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CODICE

 

CODICE

È una regola, o un sistema di regole, che stabilisce equivalenze tra un sistema di significanti (piano dell’espressione) ed un sistema di significati (piano del contenuto).

1. Pensato in questi termini esso svolge due fondamentali funzioni: a) comunicativa, dato che senza l’apporto di un appropriato intervento di codifica (e di decodifica) non è possibile alcuna comunicazione (senza una grammatica ed una sintassi la parola rimane muta); b) espressiva, in quanto non esiste un uso standard del c., ma esso si declina in rapporto alle diverse sensibilità degli emittenti (si può fare un uso convenzionale o poetico della parola con risultati chiaramente molto diversi). Il c. non è mai sperimentabile fuori da un contesto: esso cioè non opera mai isolatamente, ma sempre contemporaneamente e in maniera organica rispetto alla varietà di tutti gli altri c. Questi sono articolabili secondo un doppio criterio: sono c. in senso​​ verticale​​ i c.​​ generali​​ (quelli in base ai quali possiamo dire che il cinema è cinema),​​ particolari​​ (un certo modo di pensare il cinema),​​ singolari​​ (sono istituiti​​ ex novo​​ e appartengono spesso a un singolo testo); sono c. in senso​​ orizzontale,​​ invece, i c.​​ narrativi​​ (che comprendono le strutture narrative del testo, le regole linguistiche e le modalità di discorso impiegate nella sua costruzione), i c.​​ percettivo-figurativi​​ (iconici, scenografici, prossemici, cinesico-gestuali), i c.​​ linguistici e sonori.

2. Dal punto di vista sociologico il ruolo giocato dal c. è particolarmente importante come distintivo di un determinato​​ ​​ gruppo sociale o di una certa​​ ​​ cultura: nel primo caso, più che di c. è opportuno parlare di lessici, cioè di sottocodici costituiti da frasi gergali, modi di dire, espressioni dotate di senso esclusivamente all’interno del contesto linguistico entro cui sono utilizzati (si pensi allo​​ slang​​ delle minoranze etniche nelle metropoli americane, o al linguaggio dei gruppi giovanili); nel secondo caso il c. è strumento di produzione e organizzazione del sapere che contraddistingue una certa società in una determinata epoca storica, in modo tale che dalla conoscenza del c. dipenda l’accesso al sapere che esso struttura (è il caso dell’aristotelismo per il​​ ​​ Medioevo o dell’allegoria per il Barocco).

3. Il carattere condizionale del c. ai fini della comunicazione e il suo rilievo in ordine alla definizione di sottosistemi sociali e universi culturali rendono ragione della sua importanza pedagogica. La si può indicare in diverse direzioni: a) per quanto riguarda il rapporto tra c. e comunicazione educativa nella padronanza dei c. della comunicazione va individuata una delle competenze fondamentali dell’insegnante. Grazie a tale competenza è possibile da una parte attivare un’adeguata comunicazione didattica (facendo ricorso alla voce, al gesto, alla prossemica, agli strumenti tecnologici), dall’altra riconoscere nei c. della comunicazione attivati dagli alunni nella classe le loro aspirazioni, le loro difficoltà, il loro eventuale disagio; b) in continuità con questo discorso va registrata la rilevanza pedagogica di una conoscenza dei rapporti che legano il c. (i c.) con particolari gruppi sociali o contesti culturali per potere attivare in relazione ad essi una mediazione pedagogica adeguata. Nei diversi ambiti (didattico, formativo, pastorale) la conoscenza dei c. attraverso i quali un sistema socio-culturale si costruisce è funzione della possibilità di intervenire con efficacia sui soggetti che a tale sistema appartengono; c) un ultimo aspetto di importanza dei c. in contesto educativo va infine ricondotto ai media, in particolare i media digitali (Internet, telefono cellulare, videogiochi) che particolare rilievo dimostrano di avere nella attuale cultura giovanile. In margine a questi media è facile riconoscere come il problema stia nella conoscenza dei loro linguaggi, ovvero di tipo alfabetico. Educare al corretto uso dei c. significa in quest’ottica educare alla possibilità di comunicare in maniera responsabile, che è poi il primo essenziale obiettivo dell’educazione linguistica (​​ linguaggio).

Bibliografia

Eco U.,​​ La struttura assente,​​ Milano, Bompiani, 19853; Segre C.,​​ Avviamento all’analisi del testo letterario,​​ Torino, Einaudi, 1985; Ardrizzo G. (Ed.),​​ L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, Roma, Meltemi, 2003; Rivoltella P. C.,​​ Screen generation. Gli adolescenti e le prospettive dell’educazione nell’età dei media digitali, Milano, Vita e Pensiero, 2006.

P. C. Rivoltella




CODIGNOLA Ernesto

 

CODIGNOLA Ernesto

n. a Genova nel 1885 - m. a Firenze nel 1965, educatore e pedagogista italiano.

