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COMUNICAZIONE PSICOLOGICA

 

COMUNICAZIONE PSICOLOGICA

Viene definita «psicologica» la c. che ha per oggetto il vissuto dell’altro in interazione. In un messaggio è possibile distinguere un significato denotativo che riguarda gli aspetti referenziali ed informativi delle parole ed un significato connotativo concernente l’insieme degli eventi psicologici che le parole risvegliano nella nostra coscienza (Ogden-Richards, 1966).

1. Per gli psicologi il significato denotativo è la relazione tra segno e oggetto cui si riferisce; il significato connotativo è la relazione tra il segno, il suo oggetto e un individuo. In alcuni casi, connotativo indica il significato totale del simbolo per l’individuo, in altri casi il termine viene assunto più specificatamente nell’accezione di significato emotivo. La c.p. fa riferimento al significato connotativo, considerando prioritaria l’esperienza soggettiva che determinati contenuti attivano nell’interlocutore.

2. La c.p. può essere definita come un processo interpersonale, transazionale e simbolico con il quale le persone in interazione raggiungono e mantengono una comprensione reciproca. Essa richiede la capacità di decentrarsi dal proprio Io per cercare di capire e di farsi capire. La c.p. si realizza, nel ruolo di riceventi, quando si comprendono gli elementi di natura emozionale, espliciti e taciti, presenti nel messaggio dell’altro, restituendoli a questi in modo più chiaro e differenziato; nel ruolo di emittenti, quando si considera l’effetto psichico e la risonanza emozionale che un nostro messaggio può avere per la persona che ascolta. Si esplica, pertanto, sia nel mettersi nei panni dell’altro al fine di comprendere il contesto di significati e di valori sottostante al suo universo espressivo, sia nel codificare il messaggio per l’altro, modulandolo sulle sue caratteristiche. Nella relazione di aiuto la c.p. si distingue dalla c. logica, che considera i contenuti del comunicato senza rapportarli allo sfondo esperienziale dell’interlocutore, e dalla c. scenica, che fa riferimento al materiale non simbolizzato.

Bibliografia

Ogden C. K. - I. A. Richards,​​ Il significato del significato,​​ Milano, Il Saggiatore, 1966; Mizzau M.,​​ Prospettive della c. interpersonale,​​ Bologna, Il Mulino, 1974; Franta H. - G. Salonia,​​ C.​​ interpersonale,​​ Roma, LAS, 1990; Becciu M. - A. R. Colasanti,​​ L’altro nella c., in «RES» 4 (2002) 39-46; Mizzau M.,​​ E tu allora?: il conflitto nella c. quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2003.

A. R. Colasanti




COMUNICAZIONE SOCIALE

 

COMUNICAZIONE SOCIALE

C.s. è il termine utilizzato nell’Europa continentale per definire ciò che il pubblico inglese ed americano chiama​​ mass communication. La c. di massa, parola coniata alla fine degli anni ’30, definisce quei processi comunicativi che attraverso particolari tecniche e mezzi consentono il simultaneo invio di messaggi ad una vasta​​ audience​​ sconosciuta ed eterogenea. Nel linguaggio comune, con essa si intendono i giornali, le riviste, il cinema, la televisione, la radio, la pubblicità, la pubblicazione di libri e l’industria musicale. Ma si dovrebbe fare una distinzione tra​​ ​​ mass media e c. di massa. I mass media sono l’agenzia intermedia che permette alla c. di massa di aver luogo. Il termine «massa» può essere confuso con la «teoria della società di massa» ed il vocabolo c. può essere confuso con la c. interpersonale. La c. di massa è più una categoria di senso comune usata per raggruppare vari fenomeni in modo non analitico.

1.​​ La crescita della tecnologia della c.s. La crescita straordinaria della tecnologia e dell’industria dei mass media ha reso la c. di massa fondamentale nella nostra società. Viviamo infatti nell’«età della c.», dove l’informazione è potere. Questa informazione viene trasmessa attraverso media potenti e ultrarapidi, che determinano cambiamenti nelle società, nelle sottoculture, nelle famiglie e negli individui. Vista la situazione, tutte le parti sociali si sono preoccupate dell’influenza della c. sulla società.

2.​​ Effetti della c.s.​​ La portata dell’influenza dei mass media sugli individui e la società è argomento di disputa, dato che le opinioni tra i ricercatori variano da chi la considera minima a chi molto forte. La stima di tale influenza non è mai stata facile, dato che gli esseri umani, oggetto di tali ricerche, sono spesso imprevedibili. I giovani sono stati considerati più sensibili all’influenza dei media rispetto agli adulti. Un’area di ricerca molto ben sviluppata sugli effetti dei media è quella sulla violenza. La violenza nei media conduce ad un comportamento violento? Alcuni hanno dimostrato fenomeni di imitazione, altri parlano di catarsi. La maggior parte dei ricercatori ritiene che la c. di massa (tramite gli agenti dei mass media) potrebbe avere un’eventuale influenza negativa specialmente sulle giovani generazioni. Da qui l’importanza di una​​ ​​ educazione ai media quale parte del programma di studi scolastici e del tempo libero.

