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COMUNITÀ TERAPEUTICHE

 

COMUNITÀ TERAPEUTICHE

In ambito clinico il concetto è introdotto e sperimentato, a partire dagli anni ’40, da Bion, Main Jones, quale metodo innovativo e rivoluzionario nei confronti della struttura ospedaliera classica. In Italia ha inizialmente larga diffusione nel campo delle tossicodipendenze. Per c.t. si intende un gruppo di persone riunite con il proposito di aiutarsi reciprocamente nel realizzare l’obiettivo comune di cura, risocializzazione e riabilitazione.

1. L’idea centrale, basata sull’assunto metodologico dell’apprendimento sociale e dell’auto-aiuto, è di utilizzare le risorse – strutturali, tecniche, personali – esistenti nell’ambiente di cura come leva di trasformazione dei comportamenti sociali e adattivi del soggetto. Questo implica la collaborazione attiva del residente al proprio ed altrui processo di cambiamento. Il processo decisionale è democratico e la struttura è tendenzialmente egualitaria. Le qualità personali degli operatori e dei residenti hanno lo stesso valore esperienziale delle specifiche competenze specialistiche.

2. La responsabilizzazione, la dignità e la fiducia sostituiscono i controlli eccessivi e le restrizioni. Il sistema di comunicazione interno mira a fornire continuamente il confronto e l’interpretazione del comportamento del residente per come viene percepito dagli altri. Questo processo di capacitazione cognitiva è assunto sia dagli operatori che dagli altri residenti. Il centro della dinamica trasformativa è quindi costituito dalle relazioni interpersonali vissute ed elaborate all’interno della struttura. L’ambiente sociale, che di per se stesso assume la valenza terapeutica, promuove l’acquisizione della capacità di autoaccettazione e di comunicazione interiore come parte della realizzazione di sé e allarga le modalità del funzionamento anche nei contesti interpersonali e intersistemici esterni.

Bibliografia

Main T.,​​ La c.t. e altri saggi psicoanalitici, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992; Pisanu N., «La ri-educazione del sociale nelle dipendenze», in T. Albano. - L. Gulimanoska (Edd.),​​ In-dipendenza: un percorso verso l’autonomia, vol. II, Milano, Angeli, 2007.

R. Fiore




CONCETTO

 

CONCETTO

Lo studio dei c. ha trovato largo spazio soprattutto nell’ambito della filosofia. L’interesse per l’argomento solo di recente è emerso nel settore della ricerca psicologica sperimentale, che ha inteso indagare come i c. si formino, come vengano utilizzati e da quali elementi siano definiti. L’argomento può anche essere individuato sotto altre voci come rappresentazione concettuale, classificazione o induzione. In ogni caso quando si parla di c., in genere ci si riferisce al significato o a quello che noi sappiamo di qualche cosa sia essa una parola o un oggetto / animale / persona. Sebbene sia ancora recente, la ricerca in questo campo è stata molto intensa e ha dato origine a diversi modelli interpretativi. Descriveremo questi modelli seguendo il loro sviluppo storico.

1.​​ Dal c. classico all’interpretazione probabilistica,​​ fino al modello degli esemplari conosciuti.​​ Il punto di vista «classico» ritiene che un c. descriva la somma delle proprietà o delle caratteristiche necessarie e sufficienti per definire una categoria di esemplari e che quindi si possa dire che ogni elemento appartiene ad esso se possiede tali caratteristiche. A partire dall’inizio degli anni ’70, questa visione è stata sottoposta ad una severa critica, sia teorica che sperimentale, da diversi studiosi. L’analisi teorica ha sottolineato che questa impostazione utilizza solo proprietà strutturali, trascurando quelle funzionali (fondamentali per molti c.), non si presta a poter definire c. con caratteristiche tali da farli appartenere anche ad altri c., non è utile nella definizione di c. non evidenti, siano essi comuni o scientifici (ad es., molti scienziati sono incerti se l’«Euglena» sia un animale o un vegetale o «il virus» sia un essere vivente o no). Anche prove sperimentali hanno messo in dubbio l’impostazione classica. Le ricerche sperimentali iniziali sembravano far pensare che non tutti gli esemplari di un c. posseggono allo stesso modo le caratteristiche definitorie necessarie e sufficienti come invece assumeva la posizione classica. Nel decidere se qualcosa apparteneva o no ad un c. fu rilevato un effetto di tipicità che ha ricevuto una precisa definizione da vari studiosi. Su tale effetto si basa il modello indicato come «modello del prototipo»: un c. è descrivibile come un elenco ponderato di caratteristiche più o meno probabili. I risultati sperimentali lasciavano pensare che nella decisione di attribuire un esemplare ad un c., i soggetti operavano un confronto fra le caratteristiche che tipicamente definivano una categoria o un c. e le caratteristiche percepite nell’esemplare in questione. Gli studiosi chiamarono​​ «family resemblance measure»​​ (misura della somiglianza categoriale) la frequenza delle proprietà che un esemplare condivide con altri della sua categoria. Questa misura cresce quanto più un esemplare condivide le caratteristiche che lo definiscono con altri della stessa categoria, mentre diminuisce quanto più le condivide con esemplari appartenenti ad un’altra. Il modello per caratteristiche semantiche prototipiche è stato radicalizzato e ulteriormente modificato con quello detto per «esemplari conosciuti». Un c. non sarebbe definito in base alle proprietà possedute, ma dagli esemplari di cui si è avuta esperienza. L’appartenenza di un singolo caso ad una categoria è determinata dal fatto che esso è sufficientemente simile a uno o a più esemplari conosciuti. Tanto la posizione che descrive i c. come un elenco ponderato di caratteristiche (punto di vista probabilistico), quanto quella con riferimento ad esemplari conosciuti (punto di vista esemplare) sono state soggette ad un’attenta analisi, verifica e critica negli anni recenti. Anzitutto, il punto di vista probabilistico non sembra tenere nella dovuta considerazione il contesto. In secondo luogo, non assegna grande importanza alle «dimensioni» dell’oggetto, mentre ciò per alcuni casi può essere determinante. Inoltre, ha il limite grave di non sottolineare l’interdipendenza delle caratteristiche con cui un c. viene definito. Infine, si potrebbe ritenere che la definizione di un c. secondo un elenco di caratteristiche prototipiche, possa condizionare le modalità del suo apprendimento e cioè che una persona possa trovare più facile imparare categorie o c. che sono chiaramente distinguibili piuttosto che quelli che non lo sono. Tuttavia, è giusto ricordare che studi successivi non sono riusciti a provare tale relazione. Da ultimo, tutti i modelli che ricorrono alla definizione per caratteristiche non dicono nulla sulle costrizioni che tali scelte hanno o dovrebbero avere. Rispetto al modello del prototipo, il modello degli esemplari conosciuti è più sensibile a riconoscere una correlazione fra caratteristiche, tende meno facilmente ad eliminare caratteristiche non appartenenti ad un c. e non trascura l’importanza del contesto o della variabilità dei casi. Tuttavia è assai facile che esso ricada nel modello prototipico assumendo un esemplare come termine di paragone per qualsiasi caso.