1. Allievo dell’hegeliano Jaja, laureatosi in filosofia a Pisa nel 1910, dopo aver insegnato nelle scuole secondarie, divenne professore universitario di pedagogia, dal 1918 incaricato a Pisa, dal 1925 ordinario al Magistero di Firenze. Di orientamento idealista, vivamente partecipe nei dibattiti e nelle iniziative per l’innovazione scolastica, collaborò con​​ ​​ Gentile per la sua Riforma della scuola, specie per quanto riguarda il nuovo Istituto Magistrale. Fondò e diresse l’Ente nazionale di Cultura con sede in Firenze, che dal 1923 al 1934 ebbe la «delega» per la gestione di scuole elementari rurali «non classificate» in Toscana e in Emilia. Fondò e diresse importanti riviste scolastiche, pedagogiche e culturali: «Levana» (1922-1928), «La Nuova Scuola Italiana» (1923-1938), «Civiltà Moderna» (1929-1943): «forse la testimonianza più bella di quegli anni difficili» (Garin, 1974, 167), «Scuola e Città» (dal 1950). Con apertura anche alla cultura straniera (con lancio di​​ ​​ Dewey dopo la II guerra mondiale), diresse negli anni ’20 prestigiose collane presso l’editore Vallecchi, e, da lui fondata nel 1926, La Nuova Italia. Fu il fondatore e direttore dal 1944 della Scuola-città Pestalozzi di Firenze, ispirata a principi educativi di attivismo, cooperazione democratica, autogoverno. Scrisse numerose opere pedagogiche teoriche e di politica scolastica.

2. Devoto e Garin hanno distinto per C. tre periodi (Garin, 1974): uno di preparazione e attuazione della Riforma Gentile; uno, nella forte delusione per i cedimenti statali del Concordato del 1929, di dominante organizzazione e promozione culturale e editoriale; uno infine, con la Liberazione, di polemica laica per la difesa della scuola statale. La storia culturale di C., ha osservato Borghi, è segnata dalla costante attribuzione della «funzione primaria alla azione educativa», finalizzata alla promozione dell’«autonomia del pensiero e della volontà dell’individuo», in un’azione «liberatrice» esaltata prima a livello di coscienza e di cultura, poi in chiave attivistica e democratica, con un’opera concreta di emancipazione degli uomini impegnati e partecipi nel comune contesto di tutti. Un’«evoluzione paradigmatica» e storicamente esemplare e stimolante nella sua tensione e autorevole serietà.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ E. C.,​​ La riforma della cultura magistrale,​​ Catania, Battiato, 1917;​​ Il problema educativo,​​ 3 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1935-36;​​ Educazione liberatrice,​​ Ibid., 1949;​​ La nostra scuola,​​ a cura di D. Izzo, Ibid., 1970. b)​​ Studi:​​ Izzo D. et al.,​​ Prospettive storiche e problemi attuali dell’educazione: studi in onore di E.C.,​​ Ibid., 1960; Garin E.,​​ Intellettuali italiani del XX secolo,​​ Roma, Editori Riuniti, 1974; Cambi F.,​​ La «scuola di Firenze»​​ (da C. a Laporta,​​ 1950-1975), Napoli, Liguori, 1982.

G. Cives




COEDUCAZIONE

 

COEDUCAZIONE

Promozione dell’incontro educativo reciproco dei sessi, sia nell’ambito scolastico, come co-educazione identica o variamente differenziata e integrata, sia nell’ambito estrascolastico, come convivenza, esperienza, dinamica spontanea o intenzionale di mutuo influsso e formazione.

1.​​ Pro e contro la c.​​ L’ambiente familiare ha sempre vissuto la compresenza di fratelli e sorelle. L’ambiente sociale ha ammesso scambi reciproci spontanei. La cultura ha problematizzato il fatto. La pedagogia si è divisa. L’educazione ha inventato linee distinte di cura, modelli e stili di vita, comportamenti, formazione, specialmente nelle classi sociali alte e raffinate. L’offerta moderna di scuola segnata da vasta base elementare, accentuato taglio istruttivo, crescente asse scientifico e tecnico, esigenze pratiche di numero e di ambienti, in tempi di nuove posizioni ideologiche e convinzioni scientifiche, ha posto in evidenza problemi, maturato opinioni, prese di posizione e prassi favorevoli o resistenti a una compresenza educativa paritaria dei sessi. Le​​ ​​ Scuole Nuove si sono fatte generalmente paladine della c. (intesa come co-educazione). Sul fronte opposto ci si è appoggiati e ci si appoggia a ragioni psicologiche (varietà di incidenza delle differenze di struttura mentale, di ritmi di sviluppo), sociali (distinzione o dialogo dei ruoli futuri), morali (pericolosità o positività formatrice di incontri precoci), pedagogiche (crescita psicosociale separata per incontro futuro o logicità di continua e progressiva integrazione educativa per la vera identità).

