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CORALLO Gino

 

CORALLO Gino

n. a Randazzo (CT) nel 1910 - m. a Catania nel 2003, educatore e pedagogista italiano.

1. Sacerdote salesiano, fu docente e Rettore dell’Università salesiana di Roma (1966-1968). Libero docente nel 1954, insegnò a Salerno, Bari, Lecce, Roma-Magistero Maria SS. Assunta; dal 1963 fu ordinario di pedagogia a Bari, e dal 1970 a Catania. Nel 1979 diventò primo presidente dell’IRSSAE-Sicilia.

2. Un soggiorno negli Stati Uniti gli diede modo di essere tra i primi recensori della pedagogia deweyana (evidenziandone la valenza pedagogico-democratica ma anche la visione naturalistico-immanentistica). Il suo impianto teorico, fondamentalmente neo-tomistico, ma non privo di influssi neo-agostiniani, neo-idealisti (a Roma frequentò le lezioni di G. Gentile) e personalistici, gli fece, fin dall’inizio, porre al centro dell’azione educativa la promozione della libertà, vista come caratteristica peculiare della persona, da qualificare nella sua capacità di scelta personale e di impegno responsabile. Il chiaro riferimento all’etica, alla verità e ai valori gli permise il superamento di impostazioni individualistiche o storicistico-immanentistiche o funzionalistico-sociali. Azione del docente e attivo coinvolgimento del discente sono anche alla base della sua metodologia pedagogica. Epistemologicamente queste affermazioni si basano su una concezione della pedagogia vista come scienza teorico-descrittiva (pedagogia generale) e normativa (metodologia dell’educazione e pedagogia-didattica, generale e speciale). In questo senso egli ha svolto un ruolo significativo nella cultura e nella docenza universitaria pedagogica degli anni cinquanta e sessanta.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ La pedagogia di Giovanni Dewey, Torino, SEI, 1950;​​ Educazione e libertà, Ibid., 1951;​​ Pedagogia,​​ vol.​​ I: L’educazione, Ibid., 1961;​​ Pedagogia,​​ vol. II: L’atto di educare. Problemi di metodologia dell’educazione, Ibid., 1967. b)​​ Studi: Zanniello G. (Ed.),​​ Educazione e libertà in G.C., Roma, Armando, 2005.

C. Nanni




CORPO / CORPOREITÀ

 

CORPO / CORPOREITÀ

La corporeità è un nodo problematico di notevole spessore sia dal punto di vista speculativo che esistenziale ed educativo in particolare.

1.​​ Aspetti storici ed antropologici.​​ Schematizzando al massimo gli apporti della storia, si possono intravvedere due grandi prospettive sulla corporeità. Per una essa è solo un elemento insignificante, trascurabile o addirittura pericoloso per capire l’uomo e il suo mistero nella sua interezza e integralità, per l’altra, al contrario, è ciò che costituisce l’uomo. Per questa seconda impostazione l’uomo inizierebbe e finirebbe con il c., con nulla che precede e nulla che segue, per l’altra, al contrario, la salvezza deve essere acquistata contro il c. Per distribuire sistematicamente le posizioni antropologiche, bisogna distinguere riguardo al c. la considerazione del fatto e del dato, dal significato e dal valore umano che gli si attribuisce. Per quanto riguarda il fatto, ci sono prima di tutto i modelli monistici e quelli dualistici. Il monismo può negare sia il c. sia l’anima ed in questo caso l’uomo sarà o solo c. (Marx, Sartre, Merleau-Ponty...), o solo spirito (Platone, Spinoza...). Per completare il panorama ci sono da ricordare i modelli o i tentativi unitari. Alcuni, come quello di Aristotele prima e poi di s. Tommaso, sono costruiti con l’ausilio di categorie metafisiche. In questo caso l’unità dell’uomo è ontologica perché è assicurata non da due realtà, ma da due co-principi, da due cause: la materia e la forma. La teoria generale dell’ilemorfismo, per cui qualsiasi essere fisico è composto di materia e forma, viene estesa anche all’uomo, sebbene la terminologia sia quella di anima e di c. Se questa lettura ha avviato il superamento del dualismo, nella sua formulazione ha reso però complicato spiegare la sopravvivenza dell’anima. San Tommaso ha cercato di perfezionare questa concezione parlando di unità della natura (tra corporeità ed anima) e di unità della persona (un unico soggetto di attribuzione); ha insistito sulla immortalità dell’anima e sulla sua aspirazione di tornare a ricongiungersi ad un c. anche se trasfigurato dalla risurrezione.