2.​​ Dai c. definiti per caratteristiche ai c. organizzati dalle teorie.​​ Ricerche più recenti hanno rilevato che la dimensione «similarità» non è adeguata ad assimilare un esemplare ad un c. o categoria. Questo nuovo punto di vista sostiene che un c. è l’organizzazione di una conoscenza derivante da una teoria (o «paradigma») che il soggetto utilizza nei riguardi del mondo. In altri termini, riconoscere qualcosa come un esemplare di un certo c., non dipende tanto dalla similarità fra caratteristiche dell’esemplare e caratteristiche definienti un c., quanto dal fatto che il caso trova corretta ragione esplicativa in una teoria che definisce il c. Facciamo un esempio. Se chiediamo ad una persona comune di descriverci che cosa è la «vita», ella ci darà certamente una definizione diversa da quella che ci fornirà un medico, un filosofo oppure un bambino di nove anni. Questo modo di vedere sembra molto interessante in quanto chiarisce perché i c. possono essere particolarmente adattabili. Elementi diversissimi potrebbero essere assimilabili ad uno stesso c. Le teorie ci permettono di individuare quali caratteristiche utilizzare per definire qualche cosa, di capire la relazione che stabiliamo tra c. Il fatto che noi assimiliamo cose diverse ad uno stesso c., trascurando il confronto di similarità fra caratteristiche, è stato confermato in recenti ricerche sull’evoluzione del modo di categorizzare dei bambini. Sebbene sembri più soddisfacente e promettente degli altri, questo approccio lascia ancora molti problemi aperti; per es.: Come si sviluppano i c.? Come si stabiliscono relazioni tra c.? Come avviene la costruzione di nuovi c. da altri utilizzati come elementi semplici? Molti c. non sono costruiti in astratto, ma sono profondamente radicati nel contesto sociale: come questi oggetti o eventi sono concettualizzati e utilizzati? La ricerca contemporanea tenta di fornire una risposta a questi interrogativi.

Bibliografia

Smith E. E. - D. L. Medin,​​ Categories and​​ concepts,​​ Cambridge,​​ Harvard​​ University Press, 1981; Carey S.,​​ Conceptual change in childhood,​​ Cambridge, MIT Press, 1985; Murphy G. L. - D. L. Medin,​​ The role of theories in conceptual coherence,​​ in «Psychological Review» 92 (1985) 289-316; Medin D. L. - A. Ortony, «Psychological essentialism», in S. Vosnadiou - A. Ortony (Edd.),​​ Similarity and analogical reasoning,​​ New York, Cambridge University Press, 1989, 179-195; Ross B. H. - T. L. Spalding, «Concepts and categories», in R. Sternberg (Ed.),​​ Thinking and problem solving,​​ Orlando, Academic Press, 1994, 119-148.

M. Comoglio




CONCETTO DI SÉ

 

CONCETTO DI SÉ

Il c.d.s. è una delle componenti fondamentali nelle teorie della​​ ​​ personalità e nell’educazione rappresenta uno degli obiettivi importanti della formazione umana.

1.​​ Descrizione.​​ Il c.d.s. consiste in una configurazione complessa di convinzioni, opinioni e atteggiamenti su se stessi e sulle informazioni provenienti da terzi e costituisce la struttura di base della personalità con i suoi attributi cognitivi e motivazionali. Esso può essere considerato anche come un contenitore del vissuto cosciente nel tempo. Lo schema iniziale del sé che si forma nell’infanzia facilita la classificazione delle esperienze individuali e delle informazioni provenienti dal di fuori del soggetto per essere assimilate e integrate in una struttura personale. L’assimilazione progressiva dei dati che si riferiscono al sé di un soggetto forma la sua continuità psichica. Il sé globalmente considerato viene distinto in sé esistenziale (io) e in sé categoriale (me). Nel suo primo aspetto il sé è il soggetto di tutti gli attributi e processi, nel secondo ne è l’oggetto (azione dell’io). Nel sé globale vengono distinti ancora altri due aspetti: strutturale e valutativo. Il primo aspetto si riferisce alla percezione globale o settoriale del sé, il secondo riguarda l’apprezzamento dei contenuti della struttura come tale nel suo esito positivo o negativo rappresentata dalla​​ ​​ stima di sé.

2.​​ Struttura.​​ Il c.d.s. globale viene articolato in aree in cui si realizza. Nell’età scolastica il c.d.s. viene suddiviso in due grandi aree: scolastica e non scolastica. La prima si suddivide a sua volta in singole discipline, mentre la seconda comprende la sottoarea fisica, sociale, familiare, personale ed altre ancora; nell’età adulta a tali aree si aggiunge quella professionale. Il c.d.s. viene articolato, anche in rapporto alla sua corrispondenza con la realtà, in sé reale e in sé ideale. Il sé reale consiste nell’adeguatezza della percezione individuale alla realtà, mentre il sé ideale si riferisce alle aspirazioni del soggetto. Il c.d.s. assume delle strutture differenti secondo il sesso, la razza, la classe sociale e l’età dei soggetti, ed in base a tali variabili può realizzarsi in gradi differenti dalla massima positività alla massima negatività (Hattie, 1992). Shapka e Keating (2005), notano che nell’adolescenza varie aree del c.d.s. incominciano a declinare, particolarmente quella scolastica a causa dei nuovi rapporti che si instaurano con il passaggio da livelli di scolarità meno impegnativi a quelli più impegnativi. Gli autori notano anche che l’andamento della curva del c.d.s. dalla preadolescenza alla giovane età assume la forma della lettera​​ U.

3.​​ Formazione.​​ Il c.d.s. incomincia a formarsi in tenerissima età e si delinea con una certa chiarezza quando il soggetto è in grado di distinguere sufficientemente tra il sé fisico e il sé reale e incomincia ad interagire responsabilmente con i terzi. Nella formazione del c.d.s. intervengono quattro fattori: a) linguaggio: tutto quello che si riferisce alla personalità aiuta il soggetto a classificare e ad organizzare le sue esperienze; b) esito della sua attività: successo o insuccesso; c) giudizio delle persone significative sul suo modo di essere e di agire; d) identificazione del soggetto con i modelli ordinari (genitori, insegnanti) e straordinari (eroi): in tal modo egli assimila i valori dell’essere e del comportarsi. Anche la differenziazione del c.d.s. inizia presto: verso l’ottavo anno di vita i soggetti riescono a distinguere tra il proprio sé scolastico, sportivo, fisico e sociale. La distinzione tra sé reale e sé ideale, secondo Oosterwegel e Oppenheimer (1993) risulta sufficientemente chiara al sesto anno di vita. Il sé fisico svolge un ruolo importante nella formazione del c.d.s. in quanto i primi messaggi che giungono al soggetto sono basati sulla sua prestanza fisica; in relazione al suo schema corporeo egli può prevedere se sarà accettato o meno dagli altri e trarne le conseguenze. Nell’adolescenza, a causa delle notevoli trasformazioni fisiche le ragazze in particolare sperimentano l’incertezza del proprio valore personale e analogamente nella vecchiaia il c.d.s. viene assai modificato. La formazione del c.d.s. non avviene senza incertezze e conflitti. Le informazioni provenienti da terzi vengono selezionate, adattate, distorte prima di essere assimilate o integrate nel sé e il soggetto usa i più svariati meccanismi per proteggere il suo c.d.s. dalla svalutazione (​​ autoillusione). Il c.d.s. non realistico, poco strutturato, poco integrato e poco consistente espone il soggetto al rischio di «vulnerabilità». In base ai nuovi dati e in base al cambiamento dell’ambiente sociale e culturale le strutture acquisite vengono sottoposte a revisioni anche nell’età adulta (trasformazione dei ruoli) per cui i soggetti che non sono in grado di operare adeguate trasformazioni rischiano il disadattamento e il deperimento psichico. Questi rischi possono essere evitati se il soggetto ha la fortuna di vivere in una famiglia nella quale il livello di conflittualità è basso, la comunicazione è molto valida e l’espressione dei sentimenti è spontanea. Questo favorisce la formazione del c.d.s. del figlio come risulta dalla ricerca di Mestre, Samper e Pérez-Delgado (2001) condotta sugli studenti della scuola secondaria di II grado.