2.​​ Le diverse motivazioni.​​ Le resistenze culturali sono divenute pedagogiche, sostenendo e organizzando forme di lunga preparazione separata, solida e completa dei sessi per un successivo utile incontro (Reddie, Geheeb,​​ ​​ Förster, per ragioni diverse). Si è rimasti lontani da sintesi mature anche nel campo scolastico (Dale), anche perché la compresenza mista ha disatteso le differenze, è stata incapace di gestirle in effettivo dialogo di integrazione delle due differenti forme di mentalità e personalità. Il mondo cattolico europeo era partito con ostilità e allarmi morali (Pio XI). Insegnanti e educatori si erano trovati sprovveduti per attuazioni significative e valide. Perciò, in molti casi, hanno opposto rifiuti pratici. Poi il tema si è fatto extrascolastico. Si è imposta decisamente la ormai generale e abituale convivenza e promiscuità maschile e femminile nella vita giovanile sociale e di gruppo. Non sono stati senza influenza i mutamenti nel costume sociale sessuale adulto e giovanile e il generale clima di pluralismo, di permissivismo, di soggettivismo veritativo e valoriale (​​ relativismo). Nei casi di maggiore sensibilità la c. si è accollata la necessità di una tempestiva educazione continua e progressiva alla comprensione, alla conoscenza, alla convivenza maschile e femminile, giovanile e adulta. Si sono chiarificate le distinzioni tra convivenza mista, co-istruzione in compresenza, utilità e metodo dell’intreccio di mutui influssi nei processi di insegnamento e apprendimento condiviso e integrato. Si è cercato di approfondire la c. nel e per il dialogo maschile e femminile profondo, psicologico, morale, culturale e sociale, nella scuola e fuori. Pio XII e Paolo VI cambiarono l’atteggiamento e il giudizio della Chiesa. Il primo riconosceva la positività fondamentale della integrazione maschile e femminile. Il secondo apriva alla c. nella scuola cattolica, poi nella stessa pedagogia e pastorale giovanile. Giovanni Paolo II ha coinvolto ragazzi e ragazze nella condivisone di valori grande e in quella che da lui è stata detta la missione giovanile nei confronti del mondo adulto e della storia. La c. è diventata valore permanente, antropologico, culturale, perfino morale e religioso, correttivo dei limiti della pura spontaneità degli incontri e dei rischi della promiscuità, anche se si è coscienti che essa vada attuata come progetto e processo autenticamente educativo. Benemeriti in proposito il pensiero e l’opera di E. Huguenin, L. Kufner, A.-M. Rocheblave-Spenlé, e altri. Sensibili alla c. sono in genere le istituzioni scolastico-educative, come la FIDAE italiana, i​​ ​​ movimenti ecclesiali, l’associazionismo cattolico, l’Azione Cattolica, lo​​ ​​ scautismo (ma di parere diverso è la Federazione Scaut Europa), i​​ ​​ centri giovanili gli​​ ​​ oratori, e perfino i cammini di ricerca e di prima maturazione vocazionale.

3.​​ Problemi aperti e condizioni pedagogiche.​​ Oggi la c. è modalità generalizzata di convivenza e di crescita. Tuttavia in pratica i problemi restano. Separazioni e incontri non sono per sé risolutivi. Coscienza sociale dei problemi e ricerca pedagogica sono necessarie per vincere «effetti perversi» di amore immaturo, di violenze sulle ragazze, di prostituzione giovanile femminile e maschile, precoce fallimento di unioni di coppia e matrimoniali, tensioni maschiliste e femministe nella società, nella chiesa, nel lavoro, nella vita sociale e politica, patologie sessuali più o meno gravi. Il problema si rivela soprattutto culturale, prima che pedagogico. Molti passi sono stati fatti, altri restano da fare. L’attuale ritorno di attenzione alle differenze psicologiche e spirituali, di rispetto della diversità di tratti, stili e ritmi, invitano a ricercare apporti e curare scambi integrativi del diverso. Contro la libertà permissiva e l’apertura alla promiscuità irresponsabile o calcolata e più o meno controllata, con cadute di sfruttamento passionale, consumistico e pornografico, oggi sembrano più decisivi e ispiratori gli sviluppi culturali della comune e fondamentale dignità personale dei sessi, relativizzando e relazionando i caratteri della maschilità e femminilità, interpretandoli come ricchezze: ricercando sintesi nell’incontro e nel dialogo, passando dalla complementarità alla integrazione e alla reciprocità, prima in campi limitati, poi sempre più larghi, totali, non solo familiari, ma sociali e culturali. Ma resta fondamentale la formazione di educatori preparati a una c., dove le preoccupazioni profilattiche o moralistiche cedano il passo a una educazione di giovani uomini e donne impegnati nella integrazione creatrice della umanità futura.

