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CURE MATERNE

 

CURE MATERNE

La c. di una madre per il figlio si identifica con l’interessamento affettuoso e sollecito che la spinge a provvedere ai suoi bisogni sia di tipo fisico che emotivo.

1. Questa c. deve incominciare già in gravidanza in quanto tutto ciò che la madre vive influirà sensibilmente sul figlio. Infatti è stato ipotizzato, sulla base di diverse ricerche effettuate da psicologi e neurobiologi, che il feto, specialmente nelle ultime settimane di gestazione, accoglie ed in certo modo elabora gli stimoli che la madre consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente gli fa giungere.

2. Dopo la nascita sarà più importante ancora il tipo di interazione che si stabilirà tra il bambino e la madre sulla base della modalità di c. adottata da questa. In tale compito la madre è aiutata nei primi tempi dalla «preoccupazione materna primaria» (Winnicott, 1981, 186), un’elevata identificazione con figlio, che l’aiuta a cogliere le sue prime necessità e bisogni. Molta ricerca ha evidenziato l’importanza della capacità materna sia di fornire c. per il sostentamento materiale che di avere scambi affettivi sintonizzati con il vissuto emotivo del figlio (Stern, 1998). C.m. almeno «sufficientemente buone» (Winnicott, 1981, 64) nel rispondere con prontezza ed in modo costante alle richieste del figlio, nel mostrargli con le parole ed il comportamento non verbale una piena accettazione di tutti i suoi vissuti, avranno un influsso positivo sullo sviluppo del bimbo. Tutto ciò, infatti, influisce sul tipo di attaccamento che questi svilupperà, attaccamento che da vari studi risulta essere un potente organizzatore del successivo sviluppo psico-sociale del bambino, con ripercussioni anche sul suo sviluppo cerebrale (Siegel - Hartzell, 2005). Per il bambino è pericolosa non tanto la perdita delle c. materiali della madre, che però all’occorrenza possono venir soddisfatte altrettanto bene anche da altre persone, quanto la privazione o la diminuzione del legame affettivo con la madre stessa. Questo può avvenire per vari motivi legati a problemi personali della madre, che possono essere presenti già da prima della nascita del figlio. Fra i tanti ci può essere il timore per la gravidanza, sia desiderata che non voluta, la delusione circa il sesso del bambino, l’inconscio rifiuto, attraverso il figlio, di qualcosa di sé, o anche difficoltà legate a modelli relazionali negativi sperimentati con i propri genitori e non elaborate. Il disagio materno che a volte giunge fino all’impossibilità psicologica di accudire serenamente il figlio, può favorire in lui difficoltà fisiche, cognitive, esperienziali che potranno evidenziarsi nell’arco della vita e che sarà necessario sanare.

3. È importante che il modo di provvedere ai bisogni del bambino cambi quando questi, crescendo, ha necessità di una guida che non sia iperprotettiva e che lo prepari, attraverso un’accurata frustrazione e una graduale responsabilizzazione, a saper vivere in un mondo che presenta rischi, difficoltà e nel quale esistono norme e valori da seguire. La c.m. deve dunque essere integrata con proibizioni ed eventuali rimproveri attraverso i quali il figlio possa venire a conoscenza di ciò che la società esigerà da lui ed a prevedere, per evitarli, gli eventuali pericoli. Il modo nuovo di manifestargli affetto e apprezzamento, come pure il rispetto verso la sua maggiore capacità cognitiva, permetterà al figlio di sentire che nei momenti di crisi può comunque contare sull’appoggio e l’interessamento della madre e che, sentendosi protetto grazie a questo, potrà raggiungere una valida consapevolezza di sé ed un buon grado di​​ ​​ socializzazione.

Bibliografia

Bowlby J.,​​ C.m. e igiene mentale del fanciullo,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1971; Id.,​​ Attaccamento e perdita,​​ voll. I e II, Torino, Bollati Boringhieri, 1978; Winnicott D. W.,​​ Sviluppo affettivo e ambiente,​​ Roma, Armando,​​ 31981; Stern D. N.,​​ Il mondo interpersonale del bambino,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Id.,​​ Le interazioni madre-bambino nello sviluppo e nella clinica,​​ Milano, Cortina, 1998; Siegel D. J. - M. Hartzell,​​ Errori da non ripetere. Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori,​​ Ibid., 2005.

