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CULTURA

 

CULTURA

L’etimologia del vocabolo c. ci rinvia al lat.​​ colere​​ (curare, onorare, esercitare), da cui​​ cultus,​​ come in​​ cultus deorum​​ e​​ cultus agri​​ (locuzione, quest’ultima, divenuta in seguito​​ c. agri).​​ Di qui si è sviluppata l’espressione​​ c. mentis​​ del tardo Medioevo (in realtà già Cicerone​​ ​​ in​​ Tusculanae Disputationes​​ 2,5,13​​ ​​ scriveva:​​ C. animi philosophia est)​​ e del primo Rinascimento, che è all’origine del concetto classico tradizionale assunto dal termine c. quando venne introdotta nelle lingue moderne (Kluckhohn - Kroeber, 1982). Attualmente il termine c., pur proponendosi in ogni sua accezione di specificare il regno delle attività umane differenziato e rapportato (talvolta contrapposto) al regno della natura, viene adoperato per indicare fondamentalmente due realtà distinte, di cui però la prima è inclusa nella seconda: a) il processo di educazione o formazione della persona umana: è il senso tradizionale,​​ classico-umanistico;​​ b) «quel complesso insieme​​ [complex whole],​​ quella totalità che comprende la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società»: è il senso moderno,​​ sociologico-antropologico, nella prima celebre definizione lanciata nel 1871 da C. B. Tylor, punto di riferimento per tutte le successive rielaborazioni (Kluckhohn-Kroeber, 1982, 99).

1.​​ La c. come visione globale dell’esistenza umana.​​ Per un discorso critico sulla c.​​ ​​ che sempre prenderemo nel senso antropologico-moderno​​ ​​ è necessario superarne la semplice descrizione fenomenologica, per individuarne l’essenzialità e l’importanza, quali premesse e fondamenti per una proposta educativa. Ripercorrendo il processo dell’intellezione (umana), mediante il quale l’uomo comprende se stesso come «esistente, con gli altri, nel mondo», si configura sempre più chiaramente il​​ concetto filosofico​​ di c. in quanto tale, che potremmo così definire: l’insieme dei modi di vita, inscindibilmente espressi sia negli orientamenti speculativi (letteratura, filosofia, arte, religione, musica, ecc.) sia nei comportamenti pratici (tecnica, economia, norme sociali, ecc.), che sono creati, appresi e trasmessi da una generazione all’altra fra i membri di una particolare società; modi di vita che sono indispensabili ai singoli e alla comunità, in un ineluttabile reciproco condizionamento, e che, per la loro finalità ai valori universali di perfezionamento della persona umana, esigono di aprirsi ad un arricchente confronto con le altre c. (Montani, 1991, 37-48). Ne consegue che «la c. non è una specie di ornamento estrinseco che verrebbe ad aggiungersi all’esistenza dell’uomo per dargli qualche attrattiva supplementare, per principio non indispensabile. È la condizione stessa dell’esistenza veramente umana» (Ladrière, 1978, 114). La c. è parte costitutiva della natura umana, perché solo la c. «fa di noi degli esseri specificamente umani, razionali e critici ed eticamente impegnati. Grazie alla c. discerniamo i valori ed effettuiamo delle scelte. L’uomo si esprime per mezzo della c., prende consapevolezza di se stesso, si riconosce come un progetto incompiuto, rimette in questione le sue realizzazioni, ricerca instancabilmente nuovi significati e crea opere che lo trascendono» (Unesco, 1982).

2.​​ Gli elementi fondamentali della c.​​ Poiché la c. è tutta opera dell’uomo, se ne potranno specificare gli elementi costitutivi fondamentali partendo dalla classica distinzione dell’azione umana. Ovviamente questi diversi fattori culturali saranno strettamente uniti tra di loro in quanto costituiscono una struttura, intesa nel senso di un tutto organico formato di elementi solidali, tali che ognuno dipende dagli altri e non può quindi essere pienamente comprensibile se non attraverso la reciproca relazione dell’uno con tutti gli altri.

2.1.​​ La lingua.​​ Il «conoscere» è l’azione mediante cui l’uomo tende a rendersi consapevole della realtà (soggettiva e oggettiva) in un contesto di rapporti dialettici sociali. La capacità simbolizzatrice ha avuto una funzione primaria nella caratterizzazione dell’uomo, nella trasformazione dell’essere umano in persona e dell’evoluzione in storia umana: «Senza simbolo non ci sarebbe c., e l’uomo sarebbe un animale, non un essere umano» (Chiavacci, 1977, 667). La forma più importante dell’espressione simbolica è la lingua (accanto all’arte). Senza una lingua (​​ linguaggio) non avremmo una c. La lingua pertanto è formativa non meno che formata: prima di essere strumento del parlare essa è legge dello stesso pensare. Perciò come una lingua povera e rozza (di un gruppo, di una subcultura) rende difficoltosa la riflessione che apre alla consapevolezza dei valori, così una mancata padronanza della lingua rende difficoltosa la​​ ​​ comunicazione e la difesa della stessa verità, nonché dei doveri e dei diritti di ogni membro di una comunità.