4.​​ L’orizzonte della c.​​ La c., spontanea e programmata, è ormai generalizzata negli ambiti della famiglia, della scuola, dell’associazionismo, della vita sociale, morale, religiosa, politica, professionale. Ciò viene pensato ed attuato anche in vista del superamento del disordine sessuale consentito o violento, delle difficoltà di mature e stabili relazioni amicali, coniugali, e globalmente di una civile e dignitosa convivenza sociale. In questo senso, ultimamente, nella letteratura pedagogica, il termine c. è usato anche per indicare la reciprocità di aiuto tra educatori ed educandi nella promozione e qualificazione dell’esistenza personale; ed in senso ancora più vasto per indicare la necessità di aiutarsi, come comunità, nello sviluppo di una società umanamente degna.

Bibliografia

Foerster W. F.,​​ L’educazione etica della gioventù,​​ Torino, STEN, 1911; Calò G.,​​ Il problema della c. e altri scritti pedagogici,​​ Roma, Albrighi e Regati, 1914; Huguenin E.,​​ La coéducation des sexes,​​ Neuchâtel / Paris, Delachaux, 1929; Gianola P.,​​ Problemi della c.,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 11 (1964) 651-673; Dale R. E.,​​ Mixed or single-sex school?, London, Routledge & Kegan,​​ 31974; Galli N.,​​ Pedagogia della c.,​​ Brescia, La Scuola, 1977; Gianola P.,​​ C.: una parola vecchia - un significato nuovo,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 33 (1988) 897-906; Fornasa W. - R. Meneghini,​​ Abilità differenti. Processi educativi,​​ co-educazione e percorsi delle differenze, Milano, Angeli, 2004.

P. Gianola




COGNITIVISMO

 

COGNITIVISMO

Il c. è uno degli approcci psicologici più antichi ma anche più recenti allo studio dell’attività mentale.

1.​​ Origini e critiche.​​ Le sue origini coincidono con l’apertura a Lipsia da parte di​​ ​​ Wundt di un laboratorio di psicologia sperimentale (1879) e l’esportazione dei principi e idee dello psicologo tedesco negli Stati Uniti per opera di E. B. Titchener (1892). La caratteristica fondamentale della metodologia elaborata nel centro di Wundt era l’uso sistematico della tecnica dell’introspezione nell’indagine sulla mente umana. Soggetti debitamente preparati dovevano osservare la propria esperienza conscia allorché erano colpiti da uno stimolo e tentare di riferirla il più oggettivamente possibile. L’approccio di Wundt allo studio dei processi mentali coscienti dell’uomo suscitò consensi in illustri contemporanei come Ebbinghaus e​​ ​​ James, ma col tempo incontrò crescenti difficoltà sia per l’imprecisione dei risultati che per lo svilupparsi di altri approcci psicologici come: il behaviorismo (Pavlov,​​ ​​ Watson, Thorndike,​​ ​​ Skinner), il gestaltismo (Köhler, Wertheimer) e la​​ ​​ psicoanalisi (Freud). Il primo riteneva che la coscienza fosse un fenomeno dai contorni troppo vaghi e imprecisi perché potesse divenire oggetto di accurato controllo scientifico. Per questo motivo scelse come campo elettivo d’indagine il comportamento direttamente osservabile. Per esso, ad es., l’apprendimento era più un problema di cambiamenti in un comportamento osservabile che qualcosa che avveniva nella mente; allo stesso tempo il pensiero era più un formarsi di associazioni di stimoli che un’attività interna alla persona. Per il gestaltismo, l’attività mentale era frutto di una tendenza innata dell’uomo a dare o trovare ordine nel caos. In contrasto con l’orientamento introspezionista che analizzava uno stimolo in distinte sensazioni, la scuola della gestalt privilegiava i concetti del significato e dell’organizzazione degli oggetti e degli eventi sottolineando come l’esperienza entrasse nella mente in forme strutturate. Per la gestalt molto importante, più delle fasi di un processo, era l’insight,​​ ovvero l’intuizione grazie a cui le varie parti di un problema apparentemente irrelate tra loro diventavano in un istante una struttura coerente. La psicoanalisi sosteneva l’esistenza di un’attività inconscia della mente e la possibilità di trovare in essa la spiegazione più profonda degli atteggiamenti e comportamenti manifesti.

