique des mathématiques en France,​​ Grenoble, La Pensée Sauvage, 1994;​​ D’Amore B.,​​ Didattica della m., Bologna, Pitagora, 2001; Id.,​​ Didattica della m. e processi di apprendimento, Ibid., 2004; Zan R.,​​ Difficoltà in m., Milano, Springer, 2007.

M. Pellerey