2.​​ Il significato della corporeità.​​ Circa il significato del c. troviamo tutta una gamma di valutazioni. Da quelle esageratamente negative a quelle esasperatamente positive, da quelle neutre a quelle altalenanti. Pertanto è d’obbligo annotare che ci troviamo di fronte ad una serie di interpretazioni conflittuali, quando addirittura non si scatena il conflitto stesso delle interpretazioni. A proposito della corporeità non è facile mantenersi nei limiti di una ricerca compassata; quasi sempre si accende la passione per tesi che sono preconcette e ideologiche, le quali travisano l’osservazione e allontanano la verità. Il significato originario e fondamentale del c. umano scaturisce dalla constatazione che non è semplicemente qualcosa, ma è il c. di qualcuno, di un soggetto indeclinabile, di una persona unica ed irrepetibile che al c., con il c. e nel c. dà il segno inconfondibile della sua presenza. Conseguentemente il c. è: a)​​ Rivelazione della persona,​​ della sua interiorità, della sua concretezza, della complessità della sua esistenza, delle risorse interiori ed esteriori che mette in atto, delle possibilità infinite con cui si proietta nel mondo, della dimensione storica e operosa della sua presenza. È espressione dunque della persona nel suo modo incarnato di essere e di manifestarsi. b)​​ Relazione con gli altri.​​ Infatti la presenza dell’uomo nel mondo non è sotto il segno dell’isolamento, ma di una serie indefinita di rapporti, a volte liberi e spontanei, altre volte fissi o istituzionalizzati. Tutto questo lo inserisce in uno spazio e in un tempo ben precisi, in una dimensione familiare, sociale e culturale che lo plasma come una seconda natura. Con il suo c. ognuno sta come persona di fronte alle altre, si pone come loro interlocutore. Se questi rapporti sono negativi o conflittuali allora ne risente la sua crescita, il suo equilibrio, la percezione che egli ha di se stesso e la sua stessa visione del mondo. Se invece sono orientati all’incontro, al dialogo, alla comunione, come nell’amicizia e nell’amore, allora portano immancabilmente alla stima e alla promozione dell’altro, alla fedeltà creativa ed eroica con cui il tu conta più di se stessi. E per aiutarlo si è disposti a dare tutto e a darsi totalmente. c)​​ Rielaborazione del mondo.​​ L’uomo proiettandosi nel mondo lo assume e lo trasforma secondo un processo di umanizzazione con cui pone nelle cose il marchio inconfondibile del suo intervento. Il tentativo di orientarsi e di interpretare la realtà lo mettono in ascolto (fede), lo spingono ad elaborare sistemi coerenti di pensiero (filosofie), di conoscenze (scienze), di saggezza (esperienza), di abilità (tecnologie) che gli permettono di vincere l’ostilità e l’ignoranza e di sentire familiare e disponibile la realtà nella quale vive. Una menzione particolare merita il​​ linguaggio​​ che è quella attività di espressione, rappresentazione e comunicazione in cui il c. gioca un ruolo quanto mai importante. Anzi il c. stesso, il volto, i gesti, le smorfie sono la forma di linguaggio insieme più comune ed originaria. d)​​ Differenza sessuale.​​ Il c. esprime il nostro essere o maschi o femmine. Sulla sessualità umana pesano senza dubbio tanti giudizi e pregiudizi che rendono la sua comprensione quanto mai difficile. Basta pensare allo spessore di mitologia con cui, da sempre, è stata accostata la realtà e il mistero della sessualità e più ancora il suo significato. Il sesso è chiaramente un fatto di natura, ma non è soltanto questo. Ci sono delle differenze e delle interferenze culturali, ma le diversità tra i sessi non possono essere delle semplici polarità psicologiche, culturalmente indotte. E pertanto la complementarità sul piano biologico trova il suo inevitabile completamento in quello psicologico, culturale, sociale. Se il sesso (maschile e femminile) nella maggioranza dei casi è un dato, la sessualità (il significato umano che riveste l’essere uomo e donna) è un’acquisizione. Essa consiste essenzialmente nella reciprocità corporea, psicologica, sociale, culturale di uomo e donna. In ciò essi rivelano l’orizzonte completo del loro essere persone e il carattere intersoggettivo ed interpersonale del loro rapportarsi, che non annulla, ma identifica il loro essere o maschio o femmina. Così per costituire l’identità di uno dei due c’è bisogno dell’altro e viceversa. e)​​ Limite.​​ Il c. infatti è comunicazione, ma anche possibilità di equivoci; è relazione, comunione e distanza, separazione, resistenza. Ci inserisce nello spazio e nel tempo, dentro le leggi del mondo fisico e biologico, ma ci lega talmente a queste dimensioni che non le possiamo assolutamente superare. Ci può dare le gratificazioni di equilibri perfetti e sorprendenti, ma anche le amare conseguenze di squilibri e stravolgimenti vari. È possibilità di vita, ma è anche causa di morte, spesso attraverso malattie e sofferenze inimmaginabili.

