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CORALLO Gino

 

CORALLO Gino

n. a Randazzo (CT) nel 1910 - m. a Catania nel 2003, educatore e pedagogista italiano.

1. Sacerdote salesiano, fu docente e Rettore dell’Università salesiana di Roma (1966-1968). Libero docente nel 1954, insegnò a Salerno, Bari, Lecce, Roma-Magistero Maria SS. Assunta; dal 1963 fu ordinario di pedagogia a Bari, e dal 1970 a Catania. Nel 1979 diventò primo presidente dell’IRSSAE-Sicilia.

2. Un soggiorno negli Stati Uniti gli diede modo di essere tra i primi recensori della pedagogia deweyana (evidenziandone la valenza pedagogico-democratica ma anche la visione naturalistico-immanentistica). Il suo impianto teorico, fondamentalmente neo-tomistico, ma non privo di influssi neo-agostiniani, neo-idealisti (a Roma frequentò le lezioni di G. Gentile) e personalistici, gli fece, fin dall’inizio, porre al centro dell’azione educativa la promozione della libertà, vista come caratteristica peculiare della persona, da qualificare nella sua capacità di scelta personale e di impegno responsabile. Il chiaro riferimento all’etica, alla verità e ai valori gli permise il superamento di impostazioni individualistiche o storicistico-immanentistiche o funzionalistico-sociali. Azione del docente e attivo coinvolgimento del discente sono anche alla base della sua metodologia pedagogica. Epistemologicamente queste affermazioni si basano su una concezione della pedagogia vista come scienza teorico-descrittiva (pedagogia generale) e normativa (metodologia dell’educazione e pedagogia-didattica, generale e speciale). In questo senso egli ha svolto un ruolo significativo nella cultura e nella docenza universitaria pedagogica degli anni cinquanta e sessanta.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ La pedagogia di Giovanni Dewey, Torino, SEI, 1950;​​ Educazione e libertà, Ibid., 1951;​​ Pedagogia,​​ vol.​​ I: L’educazione, Ibid., 1961;​​ Pedagogia,​​ vol. II: L’atto di educare. Problemi di metodologia dell’educazione, Ibid., 1967. b)​​ Studi: Zanniello G. (Ed.),​​ Educazione e libertà in G.C., Roma, Armando, 2005.

C. Nanni




CORPO / CORPOREITÀ

 

CORPO / CORPOREITÀ

La corporeità è un nodo problematico di notevole spessore sia dal punto di vista speculativo che esistenziale ed educativo in particolare.

1.​​ Aspetti storici ed antropologici.​​ Schematizzando al massimo gli apporti della storia, si possono intravvedere due grandi prospettive sulla corporeità. Per una essa è solo un elemento insignificante, trascurabile o addirittura pericoloso per capire l’uomo e il suo mistero nella sua interezza e integralità, per l’altra, al contrario, è ciò che costituisce l’uomo. Per questa seconda impostazione l’uomo inizierebbe e finirebbe con il c., con nulla che precede e nulla che segue, per l’altra, al contrario, la salvezza deve essere acquistata contro il c. Per distribuire sistematicamente le posizioni antropologiche, bisogna distinguere riguardo al c. la considerazione del fatto e del dato, dal significato e dal valore umano che gli si attribuisce. Per quanto riguarda il fatto, ci sono prima di tutto i modelli monistici e quelli dualistici. Il monismo può negare sia il c. sia l’anima ed in questo caso l’uomo sarà o solo c. (Marx, Sartre, Merleau-Ponty...), o solo spirito (Platone, Spinoza...). Per completare il panorama ci sono da ricordare i modelli o i tentativi unitari. Alcuni, come quello di Aristotele prima e poi di s. Tommaso, sono costruiti con l’ausilio di categorie metafisiche. In questo caso l’unità dell’uomo è ontologica perché è assicurata non da due realtà, ma da due co-principi, da due cause: la materia e la forma. La teoria generale dell’ilemorfismo, per cui qualsiasi essere fisico è composto di materia e forma, viene estesa anche all’uomo, sebbene la terminologia sia quella di anima e di c. Se questa lettura ha avviato il superamento del dualismo, nella sua formulazione ha reso però complicato spiegare la sopravvivenza dell’anima. San Tommaso ha cercato di perfezionare questa concezione parlando di unità della natura (tra corporeità ed anima) e di unità della persona (un unico soggetto di attribuzione); ha insistito sulla immortalità dell’anima e sulla sua aspirazione di tornare a ricongiungersi ad un c. anche se trasfigurato dalla risurrezione.