4.​​ Rapporto con alcune variabili.​​ Il c.d.s. è stato messo in rapporto con le variabili anagrafiche (sesso, livello socioeconomico), con alcune variabili familiari (clima e struttura della​​ ​​ famiglia) e con qualche costrutto (​​ locus of control)​​ (Hattie, 1992). È stato esaminato anche il rapporto tra c.d.s. e​​ ​​ autoefficacia determinandone somiglianze e differenze (Bong e Clark, 1999). Particolarmente importante è il rapporto del c.d.s. con il rendimento scolastico (Hattie, 1992). Tale rapporto è determinato da alcune variabili come il livello di scolarità e quello socioeconomico, le abilità e le materie scolastiche. Molto dibattuta è la questione se il c.d.s. positivo sia dovuto a un buon rendimento oppure se porti a un buon rendimento scolastico. Non vi è dubbio che tra le due variabili esiste una mutua dipendenza e la preponderanza di una variabile sull’altra dipende anche dal modo in cui viene gestito l’apprendimento da parte dell’insegnante; in tale rapporto interviene anche lo​​ ​​ stile di apprendimento dell’alunno stesso. Secondo Hattie (1992) gli alunni con uno stile versatile e con apprendimento profondo (opposto a quello superficiale) posseggono un c.d.s. alto.

5.​​ Misurazione.​​ Il c.d.s. viene rilevato prevalentemente tramite questionari (Hattie, 1992), ma esistono anche​​ ​​ scale di valutazione destinate agli insegnanti per misurare il c.d.s. degli alunni. Il limite di tali scale consiste nel fatto che non possono cogliere il vissuto del soggetto, ma soltanto gli aspetti del sé che emergono dal comportamento. Tra i dati rilevati con le due modalità (auto- ed etero-rilevazione) esiste solo un moderato rapporto.

6.​​ Potenziamento.​​ In base ad una metaanalisi di 89 studi Hattie (1992) sostiene che è possibile potenziare il c.d.s., ma l’effetto globale è modesto in quanto il miglioramento complessivo non supera il 10%. L’effetto migliore dell’intervento è stato ottenuto sull’autoaccettazione, seguito dall’aumento della stima di sé, mentre un effetto meno consistente si è verificato in relazione al sé familiare. L’intervento terapeutico basato sui processi cognitivi ha avuto un effetto maggiore di quello basato sui processi affettivi, ed è stato superiore sugli adulti che sui bambini e adolescenti: gli adulti in effetti sono più capaci di capire la propria situazione e di cambiarla. Gli psicologi, in confronto agli insegnanti ottengono risultati migliori in virtù della loro maggiore competenza. Infine, gli interventi collettivi condotti nelle singole scuole, sotto forma di campagna promozionale del sé, si sono rivelati quasi del tutto inefficaci.

7.​​ Utilizzazione.​​ Il c.d.s. positivo è un fattore fondamentale nell’adattamento personale e sociale di ogni individuo, è un valido presupposto per comportarsi secondo le aspettative sociali ed in tal senso può costituire un argine alla​​ ​​ devianza. Infatti un iniziale comportamento deviante porta ad una riorganizzazione del c.d.s. e all’assunzione di un nuovo ruolo (del fallito). Il costrutto rappresenta un’importante finalità dell’educazione in quanto in base ad un c.d.s. ben formato il soggetto può interagire efficacemente con il suo ambiente e, per mezzo delle positive valutazioni di terzi, potenziarlo insieme con la stima di sé. Oltre a contribuire all’apprendimento scolastico esso assume notevole importanza nella maturazione professionale dei giovani ed in particolare trova la sua collocazione nella teoria di D. Super che considera il c.d.s. un fattore importante della maturazione professionale e nello stesso tempo una realtà da potenziare da parte dell’educatore in vista della futura attività lavorativa.

Bibliografia

Poláček K.,​​ C.d.s.: descrizione e applicazioni,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 29 (1982) 629-637;​​ Hattie J.,​​ Self-concept,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1992; Oosterwegel A. - L. Oppenheimer,​​ The self-system: developmental changes between and within self-concepts, Ibid., 1993; Bong M. - R. E. Clark,​​ Comparison between self-concept and self-efficacy in academic motivation research, in «Educational Psychologist» 34 (1999) 139-153;​​ Mestre V. - P. Samper - E. Pérez-Delgado,​​ Clima familiar y desarrollo del autoconcepto. Un estudio longitudinal en población adolescente,​​ in «Revista Latinoamericana de Psicología» 33 (2001) 243-259;​​ Shapka J. D. - D. Keating,​​ Structure and change in self-concept during adolescence,​​ in​​ «Canadian Journal of Behavioural Science»​​ 37 (2005) 83-96.

K. Poláček




CONDIZIONAMENTO

 

CONDIZIONAMENTO

Il termine c. ha un significato generico ed uno tecnico, specifico; come termine generico significa qualunque influsso esercitato da fattori esteriori o interiori su un data condotta; come termine specifico si riferisce al processo e al risultato di un determinato tipo di apprendimento, detto appunto c., che, come appare nella voce​​ ​​ apprendimento, può essere il c. classico che si richiama alle ricerche di Pavlov, o il c. operante, come è stato definito da​​ ​​ Skinner.

1. Anche la persona umana può essere soggetta ad un c. classico: basta che uno stimolo di per sé indifferente sia regolarmente associato ad una situazione soddisfacente o negativa, perché tale stimolo giunga automaticamente ad avviare uno stato emotivo, senza l’intervento di fattori personali coscienti. Quanto al c. operante, e cioè l’acquisizione di nuove disposizioni e capacità in grazia di ricompensa o castigo, è chiaro che esso viene ampiamente adoperato in educazione e nel contatto sociale.

2. Il significato educativo del c. è ambivalente: come processo di acquisizione di abitudini, assume anche il pregio di queste, cioè quello di facilitare condotte utili, rendendole immediate e scorrevoli; non si può tuttavia condividere senza riserve la concezione di Skinner, secondo cui l’educazione sarebbe tutta questione di un c. ben guidato, fino all’automatizzazione delle condotte desiderabili: nell’uomo si deve riconoscere un’ulteriore istanza di controllo, che può assumere le abitudini per realizzare intenzioni generali.