2.2.​​ La tecnica.​​ Il «fare» (poiéo)​​ è l’azione umana che ha per fine principale quello di produrre, di dominare e di organizzare una materia esteriore (​​ tecnologia). È il dominio della tecnica, qui intesa nell’accezione generica di attività rivolta a costruire e manipolare processi fisici e sociali per porli al servizio delle necessità esterne della vita. Oltre alla sua palese efficacia applicativa e produttiva, essa rivela un carattere sintomatico del modello di valori dominanti in una società. In più, non va dimenticato che la dispotica pretesa della «grande scienza» e la concomitante superefficienza tecnico-produttiva dei nostri tempi sorreggono una colossale struttura di sapere e di potere, in stretti rapporti di dipendenza dallo Stato e dai suoi interessi politico-militari. La c. autentica non è semplicemente il progresso tecnico, ma è lo scopo e l’autenticazione di tale progresso. Infatti, antitetico al progresso tecnico-scientifico​​ ​​ pienamente auspicabile allorché diventa a sua volta coefficiente del perfezionamento della persona umana​​ ​​ è possibile, teoricamente e storicamente, individuare anche un progresso tecnico-scientifico che si accompagna ad un regresso morale-sociale, in quanto può essere sviluppato da un «uomo-non-umano» e creare quindi una «c.-non-culturale».

2.3.​​ Le norme sociali.​​ L’«agire» (prásso)​​ è l’azione umana che mira a formare colui che agisce, a modellarne il comportamento in un contesto di forme del vivere comune e socialmente acquisite. Le norme sociali, che impegnano ogni singolo membro di una​​ ​​ società (e la società stessa) al rispetto e all’osservanza, diventano, in definitiva, l’epifania più appariscente e più genuina della​​ ​​ Weltanschauung​​ di un popolo. Con una classificazione sociologica ormai divenuta comune distingueremo le norme sociali in: a)​​ folkways,​​ usanze e consuetudini tramandate senza speciale riflessione o procedura, seguite più o meno inconsciamente, e che, di per sé, non cadono direttamente sotto l’ordine morale (per es.: modi di vestire, di mangiare, di divertirsi, ecc.); b)​​ mores,​​ modi di agire che molto più precisamente sono considerati come giusti, appropriati e quasi essenziali al bene sociale, e che quindi, se violati, vengono puniti molto più severamente (per es.: fedeltà coniugale, condotta sessuale, diritto di proprietà, rispetto della vita altrui, ecc.); c)​​ leggi,​​ che nelle società più complesse diventano necessarie per assicurare l’ordine sociale, non bastando più la sola opinione pubblica e la sola coscienza degli individui, generalmente sufficienti nelle società primitive (Bartoli, 1987). Naturalmente il riferimento ai valori (personali e comunitari) sarà molto diverso nelle singole norme delle singole culture: avremo una gradualità di rapporto che va dall’indifferenza (etica) ad un pieno coinvolgimento (etico). Tra questi vincoli culturali, l’istituzione politica e l’istituzione educativa sono ritenuti i più determinanti ed essenziali nella trasmissione e nella compattezza del tessuto di una c.

2.4.​​ I valori.​​ Il «contemplare» (theôreô)​​ è l’attività umana che indaga sui​​ ​​ valori​​ per arricchire il regno dell’umanità e tendere all’autenticità della vita. Sono i valori che orientano le fondamentali scelte di comportamento (personali e comunitarie) e che rivestono una straordinaria importanza per il gruppo sociale, tanto da venire assunti come criteri di giudizio, norme di condotta e modelli dell’educazione. Bisogna sottolineare che nelle c. contemporanee, più sofisticate delle precedenti, il fenomeno della comunicazione ha raggiunto modalità, potere, intensità tali da influire sulla consistenza stessa e sulla «esemplarità educativa» dei valori (o dei non-valori) veicolati. Di qui la necessità, per i contemporanei, di potenziare le capacità di analisi, di giudizio, di scelta, affinché il gigantesco «mercato delle notizie» non monopolizzi il dominio delle idee.