Bibliografia

Black J. - F. C. Whitney,​​ Introduction to mass communication, Dubuque, W. C. Brown Publishers,​​ 21988; Wolf M.,​​ Teorie della c. di massa, Milano, Bompiani,​​ 111992;​​ Hamelink C. J. - O. Linnè (Edd.),​​ Mass communication research: on problems and policies, Norwood, Ablex Publishing, 1994, 309-322; O’Sullivan T. et al.,​​ Key concepts in communication and cultural studies, London, Routledge, 1994;​​ Dominick​​ J.,​​ Dynamics of mass communications: Media in the Digital Age with Media World DVD and Power Web, New York (NY), McGraw-Hill College,​​ 92006; Vivian J. C.,​​ Media of mass communication, Boston, Addison-Wesley, 2006.

T. Purayidathil




COMUNITÀ EDUCATIVA / SCOLASTICA

 

COMUNITÀ EDUCATIVA /​​ SCOLASTICA

La c., come tessuto di relazioni primarie, è l’ambiente naturale di alcune esperienze educative: la​​ ​​ famiglia, i gruppi di vario genere, le aggregazioni religiose. È stata assunta poi come criterio nelle iniziative di accoglienza, assistenza, recupero e rieducazione. In questi ultimi anni viene proposta anche come «modello» organizzativo per le istituzioni scolastiche. Questo allargamento a tutto l’ambito educativo costituisce una novità della pedagogia contemporanea.

1.​​ Fattori che concorrono all’emergere della c.e.​​ Alla diffusione della c.e. concorrono tendenze sociali, intuizioni pedagogiche e criteri politici. Tra le prime vanno annoverati l’estendersi della partecipazione e il bisogno di recuperare la dimensione personale in una società che privilegia gli aspetti tecnici e funzionali. Tra le intuizioni pedagogiche hanno influito soprattutto la riconsiderazione del ruolo del soggetto nel​​ ​​ processo educativo e, di conseguenza, del suo rapporto con gli educatori, i contenuti e l’istituzione educativa. Dalla pedagogia viene pure la valorizzazione dell’​​ ​​ ambiente come fattore educativo: cioè la necessità di predisporre condizioni convergenti di habitat, presenze, relazioni, proposte, attività e strutture che favoriscano i processi di crescita perché provocano una circolazione di valori umani e culturali all’interno del gruppo, neutralizzano gli stimoli contrari troppo forti e stabiliscono un interscambio arricchente con le altre agenzie educative e col contesto in cui l’istituzione opera. A queste tendenze sociali e intuizioni pedagogiche corrisponde un’evoluzione politica. Negli anni settanta parecchi Stati stabiliscono, per le scuole e le iniziative educative, la partecipazione dei genitori e la corresponsabilità del corpo degli educatori (​​ organi collegiali). Nel modello comunitario inoltre confluiscono le correnti pedagogiche «laiche» e l’esperienza «cattolica». Quest’ultima contava nel suo patrimonio abbondanti indicazioni riguardo al coinvolgimento del soggetto, alla corresponsabilità degli educatori, al compito della famiglia e all’incidenza dell’ambiente. La c. diventa perciò elemento indispensabile nelle istituzioni educative della Chiesa (​​ scuola cattolica).

2.​​ Caratteristiche ed esigenze.​​ Le caratteristiche di ciascuna c.e. dipendono dal tipo di istituzione in cui opera (scuola, centro giovanile, convitto, iniziative di riabilitazione o rieducazione); dipendono pure dal programma educativo che si propone di svolgere (insegnamento, assistenza, formazione professionale, attività libere); variano a seconda dei soggetti (tipo di giovani, proporzione tra giovani e adulti) e delle condizioni socioculturali (abitudini e capacità di partecipazione). Alcune esigenze, però, sono comuni a tutti i tipi di c.e. C’è in primo luogo il coinvolgimento attivo e, di conseguenza, la corresponsabilità reale, di tutti coloro che sono interessati al programma: educatori, educandi e genitori, gestori e amministratori, organizzazioni di appoggio e forze sociali. Tale coinvolgimento tende a creare una mentalità o «cultura» educativa comune e dunque una convergenza dei membri della c. sugli obiettivi, sui valori fondamentali e sui metodi, che si raggiunge non attraverso imposizioni istituzionali, ma mediante la proposta, la discussione, i chiarimenti successivi, la riformulazione. Per prevenire il rischio dello​​ ​​ spontaneismo che comprometterebbe i fini istituzionali, vengono definiti i ruoli personali e lo spazio degli organismi di​​ ​​ partecipazione. Così, mentre se ne favorisce l’iniziativa, si assicura il loro funzionamento organico. La c.e. diventa in questo modo un laboratorio dove, senza perdere di vista i fini e la relativa coerenza dei mezzi, si provano attività varie, si sperimentano valori nuovi e si collaudano forme di rapporto fra persone e gruppi con caratteristiche, responsabilità ed esperienze di vita diverse. Perché la c.e. riesca a funzionare come istanza unificante delle risorse e fattori educativi si richiedono alcune condizioni. È necessaria una comunicazione corretta ed efficace tra i diversi membri e organismi. Nuoce la riserva, la disinformazione, il segreto non giustificato, la distanza. Non basta la comunicazione di ufficio. La c. per sua natura postula quella interpersonale. La dirigenza poi sottolinea il ruolo di animazione: risveglia l’interesse per il programma, suscita energie, favorisce la comprensione sempre più adeguata dei fini, ripropone e riformula gli obiettivi immediati e a medio termine, discute i procedimenti.