2.​​ Le condizioni che hanno favorito la rinascita della prospettiva cognitivista.​​ Vari fattori ed eventi hanno contribuito al risorgere dell’approccio cognitivista: la crisi del behaviorismo, lo sviluppo degli studi sul linguaggio, la diffusione delle idee di​​ ​​ Piaget, la nascita dell’​​ ​​ intelligenza artificiale e le possibilità simulative del computer, i progressi nel campo della tecnologia militare. L’approccio behaviorista si diffuse largamente negli Stati Uniti a partire dal 1913, anno in cui Watson proclamò i principi di una scienza oggettiva del comportamento, ma lentamente manifestò anche i suoi limiti. Al suo rapido declino contribuirono in maniera determinante le teorie di Chomsky sull’organizzazione e sviluppo del linguaggio. La critica che il giovane linguista avanzò a metà degli anni ’50 all’interpretazione behaviorista del linguaggio umano di Skinner fu spietata e raccolse ampi consensi. Gardner (1985) fa coincidere la fine del behaviorismo e la nascita del nuovo approccio cognitivista, ed in particolare della «scienza cognitiva», con il Symposium on Information Theory tenutosi al Massachusetts Institute of Technology tra il 10-12 settembre del 1956. Esso, per dirla con Kuhn (1962), significò l’assunzione di un nuovo «paradigma» che realizzò una «rivoluzione» cognitivista. In tale raduno Chomsky offrì una teoria interpretativa del comportamento linguistico in netto contrasto con le posizioni behavioriste. L’analisi del linguaggio umano rivelava che la mente umana non è affatto un «foglio di carta bianco», ma dispone di proprietà formali innate (simili a quelle della matematica) seguendo le quali è in grado di comprendere, produrre e trasformare qualsiasi tipo di frase. Al raduno del MIT parteciparono anche Newell e Simon, che presentarono un programma computerizzato che simulava i processi umani nell’attività di​​ problem solving.​​ Contemporaneamente o qualche anno dopo la presentazione degli studi di Chomsky e di Newell e Simon vengono pubblicate opere che avanzano ipotesi e modelli della mente umana. Nello stesso anno del raduno del MIT, Bruner, Goodnow e Austin (1956) pubblicano un volume sui processi di formazione dei concetti. L’anno successivo, Miller (1957) evidenzia i limiti della memoria, mentre appena un anno dopo, Broadbent (1958), riprendendo una suddivisione della memoria di James in primaria e secondaria, parla di memoria sensoriale e a lungo termine, di processi di attenzione selettiva e descrive i processi attraverso un​​ flow-chart,​​ includendo sistemi di​​ feed-back​​ (sistemi di fasi di trasformazione dello stimolo iniziale con sistemi di reazione aventi funzione di controllo). La strada era aperta. Negli anni seguenti i progressi della ricerca rinforzarono sempre di più la convinzione che la mente dell’uomo non era una «scatola nera» nella quale era impossibile far luce. Neisser (1967), Atkinson e Shiffrin (1968), Paivio (1971), Newell e Simon (1972), McClelland, Rumelhart e il gruppo di ricerca PDP (1986) sono alcuni degli scienziati che contribuirono allo sviluppo del c. Al crollo del behaviorismo e alla nascita di una nuova prospettiva cognitivista concorse anche la diffusione del pensiero di Piaget sullo sviluppo cognitivo del bambino e la riscoperta degli studi di Bartlett sul comportamento della memoria. Lo studioso ginevrino sottolineò come esso avvenisse non grazie a meccanismi di tipo associativo, ma attraverso un processo di adattamento continuo del bambino all’ambiente con il quale viene a contatto. Quando è posta di fronte ad una situazione nuova, la mente si trova in una condizione di squilibrio (o di disadattamento) il cui superamento si verifica attraverso i processi di assimilazione e di accomodamento. Con il primo qualunque nuovo dato di esperienza (ad es., un oggetto o un’idea) è incorporato in «schemi» mentali che il bambino già possiede; con il secondo gli «schemi» già posseduti si modificano per adattarsi alle caratteristiche inattese del nuovo dato di esperienza. Al di là della plausibilità delle sue interpretazioni e osservazioni, Piaget contribuì a far sentire come assolutamente inadeguata la posizione behaviorista sull’apprendimento. Alle prospettive aperte da Piaget si può anche aggiungere la riscoperta delle ricerche di Bartlett (1932) sulle conoscenze nella mente. Indagando sul ricordo di soggetti dopo la lettura di una storia, egli scoprì che ciò che era riferito non era una registrazione precisa del testo, ma uno «schema» che si andava via via deteriorando con il tempo. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale fornì un nuovo e forte impulso all’approccio cognitivista. La guerra favorì la crescita di interesse non solo per la psicologia dell’orientamento, cioè per i procedimenti efficaci e veloci di selezione e addestramento dei giovani da mandare sul fronte, ma anche per le macchine «intelligenti» in grado di simulare, sostituire e potenziare le capacità mentali dell’uomo.