W. Visconti - C. Messana




CURRICOLO

 

CURRICOLO

L’insieme delle esperienze di apprendimento che una​​ ​​ comunità scolastica progetta, attua e valuta in vista di​​ ​​ obiettivi formativi esplicitamente espressi. Dal lat.​​ currere​​ (correre), tradizionalmente indicava il corso di studi frequentato o da frequentare per raggiungere un certo livello di qualificazione scolastica o accademica. Nell’antichità veniva usato anche per indicare ogni carriera politica, culturale, militare. Ancor oggi un​​ curriculum vitae​​ è l’insieme degli studi compiuti e delle esperienze e competenze professionali raggiunte nel corso della propria vita.

1.​​ La nascita dell’idea attuale di c.​​ L’autore, che ha avuto, e ha tuttora, una grande influenza sullo sviluppo degli studi curricolari è Ralph Tyler. In un volumetto del 1949 dal titolo​​ Principi fondamentali per il c. e l’insegnamento,​​ con buon senso e penetrante lucidità gettava le basi di un’impostazione razionale della programmazione della formazione scolastica. Non si trattava, come lui stesso ha sottolineato, di un manuale per costruire un programma educativo, ma solo di uno schema di come esso dovrebbe configurarsi per poter diventare un vero strumento di formazione. Tale schema partiva dall’enunciazione di quattro domande fondamentali, cui occorreva successivamente rispondere per sviluppare qualsiasi c. o piano educativo. Le domande erano: 1) Quali sono le finalità educative che la scuola dovrebbe cercare di raggiungere? 2) Quali esperienze educative, verosimilmente adatte a raggiungere queste finalità, sono disponibili? 3) Come possono in concreto essere organizzate queste esperienze? 4) In quale modo è possibile verificare che queste finalità sono state raggiunte? Queste quattro domande e le relative risposte costituiscono, secondo Tyler, il «quadro di riferimento razionale secondo il quale esaminare i problemi del c. e dell’educazione» (Tyler, 1949, 2).

2.​​ Primi sviluppi.​​ Un’analoga, anche se più sostanziosa impresa, fu compiuta da una allieva di Tyler, Hilda Taba (1962), che impostò un percorso razionale di sviluppo di un piano educativo secondo una serie di passi successivi: 1) diagnosi dei bisogni; 2) formulazione degli obiettivi; 3) selezione dei contenuti; 4) organizzazione dei contenuti; 5) selezione delle esperienze di apprendimento; 6) organizzazione delle esperienze di apprendimento; 7) determinazione di ciò che si deve valutare, di come e con quali strumenti è possibile farlo. Se l’intervento deve essere personalizzato è inevitabile giungere ad una conoscenza più approfondita di ciascuno degli allievi: questa è una condizione previa per poter ritagliare su misura un piano educativo. Da questa valutazione iniziale emerge la domanda educativa, cioè l’insieme di conoscenze, abilità e atteggiamenti di cui i giovani necessitano per poter procedere più sicuramente e validamente non solo nelle esperienze scolastiche, ma soprattutto in quelle della vita e della professione. Tra il 1969 e il 1983 Schwab in una serie di interventi, ha criticato la tendenza sviluppatasi dopo Tyler, diretta verso un’eccessiva teorizzazione degli studi curricolari. Il concetto base da cui Schwab parte è quello di «arte del pratico», in altre parole arte del deliberare. Schwab si colloca nel quadro di riferimento elaborato da Tyler, ma ne critica due punti. Il primo concerne l’eccessiva enfasi di Tyler nei riguardi della definizione degli obiettivi. Il problema sta nel fatto che questi si presentano spesso ambigui ed equivoci e quindi offrono poca «materia concreta» per prendere decisioni pratiche. Inoltre è facile giungere a falsi consensi. Il secondo riguarda la poca attenzione posta sulla difficoltà del processo deliberativo, difficoltà derivante dalla complessità del compito. Una mancata formazione alla capacità di prendere decisioni, soprattutto in gruppo, rende impossibile ogni elaborazione curricolare effettiva. Nel frattempo un gruppo di allievi e collaboratori di Tyler, poi giunti a livelli professionali elevati, sviluppava le sue idee soprattutto per quanto riguarda la definizione e la formulazione degli​​ ​​ obiettivi educativi e didattici. Tra questi si possono ricordare B. Bloom, R. Mager, L. Briggs.