3.​​ Compiti della c.e.​​ Alla c. così composta e strutturata si affidano alcuni compiti. Il primo è elaborare, applicare e verificare il progetto educativo (​​ progettazione educativa). In esso esprime i valori che vuole realizzare e trasmettere, le esperienze che intende proporre e i metodi che privilegia. Il progetto è l’indicatore più convincente del grado di consapevolezza e condivisione che una c. ha raggiunto e, allo stesso tempo, lo strumento più efficace per formarla e consolidarla. Alla c. si chiede anche di pensare, proporre e realizzare processi di formazione permanente per l’insieme, per le diverse componenti (genitori, educatori) e per gli individui, guardando alla maturazione personale e alla competenza educativa. I due compiti enunciati ne inducono un terzo: stimolare la reattività culturale nei confronti di quei fenomeni che influiscono sulla condizione giovanile. Da ultimo spetta alla c.e. diffondere nel contesto sociale i beni educativi che va sperimentando. Mantiene dunque collegamenti con gli organismi e le iniziative che nel territorio promuovono la crescita culturale della collettività e dei singoli.

Bibliografia

Reguzzoni M.,​​ La scuola come c.,​​ in «Aggiornamenti Sociali» 4 (1970) 281-292; Corradini L.,​​ La c. incompiuta,​​ crisi e prospettive della partecipazione scolastica,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1979; Tonelli R., «C.e.», in J. Vecchi - J. M. Prellezo (Edd.),​​ Progetto Educativo-Pastorale. Elementi modulari,​​ Roma, LAS, 1983, 399-417; Franta H.,​​ Relazioni sociali nella scuola,​​ Torino, SEI, 1985; Dalle Fratte G.,​​ Studio per una teoria pedagogica della c.,​​ Roma, Armando, 1991; Vecchi J.,​​ Pastorale giovanile,​​ una sfida alla c. ecclesiale,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992, 120-196; Id.,​​ Globalizzazione: crocevia della c. e., Torino, SEI, 2002.

J. E. Vecchi




COMUNITÀ TERAPEUTICHE

 

COMUNITÀ TERAPEUTICHE

In ambito clinico il concetto è introdotto e sperimentato, a partire dagli anni ’40, da Bion, Main Jones, quale metodo innovativo e rivoluzionario nei confronti della struttura ospedaliera classica. In Italia ha inizialmente larga diffusione nel campo delle tossicodipendenze. Per c.t. si intende un gruppo di persone riunite con il proposito di aiutarsi reciprocamente nel realizzare l’obiettivo comune di cura, risocializzazione e riabilitazione.

1. L’idea centrale, basata sull’assunto metodologico dell’apprendimento sociale e dell’auto-aiuto, è di utilizzare le risorse – strutturali, tecniche, personali – esistenti nell’ambiente di cura come leva di trasformazione dei comportamenti sociali e adattivi del soggetto. Questo implica la collaborazione attiva del residente al proprio ed altrui processo di cambiamento. Il processo decisionale è democratico e la struttura è tendenzialmente egualitaria. Le qualità personali degli operatori e dei residenti hanno lo stesso valore esperienziale delle specifiche competenze specialistiche.

2. La responsabilizzazione, la dignità e la fiducia sostituiscono i controlli eccessivi e le restrizioni. Il sistema di comunicazione interno mira a fornire continuamente il confronto e l’interpretazione del comportamento del residente per come viene percepito dagli altri. Questo processo di capacitazione cognitiva è assunto sia dagli operatori che dagli altri residenti. Il centro della dinamica trasformativa è quindi costituito dalle relazioni interpersonali vissute ed elaborate all’interno della struttura. L’ambiente sociale, che di per se stesso assume la valenza terapeutica, promuove l’acquisizione della capacità di autoaccettazione e di comunicazione interiore come parte della realizzazione di sé e allarga le modalità del funzionamento anche nei contesti interpersonali e intersistemici esterni.

Bibliografia

Main T.,​​ La c.t. e altri saggi psicoanalitici, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992; Pisanu N., «La ri-educazione del sociale nelle dipendenze», in T. Albano. - L. Gulimanoska (Edd.),​​ In-dipendenza: un percorso verso l’autonomia, vol. II, Milano, Angeli, 2007.

R. Fiore