3.​​ Scienza cognitiva e psicologia cognitivista.​​ Attualmente un certo numero di discipline (apparentemente molto lontane tra loro) sono impegnate nello studio e nella comprensione del funzionamento della mente umana. Esse costituiscono ciò che, con un termine molto generale, si definisce «scienza cognitiva» e sono rappresentate dalla psicologia cognitivista, biologia, antropologia, scienza computazionale, linguistica, filosofia, neuroscienza, educazione. La scienza cognitiva non è un campo di indagine coerente in se stesso, ma una prospettiva che orienta le diverse discipline alla ricerca di una risposta agli stessi problemi e interrogativi; come è rappresentata nella mente la conoscenza? Come viene acquisita e modificata la conoscenza umana? Come funziona la mente umana? Che cosa sono e come differiscono tra loro le conoscenze per immagini, quelle esperienziali e quelle astratte? Stillings e altri descrivono concretamente la prospettiva della scienza cognitiva in questo modo: «Gli psicologi enfatizzano gli esperimenti controllati di laboratorio e le osservazioni dettagliate e sistematiche di comportamenti che avvengono naturalmente. I linguisti controllano le ipotesi sulla struttura grammaticale analizzando le intuizioni di un parlante sulle frasi strutturate grammaticalmente e no o osservando gli errori commessi da bambini nel parlare. I ricercatori di intelligenza artificiale controllano le loro teorie scrivendo programmi che riproducono un comportamento intelligente e osservando dove esso non funziona. I filosofi controllano la coerenza concettuale delle teorie cognitive scientifiche e formulano costruzioni generali che teorie corrette devono seguire. I neuroscienziati studiano i fondamenti fisiologici dell’elaborazione dell’informazione nel cervello» (1987, 13). Oltre che da un punto di vista metodologico, la scienza cognitiva può essere definita anche in base alle aree preferenziali di ricerca: la percezione (soprattutto il processo di percezione delle parole fino all’accesso lessicale, oppure i processi di elaborazione delle immagini), la rappresentazione delle conoscenze (concetti o conoscenze complesse), il linguaggio (lessicale, proposizionale e testuale), l’apprendimento (sia di macchine che umano) e il pensare (in modo particolare i processi di ragionamento, di decisione, di soluzione di problemi). La psicologia cognitivista assume sugli argomenti sopra elencati questo particolare punto di vista: ricostruire le fasi e le trasformazioni che uno stimolo subisce dallo stadio iniziale allo stadio finale del processo di elaborazione. Il modello a cui essa si ispira è fondamentalmente quello descritto da Newell e Simon (1972), Lachman, Lachman e Butterfield (1979). Secondo questi studiosi la mente umana va vista come un sistema di elaborazione finalizzato. Nel processo di elaborazione oggetti o informazioni rappresentabili in simboli (cioè elementi connessi da relazioni logiche) sono trasformati in altri simboli da processi che discriminano, selezionano, controllano, confrontano e archiviano. Poiché si svolgono nel tempo, tali processi possono essere analizzati e controllati attraverso il tempo che intercorre tra l’inizio e la fine delle operazioni. Le strutture di elaborazione sono fondamentalmente tre: la memoria sensoriale, la​​ ​​ memoria a breve termine (o anche memoria lavoro) e la memoria a lungo termine.

4.​​ Sviluppi.​​ Dagli inizi e dalle prime intuizioni numerosi sviluppi e differenziazioni si sono avuti in questi pochi decenni. Pur rimanendo identico lo scopo finale di scoprire il processo di trasformazione dal suo input al suo output di una qualsiasi prestazione, diverse metodologie hanno dato origine a diversi sviluppi scientifici distinti e dialoganti tra loro. La stretta analogia posta tra le assunzioni di partenza con la scienza computazionale ha portato molti psicologi a scoprire l’attività mentale umana attraverso simulazioni computerizzate. Altri hanno utilizzato l’approccio sperimentale su soggetti reali e normali e continuano a ricercare l’evidenza di fasi di trasformazione. I neuroscienziati cercano nel sistema nervoso il luogo e lo svolgersi dei processi di elaborazione. Altri, abbandonando uno dei capisaldi dell’approccio dell’elaborazione dell’informazione (la rappresentazione simbolica e le fasi di trasformazione), cercano di spiegare il processo di elaborazione solo attraverso un sistema di unità interconnesse che permettono o inibiscono il passaggio dell’informazione («connessionismo»).

Bibliografia

Bartlett F. C,​​ Remembering,​​ Cambridge, Cambridge University Press, 1932; Bruner J. S. - J. J. Goodnow - G. A. Austin,​​ A study of thinking,​​ New York, Wiley, 1956; Miller G. A.,​​ The magical number seven plus or minus two: Some limits on our capacity for processing information,​​ «Psychological Review» 63 (1957) 81-97; Neisser U.,​​ Cognitive psychology,​​ New York, Appleton-Century-Crofts, 1967; Atkinson R. C. - R. M. Shiffrin, «Human memory: a proposed system and its control processes», in K. W. Spence - J. T. Spence (Edd.),​​ The psychology of learning and motivation,​​ vol. 2, New York, Academic Press, 1968, 89-195; Paivio A.,​​ Imagery and verbal processes,​​ New York, Holt, Rinehart & Winston, 1971; Newell A. - H. A. Simon,​​ Human problem solving,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1972; Lachman R. - J. L. Lachman - E. C. Butterfield,​​ Cognitive psychology and information processing,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1979; Gardner H.,​​ Mind’s new science,​​ New York, Basic Books, 1985; Stillings N. A. et al.,​​ Cognitive science: an introduction,​​ Cambridge, MIT Press, 1987; Kellogg R. T.,​​ Cognitive psychology,​​ Thousand Oaks, CA, Sage, 1995; Murray D. J.,​​ Gestalt psychology and the cognitive revolution,​​ New York, Harvester & Wheatsheaf, 1995.