3.​​ Prospettiva teologica.​​ La considerazione della morte, quale limite invalicabile dell’esperienza corporea, pone degli interrogativi non soltanto sulla fine e il fine della corporeità, ma sul fine e la fine della stessa persona. La morte distrugge il c., ma il suo significato è soltanto biologico o pone degli interrogativi più profondi ed estesi che investono il significato veramente ultimo dell’uomo? Per ammettere che questo significato l’uomo lo abbia e lo possa avere, nella e attraverso la morte, ci si deve spostare però oltre la stessa morte. Ma una considerazione della corporeità oltre la morte non è un discorso scientifico, né può averne le caratteristiche. La scienza parla di ciò che può osservare e verificare, di ciò che può esporre con categorie e controlli empirici. Se pertanto la scienza non si può spingere al di là della morte, in quanto questa rappresenta la fine del c. e quindi di una riflessione che si possa qualificare come induttiva e per osservazione, la scienza può comunque impostare e presentare le alternative che proprio la disgregazione del c. obbliga a formulare. Perché dunque il discorso teologico abbia un senso e una sua validità, non soltanto per i credenti ma anche per gli altri, è necessario che si limiti a formulare le diverse ipotesi e a mostrare le alternative che la morte impone, anche se presenta pure il dono che l’uomo può accogliere. È da quest’unica prospettiva che presenteremo le indicazioni che una impostazione teologica offre alla comprensione del c. Una prospettiva teologica fondamentalmente ci dice che l’uomo ha delle possibilità dopo e oltre la morte e quali sono queste possibilità. Seguiamo l’articolarsi di queste alternative. Se il significato del c. è soltanto intramondano, perché si conclude ineluttabilmente o si chiude bruscamente con la morte, allora il significato del c., e dunque dell’uomo, è soltanto legato alla sfera che possiamo catalogare come biologica. Questa conclusione è solidale con la identificazione perfetta tra la persona ed il suo c. Pertanto l’uomo sarà il risultato esclusivo e matematico della sua storia, delle avventure e disavventure della sua esistenza e l’inizio e il termine della sua esperienza sono cronologicamente fissate dalle date della sua biografia. Se invece l’esperienza della persona va al di là della decomposizione del suo c., ciò è possibile alla sola condizione che l’uomo non è soltanto c. ma che la sua esperienza completa fa riferimento a quella dimensione, che per distinguerla da quella materiale, e caratterizzarla nelle sue potenzialità, indichiamo come spirituale. Precisare, però, cosa sia lo spirito è quanto mai difficile, ancora più difficile che riconoscere cosa faccia o possa fare. Se lo si ammette è necessario riconoscere che abbia un’essenza e un’esistenza diversa da quella materiale, che non è schiavo delle necessità e dei determinismi a cui invece è legato l’essere materiale. Se da sempre la corporeità è stata accostata alla materia, ai bisogni della carne e della natura, l’anima è stata intesa come spirito, principio di animazione e forma sostanziale, soggetto dei fenomeni psichici, sorgente di pensiero e di intelligibilità, libertà e volontà.