2.​​ Il significato della corporeità.​​ Circa il significato del c. troviamo tutta una gamma di valutazioni. Da quelle esageratamente negative a quelle esasperatamente positive, da quelle neutre a quelle altalenanti. Pertanto è d’obbligo annotare che ci troviamo di fronte ad una serie di interpretazioni conflittuali, quando addirittura non si scatena il conflitto stesso delle interpretazioni. A proposito della corporeità non è facile mantenersi nei limiti di una ricerca compassata; quasi sempre si accende la passione per tesi che sono preconcette e ideologiche, le quali travisano l’osservazione e allontanano la verità. Il significato originario e fondamentale del c. umano scaturisce dalla constatazione che non è semplicemente qualcosa, ma è il c. di qualcuno, di un soggetto indeclinabile, di una persona unica ed irrepetibile che al c., con il c. e nel c. dà il segno inconfondibile della sua presenza. Conseguentemente il c. è: a)​​ Rivelazione della persona,​​ della sua interiorità, della sua concretezza, della complessità della sua esistenza, delle risorse interiori ed esteriori che mette in atto, delle possibilità infinite con cui si proietta nel mondo, della dimensione storica e operosa della sua presenza. È espressione dunque della persona nel suo modo incarnato di essere e di manifestarsi. b)​​ Relazione con gli altri.​​ Infatti la presenza dell’uomo nel mondo non è sotto il segno dell’isolamento, ma di una serie indefinita di rapporti, a volte liberi e spontanei, altre volte fissi o istituzionalizzati. Tutto questo lo inserisce in uno spazio e in un tempo ben precisi, in una dimensione familiare, sociale e culturale che lo plasma come una seconda natura. Con il suo c. ognuno sta come persona di fronte alle altre, si pone come loro interlocutore. Se questi rapporti sono negativi o conflittuali allora ne risente la sua crescita, il suo equilibrio, la percezione che egli ha di se stesso e la sua stessa visione del mondo. Se invece sono orientati all’incontro, al dialogo, alla comunione, come nell’amicizia e nell’amore, allora portano immancabilmente alla stima e alla promozione dell’altro, alla fedeltà creativa ed eroica con cui il tu conta più di se stessi. E per aiutarlo si è disposti a dare tutto e a darsi totalmente. c)​​ Rielaborazione del mondo.​​ L’uomo proiettandosi nel mondo lo assume e lo trasforma secondo un processo di umanizzazione con cui pone nelle cose il marchio inconfondibile del suo intervento. Il tentativo di orientarsi e di interpretare la realtà lo mettono in ascolto (fede), lo spingono ad elaborare sistemi coerenti di pensiero (filosofie), di conoscenze (scienze), di saggezza (esperienza), di abilità (tecnologie) che gli permettono di vincere l’ostilità e l’ignoranza e di sentire familiare e disponibile la realtà nella quale vive. Una menzione particolare merita il​​ linguaggio​​ che è quella attività di espressione, rappresentazione e comunicazione in cui il c. gioca un ruolo quanto mai importante. Anzi il c. stesso, il volto, i gesti, le smorfie sono la forma di linguaggio insieme più comune ed originaria. d)​​ Differenza sessuale.​​ Il c. esprime il nostro essere o maschi o femmine. Sulla sessualità umana pesano senza dubbio tanti giudizi e pregiudizi che rendono la sua comprensione quanto mai difficile. Basta pensare allo spessore di mitologia con cui, da sempre, è stata accostata la realtà e il mistero della sessualità e più ancora il suo significato. Il sesso è chiaramente un fatto di natura, ma non è soltanto questo. Ci sono delle differenze e delle interferenze culturali, ma le diversità tra i sessi non possono essere delle semplici polarità psicologiche, culturalmente indotte. E pertanto la complementarità sul piano biologico trova il suo inevitabile completamento in quello psicologico, culturale, sociale. Se il sesso (maschile e femminile) nella maggioranza dei casi è un dato, la sessualità (il significato umano che riveste l’essere uomo e donna) è un’acquisizione. Essa consiste essenzialmente nella reciprocità corporea, psicologica, sociale, culturale di uomo e donna. In ciò essi rivelano l’orizzonte completo del loro essere persone e il carattere intersoggettivo ed interpersonale del loro rapportarsi, che non annulla, ma identifica il loro essere o maschio o femmina. Così per costituire l’identità di uno dei due c’è bisogno dell’altro e viceversa. e)​​ Limite.​​ Il c. infatti è comunicazione, ma anche possibilità di equivoci; è relazione, comunione e distanza, separazione, resistenza. Ci inserisce nello spazio e nel tempo, dentro le leggi del mondo fisico e biologico, ma ci lega talmente a queste dimensioni che non le possiamo assolutamente superare. Ci può dare le gratificazioni di equilibri perfetti e sorprendenti, ma anche le amare conseguenze di squilibri e stravolgimenti vari. È possibilità di vita, ma è anche causa di morte, spesso attraverso malattie e sofferenze inimmaginabili.

3.​​ Prospettiva teologica.​​ La considerazione della morte, quale limite invalicabile dell’esperienza corporea, pone degli interrogativi non soltanto sulla fine e il fine della corporeità, ma sul fine e la fine della stessa persona. La morte distrugge il c., ma il suo significato è soltanto biologico o pone degli interrogativi più profondi ed estesi che investono il significato veramente ultimo dell’uomo? Per ammettere che questo significato l’uomo lo abbia e lo possa avere, nella e attraverso la morte, ci si deve spostare però oltre la stessa morte. Ma una considerazione della corporeità oltre la morte non è un discorso scientifico, né può averne le caratteristiche. La scienza parla di ciò che può osservare e verificare, di ciò che può esporre con categorie e controlli empirici. Se pertanto la scienza non si può spingere al di là della morte, in quanto questa rappresenta la fine del c. e quindi di una riflessione che si possa qualificare come induttiva e per osservazione, la scienza può comunque impostare e presentare le alternative che proprio la disgregazione del c. obbliga a formulare. Perché dunque il discorso teologico abbia un senso e una sua validità, non soltanto per i credenti ma anche per gli altri, è necessario che si limiti a formulare le diverse ipotesi e a mostrare le alternative che la morte impone, anche se presenta pure il dono che l’uomo può accogliere. È da quest’unica prospettiva che presenteremo le indicazioni che una impostazione teologica offre alla comprensione del c. Una prospettiva teologica fondamentalmente ci dice che l’uomo ha delle possibilità dopo e oltre la morte e quali sono queste possibilità. Seguiamo l’articolarsi di queste alternative. Se il significato del c. è soltanto intramondano, perché si conclude ineluttabilmente o si chiude bruscamente con la morte, allora il significato del c., e dunque dell’uomo, è soltanto legato alla sfera che possiamo catalogare come biologica. Questa conclusione è solidale con la identificazione perfetta tra la persona ed il suo c. Pertanto l’uomo sarà il risultato esclusivo e matematico della sua storia, delle avventure e disavventure della sua esistenza e l’inizio e il termine della sua esperienza sono cronologicamente fissate dalle date della sua biografia. Se invece l’esperienza della persona va al di là della decomposizione del suo c., ciò è possibile alla sola condizione che l’uomo non è soltanto c. ma che la sua esperienza completa fa riferimento a quella dimensione, che per distinguerla da quella materiale, e caratterizzarla nelle sue potenzialità, indichiamo come spirituale. Precisare, però, cosa sia lo spirito è quanto mai difficile, ancora più difficile che riconoscere cosa faccia o possa fare. Se lo si ammette è necessario riconoscere che abbia un’essenza e un’esistenza diversa da quella materiale, che non è schiavo delle necessità e dei determinismi a cui invece è legato l’essere materiale. Se da sempre la corporeità è stata accostata alla materia, ai bisogni della carne e della natura, l’anima è stata intesa come spirito, principio di animazione e forma sostanziale, soggetto dei fenomeni psichici, sorgente di pensiero e di intelligibilità, libertà e volontà.