M. Comoglio




COLLEGIO

 

COLLEGIO

Collegium​​ in lat. significa gruppo di persone unite fra loro da vincoli ed interessi professionali comuni, come ad es. i c. di artigiani, medici, maestri, ecc. In contesto pedagogico, s’intende per c. una convivenza di giovani, organizzata a fini istruttivi ed educativi, normalmente in regime di internato (​​ Comunità educativa / scolastica). In ambiente anglosassone e spagnolo, il c. indica anche la scuola secondaria (spesso con seminternato) e determinate istituzioni di livello universitario.

1. Quando sono create le prime università medievali, sorgono intorno ad esse alloggi per studenti (hospitia),​​ nei quali passare la notte. In seguito compaiono i c. nei quali vivono i collegiali in comune, seguendo alcune norme imposte dal fondatore. Questi c. potevano essere destinati a chierici e a laici. I posti erano limitati e questo obbligava chi li occupava a seguire con regolarità gli studi. Nello stesso tempo nel c. bisognava condurre una vita comunitaria molto simile alla vita monacale. I c. clericali erano di solito diretti da un sacerdote responsabile come priore, mentre nei c. destinati alla formazione dei laici vigeva l’autogoverno e tutto dipendeva dagli stessi collegiali, in accordo con delle norme stabilite dalle costituzioni e dai regolamenti del fondatore. Dai collegiali dipendeva la selezione degli aspiranti, l’amministrazione delle rette e l’imposizione delle misure disciplinari necessarie. Tutti gli incarichi erano a rotazione e chiunque poteva essere eletto priore. Il c. offriva gratuitamente alloggio, vitto, uniforme, biblioteca e, in certi casi, lezioni di ripetizione, impartite dagli stessi professori dell’università. Famoso fu il c. fondato a Bologna nel 1364 dal cardinale Gil de Albornoz per studenti spagnoli che si chiamò e si chiama ancora oggi «Colegio de San Clemente». Durante la sua lunga attività è servito da casa di studio e di formazione ad un ridotto e selezionato gruppo di brillanti studenti.

2. In questi c. universitari furono educati i quadri dirigenti sui quali si edificò lo stato moderno dei secc. XV, XVI e XVII, soprattutto in quelli più prestigiosi, nei cosiddetti c. maggiori spagnoli, che erano meglio dotati economicamente e di più difficile accesso, per le impegnative prove di selezione. Ogni nazione ebbe i suoi centri di formazione elitaria. Tutti i collegiali di ogni città universitaria erano obbligati a vestire la propria divisa da studente, di colore diverso, a seconda del c. al quale appartenevano. La divisa consisteva in una tunica senza maniche, aperta ai lati e lunga fino ai piedi, più una sciarpa di colore diverso incrociata sul petto e pendente sulle spalle, oltre ad un berretto nero. Questa uniforme era una specie di passaporto che identificava pubblicamente gli studenti e garantiva loro da parte della popolazione il riconoscimento di appartenere al foro universitario, che dava molti privilegi.

3. I c. universitari cominciarono a decadere a partire dal sec. XVII, quando furono controllati dalla aristocrazia, che vedeva in essi una valida agenzia di collocamento alla fine degli studi. In Spagna, Francia e in altri Paesi scomparvero con l’antico regime. Certamente, mantennero il proprio prestigio aristocratico e gli antichi usi medievali i c. di Oxford, Cambridge ed Harvard. Durante il sec. XIX le scuole private spagnole utilizzarono il nome di c. per distinguersi dalle scuole pubbliche statali, frequentate dalle classi più umili. Nel sec. seguente, sia in Francia che in Spagna, si sono creati c. universitari che hanno poco a che vedere con gli antichi c.; la loro funzione è stata la stessa: formare una​​ élite​​ di studenti meglio preparata degli altri in campo scientifico, politico e nelle scienze religiose, d’accordo con le esigenze dei tempi moderni. Molti degli attuali c. universitari, ciononostante, sono più residenze studentesche che centri di formazione.

Bibliografia

Lafuente V. de,​​ Historia de las universidades,​​ colegios y demás establecimientos de enseñanza en España,​​ 4 voll.,​​ Madrid, 1884-1889;​​ D’Irsay S.,​​ Histoire des universités françaises et étrangères de ses origines à nos jours, 2 voll., Paris,​​ 1933-1935; Misani A.,​​ Educazione di c., Milano, Ancora, 1945; Di Fazio C.,​​ C. universitari italiani,​​ Roma, Fondazione Rui, 1975; Martín L.,​​ La conquista intelectual del Perú: el colegio jesuita de San Pablo, Barcelona, Casiopea, 2001.