Bibliografia

Visalberghi A. (Ed.),​​ Educazione e c. sociale,​​ Bari, Laterza, 1964; Corsini M. - M. Famiglietti,​​ Scuola media e c. sociale,​​ Roma, Ministero della PI, 1967; Skinner B. F.,​​ Walden Due. Utopia​​ per una nuova società,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995.

A. Ronco




CONDIZIONAMENTO SOCIALE

 

CONDIZIONAMENTO SOCIALE

È anzitutto necessario chiarire quale possa essere un approccio corretto all’espressione c.s. Solitamente c. è collegato ad​​ ​​ apprendimento e indica le modalità che intervengono per l’acquisizione di comportamenti. L’aggiunta dell’aggettivo «sociale» ed il riferimento all’ambito della riflessione sociopedagogica, fanno sì che si debba chiamare in causa il processo di socializzazione che generalmente accompagna l’apprendimento dei comportamenti sociali. Ma parlare di c. in riferimento al processo di socializzazione è improprio; sarebbe più esatto parlare di adattamento. Un vero e proprio c.s., invece, si verifica nel caso in cui una struttura di potere reprima le opportunità individuali, o una struttura culturale troppo rigida e legata al passato impedisca forme di innovazione o, ancora, se l’ambiente fisico renda problematica la sopravvivenza. In situazioni normali, nelle quali non incorrano questi fattori, se si usa l’espressione c.s., bisogna assumerla come un processo propositivo.

1. La persona è sociale per sua natura e non può esistere che «situata», inserita cioè in una realtà sociale, culturale e ambientale determinata, che aiuta l’individuo a sviluppare le sue potenzialità sociali naturali. La Persona viene gradualmente permeata dalla​​ ​​ società che, attraverso il suo sistema culturale, fornisce soluzioni già sperimentate ai problemi della vita e mediante le reti di relazioni personali e istituzionali sviluppa atteggiamenti e comportamenti legati ai diversi ruoli sociali. Tutto questo avviene secondo modalità costrittive, perché si risponda fedelmente alle attese legate al ruolo e allo status di ciascuno. La società, tuttavia, non è soltanto qualcosa di esteriore alla persona e le pressioni o i controlli che esercita non possono essere intesi in senso esclusivamente costrittivo. La società diventa anche qualcosa di interiore che penetra nel profondo delle persone e ne modella l’identità; non si è solo costretti alla sottomissione, si è anche attratti dagli obiettivi e dagli ideali che la società propone. Nell’esperienza sociale si sperimentano situazioni gratificanti e si scopre che il vivere sociale è connaturale alle nostre esigenze e capace di soddisfare i nostri bisogni. Il c.s. deve quindi essere inteso come una condizione necessaria per lo sviluppo positivo delle potenzialità e per far conseguire delle abitudini e degli atteggiamenti che orientino e rendano abbastanza sicuri i comportamenti.

2. Fatte queste precisazioni concettuali di base, non si possono tacere altri orizzonti di lettura del c.s. che inquina attualmente il processo educativo e la vita sociale delle persone. Il sistema educativo formale è sempre più condizionato dalla logica del mercato e si struttura in funzione del mercato e non tanto come diritto al senso e costruzione di senso. La vita umana, inoltre, nella sua fase di diffusione globale, priva un numero sempre crescente di esseri umani di «modi e mezzi, finora sufficienti, di sopravvivenza», accrescendo sempre più la produzione di «rifiuti umani» di «vite di scarto», come dice Bauman.

Bibliografia

Allport G. W.,​​ Psicologia della personalità,​​ Zürich, PAS-Verlag, 1969; Fichter J. H.,​​ Sociologia,​​ strutture e funzioni sociali,​​ Roma, Onarmo,​​ 31969; Berger P. L.,​​ Invitation to sociology. A humanistic perspective,​​ New York, Anchor Books, 1972; Balbo L. et al.,​​ Complessità sociale e identità,​​ Milano, Angeli, 1983; Bauman Z.,​​ Vite di scarto, Bari, Laterza, 2005.

V. Orlando




CONDORCET Jean-Antoine-Nicolas

 

CONDORCET Jean-Antoine-Nicolas

n. a Ribemont nel 1743 - m. a Bourg-la-Reine nel 1794, matematico e sociologo francese.

1. Si formò con i gesuiti nel collegio di Navarra. Entrò nell’Accademia delle Scienze di Parigi, della quale fu segretario perpetuo, nel 1769; partecipò all’Assemblea Legislativa e alla Convenzione Nazionale. Accusato dai giacobini, fu tradotto in carcere, dove morì il giorno dopo. La sua formazione matematica e il suo interesse per la dinamica sociale lo portarono ad applicare i metodi scientifici alle scienze sociali. La sua opera più nota è​​ Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain,​​ pubblicata postuma nel 1795. All’avvento della Rivoluzione francese, C., come molti altri intellettuali della sua generazione, partecipò attivamente alla discussione dei progetti e dei piani educativi necessari nella nuova società. Scrisse cinque memorie su questo tema e presentò all’Assemblea Legislativa un​​ Rapport sur l’Instruction publique​​ (1792), distante nella sua strutturazione sia dai conservatori che dai radicali.

2. Partendo dalle idee di Talleyrand, difende il principio secondo il quale senza educazione la libertà e la legalità saranno pure chimere. I popoli che giungono alla libertà nell’ignoranza, sono minacciati dal dispotismo e dall’anarchia. C. evita di cadere nell’utopia di un’istruzione pubblica identica in grado di livellare tutti i cittadini. Difende la necessità che il più povero e il più umile acceda ad un’educazione che gli consenta di essere indipendente e di agire di propria iniziativa. Un’istruzione liberale dovrebbe, secondo C., rispettare scrupolosamente la diversità di opinioni e dedicarsi a trasmettere nell’insegnamento le conoscenze positive della verità, lasciando ai genitori la scelta del tipo di​​ ​​ educazione morale e religiosa che desiderano per i propri figli.

3. L’obbligo primario dello Stato sarà quello di assicurare l’emancipazione intellettuale e morale del fanciullo ed il libero sviluppo delle sue facoltà; non sarà lo Stato a decidere i principi filosofici, morali e politici che debbono essere inculcati ai cittadini. Il suo dovere non consiste nell’influenzare la coscienza infantile, bensì nel metterla in condizione di conoscere tutte le idee e le opinioni per poter scegliere tra di esse.

4. La formazione religiosa sarà riservata alla​​ ​​ famiglia. Nella scuola si insegneranno solo le leggi costituzionali comuni a tutti i cittadini e si impartirà la medesima educazione a tutti gratuitamente per i primi quattro anni. Alcune delle idee moderate di C. influenzarono le riforme educative del sec. XIX.

Bibliografia

Vial F.,​​ C.​​ et l’éducation démocratique,​​ Paris, Delaplane, 1902; Cahen C.,​​ C. et la Révolution française,​​ Paris, Alcan, 1904; Kintzler C.,​​ C.,​​ Linstruction publique et la naissance du citoyen,​​ Paris, Le Sycomore,​​ 1984;​​ Ortiz J. M.,​​ C.,​​ un alumno de Navarra: el último ilustrado, Pamplona, Serv. de Publ. Universidad de Navarra, 1991.