4.​​ Aspetti psicologici.​​ W. Reich individuò nel c. i «luoghi» della patologia ed elaborò una coerente terapia corporea. Egli scoprì che l’interruzione di un’esperienza emozionale provoca il blocco di specifici processi corporei. Anche se non se ne ha consapevolezza o se ne perde la memoria, le «repressioni» corporee diventano tensioni muscolari, che, progressivamente, si stratificano e si strutturano come corazza caratteriale. Nel c. rimangono le tracce «visibili» della storia affettiva della persona, del dolore, della rabbia, della paura, della disperazione, della gioia che non hanno trovato voce / espressione. I blocchi corporei, dovuti a queste interruzioni, rimangono «attivi» condizionando, in modo decisivo, sia il sistema sensorio (il modo di percepire se stessi e il mondo) sia il sistema motorio (il nostro muoversi ed agire nel mondo). Le tensioni muscolari, in altre parole, determinano le modalità di apertura / chiusura del c. nei confronti di nuove esperienze. L’approccio – teoria e pratica – di Reich operò una rivoluzione nel modo di concepire il rapporto mente / c., non solo nell’ambito della psicoterapia ma anche in quello antropologico. Diede avvio ad un’attenzione e ad un interesse per il c. che, in modi differenti, si ritrova nei principali modelli di psicoterapia elaborati negli anni sessanta. Alcuni allievi di Reich hanno rivisitato in modo innovativo il contributo del maestro: A. Lowen, fondatore della bioenergetica; D. Boadella interessato in particolare allo sviluppo del rapporto c. / emozione sin dallo stadio fetale (la «biosintesi»); S. Kelemann, che ha approfondito l’integrazione muscolatura / struttura ossea / emozioni e ha denominato il suo approccio «Anatomia emozionale». Nel contesto culturale del New Age che enfatizzò l’attenzione per il c. nacquero inoltre numerosi approcci corporei sia con valenza terapeutica (ad es., l’«Urlo Primario» di A. Janov, l’«Energetica vocale» della J. M. Colemann, ecc.) sia con interesse per lo sviluppo del potenziale umano (massaggi, danza, tecniche di meditazione, ecc.). Lo studio del c. risulta inoltre di particolare rilievo nella psicosomatica, nella neuroendocrinologia, nei vari approcci tecnici finalizzati al rilassamento (ad es.: H. Schultz, Jacobson); nelle ricerche sulla comunicazione non verbale. Il​​ ground​​ di riferimento (metamodello di base) delle terapie a orientamento corporeo può essere descritto sinteticamente in alcuni punti-chiave. a)​​ Visione olistica del rapporto c. / mente.​​ «Non​​ abbiamo​​ un c. ma​​ siamo​​ un c.» è l’assunto di partenza di ogni terapia corporea. Autori recenti parlano di «mente corporea» (G. Downing, 1995). b)​​ L’importanza dello​​ ​​ schema corporeo.​​ A​​ P. Schilder (1986), maestro di Reich, si devono i primi e i più decisivi studi sullo schema corporeo. Ogni persona elabora un’immagine tridimensionale del proprio c., una rappresentazione che mette insieme sia l’immagine mentale sia le sensazioni propriocettive: una sorta di «anatomia simbolica». Questo schema corporeo, per lo più inconsapevole e in continua ridefinizione, determina lo stile con cui ogni «c.» si vive ed entra in rapporto con il mondo. Lo scarto tra il c. come «dato» e lo schema corporeo o «c. vissuto» è il «luogo» delle patologie e della terapia. c)​​ La respirazione,​​ nelle due fasi di espirazione ed inspirazione, si colloca tra l’attività volontaria e quella involontaria e rappresenta il luogo nevralgico in cui interno ed esterno, organismo ed ambiente si trovano in relazione. Poiché si respira più con il c. «vissuto» che con il c. «dato», le differenti modalità di respirazione (l’intensità, l’armonia, la globalità, ecc.) diventano la «via regia» per accedere allo schema corporeo implicito. L’attenzione e il lavoro sulla respirazione costituisce una competenza di base di tutte le terapie esperienziali. d)​​ Il c. è lo sfondo della nostra identità:​​ da esso emergono i nostri bisogni, in esso avvengono esperienze fondamentali della formazione del sé, in esso sono inscritte situazioni affettive «incompiute». Essere in contatto con il c., ascoltarlo, è il percorso necessario per attingere le radici della nostra identità e ripristinare la circolarità parola / c., ossia la capacità di dare «c.» alla parola e dare «parola» al c.