2.5.​​ La religione.​​ Un’attenzione privilegiata va accordata al​​ valore religioso,​​ perché motivi di ordine sociologico e teoretico impongono di non eludere la controversa questione se la​​ ​​ religione sia o no il fondamento ultimo, il costitutivo supremo, la base più profonda di una c. In linea teorica ci sembra non esservi dubbio che nella religione, in cui l’uomo si mette a disposizione di Dio, si celi una delle scaturigini più essenziali della c. Passando però al piano esistenziale del rapporto religione-c., siamo convinti che la religione tanto più sarà scaturigine di valori culturali quanto più verrà percepita come un «valore» (e non semplicemente come una fredda «coerenza a delle verità»), quanto più andrà continuamente depurandosi da strumentalizzazioni arbitrarie (la​​ religio instrumentum regni)​​ e quanto più si presenterà come una proposta «ragionevole» (il che non è sinonimo di «razionale»), pienamente rispettosa della dignità umana, rigettando fondamentalismi, guerre sante, teocrazie dispotiche, roghi, fanatismi, ecc. I cristiani, in particolare, per non separare la religione dalla c., sono oggi vivamente stimolati sia a purificare la loro fede da negative incrostazioni storiche, sia ad impegnarsi in un vigile «aggiornamento» sintonizzandosi con i «segni dei tempi», che sono luogo della crescita umana e l’«ora» della continuata creazione di un Dio-Padre.

3.​​ L’universalismo culturale.​​ Oggi le sempre più numerose relazioni (politiche, economiche, turistiche, sportive) uniscono talmente tra di loro i vari popoli della terra da non mettere più in dubbio il cammino di tutta l’umanità verso una​​ mondializzazione della c.​​ La costruzione di tale progetto culturale planetario dovrà trovare l’equilibrio fra due esigenze fondamentali: da una parte, l’esigenza di difendere l’ineliminabile singolarità delle c. (con il rischio di chiudere e impoverire lo sviluppo della natura umana); dall’altra parte, l’esigenza di aprirsi ai valori di cui altre c. sono portatrici (con il rischio dello scetticismo o del relativismo della proposta di sviluppo della natura umana). Sarebbe, allora, più esatto parlare non di​​ c. planetaria​​ ma di​​ dimensione planetaria​​ delle c., che è lo sforzo di ogni popolo di rispettare e capire le diversità dell’altro.​​ Mondialità culturale​​ non significherà neppure​​ monocultura,​​ né tanto meno​​ occidentalizzazione forzata​​ delle altre c., perché la comunione tra le diverse c. non si dovrà necessariamente configurare​​ ​​ come prevalentemente è avvenuto nel passato​​ ​​ secondo un rapporto di dipendenza o come estensione geografica di un solo modello culturale, ma piuttosto si costruirà in un rapporto di mutua priorità, in cui ognuno conserva la propria originalità in un libero dare e avere. Forse solo nei nostri tempi ci si è convinti della necessità per ogni c. di «mettere in questione​​ ​​ dal suo interno​​ ​​ se stessa, rinunciando alla propria assolutezza e definitività. [...] È finito il tempo in cui gli “altri” erano o un nulla insignificante (i barbari) o il male, i cattivi da combattere e da salvare convertendoli alla propria c.» (Chiavacci, 1977, 671). Pare dunque che la nostra epoca debba cimentarsi e qualificarsi nella capacità di dialogo. Ben lungi dall’insinuare l’idea che si debba avallare quel relativismo culturale per cui una c. assiologicamente considerata ne varrebbe un’altra, riteniamo, al contrario, che il vero problema stia nel trovare il «criterio di giudizio» per valutare una c., che sarà analogo a quello adoperato per giudicare l’uomo: sarà la verità sull’uomo, nella totalità delle sue dimensioni (corporale e spirituale, individuale e sociale) e quale soggetto di libertà e quindi portatore di responsabilità. Poiché la c. non è un assoluto (valore assoluto, su questa terra, è solo la persona umana), ma è l’indispensabile condizionamento e mediazione per un’armoniosa costruzione dell’universo personale e comunitario, essa si qualificherà e dovrà essere valutata, concretamente, per quanto saprà disinteressatamente offrire, effettivamente favorire e imparzialmente difendere, per tutti i membri di una società: una sufficiente quantità di beni economici, indispensabili per​​ esistere​​ e​​ vivere​​ «da uomini»; l’emancipazione da ogni forma di schiavitù, in un quadro di solidarietà e di libertà, senza sacrificare mai l’una o l’altra per nessun pretesto; delle istituzioni socio-politiche democratiche e partecipative, con conseguente rifiuto di ogni forma di totalitarismo e di paternalismo; il rispetto del principio di sussidiarietà, secondo cui i poteri pubblici non devono soffocare i corpi sociali intermedi, nei quali i cittadini possono (e debbono) adempiere i loro doveri ed esercitare i loro diritti con maggiore responsabilità e sicurezza; un abbordabile accesso ai «luoghi» e ai «tempi» che consentono alle persone di scoprire e maturare i valori; un’energica vigilanza nel rispettare l’integrità e il ritmo della natura (questione ecologica); un’indefessa concomitante preoccupazione per la pace.