B. Delgado




CONFLITTO

 

CONFLITTO

La persona sperimenta il c. quando è motivata ad attuare due o più attività che si escludono vicendevolmente. Si tratta pertanto di situazioni nelle quali si vorrebbero attuare simultaneamente comportamenti incompatibili come avvicinarsi ad una persona e distanziarsi da essa, parlare schiettamente e trattenersi dall’esprimersi per paura di offendere, intrattenere il pensiero che i criminali meritano compassione e pensare che dovrebbero essere mandati su un’isola deserta.

1. Il c. psicologico.​​ Nella letteratura psicologica il c. ha un’importanza centrale nelle​​ ​​ nevrosi, nei disturbi psicosomatici, nelle deviazioni sessuali, nelle psicosi funzionali e in diverse forme di patologia sociale, come nei fallimenti matrimoniali, educativi e professionali. La teoria psicoanalitica dà molta importanza al c. tra gli istinti sessuali regolati dalla società e gli istinti biologici. Essa sostiene che la nevrosi è il risultato della repressione dei desideri libidici mediante l’​​ ​​ ansia e che lo sviluppo della personalità non è altro che la risoluzione di una serie di c. tra le inibizioni sociali e le esigenze degli istinti biologici. Uno dei modi più costruttivi di risolvere i c. psicologici sarebbe la sublimazione mediante la quale le spinte libidiche represse si scaricherebbero attraverso attività socialmente utili, come quelle artistiche, scientifiche o il lavoro. I teorici della psicologia dell’io hanno dimostrato che l’interesse sociale nella scienza, nell’arte e nel lavoro possono essere indipendenti dallo sviluppo libidico. Anche i teorici psicoanalitici di orientamento culturale hanno proposto spiegazioni alternative a quelle di​​ ​​ Freud. Ad es.​​ ​​ Horney sostiene che lo sviluppo della personalità riguarda essenzialmente la sicurezza e che nelle situazioni sociali, che sono fonte di minaccia, le strategie per affrontarle possono essere esagerate e trasformarsi in c.​​ ​​ Lewin ha distinto tre tipi di c.: a) il c. nel quale la persona si trova tra due aspirazioni con valenza di segno positivo; b) il c. nel quale la persona si trova di fronte ad un’aspirazione che ha valenze positive e negative; c) il c. nel quale la persona si trova di fronte a due aspirazioni tutte e due di valenza negativa. Questi tipi di c. sono noti come c. di vicinanza-vicinanza, vicinanza-evitamento, e evitamento-evitamento. Ai tre c. è stato aggiunto un quarto: vicinanza-evitamento doppio. Il c. vicinanza-vicinanza è quello rappresentato dalla «parabola» dell’asino di Buridano, che, di fronte a due mucchi di fieno, non seppe decidersi da quale mucchio mangiare e che perciò morì di fame. Di solito questo tipo di c. è risolto facilmente perché l’equilibrio non è stabile e così anche un piccolo spostamento verso una delle due aspirazioni tende a potenziare la valenza positiva. Il c. vicinanza-evitamento tende ad essere stabile perché le due aspirazioni si contrappongono l’una all’altra in modo che una mossa di avvicinamento produce un aumento della valenza negativa e un movimento compensatorio di evitamento e viceversa. Il c. può generare molta incertezza e vacillazione; è il c. del bambino che deve eseguire un compito spiacevole per avere un premio. Oltre a sentirsi vacillante tra le due possibilità il bambino cercherà di fare il meno possibile e perderà il premio o cercherà qualche mossa evasiva. Il c. evitamento-evitamento è risolto con difficoltà e lentamente; spesso si conclude in un blocco. L’esempio tipico è quello del bambino che deve eseguire un compito, che non gli piace, sotto la minaccia di punizione. Il bambino tenta la fuga e se quella non è possibile, Lewin sostiene che le scappatoie più probabili sono che il bambino si chiude in se stesso o esplode emotivamente. Anche il c. vicinanza-evitamento doppio, che si manifesta in situazioni nelle quali vi sono due attrattive ognuna con tendenze di vicinanza-evitamento, tende a produrre situazioni di blocco. Esso ha notevoli ripercussioni controproducenti quando una o tutte e due le aspettative sono inconsapevoli; spesso il desiderio di una delle attrattive suscita la paura inconscia di perderle tutte e due e così la persona finisce in un doppio c. vicinanza-evitamento. È la situazione caratteristica nella quale si trova un uomo attratto consciamente da due donne ma inconsciamente impaurito da tutte e due, e quindi non si tratta di un semplice c. vicinanza-vicinanza come potrebbe apparire. Il c. psicologico, essendo dentro la persona, si riduce in ultima analisi a un problema di confronto e scelta tra valori e non implica necessariamente interazioni con altre persone o gruppi. Tuttavia il c. interno può essere visto come c. tra diverse​​ parti​​ interne e in quel senso può avere connotazioni relazionali e interpersonali. Quando si esaminano gruppi e organizzazioni, i c. possono essere visti a diversi livelli sistemici: da un lato si può guardare al sistema dei componenti del gruppo o dell’organizzazione e si tratta di c. sociali; ma d’altro canto il c. esterno può essere esaminato dalla prospettiva di un altro livello sistemico, quello dell’individuo, come una espressione analoga del c. interno all’individuo. Una persona che non ha fatto i conti con i c. normativi dentro se stessa, facilmente può interpretare i processi relazionali e interpersonali secondo i significati dei propri c. interni e, ad es., leggere un​​ invito​​ da parte dell’autorità come una​​ imposizione.​​ In altri termini ogni persona nel gruppo potrebbe rispondere non solo agli stimoli oggettivi esterni, fonte di c. sociale, ma anche alle proprie proiezioni interne. In questo senso molti c. interni possono essere visti come c. importanti in senso sociale.