5.​​ Aspetti pedagogici.​​ «C’è più ragione nel tuo c. che nella tua migliore sapienza» (F. Nietzsche,​​ Così parlò Zarathustra).​​ Non è possibile oggi pensare ad un itinerario pedagogico che non attraversi a livello di riflessione e di esperienza la corporeità. Si tratta, ormai, di consolidate acquisizioni che non possono essere disconosciute né dal sapere psicologico, né da quello pedagogico. Descriviamo alcuni itinerari di una formazione alla corporeità. a)​​ Educare ad una visione globale / integrata del c. / anima.​​ In un contesto sociale nel quale il c. viene vissuto come «parte», «strumento» di lavoro o di piacere, la formazione alla globalità permette di scoprire l’unità inscindibile di c. / anima, ossia il c. come presenza e come luogo dell’intersoggettività. Il poeta ha così sintetizzato questo percorso: «Mi fu dato di nascere una seconda volta quando la mia anima e il mio c. si amarono e si unirono in matrimonio» (K. Gibran). b)​​ Educare alla respirazione.​​ Nel mondo orientale come in quello ebraico l’attenzione alla respirazione («ruah», spirito) è elemento costitutivo della concezione della vita. Già nel 500 a.C. Chuang-tsu aveva detto: «L’uomo vero respira attraverso i talloni, la gente comune attraverso la gola». «Abitare il proprio c.» richiede ed insieme si esprime in una respirazione appropriata, profonda e globale. Imparare ad essere attenti alla respirazione come fiume sotterraneo della nostra consapevolezza ci permette di entrare in contatto con i livelli a noi meno noti della nostra interiorità. Il lavoro sulla respirazione può produrre anche modificazioni degli stati di coscienza. Non per nulla i metodi di meditazione richiedono un’attenzione specifica alla respirazione. Imparando a respirare non si apprende una tecnica ma un modo genuino di centrarsi su se stesso, di affrontare momenti di impegno nel rapporto con il mondo. c)​​ Educare al c. «vissuto».​​ Nella cultura narcisistica viene negato il c. reale ed enfatizzato il c. «visivo». Il soggetto è condannato a raggiungere e mantenere standard di bellezza esterna, decorativa. Ogni percorso educativo deve favorire nella persona l’esperienza interna del riappropriarsi del c. come luogo della propria vitalità. Esemplificando, la mano «vissuta», più che la mano «vista», costituisce il cardine della mia identità che è fondamentalmente corporea.

6.​​ Educare alla grazia.​​ La formazione al c. vissuto porta alla scoperta della grazia come bellezza vibrante inscritta in ciascun c., al di là della valutazione estetica e della seduzione erotica. Un c. che si libera dalle tensioni, dalle paure, e si apre alla respirazione piena ritrova l’armonia dei movimenti, sperimenta la propria grazia e ritrova la fede / fiducia come dimensione «spirituale» della corporeità. Arrendersi al proprio c. – ha scritto A. Lowen – significa comprendere e vivere anche l’arrendersi a Dio.

Bibliografia

Valeriani A.,​​ Il​​ nostro c. come comunicazione,​​ Brescia. La Scuola, 1964; Bruaire C.​​ Philosophie du Corps,​​ Paris, PUF, 1968; Fast J.,​​ Il linguaggio del c., Milano, Mondadori, 1972; Sarano J.,​​ Il​​ significato del c.,​​ Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1975; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1981; Schilder P.,​​ Immagine di sé e schema corporeo,​​ Milano, Angeli, 1986; Lapierre A. - B. Aucouturier,​​ Il​​ c. e l’inconscio in educazione e in terapia,​​ Roma, Armando, 1987; Bourdieu P.,​​ C. tra natura e cultura,​​ Milano, Angeli, 1988; Salonia G.,​​ Itinerario bibliografico sul tema: il c. in psicoterapia,​​ in «Quaderni di Gestalt» 6 / 7 (1988) 167-178; Lowen A.,​​ Linguaggio del c.,​​ Milano, Feltrinelli, 1990; Id.,​​ La spiritualità del c.,​​ Roma, Astrolabio, 1991; Buber M.,​​ Il principio dialogico,​​ Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Downing G.,​​ Il​​ c. e la parola,​​ Roma, Astrolabio, 1995; Lowen A.,​​ Arrendersi al c., Ibid., 1995; Gentili A.,​​ Le ragioni del c.,​​ Milano, Ancora, 1996; Militello La Rocca E.,​​ Il problema della c.: lo sport attraverso il pensiero cristiano, Troina, OASI, 1999.

C. Peri - G. Salonia