4.​​ Aspetti psicologici.​​ W. Reich individuò nel c. i «luoghi» della patologia ed elaborò una coerente terapia corporea. Egli scoprì che l’interruzione di un’esperienza emozionale provoca il blocco di specifici processi corporei. Anche se non se ne ha consapevolezza o se ne perde la memoria, le «repressioni» corporee diventano tensioni muscolari, che, progressivamente, si stratificano e si strutturano come corazza caratteriale. Nel c. rimangono le tracce «visibili» della storia affettiva della persona, del dolore, della rabbia, della paura, della disperazione, della gioia che non hanno trovato voce / espressione. I blocchi corporei, dovuti a queste interruzioni, rimangono «attivi» condizionando, in modo decisivo, sia il sistema sensorio (il modo di percepire se stessi e il mondo) sia il sistema motorio (il nostro muoversi ed agire nel mondo). Le tensioni muscolari, in altre parole, determinano le modalità di apertura / chiusura del c. nei confronti di nuove esperienze. L’approccio – teoria e pratica – di Reich operò una rivoluzione nel modo di concepire il rapporto mente / c., non solo nell’ambito della psicoterapia ma anche in quello antropologico. Diede avvio ad un’attenzione e ad un interesse per il c. che, in modi differenti, si ritrova nei principali modelli di psicoterapia elaborati negli anni sessanta. Alcuni allievi di Reich hanno rivisitato in modo innovativo il contributo del maestro: A. Lowen, fondatore della bioenergetica; D. Boadella interessato in particolare allo sviluppo del rapporto c. / emozione sin dallo stadio fetale (la «biosintesi»); S. Kelemann, che ha approfondito l’integrazione muscolatura / struttura ossea / emozioni e ha denominato il suo approccio «Anatomia emozionale». Nel contesto culturale del New Age che enfatizzò l’attenzione per il c. nacquero inoltre numerosi approcci corporei sia con valenza terapeutica (ad es., l’«Urlo Primario» di A. Janov, l’«Energetica vocale» della J. M. Colemann, ecc.) sia con interesse per lo sviluppo del potenziale umano (massaggi, danza, tecniche di meditazione, ecc.). Lo studio del c. risulta inoltre di particolare rilievo nella psicosomatica, nella neuroendocrinologia, nei vari approcci tecnici finalizzati al rilassamento (ad es.: H. Schultz, Jacobson); nelle ricerche sulla comunicazione non verbale. Il​​ ground​​ di riferimento (metamodello di base) delle terapie a orientamento corporeo può essere descritto sinteticamente in alcuni punti-chiave. a)​​ Visione olistica del rapporto c. / mente.​​ «Non​​ abbiamo​​ un c. ma​​ siamo​​ un c.» è l’assunto di partenza di ogni terapia corporea. Autori recenti parlano di «mente corporea» (G. Downing, 1995). b)​​ L’importanza dello​​ ​​ schema corporeo.​​ A​​ P. Schilder (1986), maestro di Reich, si devono i primi e i più decisivi studi sullo schema corporeo. Ogni persona elabora un’immagine tridimensionale del proprio c., una rappresentazione che mette insieme sia l’immagine mentale sia le sensazioni propriocettive: una sorta di «anatomia simbolica». Questo schema corporeo, per lo più inconsapevole e in continua ridefinizione, determina lo stile con cui ogni «c.» si vive ed entra in rapporto con il mondo. Lo scarto tra il c. come «dato» e lo schema corporeo o «c. vissuto» è il «luogo» delle patologie e della terapia. c)​​ La respirazione,​​ nelle due fasi di espirazione ed inspirazione, si colloca tra l’attività volontaria e quella involontaria e rappresenta il luogo nevralgico in cui interno ed esterno, organismo ed ambiente si trovano in relazione. Poiché si respira più con il c. «vissuto» che con il c. «dato», le differenti modalità di respirazione (l’intensità, l’armonia, la globalità, ecc.) diventano la «via regia» per accedere allo schema corporeo implicito. L’attenzione e il lavoro sulla respirazione costituisce una competenza di base di tutte le terapie esperienziali. d)​​ Il c. è lo sfondo della nostra identità:​​ da esso emergono i nostri bisogni, in esso avvengono esperienze fondamentali della formazione del sé, in esso sono inscritte situazioni affettive «incompiute». Essere in contatto con il c., ascoltarlo, è il percorso necessario per attingere le radici della nostra identità e ripristinare la circolarità parola / c., ossia la capacità di dare «c.» alla parola e dare «parola» al c.

5.​​ Aspetti pedagogici.​​ «C’è più ragione nel tuo c. che nella tua migliore sapienza» (F. Nietzsche,​​ Così parlò Zarathustra).​​ Non è possibile oggi pensare ad un itinerario pedagogico che non attraversi a livello di riflessione e di esperienza la corporeità. Si tratta, ormai, di consolidate acquisizioni che non possono essere disconosciute né dal sapere psicologico, né da quello pedagogico. Descriviamo alcuni itinerari di una formazione alla corporeità. a)​​ Educare ad una visione globale / integrata del c. / anima.​​ In un contesto sociale nel quale il c. viene vissuto come «parte», «strumento» di lavoro o di piacere, la formazione alla globalità permette di scoprire l’unità inscindibile di c. / anima, ossia il c. come presenza e come luogo dell’intersoggettività. Il poeta ha così sintetizzato questo percorso: «Mi fu dato di nascere una seconda volta quando la mia anima e il mio c. si amarono e si unirono in matrimonio» (K. Gibran). b)​​ Educare alla respirazione.​​ Nel mondo orientale come in quello ebraico l’attenzione alla respirazione («ruah», spirito) è elemento costitutivo della concezione della vita. Già nel 500 a.C. Chuang-tsu aveva detto: «L’uomo vero respira attraverso i talloni, la gente comune attraverso la gola». «Abitare il proprio c.» richiede ed insieme si esprime in una respirazione appropriata, profonda e globale. Imparare ad essere attenti alla respirazione come fiume sotterraneo della nostra consapevolezza ci permette di entrare in contatto con i livelli a noi meno noti della nostra interiorità. Il lavoro sulla respirazione può produrre anche modificazioni degli stati di coscienza. Non per nulla i metodi di meditazione richiedono un’attenzione specifica alla respirazione. Imparando a respirare non si apprende una tecnica ma un modo genuino di centrarsi su se stesso, di affrontare momenti di impegno nel rapporto con il mondo. c)​​ Educare al c. «vissuto».​​ Nella cultura narcisistica viene negato il c. reale ed enfatizzato il c. «visivo». Il soggetto è condannato a raggiungere e mantenere standard di bellezza esterna, decorativa. Ogni percorso educativo deve favorire nella persona l’esperienza interna del riappropriarsi del c. come luogo della propria vitalità. Esemplificando, la mano «vissuta», più che la mano «vista», costituisce il cardine della mia identità che è fondamentalmente corporea.

6.​​ Educare alla grazia.​​ La formazione al c. vissuto porta alla scoperta della grazia come bellezza vibrante inscritta in ciascun c., al di là della valutazione estetica e della seduzione erotica. Un c. che si libera dalle tensioni, dalle paure, e si apre alla respirazione piena ritrova l’armonia dei movimenti, sperimenta la propria grazia e ritrova la fede / fiducia come dimensione «spirituale» della corporeità. Arrendersi al proprio c. – ha scritto A. Lowen – significa comprendere e vivere anche l’arrendersi a Dio.