2.​​ Il​​ c. sociale.​​ Due processi strettamente collegati si manifestano in qualsiasi situazione di rapporto umano: un processo conflittuale e un processo integrativo. Quando due persone o gruppi si incontrano, essi possono scegliere di relazionarsi in termini conflittuali o in termini integrativi di collaborazione e reciproco sostegno. Ma i due aspetti non si elidono a vicenda. Se l’incontro iniziale è conflittuale, si sviluppano regole minime di intesa, se non altro l’intesa di non intendersi. Se invece l’incontro è essenzialmente integrativo, necessariamente si svilupperanno dinamiche conflittuali, perché si dovranno comporre le esigenze del gruppo come tale e le esigenze degli individui che lo compongono. Per tal motivo diversi studiosi concordano che là dove esiste l’idea di comunità immancabilmente esiste anche l’idea di c., perché è necessario far fronte a due funzioni incompatibili allo stesso tempo. Il c. avrebbe la funzione di legare insieme gli elementi (persone o gruppi) che prima erano separati e ora agiscono insieme. Il c. di solito si sviluppa quando almeno uno degli elementi della comunità o gruppo si rende conto che una o più aspirazioni o preferenze o strumenti per raggiungere i propri scopi è minacciata od ostacolata dalle intenzioni o dalle attività di uno o più elementi del gruppo o della comunità. Un tipo di c. particolarmente importante è quello che si sviluppa quando un elemento (individuo o sottogruppo di un insieme di gruppi) cambia così ampiamente il campo dell’altro che quest’altro reagisce e la reazione a sua volta cambia il campo del primo elemento che provoca un’altra mossa da parte dell’altro e così via (Boulding, 1962, 25). L’elemento A percepisce, a torto o a ragione, di essere minacciato dall’elemento B. Mentre A ritiene di assumere una posizione protettiva, B la interpreta come offensiva e minacciosa. Quando B risponde «difensivamente», A, che ora ritiene di avere una conferma dei suoi timori iniziali, si attiva ancora di più e il c. si acuisce. Con l’aumento delle minacce e delle offese, non rimane che l’alternativa di lottare fino in fondo, finché uno degli elementi viene costretto a cedere. Se però col crescere delle incomprensioni e delle ostilità lo scotto che si deve pagare aumenta ed è eccessivo per tutti e due gli elementi, il c. diminuisce, ma lascia strascichi di disagio, ansia, timori e presto o tardi il c. riemerge. Se non si trovano soluzioni di reciproca soddisfazione, il c. può sfociare nell’oppressione dell’altro o nella separazione dall’altro e nella disgregazione della comunità.

3.​​ Composizione del c.​​ Diverse strategie sono adottate per operare processi di integrazione quando ci sono c. o prospettive che insorgano. Una strategia è quella di forzare l’altro alla sottomissione sulla base dell’assunto che l’altro «accetta» la soluzione; così si arriva ad una integrazione che però produce una relazione coercitiva. Se l’elemento in causa non accetta la coercizione, e neppure vuole apertamente opporsi, si sviluppa la resistenza passiva, che di solito ha effetti distruttivi sulla comunità in quanto si sviluppano fini e metodi procedurali incompatibili e spesso sconosciuti all’altro; viene meno una intesa contrattuale esplicita. Più comuni e accettate sono invece le strategie di composizione consensuale o di prevenzione mediante la creazione di contratti, di statuti che regolano i comportamenti, di costituzioni che stabiliscono gli orientamenti di base dell’attività della comunità, l’introduzione nelle intese esistenti di articoli di incorporazione, di confederazione, la concessione di autonomie e così via. Le intese non sono necessariamente scritte. Quanto un’intesa integrativa possa essere valida o possa durare dipende da diversi fattori: a) dal potere o dalla volontà da parte di ogni elemento di imporre la propria volontà; b) dall’insoddisfazione evocata o dalle penalità inflitte, dal tipo di rapporto esistente tra gli elementi legati insieme; c) dall’esperienza che altre intese precedenti sono state efficaci per gli elementi coinvolti. In genere se gli elementi A e B sono ugualmente forti e ugualmente insoddisfatti del loro rapporto contrattuale e sono ugualmente convinti che il separarsi comporta elevati costi, allora l’intesa raggiunta probabilmente sarà duratura; gli elementi che compongono la comunità non avranno interesse a essere puntigliosi nelle interpretazioni dell’intesa e possono anche violarla se non ci sono grossi rischi di essere scoperti; comunque intese di questo tipo anche se durature tendono ad avere bassa efficacia. Se invece A è potente e soddisfatto del rapporto con B, ma B è debole e insoddisfatto, è probabile che l’intesa duri ed essendo B debole, l’efficacia dell’intesa sarà probabilmente buona perché A sarà in grado di esigere l’osservanza dell’intesa; l’intesa sarà caratterizzata da molti piccoli c. di rivendicazioni, ci sarà notevole c. nascosto e notevole tensione. B col passare del tempo si sentirà frustrato e se si sentirà forte ritornerà all’attacco, a volte anche come pretesto per separarsi e andarsene. L’abbandono in questo caso spesso deriva anche da una illusoria convinzione di poter punire A per una relazione così poco rispettosa. Se però B continua ad essere debole e diminuisce l’insoddisfazione, col passare del tempo potrebbe accettare come normale la nuova situazione e considerare appropriate diverse vie istituzionali per affrontare i c. Il tempo in questo caso favorisce «l’usurpatore». Nel caso in cui A avesse molto potere, ma non lo volesse usare per imporsi a B, A facilmente potrebbe abbandonare B al suo destino se le perdite derivanti dall’abbandono non fossero significative per A. Nella discussione appena riportata un assunto di base è che una comunità dura se le parti che la compongono ottengono dalla relazione la soddisfazione desiderata. Tale soddisfazione dipende di solito dal quadro di valori che i diversi componenti della comunità intrattengono; tali valori spesso sono espressi in uno statuto, in una costituzione o in altro documento contrattuale accettato dai componenti della comunità.

4.​​ Le intese democratiche.​​ Nelle società occidentali viene dato molto peso all’intesa consensuale piuttosto che a quella coercitiva. La differenza tra consenso e coercizione dipende dal grado nel quale la coesione e la gestione dei c. è democraticamente decisa piuttosto che imposta unilateralmente. Ma dipende pure dal grado nel quale la forza, che eventualmente si usa, deriva dal consenso della maggioranza dei componenti della comunità; se viene usata per gli scopi e secondo i limiti consensualmente sanciti; e se vi è un adeguato livello di protezione per le minoranze dissenzienti.

5.​​ Il c. in campo educativo.​​ L’educazione è rivolta all’azione e si confronta necessariamente con il normativo. La popolazione che l’educatore incontra spesso ha origini etniche, culturali, sociali diverse che superano anche i confini nazionali e continentali e pone dei problemi normativi di alto potenziale conflittuale. Nel processo di socializzazione di cui l’educatore è investito, il compito della integrazione di molteplici elementi normativi conflittuali richiede interventi complessi. Nella società moderna tale complessità si presenta anche all’interno di popolazioni appartenenti alla stessa cultura, per il continuo sovrapporsi di subculture a causa di spostamenti migratori, soprattutto per ragioni di lavoro. L’educatore viene quasi naturalmente investito del compito integrativo e dal successo del suo lavoro può dipendere in modo importante l’agibilità della convivenza umana.

Bibliografia

Boulding K. E.,​​ Conflict and defense: a general theory,​​ New York, Harper, 1962; Grottanello V. L.,​​ Gerarchie etiche e c. culturale,​​ Milano, Angeli, 1976; Dahrendorf R.,​​ Il​​ c. sociale nella modernità,​​ Bari, Laterza, 1988; Disanto A. M.​​ Il c. educativo,​​ Roma, Borla, 1990; Novellino M.,​​ C.​​ intrapsichico e ridecisione,​​ Roma, Città Nuova, 1990; Delle Donne M.,​​ Immigrazione in Europa: solidarietà c.,​​ Roma, Dipartimento di Sociologia della «Sapienza» di Roma, 1993; Gadotti M.,​​ Pedagogia: dialogo e c.,​​ Torino, SEI, 1995; Cesareo V.,​​ L’altro: identità,​​ dialogo e c. nella società plurale, Milano, Vita e Pensiero, 2004.