3.​​ Alcuni sviluppi europei.​​ Il tedesco S. B. Robinsohn (1976), dopo aver soggiornato negli Stati Uniti al fianco di R. Tyler, propose in Germania nel 1967 un modello di lavoro per l’organizzazione dei c. scolastici, che in qualche modo tenesse conto di due campi principali di applicazione: quello prevalentemente orientato alla formazione culturale e personale degli allievi e quello principalmente diretto alla loro preparazione professionale. Il punto di partenza per la definizione degli obiettivi educativi e didattici non era tanto collegato da Robinsohn con le analisi dei bisogni individuali, quanto con la ricerca delle situazioni di vita, che con ogni probabilità i giovani si sarebbero trovati a dover affrontare in un più o meno prossimo futuro. La capacità di dominare tali situazioni di vita, secondo questo Autore, può essere scomposta in alcune competenze, qualificazioni e atteggiamenti, che le fanno da presupposto. Dalla individuazione di queste qualifiche deriva la possibilità di selezionare le parti componenti l’intero percorso educativo che si intende organizzare e, in particolare, gli obiettivi. È evidente lo sforzo di ricollegare i bisogni educativi degli allievi con l’insieme delle situazioni personali, sociali, politiche e professionali, che essi dovrebbero saper affrontare in maniera positiva al termine dell’esperienza scolastica. In Inghilterra sono stati particolarmente significativi i contributi di A. V. Kelly e L. Stenhouse. Kelly (1977) riprende e sviluppa alcune utili distinzioni a proposito dei c., anche se si muove nella tradizione inglese di un grande decentramento decisionale, tradizione ora modificata dalla riforma scolastica del 1988, che ha introdotto un «c. nazionale», cioè un programma di studi deciso centralmente da un Comitato nominato dal Ministero dell’ educazione. Egli infatti distingue tra il c. relativo al processo d’insegnamento di una specifica disciplina, quello di un corso di studi e quello di una scuola vista nel suo complesso. Infatti diverse sono le persone, le competenze, le responsabilità coinvolte ai vari livelli; diversi sono i risultati che ci si aspetta di ottenere, il loro grado di specificità e di operatività. D’altra parte è utile anche insistere sulla differenza tra c. ufficiale, c. effettivamente seguito e c. nascosto, quello che può riferirsi ai​​ ​​ valori che fanno da riferimento all’organizzazione e al sistema di relazioni presente nella scuola oppure alle credenze e prospettive del singolo docente. Spesso il c. nascosto è più influente degli altri sullo sviluppo della persona. Infine può essere fatta la distinzione tra c. formale, quello proprio dell’orario di lezione, e c. informale, quello che potremmo definire delle attività integrative o extracurricolari, tra le quali attività sportive, teatrali, ecc. Nel giungere a una definizione di c., Kelly preferisce muoversi in una prospettiva descrittiva più che prescrittiva e definisce il c. come «l’insieme di tutto l’apprendimento che è programmato e sviluppato dalla scuola, sia che si svolga individualmente sia in gruppo, sia dentro che fuori dalla scuola» (Kelly, 1977, 7). L. Stenhouse (1977) ha sviluppato un quadro che per molti versi si pone come alternativo, rispetto alle forme più rigide di organizzazione curricolare basate su obiettivi esplicitamente e chiaramente espressi. Per Stenhouse un c. è un tentativo di rendere comunicabili i principi essenziali e le configurazioni concrete di una proposta educativa, in modo da renderla disponibile all’analisi critica e passibile di una effettiva traduzione operativa. In altre parole un c. è uno strumento per mezzo del quale una proposta educativa è resa pubblicamente disponibile. Esso include tanto il contenuto che il metodo e, nella più larga accezione, rende conto anche del problema affrontato, del suo sviluppo e del suo ruolo entro il sistema educativo. Il c. è considerato da Stenhouse, più come un processo di risoluzione dei problemi inerenti alla vita della scuola e della classe, che come un lavoro segnato da una tecnologia specifica e da scelte di natura ideologica o psicologica specifiche. È un’attività svolta da coloro che nella scuola vivono e lavorano, seguendo la logica della partecipazione democratica alle decisioni e quella di render pubblico e oggetto di analisi e discussione da parte della più larga comunità quanto deciso.