Bibliografia

Valeriani A.,​​ Il​​ nostro c. come comunicazione,​​ Brescia. La Scuola, 1964; Bruaire C.​​ Philosophie du Corps,​​ Paris, PUF, 1968; Fast J.,​​ Il linguaggio del c., Milano, Mondadori, 1972; Sarano J.,​​ Il​​ significato del c.,​​ Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1975; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1981; Schilder P.,​​ Immagine di sé e schema corporeo,​​ Milano, Angeli, 1986; Lapierre A. - B. Aucouturier,​​ Il​​ c. e l’inconscio in educazione e in terapia,​​ Roma, Armando, 1987; Bourdieu P.,​​ C. tra natura e cultura,​​ Milano, Angeli, 1988; Salonia G.,​​ Itinerario bibliografico sul tema: il c. in psicoterapia,​​ in «Quaderni di Gestalt» 6 / 7 (1988) 167-178; Lowen A.,​​ Linguaggio del c.,​​ Milano, Feltrinelli, 1990; Id.,​​ La spiritualità del c.,​​ Roma, Astrolabio, 1991; Buber M.,​​ Il principio dialogico,​​ Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Downing G.,​​ Il​​ c. e la parola,​​ Roma, Astrolabio, 1995; Lowen A.,​​ Arrendersi al c., Ibid., 1995; Gentili A.,​​ Le ragioni del c.,​​ Milano, Ancora, 1996; Militello La Rocca E.,​​ Il problema della c.: lo sport attraverso il pensiero cristiano, Troina, OASI, 1999.

C. Peri - G. Salonia




COSCIENZA

 

COSCIENZA

Giudizio ultimo e dettame mediante cui l’uomo, riconoscendo se stesso nella sua essenza e nelle sue modificazioni e avendo una conoscenza riflessa delle cose, orienta il proprio comportamento.

1. Punto di partenza.​​ Nell’ottica psicologica, con il termine c. si fa riferimento tanto al fatto di​​ essere consapevoli​​ (aspetto psicologico) quanto al fatto di​​ essere responsabili​​ (aspetto morale). La c. psicologica («rendersi conto») è una struttura organizzativa che comprende, contemporaneamente, l’essere oggetto e l’essere soggetto del proprio vissuto. La c. morale comprende: i processi cognitivi, cioè il momento di valutazione delle proprie intenzioni e azioni (conoscenza dei principi e delle norme); l’aspetto comportamentale (agire moralmente o evitare i comportamenti proibiti); la risonanza emotiva che il soggetto sperimenta prima, durante e a seguito del proprio comportamento. Lo sviluppo della c. segue il processo di maturazione della persona. Nelle prime tappe dell’età evolutiva, essa è semplicemente il risultato di un processo di interiorizzazione e riproduzione di norme esterne, fondamentalmente parentali («morale istintiva»). Successivamente, i processi infantili di identificazione con i genitori, i risultati del superamento della situazione edipica, i comportamenti imparati mediante l’apprendimento per osservazione e attuati per fedeltà alle persone significative, svincolandosi dai meccanismi che li hanno generati, diventano autonomi e propri della persona («morale umana personalizzata»).

2.​​ Lettura evolutiva della formazione della c.​​ Il processo di formazione della c. si inserisce nel processo globale di maturazione umana. Questa maturazione indica il cammino attraverso il quale il soggetto diventa responsabile del proprio comportamento e acquista la capacità di prendere delle decisioni; in quest’ottica, la c. rappresenta il centro decisionale e dell’imputabilità delle azioni umane. Sarebbe desiderabile che la maturazione della c. morale accompagnasse parallelamente tutto il processo maturativo globale della persona. In questo modo, si instaurerebbe un accordo tra la norma interiore (personale) e la norma oggettiva di moralità; si verificherebbe una corrispondenza tra le valutazioni della c. come «norma prossima di moralità», da una parte, e i valori, le prescrizioni, i principi, ecc., come «norma remota di moralità», dall’altra.

2.1.​​ Processi e meccanismi di sviluppo della c.​​ È necessario considerare il processo di crescita e la possibilità di superare le diverse forme di egocentrismo umano, in modo che il soggetto possa prendere c. di se stesso e del mondo sociale in cui vive. Sono molti i fattori e i meccanismi che complicano la possibilità di diventare veramente responsabili. Ne indichiamo tre: frequentemente, la facilità o la difficoltà di prendere c. del proprio valore dipende dall’accettazione avuta da parte delle persone significative; la possibilità di agire secondo le proprie capacità e abilità favorisce la formazione del concetto di sé e quindi la crescita nella presa di c. del proprio valore; la possibilità infine di evolvere gradualmente anche nel proprio senso di responsabilità.

2.2.​​ Sviluppo del giudizio morale.​​ La formazione della c. richiede il rispetto del ritmo di sviluppo e della maturazione del​​ giudizio morale.​​ Senza escludere i fattori emotivi e comportamentali, è evidente l’importanza dei fattori cognitivi, dato l’influsso che essi esercitano nel processo dello sviluppo del giudizio morale. È utile, in proposito, ricordare i tre possibili livelli evolutivi della c. delle regole indicati da​​ ​​ Piaget: il carattere ludico delle regole, il loro carattere sacro e quello consensuale. È possibile osservare un passaggio da una considerazione delle regole come qualcosa di assoluto, di esterno al soggetto, imposto dagli adulti, ad una concezione secondo la quale le regole sono il risultato di un accordo reciproco tra gli individui e, quindi, sono modificabili secondo le esigenze delle persone. I contributi di​​ ​​ Kohlberg sottolineano che il comportamento e le relative valutazioni, in base al diverso livello di sviluppo, trovano il loro fondamento in motivazioni diverse.

3.​​ Riflessioni educative.​​ L’educazione morale richiede la programmazione di itinerari che portino alla scoperta e alla realizzazione di tutto ciò che facilita l’attuazione del compito morale dell’uomo.

3.1.​​ Passaggio dalla discussione alla capacità di essere responsabile.​​ Se l’educando si sente protagonista delle sue decisioni e della gestione di quanto lo riguarda, ha la possibilità concreta di maturare nel processo di formazione della c. In questo senso, è importante che egli possa esprimere la sua opinione nelle discussioni che precedono la decisione finale. È necessario non soltanto facilitare la discussione ragionata nel processo decisionale, ma anche riconoscere, favorire ed apprezzare la capacità dell’educando di decidere e di contribuire alla realizzazione delle decisioni intraprese. In questo modo, il soggetto può, con buon fondamento, sentirsi responsabile delle sue azioni.

3.2.​​ Attendere il momento adeguato alla situazione globale dell’educando.​​ L’​​ ​​ educatore non deve precipitare i tempi o gli eventi, bensì tener conto del contesto socio-ambientale dell’educando. Non si può separare la formazione della c. dal resto dello sviluppo globale del soggetto e, in concreto, dal processo di formazione dell’identità. A questo proposito, può essere utile prendere in considerazione alcune connotazioni dell’​​ ​​ identità, che possono costituire possibili mete da raggiungere nel processo di formazione della c.: senso dell’unicità, di continuità e di uniformità; identità come principio unificatore e sintetizzatore di solidarietà.

3.3.​​ Accettazione di tutto ciò che è umano.​​ L’uomo tende all’unità e all’integrazione di tutte le sue componenti. Estremamente importante è aiutare il soggetto a prendere contatto con la propria ricchezza e a saper distinguere i diversi aspetti, accettando tutto ciò che è profondamente umano.