P. Scilligo




CONFORMISMO

 

CONFORMISMO

Il c. si può definire come una accettazione passiva delle norme di comportamento o delle idee del gruppo a cui si appartiene. Esso indica anche l’esecuzione incondizionata degli ordini di un’autorità riconosciuta.

1. Oggi il fenomeno è molto diffuso nella società che è dominata dai​​ ​​ mass media: però, di solito in questo caso si parla più di conformità che di c. Invece l’elemento di base del c. è la rinuncia del soggetto a pensare in modo autonomo, ad agire personalmente, ad esercitare in maniera libera la propria volontà e responsabilità: in altre parole, si tratta dell’accettazione passiva e acritica dei comportamenti, degli atteggiamenti, e delle idee degli altri. Per alcuni psicologi, come per es.​​ ​​ Fromm, il c. risponde ad un profondo bisogno dell’uomo, quello di superare l’isolamento e la propria solitudine. Il legame con il gruppo, in quanto assicura una certa solidarietà ed identificazione, può appagare tale esigenza, e l’individuo attraverso l’adozione passiva dei modelli culturali offerti può così arrivare sino ad annullarsi semplicemente e felicemente nel gregge. Ma il c. si paga sempre con la perdita della propria personalità autentica.

2. Quando la sociologia studia il c. solitamente concentra la sua attenzione sui modelli di condotta. Molti processi di c. possono di fatto essere analizzati come tipi di comportamento funzionale. I canali principali per acquisire i modelli di condotta sono sostanzialmente tre. Il primo, e forse il più importante, è la​​ ​​ famiglia, che è appunto il luogo sociale dove si formano quelle rappresentazioni di valore, quei comportamenti e quelle aspettative destinate a lasciare un segno indelebile nella personalità di un individuo. Il secondo canale è invece il​​ ​​ lavoro, dato che nelle nostre società acquisitive l’attività professionale costituisce uno dei più ricchi serbatoi del prestigio sociale. Il terzo è la​​ ​​ scuola, il cui scopo dovrebbe essere quello di rendere lo​​ status​​ sempre meno dipendente da fattori dati, come la provenienza sociale o il patrimonio (status​​ ascritto) e sempre più connesso alle qualità individuali (status​​ acquisito). La realtà però può essere diversa al punto che talvolta la famiglia e la scuola, invece di favorire il cambiamento, finiscono involontariamente per ostacolarlo producendo un forte c.

Bibliografia

Fromm E.,​​ Fuga dalla libertà,​​ Milano, Edizioni di Comunità, 1963; Id.,​​ Psicoanalisi della società contemporanea,​​ Ibid., 1964; Moustakes C. E.,​​ Creativity and conformity,​​ Princeton, New York, D. Van Nostrand, 1967; Allport G. W.,​​ La natura del pregiudizio,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1973; Milgram S.,​​ Obbedienza all’autorità,​​ Milano, Bompiani, 1975; Girard G.,​​ C. e atteggiamenti politici,​​ Milano, Angeli, 1977; Mucchi Faina A.,​​ Il c., Bologna, Il Mulino, 1998; Furedi F.,​​ Il nuovo c. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005.

J. Bajzek




CONFUCIO

 

CONFUCIO

n. nel 551 a.C. a Lu - m. ivi nel 479 a.C, filosofo, maestro e statista cinese.

1. C. (da Confucius, latinizzazione del nome cinese K’ung Fu Tzu); suo padre morì quando egli era ancora un bambino e dopo la morte della madre (528 a.C.) dedicò tre anni alla riflessione e allo studio. Nel 505 a.C. entrò in politica, prima come governatore, e poi come ministro dei lavori pubblici e ministro di giustizia. Come amministratore pubblico fu ammirato e apprezzato da tutti. Indignato della vita corrotta di corte, lasciò la politica, e dal 497 a.C. dedicò gli ultimi anni della sua vita a dure peregrinazioni e all’insegnamento, raccogliendo intorno a sé oltre 3.000 discepoli. C. è considerato il primo pedagogo professionale della sua era e il personaggio più grande nella storia e cultura cinese. C. non ha lasciato scritti, però i suoi insegnamenti sono stati raccolti dai discepoli e si trovano in quattro libri:​​ Dialoghi,​​ Il Libro di Mencio,​​ Grande scienza​​ e​​ Giusto Mezzo.

2. C.​​ fu maestro impareggiabile nell’insegnare che bisogna seguire il​​ Tao​​ (la Via) per arrivare alla felicità. La sua proposta è essenzialmente un umanesimo etico. La natura umana è composta di due elementi, quello fisiologico (i cinque sensi corporali responsabili dei comportamenti fisiologici) e quello psicologico (responsabile dei comportamenti psichici). La sede dei comportamenti psichici o virtù è il cuore. Secondo C. ognuno è nato con un cuore​​ positivo,​​ che per natura ha un senso di virtù, è sensibile alle sofferenze degli altri, sente compassione, cortesia o modestia, ed è dotato del senso del giusto e ingiusto; c’è però la possibilità di sviluppare o perdere la sua sensibilità, poiché l’ambiente esterno può influenzarlo in entrambe le direzioni, anche se non in modo determinante. C. insiste sul ruolo degli insegnanti (genitori e maestri) e sulla creazione di un ambiente proprio, specialmente per i bambini, per imparare. L’educazione è un compito essenzialmente individuale e consiste nell’auto-coltivazione o auto-realizzazione in virtù. Il suo scopo è mantenere il cuore​​ positivo​​ e crescere in virtù o sviluppare​​ jen​​ o​​ karuna​​ (il senso dell’umanità o compassione). Le caratteristiche di​​ jen​​ sono sincerità, rettitudine o integrità, giustizia, devozione e obbligo filiale, rispetto reciproco nelle relazioni con gli altri.​​ Jen​​ si fonda sull’amore, prima per i propri genitori, poi per gli altri. Amore vuol dire promuovere il bene materiale e spirituale degli altri, cioè creare una società migliore di giustizia e pace. In​​ Grande scienza​​ sono presentati i sette gradini per imparare ad agire, investigare gli oggetti ed eventi, estendere la propria conoscenza, praticare le virtù cardinali, creare un ordine, ed arrivare a un mondo di pace e intelligenza.

Bibliografia

Castellani A.,​​ La dottrina del Tao,​​ Bologna, Zanichelli, 1927; Lin Huey-Ya, «Confucian theory of human development», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ vol.​​ II, Oxford, Pergamon Press, 1985, 969-972; Sagramola O., «C.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3083-3087.

S. Thuruthiyil




CONGREGAZIONI INSEGNANTI FEMMINILI

 

CONGREGAZIONI INSEGNANTI FEMMINILI

Istituzioni religiose il cui scopo principale è l’assistenza, l’insegnamento e l’educazione della gioventù femminile.