Bibliografia

Giovanni Paolo II,​​ Sollicitudo rei socialis,​​ nn. 28, 46, 33, 44, 15, 26; Rossi P. (Ed.),​​ Il​​ concetto di c.: I fondamenti teorici della scienza antropologica,​​ Torino, Einaudi,​​ 71970; Ladrière J.,​​ I​​ rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle c.,​​ Torino, SEI, 1978; Gilson É.,​​ La società di massa e la sua c.,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1981; Kluckhohn C. - A. Kroeber,​​ Il​​ concetto di c.,​​ intr. di T. Tentori, Bologna, Il Mulino, 1982; Unesco,​​ Conferenza Mondiale sulle Politiche Culturali,​​ Messico, 1982; Guardini R.,​​ La fine dell’epoca moderna. Il potere,​​ Brescia, Morcelliana, 1984; Rickert H.,​​ Il fondamento delle scienze della c.,​​ intr. di M. Signore, Ravenna, Longo,​​ 21986; Lazzati G.,​​ La c.,​​ Roma, AVE, 1987; Szaszkiewicz J.,​​ Filosofia della c.,​​ Roma, EPUG,​​ 21988; Montani M.,​​ Filosofia della c.: Problemi e prospettive,​​ Roma, LAS, 1991;​​ Carrier H.,​​ Lexique de la culture pour l’analyse culturelle et l’inculturation,​​ Tournai / Louvain la Neuve, Desclée,​​ 1992; Houston R. A.,​​ C. e istruzione nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2000.

M. Montani




CULTURA RADICALE

 

CULTURA RADICALE

Nel corso di quelli che sono stati detti i «difficili anni ’70» sono stati messi in crisi le ideologie, i modelli culturali, i modi tradizionali della ricerca scientifica (e di quella delle scienze umane in particolare); ma si sono pure ricercati nuovi modi di sentire, di fare c. e di fare scienza. In tale contesto può essere collocata quella che è stata denominata globalmente come c.r. (ad indicare un modo globale di sentire che va «alla radice» e che «porta all’estremo» le questioni).

1. Essa si è sostentata soprattutto della psicoanalisi strutturalista post-lacaniana e delle suggestioni di F. Nietzsche; e più genericamente di un certo neo-nichilismo che azzera verità e valori tradizionali e che nega ogni assolutezza. Il concetto tradizionale di soggettività ne esce profondamente scosso. L’uomo è ridotto ad un gioco pirotecnico di pulsioni e di bisogni, che atomizzano l’esistenza individuale e collettiva. Una razionalità immanente alla storia, così come una normatività oggettiva della natura sono considerate assolutamente impensabili. Al limite l’uomo viene paragonato al «rizoma», pianta senza vero fusto e foglie, ricco di riserve interne, dalle diramazioni clandestine e dagli sviluppi sotterranei non prestabiliti. Analogamente la vita collettiva è considerata simile a quella di un formicaio in cui ogni individualità è come dominata da un incessante dinamismo che la supera e che si riproduce oltre ogni mutilazione od eliminazione di questa o quella individualità. Rifiutata ogni fondazione razionale ed ogni collegamento rigido alla tradizione od ogni tentativo di riduzione ad unità organiche, l’esistenza è vista come incessante e libera produzione dei bisogni e dei desideri che liberano «dis-organicamente» la molteplicità spontanea di quelli che son detti «bisogni radicali». Il loro soddisfacimento e la loro libera espansione diventano il principio e la regola suprema d’azione.

2. Tali modi di pensare hanno fatto moda culturale. Per tanti versi hanno interpretato la diffusa aspirazione al benessere e il fascino discreto del consumismo attuale, come pure il desiderio di​​ ​​ emancipazione da ogni forma di soggezione sociale e dall’autoritarismo tradizionale. In tal senso la c.r. è contro l’educazione, vista come apparato e strumento di soggiogamento interiore e di omologazione culturale. Più largamente, oggi essa si manifesta come lotta anti-global contro l’imprenditoria e il mercato mondializzato a difesa delle libertà individuali e di un ecosistema sano; e come laicità progressista e difesa ad oltranza dei diritti umani soggettivi contro ogni forma di fondamentalismo o di ingerenza clerical-conservativa nella vita civile e politica.

Bibliografia

Marcuse H.,​​ Saggio sulla liberazione,​​ Torino, Einaudi, 1969; Heller A.,​​ La filosofia radicale,​​ Milano, Il Saggiatore, 1976; Deleuze G. - F. Guattari,​​ Rizoma,​​ Parma, Pratiche, 1977; Acquaviva S.,​​ In principio era il corpo,​​ Roma, Borla, 1977; Berni S.,​​ Nietzsche e Foucault. Corporeità e potere in una critica radicale della modernità, Milano, Giuffrè, 2005.

C. Nanni