3.4.​​ Capacità di autogiudicarsi.​​ Ricordiamo la necessità di aiutare e di «esigere» dall’educando di essere il giudice delle proprie azioni e comportamenti. Il processo di riflessione, che nasce nell’educando nel prendere contatto con il suo mondo personale e profondo, è un elemento essenziale nella formazione della c. Si tratta di un primo passo che offre la possibilità di entrare in contatto anche con il mondo degli altri; in questo modo, mettendosi al posto degli altri, l’educando amplia il suo campo percettivo e allarga la sua visione nel giudicare le proprie azioni. Come tappa finale, si richiede che l’educando arrivi a costruirsi la capacità di autovalutazione e a rendersi conto delle ragioni delle sue scelte e del suo agire. L’educatore, tenendo conto dei livelli di moralità, dovrebbe domandarsi continuamente qual è la funzionalità della sua presenza in vista della maturazione morale degli educandi verso il raggiungimento della moralità autonoma. Come suggerimenti, si possono indicare: rispettare la c., indicare e chiedere le ragioni di una azione e / o prescrizione, essere modello di autonomia morale nel rispetto del bene comune e della giustizia / bontà delle decisioni e dei comportamenti concreti, avere e favorire la «c. riflessa» dell’agire umano.

Bibliografia

Piaget J.,​​ Le jugement chez l’enfant, Paris, PUF, 1932;​​ Grof S.,​​ La psicología del futuro: lecciones de la investigación moderna de la conciencia, Barcelona, Los Libros de la Liebre de Marzo,​​ 2002; Galati D. - C. Tinti,​​ Prospettive sulla c. Processi di sviluppo e comprensione sociale, Roma, Carocci, 2004; Liotti G.,​​ La dimensione interpersonale della c., Ibid., 2005.

A. Arto




COSSÍO Manuel Bartolomé

 

COSSÍO Manuel Bartolomé

n. a Haro (Logroño) nel 1857 - m. a Collado Mediano (Madrid) nel 1935, storico dell’arte, pedagogista ed educatore spagnolo.

1. Compiuti i corsi umanistici nel collegio agostiniano de El Escorial, C. studia filosofia e lettere all’università di Madrid, dove ha come professore​​ ​​ Giner de los Ríos, con cui stringe duraturi vincoli di amicizia e di collaborazione nell’Institución Libre de Enseñanza (ILE). Nel 1878 va come borsista al Collegio spagnolo di Bologna: vi studia archeologia, letteratura, estetica e pedagogia. Rientrato in patria, pubblica il saggio:​​ Carácter de la pedagogía contemporánea​​ (1879). Nel 1883 vince la cattedra di Storia dell’Arte a Barcellona ed è nominato direttore del Museo pedagogico di Madrid. Da questo momento i due centri di interesse di C. sono l’arte e l’educazione. Tra gli scritti più significativi:​​ El trabajo manual en la escuela primaria​​ (1883),​​ La enseñanza del arte​​ (1885),​​ Los problemas contemporáneos en la ciencia de la educación​​ (1897).​​ Nel 1915 assume la direzione della ILE.

2. Nel pensiero pedagogico di C. emergono tre temi privilegiati: l’educazione educativa, il metodo attivo, il maestro. Un’affermazione del primo scritto, più volte ripresa in seguito, sintetizza le idee sul fine dell’insegnamento: «fare del fanciullo, invece di un magazzino, un terreno fecondo». Coerente con una concezione «integrale e armonica» dell’educazione, C. propone l’ampliamento del programma scolastico, accogliendo, accanto alle materie letterarie tradizionali, anche l’arte, le scienze naturali, il lavoro manuale. Non si tratta però di far assimilare passivamente nuovi contenuti, ma di far sì che l’educando si renda capace di dirigere se stesso. La «fede totale nel maestro» va unita alla centralità dell’alunno, essere attivo e originale. Fu notevole l’influsso di C. nelle riforme della Pubblica Educazione della II Repubblica Spagnola (1931-1935).

Bibliografia

Prellezo J.M.,​​ M.B.C,​​ pedagogo y educador español (1857-1935),​​ in «Orientamenti Pedagogici» 33 (1986) 150-161; Ruiz Berrio J. - A. Tiana Ferrer - O. Negrín Fajardo (Edd.),​​ Un educador para un pueblo. M.B.C. y la renovación pedagógica institucionista,​​ Madrid, UNED, 1987; Portús J. - J. Vega,​​ El descubrimiento del arte español. Tres apasionados maestros: C.,​​ Lafuente,​​ Gaya Nuño, Tres Cantos (Madrid), Nivola, 2004.

J. M. Prellezo




COSTRUTTIVISMO

 

COSTRUTTIVISMO

Orientamento epistemologico, psicologico e pedagogico-didattico che mette in risalto il ruolo attivo del soggetto nel costruire non solo le sue conoscenze, ma anche l’immagine della realtà nella quale egli vive.

1. Una prima forma di c. che possiamo definire endogena, deriva dagli studi di​​ ​​ Piaget. Essa è stata seguita e diffusa da E. von Glaserfeld, mentre in Italia è stata sostenuta in particolare da S. Ceccato. Tale forma di c. assume la specificazione di «c. radicale» in quanto esclude la possibilità di conoscere la realtà a noi esterna. Ogni nostra conoscenza deriva, secondo questa prospettiva, da una costruzione soggettiva di schemi cognitivi e affettivi che risultano funzionali a un’interazione positiva con l’ambiente fisico e sociale esterno.

2. Il c. sociale si riallaccia in gran parte alle suggestioni di​​ ​​ Vygotskij e in genere alla scuola russa rappresentata in occidente per lunghi anni da Luria. La costruzione della conoscenza, come lo sviluppo dei processi cognitivi più elevati, deriva in questa prospettiva dalle interazioni linguistiche e socio-culturali a cui è esposto il soggetto. Non meccanicisticamente, in quanto nei processi di interiorizzazione del dialogo sociale un ruolo insostituibile viene svolto dalla coscienza o consapevolezza personale. Una mediazione tra le istanze piagetiane e quelle vygotskiane può essere vista nella proposta avanzata da Doise e Mugny circa il ruolo dei conflitti sociocognitivi nello sviluppo della conoscenza.

3. A differenza da quello studiato e privilegiato da Piaget e dal c. radicale, il c. esogeno evidenzia, nello sviluppo della conoscenza e delle capacità intellettuali e pratiche, il ruolo insostituibile dei modelli osservati e quello di un apprendistato guidato da un esperto che non solo indica come fare per acquisire le conoscenze o le competenze intese, ma che predispone anche un piano di esercizio e supervisiona i progressi dell’apprendista, intervenendo in un primo tempo in modo più puntuale e insistente nel correggere e modellare il comportamento, per poi lasciare sempre più autonomo il soggetto nella sua attività intellettuale o pratica. Quest’ultima prospettiva è stata ampiamente esplorata sia nei contesti scolastici evidenziando il ruolo formativo delle comunità di ricerca (Brown-Campione), sia in quelli professionali, sottolineando la centralità delle comunità di pratica (Wenger), sia nella costruzione di ambienti di apprendimento segnati dalla presenza di nuove tecnologie (Jonassen).