1. Fin dal​​ ​​ Medioevo la storia dell’educazione extrafamiliare della​​ ​​ donna è strettamente legata all’azione educativa dei monasteri femminili cui spesso le famiglie, specialmente nobili, affidavano le loro figlie, in tenera età, perché potessero realizzarvi la loro formazione. Nell’età del Concilio di Trento, quando l’impegno educativo della Chiesa si intensificò, si affermò notevolmente il desiderio di molte donne di una vita religiosa sciolta dalla clausura (già manifestatosi precedentemente con la fondazione delle Orsoline e delle Angeliche impegnate prevalentemente nell’educazione). Nonostante gli interventi del Concilio di Trento e di Papa Pio V, che ribadivano l’obbligo della clausura, nel tardo Cinquecento e nel Seicento sorsero nuovi istituti femminili, che accoglievano le fanciulle povere per toglierle dai pericoli della strada e per offrire loro almeno il minimo indispensabile di educazione e di formazione cristiana.

2. Al fervore educativo dell’età della Riforma Cattolica si collega l’origine delle scuole per le fanciulle del popolo, la prima delle quali (o una delle prime) fu fondata da S. Rosa Venerini, la quale andò oltre la tradizione che concedeva la possibilità di istruirsi solo a poche donne «privilegiate» la cui formazione comunque si realizzava o nei monasteri o in famiglia. Le scuole di Rosa Venerini e delle sue compagne, le quali non erano religiose e vivevano in piccole comunità, dedicandosi a «fare scuola gratis alle fanciulle», mirando «ad majorem Dei Gloriam», erano istituzioni educative «nuove» che ebbero il merito di offrire a tutte le donne l’opportunità di istruirsi che nel Seicento veniva offerta soltanto a poche. La «novità» delle scuole della Venerini inoltre è dovuta al fatto che in un’epoca in cui la convinzione della «vulnerabilità» degli esseri umani e particolarmente della donna determinava l’affermazione di istituzioni educative «chiuse» si proponevano come «istituzioni aperte». Le alunne infatti vivevano «in famiglia» nelle loro case, con i loro genitori, cioè in un ambiente naturale. Con queste scuole, che seguivano il «metodo» scritto dalla Fondatrice, che quindi avevano «programmi» e che prevedevano, accanto all’educazione e all’educazione religiosa, anche l’insegnamento dei «lavori femminili», «orari», «maestre» e «regole», si intendeva gettare le basi che potevano consentire a tutte le fanciulle di continuare a coltivare la loro spiritualità e il loro saper lavorare (per rendersi economicamente autonome) nel corso della loro esistenza. L’azione di queste scuole, pur essendo culturalmente modesta, contribuì a diffondere, anche se limitatamente, la​​ cultura dell’educazione, a stimolare il Papato, il clero e i «governi» perché si facessero carico della formazione della donna, incoraggiando le famiglie ad assumere le loro responsabilità educativa e aiutandole, rivolgendo la loro attenzione alle madri, le quali erano invitate a partecipare a momenti di preghiera ed a parlare con le maestre dei loro problemi familiari e dell’educazione dei loro figli. Con la fondazione delle scuole, finalmente, si indicava alla donna una prospettiva professionale. Infatti le prime donne laiche, che si facevano chiamare «maestre», sono le prime professioniste dell’educazione che la storia ci presenta, anche se meritano di essere considerate «professioniste» non tanto per le loro competenze e per la loro cultura quanto per la tensione religiosa e morale che sorreggeva la loro azione e per la consapevolezza del significato dell’impegno educativo che testimoniavano nei confronti delle donne adulte con l’intento di sostenere e di aiutare le famiglie nell’educazione cristiana dei figli. Le «maestre», comunque, ebbero il merito, in un tempo in cui faticosamente nel mondo occidentale andava affermandosi la​​ scuola, di creare un’istituzione chiamata a configurarsi come luogo in cui l’educazione, da spontanea e irriflessa, diventa riflessa e specifica, che si propone non solo la trasmissione del sapere ma anche finalità formative. Nelle scuole aperte a tutte le fanciulle dovevano operare educatrici opportunamente preparate allo svolgimento del loro apostolato «magistrale». Pertanto alle donne che si sentivano «vocate» all’insegnamento si concedeva la possibilità di liberarsi dall’obbligo di vivere in famiglia o nei monasteri.

3. Nel corso del Settecento le scuole per le fanciulle e per le giovani si moltiplicarono, anche se il diritto canonico non riuscì ad arrivare ad una collocazione giuridica specifica per gli istituti religiosi, che non prevedevano la clausura e i voti solenni e che talvolta si facevano riconoscere come secolari degli stessi organi civili degli Stati in cui si trovavano ad operare. La presenza di questi istituti si è diffusa e si è intensificata, in particolare nell’Ottocento, ottenendo, soltanto alla fine di quel secolo, pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa come istituzioni religiose, di cui è stata ampiamente apprezzata l’azione educativa, vista come espressione di apostolato e forma specifica di carità. Nel corso del Novecento le c.i.f. si sono particolarmente impegnate nella formazione professionale (iniziale e in servizio) dei loro membri per renderli «pari all’altezza del loro ufficio», per potenziare la qualità culturale delle loro scuole, che, in questi ultimi anni, in molti Paesi accolgono alunni di ambo i sessi e che spesso hanno conquistato una loro propria identità, determinata dalla loro ispirazione cristiana, dalla fedeltà allo specifico «carisma» e dalla spiritualità dei vari istituti, dalla capacità di rispondere con differenziata adeguatezza alle domande di educazione dei singoli e delle comunità in cui operano. Pertanto la loro proposta formativa si è ampliata ed ha rivolto l’attenzione anche alla formazione professionale. Inoltre, talvolta, le educatrici religiose insegnano anche nella scuola di Stato e le loro scuole, che nell’Ottocento e nel primo Novecento hanno accolto particolarmente bambini e fanciulli, impegnandosi nella preparazione delle educatrici, hanno moltiplicato i loro indirizzi, aprendosi anche all’«educazione a livello universitario», pur testimoniando una speciale attenzione per i «piccoli» e per coloro che sono vittime delle vecchie e delle nuove povertà.

4. A queste c.i.f. si deve il merito di aver diffuso nel mondo la scuola cattolica, impegnandosi particolarmente per la promozione umana della donna, aprendosi ai problemi della società, testimoniando una carità fattiva e operosa, realizzando spesso una forma di «maternità affettiva, culturale e spirituale», alla quale la Chiesa guarda con particolare attenzione e con «speranza», chiedendo alle educatrici di testimoniare il Vangelo, capacità di accoglienza, di ascolto, di relazionalità positiva, di servizio e di coltivare la loro formazione spirituale, culturale e professionale.

Bibliografia

Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi (Ed.),​​ Conferenze tenute nel primo Convegno nazionale di studio per le Suore insegnanti d’Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1940; Braido P. (Ed.),​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, Vol. I e II, Roma, LAS, 1981; Paolocci C. (Ed.),​​ C. laicali femminili e promozione della donna in Italia nei sec. XVI e XVII, Genova, Associazione Amici della Biblioteca Franzoniana, 1995; Loparco G.,​​ Gli Istituti religiosi femminili e l’educazione delle donne in Italia tra Otto e Novecento, in «Seminarium» (2004) 1-2, 209-258; Bartoloni S. (Ed.),​​ Per le strade del mondo laiche e religiose fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2007.

S. S. Macchietti