4.​​ Alcuni sviluppi italiani.​​ In Italia M. Pellerey negli anni settanta ha inquadrato il problema della progettazione, conduzione e valutazione dei c. scolastici nell’ambito di una rinnovata concezione della tecnologia dell’educazione che valorizza per analogia i passaggi propri di ogni tecnologia moderna: progettazione del prodotto e del processo produttivo, gestione della realizzazione del progetto, valutazione continua e finale del processo produttivo e del prodotto. Questa prospettiva va però oggi riconsiderata, tenendo conto della pratica educativa e didattica dei docenti, maggiormente legata alla cosiddetta saggezza pratica implicata nel saper prendere decisioni collettive in situazioni complesse e con forti caratterizzazioni contestuali. C. Scurati ha delineato in questo modo le caratteristiche di una programmazione curricolare: «Affrontare una programmazione vera e propria significa determinare precisi obiettivi formativi, operare delle scelte fra valori nell’universo della tradizione e della cultura esistente, articolare ed organizzare forme molteplici e compenetranti di intervento formativo e di comunicazione didattica. In una parola “gestire” con chiare finalizzazioni e complesse strumentazioni operative l’intero arco delle opportunità di sviluppo e di apprendimento di un gruppo di alunni, secondo cadenze ispirate ai nuclei costitutivi della realtà, della razionalità, della socialità e della pubblicità» (Scurati, 1977, 22-24). Recentemente la tematica del c. è stata ripresa da M. Baldacci (2006), che ha evidenziato i due piani secondo cui dovrebbe essere impostato un c.: uno più immediato riferito ai singoli contenuti delle discipline di insegnamento e uno più a lungo termine che tiene conto dello sviluppo delle competenze e delle disposizioni stabili.

5.​​ Tendenze successive negli Stati Uniti.​​ E. Eisner in una serie di interventi ha ripreso la definizione originaria di c. come includente: «tutte le esperienze che l’allievo ha sotto l’egida della scuola» (Eisner, 1985, 40). La parola «esperienze» si riferisce a quanto prova il singolo. In questo senso si può parlare di c. quando esso è stato sperimentato dagli alunni e non prima e, spesso, un alunno impara molto di più di quanto si svolge in classe o è inteso dall’insegnante: in esso giocano un ruolo importante anche gli aspetti informali. Quindi va sostenuta la distinzione spesso avanzata tra c. come esperienza vissuta e c. come documento scritto. D’altra parte la scuola ha una missione da compiere e dunque deve offrire un programma ai suoi utenti. Di qui un tentativo di definizione: «Il c. di una scuola o di un corso può essere concepito come una serie di eventi programmati che intende avere conseguenze educative per uno o più studenti» (Eisner, 1985, 45). Il concetto di c. è stato anche rivisitato dal punto di vista ideologico. M. Schiro (1978) ha indicato una griglia di analisi delle proposte curricolari che distingue due dimensioni. La prima ha come polarità estreme il privilegiare la fonte della conoscenza e l’uso della conoscenza; la seconda, la realtà soggettiva e quella oggettiva. La composizione delle due dimensioni dà origine a quattro quadranti entro i quali si possono collocare quattro differenti impostazioni che sottolineano rispettivamente l’alunno, le discipline di studio, la professionalità, la trasformazione sociale. Pinar e coll. (1995) e P. Slattery (22006) hanno riletto le proposte curricolari secondo molteplici prospettive, evidenziando non poche delle problematiche nascoste entro i vari testi sia ufficiali nazionali, sia elaborati dalle singole istituzioni scolastiche e formative, evidenziandone le assunzioni ideologiche spesso implicite.

Bibliografia

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M. Pellerey