Bibliografia

Piaget J.,​​ Dal bambino all’adolescente: la costruzione del pensiero, Firenze, La Nuova Italia, 1970; Vygotskij L. S.,​​ Mind in society,​​ Cambridge, Harvard University Press, 1978; Doise W. - G. Mugny,​​ La costruzione sociale dell’intelligenza,​​ Bologna, Il Mulino, 1982; Collins A. - J. S. Brown - S. E. Newman, «Cognitive apprenticeship: teaching the crafts of reading, writing, and mathematics», in L. Resnick (Ed.),​​ Knowing,​​ learning,​​ and instruction: essays in honor of Robert Glaser,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1989, 453-494; Phillips D. C. (Ed.),​​ Constructivism in education, Chicago, The National Society for the Study of Education, 2000; Larochelle M. - N. Bednarz - J. Garrison (Edd.),​​ Constructivism and education, Cambridge, Cambridge University Press, 2006; Wenger E.,​​ Comunità di pratica.​​ Apprendimento,​​ significato e identità, Milano, Cortina, 2006.

M. Pellerey




COSTRUTTO

 

COSTRUTTO

Il c. è un concetto elaborato per mezzo della riflessione e della verifica empirica. In tal modo un semplice concetto viene arricchito di contenuti e diventa un mezzo di comunicazione tra esperti di un determinato settore. Il c. è una componente importante della scienza e viene usato abbondantemente nelle teorie.​​ ​​ Intelligenza e​​ ​​ ansia sono esempi di c. psicologici.

1. Il c. è un’entità puramente teorica che unifica i fenomeni osservabili sotto un solo denominatore. Per es., l’ansia dell’esame si manifesta con sudore, tremolio e pallore. In base a tali segni noi supponiamo l’esistenza dell’ansia come entità psichica. L’ansia però in se stessa è irraggiungibile e viene considerata perciò un c. ipotetico. Il rapporto tra le manifestazioni esterne e il c. (entità interna) viene definito epistemico e cioè solo supposto (Bailey, 1991).

2. Molti c. fanno parte di una teoria; per es. il c. dell’​​ ​​ autoefficacia fa parte della teoria sociale cognitiva elaborata da Bandura (1986). I c. seguono la sorte delle teorie, durano cioè finché non vengono contraddetti dai dati empirici oppure finché si dimostrano utili (Coolican, 1994). I c. vengono confrontati tra di loro anche fuori dell’ambito della teoria di cui fanno parte; il risultato di tale confronto può essere positivo per entrambi ed in tal caso essi si chiariranno a vicenda, oppure negativo ed in tal caso risulteranno problematici tutti e due. Alcuni c. sono subordinati ad altri c. in ordine di dipendenza; per es., i soggetti con bassa stima sono aggressivi nei rapporti sociali; i due c., bassa stima e aggressività, stanno in rapporto di dipendenza.

3. I c. vengono usati ampiamente nelle verifiche di numerose ipotesi. Essi svolgono anche un ruolo fondamentale nell’elaborazione e nella validazione dei mezzi diagnostici. In molti casi i quesiti del futuro mezzo diagnostico vengono dedotti dal c. che si intende misurare (il metodo viene chiamato razionale) e successivamente lo stesso mezzo viene confrontato con il medesimo c. In tal modo viene verificata la cosiddetta validità di c. dello strumento. Lo strumento elaborato deve dimostrarsi pienamente conforme al c. perché ne possegga la validità; inoltre fra il c. e lo strumento si stabilisce una reciproca dipendenza ed un progressivo perfezionamento. Teglasi, Simcox e Kim (2007) notano che tra i mezzi diagnostici che rilevano lo stesso c. l’accordo è solo moderato ma non per questo non si debbano utilizzare in quanto è possibile stabilire quale strumento misura meglio il c.

4. I c. sono usati anche per descrivere la​​ ​​ personalità. George A. Kelly (1955) li ha adottati per la descrizione della personalità nell’ambito della sua teoria dei c. personali; per questo autore i c. sono delle strutture concettuali elaborate e utilizzate da singoli individui o da membri di un gruppo per descrivere e interpretare la realtà. La teoria è basata sul presupposto che ogni individuo cerca di esercitare il controllo sul suo ambiente. I c. di Kelly sono bipolari (onesto - disonesto) e applicabili ai vari elementi (oggetto di valutazione: persone o cose). La valutazione viene fatta per mezzo di una «griglia» (Boncori, 1993, 645); il metodo della valutazione e la sua validità sono stati esaminati ampiamente da Bannister e Mair (1968) con esito positivo. La teoria dei c. personali può essere di notevole aiuto, in quanto offre al terapeuta la possibilità di «capire punti di vista del suo cliente»; qualcosa di simile va detto per l’educatore e l’insegnante.

Bibliografia

Kelly G. A.,​​ The psychology of personal constructs,​​ New York, Norton, 1955; Bannister D.- J. M. Mair,​​ The evaluation of personal constructs,​​ London, Academic Press, 1968; Bandura A.,​​ Social foundation of thought and action: a social cognitive theory,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall,​​ 1986; Bailey K. P.,​​ Metodi della ricerca sociale,​​ Bologna, Il Mulino, 1991; Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1993;​​ Coolican H.,​​ Research methods and statistics in psychology,​​ London, Hodder and Stoughton,​​ 21994; Teglasi K. H. - A. G. Simcox - N. Y. Kim,​​ Personality constructs and measures, in «Psychology in the Schools» 44 (2007) 215-228.

K. Poláček




COSTUME

 

COSTUME

Modo diffuso di pensare ed agire collegabile alla tradizione culturale di un gruppo o di un’epoca storica.

1. L’etimologia (dal lat.​​ cons[ue]tumen​​ variante popolare del classico​​ consuetudo)​​ collega il termine a «consuetudine», «abitudine». In tal senso sta a significare l’insieme delle usanze, delle credenze, dei modi di essere e di agire che caratterizzano la vita sociale e la cultura di un gruppo, di un popolo, di una nazione, di una collettività in una data epoca (e al limite che caratterizzano un’epoca nella sua globalità). Dal punto di vista soggettivo, ciò si riflette nel modo abituale di agire, di comportarsi e di presentarsi di una persona, dovuto al temperamento personale o acquisito per esperienza, per educazione e per lunga consuetudine e compartecipazione ad un vissuto sociale. Per lo più il c. riveste un certo carattere etico, per cui viene ad essere anche sinonimo di condotta morale consueta di un individuo o di una collettività (come nelle espressioni «buon c.», «mal c.», «uomo o donna di buoni o di pessimi c.». In tal senso si può collegare al termine lat.​​ mores.​​ Un ambito particolare dei c. è dato dai c. educativi, vale a dire dai modi di pensare e promuovere, socialmente, la crescita e la buona qualità della vita personale, individuale e comunitaria, utilizzando modelli e pratiche formative socialmente approvate e tradizionalmente consolidate.

2. L’attenzione ai c. degli individui e dei popoli è antichissima, ma certamente dall’Illuminismo in poi (cfr. Montesquieu e in genere il mito del «buon selvaggio») ha assunto una rilevante portata critica nei confronti degli​​ ​​ stili di vita e dei modelli di sviluppo tradizionali, o comunque socialmente approvati nella civiltà occidentale. L’​​ ​​ antropologia culturale ne ha fatto un ambito peculiare di ricerca e di studio, ai cui inizi è senz’altro da porre la ricerca di W. G. Sumner (1906) che già nel titolo,​​ Folkways,​​ mette in luce come i c. diventino «vie», «cammini di vita» per gli individui e per la comunità. Il discostarsi dai c. rischia facilmente l’etichettamento di «deviante», di «strano», di «diverso», con conseguenze e riflessi, non sempre positivi, sull’esistenza personale e su quella di gruppo. Anzi, la violazione dei c. sociali, soprattutto in certe società fortemente difensive, può essere considerata come un attentato o perlomeno un pericolo alla pacifica convivenza, e pertanto severamente punita con pene di vario tipo: prigione, scomunica, esilio, censura, internamento in istituzioni manicomiali o in «gulag», o in campi di lavoro forzato, radiazione da cariche sociali; o quantomeno con forme varie di pubblico disprezzo. I c. assolvono infatti ad una funzione di integrazione e di conformità rassicurante, ed in tal senso sono sentiti come un fattore di coesione, di stabilità, di continuità e di benessere sociale e dal punto di vista soggettivo come un fattore di identità e di appartenenza comunitaria.

3. L’accelerazione del mutamento socioculturale e dell’innovazione scientifico-tecnologica, l’accresciuta complessità della convivenza sociale, la vasta tendenza alla concentrazione urbana della popolazione, il forte senso del pluralismo e della differenziazione sociale, l’incontro multiculturale apportato dal mercato globale e mondializzato, comportano oggi profonde trasformazioni del c., anche solo rispetto ad un recente passato, in tutti i campi e particolarmente in quello relazionale e sessuale. Il senso di stabilità «sacrale» e di obbligatorietà morale, che i c. tendono ad avere, vengono così ad essere messi in discussione. In più d’un caso vengono sostituiti o compensati dai valori e dalle indicazioni della moda, specie a seguito dell’incisivo influsso dei​​ ​​ mass media, televisione in particolare, ma anche del crescente utilizzo dei personal computer e delle reti di comunicazione a distanza. Ciò provoca spesso forme di difesa oltranzistica e fondamentalistica dei c. tradizionali; ma anche forme di culto folkloristico di essi.

4. La pratica educativa contemporanea favorisce la conoscenza e la rivisitazione critica del folklore e dei c. locali, nazionali, internazionali e mondiali, attribuendo a tale opera istruttiva valore antropologico e formativo in ordine al consolidamento dell’identità personale, culturale, sociale. A sua volta, la coscienza pedagogica contemporanea, a fronte della notevole ambivalenza dei c. sociali invita a bilanciare i possibili effetti perversi della loro trasmissione con l’introduzione di elementi innovativi e soprattutto con forme di coscientizzazione critica e stimolazione della creatività soggettiva.

5. Al limite si potrebbe dire che la coscientizzazione dei c. sociali in genere e di quelli educativi in particolare, la stimolazione della capacità di giudizio morale autonomo, il rafforzamento della libertà e della responsabilità individuale e comunitaria, fanno parte del c. pedagogico ed educativo contemporaneo: pur nel pluralismo delle giustificazioni e dei quadri di valore, e pur nelle incertezze e diversificazioni delle strategie operative.

Bibliografia

Sumner W. G.,​​ C. di gruppo,​​ Milano, Comunità, 1966 (orig.:​​ Folkways,​​ New Haven, Yale University Press, 1906); Olson M.,​​ La logica dell’azione collettiva,​​ Milano, Feltrinelli, 1983; Callari Galli M.,​​ Antropologia culturale e processi educativi,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; Sorcinelli P. (Ed.),​​ Identikit del Novecento: conflitti,​​ trasformazioni sociali,​​ stili di vita, Roma, Donzelli, 2004; Botta G. (Ed.),​​ Tradizioni e modernità. Saperi che ci appartengono, Torino, Giappichelli, 2007.

C. Nanni




COUNSELLING

 

COUNSELLING

C. proviene dall’ingl.​​ to counsell, in it.​​ consigliare​​ ed​​ è un termine che si utilizza nella lingua originale poiché è di difficile trad. a causa della complessità del mestiere e delle competenze significate. In Inghilterra, lo si scrive con due «l», negli USA con una.

1.​​ Natura.​​ Il c. è una relazione d’aiuto tra un​​ counsellor​​ e un utente in un processo pedagogico di breve durata con la finalità di sviluppare le potenzialità per la prevenzione-superamento di situazioni di disagio (a livello emozionale, sociale, educativo, culturale, valoriale, esistenziale, religioso, morale, vocazionale) che non comportino una ristrutturazione personale profonda con il ricorso alle tecniche del confronto intrapsichico e / o interpersonale. Il c. ha come oggetto proprio la conoscenza delle dinamiche personali, i problemi, le decisioni e le crisi personali o relazionali. Le sue finalità sono: assicurare all’utente uno spazio per riflettere; abilitarlo o riabilitarlo di fronte al problema; arricchire i suoi significati; scoprire nuove alternative per la sua vita personale, interpersonale, culturale e interculturale; sviluppare le risorse per una migliore qualità di vita personale e / o comune. Il c. si distingue da altre relazioni d’aiuto, specialmente dalla psicoterapia, caratterizzandosi come servizio a soggetti «sani». Questa nota specifica rende valido il c. per chi, facendo fatica ad andare dallo «psicologo» per non sentirsi «malato», può confidarsi con un​​ counsellor​​ come «bisognoso di ascolto» e non come «paziente». Il ruolo del​​ counsellor​​ è intermedio tra l’amico del cuore (non sempre disponibile) e lo psicologo (non sempre necessario).

2.​​ Il processo.​​ Il c.​​ è un processo intenzionale svolto in successivi colloqui che riassumono in sé lo spirito dell’intero percorso con il contributo di varie competenze specifiche. Dal​​ counsellor​​ si richiede una preparazione remota e immediata che privilegia l’accoglienza non giudicante e libera dall’ansia che il soggetto ispira. Nei suoi atteggiamenti egli dovrebbe andare dalla chiusura all’apertura, dal rifiuto all’accoglienza, dalla superiorità alla reciprocità, dal giudizio all’accettazione, dall’improvvisazione alla previsione, dalle incoerenze alla congruenza, dall’indifferenza all’empatia e al coinvolgimento. Da parte dell’utente, è necessaria l’identificazione delle motivazioni «vere» e della condizione di partenza riguardo al c. (accettazione o rifiuto, ammirazione o disprezzo, apertura o riluttanza, scelta personale o costrizione esterna). Il​​ counsellor,​​ dunque,​​ conduce il soggetto al maggior livello di coinvolgimento possibile attraverso una relazione fiduciosa costruita con domande di senso, rilettura del passato e rielaborazione della progettualità vissuta ma non sempre riflessa. Nella prima fase il​​ counsellor​​ deve facilitare la creazione di un’alleanza per la ricerca della verità. Poi egli rileva i dati essenziali dell’utente, l’interazione iniziale, il problema e i tentativi di soluzione nei termini del soggetto, le sue risorse e l’impressione generale. È importante l’osservazione degli elementi verbali e non verbali (sguardo, sorriso, mimica, tono di voce) e la gestione della distanza e del movimento. Si devono determinare gli obiettivi dell’intervento in forma provvisoria, finché non si raggiunge una conoscenza migliore grazie all’intervento empatico. Infine, si devono comunicare le regole del c., normalmente espresse in un contratto. La seconda fase cerca l’identità personale e i nodi del problema. Nella terza fase si precisano gli obiettivi in termini positivi e verificabili e si progetta il cambiamento. La quarta fase consiste nell’applicazione responsabile del progetto. La verifica dei cambiamenti, quinta fase, chiude il processo; si devono analizzare anche il ritmo imposto e le strategie usate e si devono segnalare gli elementi positivi anche quando il soggetto abbia una visione pessimista di sé. Strumento essenziale del c. è l’ascolto attivo-riflessivo caratterizzato dall’attenzione al soggetto e dall’eliminazione degli ostacoli di ogni tipo. L’ascolto suppone anche la decodificazione dei messaggi e l’eliminazione degli atteggiamenti non facilitanti il​​ ​​ dialogo (valutazione, investigazione, sostegno consolatorio, facile soluzione e interpretazione), e l’assunzione dell’empatia, atteggiamento centrale del mestiere che si traduce nella riformulazione del messaggio, e si sostiene con l’incoraggiamento, il rispetto, la valorizzazione del positivo, la concretezza, l’immediatezza e l’autenticità, frutto dell’autoconsapevolezza e autorivelazione misurata del​​ counsellor. Servono anche le domande di delucidazione per l’esplorazione, il riassunto, la focalizzazione e una comunicazione diretta. Il​​ feed-back​​ deve essere descrittivo e non critico, specifico e non generico, sul comportamento e non sulla persona, responsabilizzante e non direttivo. Manifestazione avanzata dell’empatia sono la segnalazione delle incoerenze e dei punti di forza del soggetto e la misura del suo cambiamento. L’intervento applica anche tecniche di influenzamento (informazioni e consigli) come frutto dell’analisi realizzata insieme. Principi etici del c. sono il rispetto del segreto e della​​ privacy, il dominio delle competenze specifiche, la formazione permanente e la disponibilità alla supervisione, il rispetto dei confini della propria professionalità e dei valori dei suoi referenti.

3.​​ Diversi tipi di c.​​ Il c. può essere individuale o di gruppo, familiare o comunitario, e nei differenti contesti in cui si realizza richiede competenze specifiche. Perciò abbiamo diversi tipi di c.: scolastico, lavorativo, aziendale, sanitario, sportivo, filosofico, spirituale, pastorale e vocazionale. Secondo gli strumenti utilizzati abbiamo un c. telefonico o telematico. Secondo la scuola psicologica di riferimento, esistono altri tipi di c.: psicodinamico, cognitivo-comportamentale, umanistico-esistenziale, o secondo un modello integrato.

4.​​ Cenni storici. Il c. inizia con la rivoluzione industriale (1800) nel mondo anglosassone nel settore dell’educazione con programmi di orientamento scolastico e universitario. Nel 1913, nasce la​​ National Vocational Guidance Association, ma più avanti C. Rogers e la psicologia umanistica saranno i veri catalizzatori del c. Più tardi il c. sarà applicato alla riabilitazione, al lavoro, alla salute mentale e al settore militare. In Europa il c. si espande in Inghilterra, come servizio di orientamento pedagogico e di supporto socio-sanitario fatto dagli psicologi. A livello europeo sorgono la​​ British Association for C.​​ (1976) e l’European Association for C.​​ (1994). In Italia sorge la prima scuola femminile di «assistenti sociali» (1929) che facilita l’approccio personale ai problemi dell’ambiente e con il contributo di O. Vallin (1960) venuto dalla Francia prende slancio l’idea della «prevenzione». Tra gli autori italiani risaltano: L. Cian, fondatore del COSPES a Genova (1971); M. Danon, che considera il c. «una professione per il terzo millennio» e ne descrive lo stato attuale; E. Giusti, precursore del​​ Gestalt​​ c., che applica i suoi principi al​​ coaching; A. Di Fabio che inizia all’arte del c. Le scuole esistenti offrono diplomi di tre livelli secondo gli​​ standard​​ dell’Associazione Europea di C.​​ Negli anni ’90 sono sorte varie associazioni che favoriscono la ricerca sul c.​​ e si è creato il​​ Registro Italiano dei Counsellor​​ (2002). La​​ Società Italiana di C.​​ (1993)​​ e il​​ Coordinamento Nazionale dei Counsellor Professionisti​​ (2002) accreditano formazione teorica e pratica e con il​​ Coordinamento Libere Associazioni Professionali, sono impegnati con il​​ Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro​​ per regolamentare il c. L’UE però richiede che le professioni con contenuti analoghi a ordini già esistenti siano regolamentate in rapporto a tali ordini e, avendo il c. consistenti connotazioni psicologiche, ancora non è stato oggetto di normative specifiche.

Bibliografia

Mucchielli R.,​​ Apprendere il c., Trento, Erickson, 1987 / 1997; Carkhuff R.,​​ L’arte di aiutare, Ibid., 1989 / 2004; Rosenthal H.,​​ Encyclopedia of c.,​​ New York-London, Brunner-Routledge, 2002; Danon M.,​​ C., Novara, Red, 2003; Di Fabio A.,​​ C. e relazione d’aiuto, Firenze, Giunti, 2003; Ivey A. - M. Ivey,​​ Il colloquio intenzionale e il c., Roma, LAS, 2004.

M. Llanos