B. Delgado




COLLOQUIO

 

COLLOQUIO

Il termine c. non si presta ad una definizione univoca. Infatti, in base allo specifico della disciplina di riferimento che all’interno delle scienze umane è presa in considerazione, possiamo imbatterci in interpretazioni diverse e non sempre sovrapponibili.

1. Trentini (1995) riporta diverse definizioni che ricorrono in letteratura: «una conversazione seria, tendente ad un determinato scopo, ad di là del puro e semplice piacere della conversazione stessa» (Moore, 1941, cit. in Trentini, 1995, 40); «una comunicazione che consiste non soltanto in uno scambio di messaggi verbali, ma piuttosto nello sviluppo di una configurazione delicata e complessa di processi di campo che comportano conclusioni importanti per le persone che entrano a farne parte» (Sullivan, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «una situazione in cui la comunicazione avviene in primo luogo a voce, in un gruppo di due persone, che si incontrano più o meno volontariamente, sulla base di un rapporto esperto-cliente, con lo scopo di chiarire il modo caratteristico di vivere di una persona» (Stack, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «un processo di interazione nel quale è importante non tanto il fatto meccanico consistente in una serie di episodi discreti stimolo-risposta; ma piuttosto sono importanti i fini, gli atteggiamenti, le credenze ed i motivi dei protagonisti dell’interazione» (Cannel, 1968, cit. in Trentini, 1995, 40); «un’interrogazione ed un rapporto e più precisamente un’interrogazione diretta a conoscere gli eventi passati della vita del soggetto e a trarre una interpretazione del suo comportamento» (Ancona e Gemelli, 1959, cit. in Trentini, 1995, 40).

2. I contesti del c. possono essere diversificati: scolastico, giudiziario, aziendale, psichiatrico, giornalistico, ecc. In senso più strettamente psicologico i principali ambiti applicativi vengono suddivisi in : c. clinico, c. di ricerca, c. orientativo. Il c. clinico è una tecnica di osservazione e di studio del comportamento umano i cui scopi sono sia quelli di raccogliere le informazioni, che quelli di motivare il soggetto coinvolto ad un auspicabile cambiamento. Il c. di ricerca ha per oggetto di studio la conoscenza di un determinato oggetto che può riguardare diversi ambiti della psicologia e può essere utilizzato sia come strumento che precede la ricerca vera e propria (analisi preliminare su un fenomeno), sia come metodologia per raccogliere dati. Il c. orientativo mira a raccogliere informazioni su comportamenti, atteggiamenti, motivazioni, interessi al fine di aiutare il soggetto a chiarire le proprie scelte scolastiche e professionali. Esso prevede tre momenti salienti: fase esplorativa (accoglienza ed individuazione della soggettività dell’intervistato); fase diagnostica-valutativa (raccolta di dati specifici); fase progettuale (sintesi orientativa e congedo dell’intervistato). Al di là delle diverse formulazioni e dei diversi ambiti applicativi è comunque rintracciabile nelle diverse forme di c. un elemento comune: l’interazione tra due persone. All’interno di quest’ultima gli elementi che sono ritenuti fondamentali dai diversi autori concernono il cosa le persone dicono e il come lo dicono. Risulta pertanto preziosa la cura degli aspetti contenutistici e relazionali tanto da parte dell’emittente come del ricevente.

3.​​ Dal punto di vista contenutistico​​ ai partners in interazione si richiede in primo luogo di curare la formulazione dei messaggi in vista della comprensione altrui, comprensione che dipende prevalentemente dalla scelta delle parole dal proprio universo linguistico, dalla struttura sintattica utilizzata, e dalla organizzazione stessa del messaggio. A questo riguardo occorre tener presenti i parametri della semplicità, dell’ordine, della brevità e della stimolazione. L’emittente, nel trasmettere i significati, adotta il criterio della​​ semplicità​​ quando fa uso di messaggi accessibili e comprensibili per l’interlocutore rispettandone la singolarità (per es. cultura, età, professione, classe sociale). Al contrario viene meno a questo criterio quando usa messaggi non alla portata degli ascoltatori o si perde nella ricerca della formulazione esteticamente migliore, a scapito della chiarezza. Mentre la semplicità riguarda la modalità di costruzione linguistica del messaggio, il criterio dell’ordine​​ concerne la struttura di tutta la comunicazione ed è tanto più importante quanto più la comunicazione è articolata e complessa. L’ordine nel trasmettere i messaggi è di tipo interno e di tipo esterno. L’emittente realizza l’ordine interno quando comunica secondo una sequenza logica ed evidente. L’ordine esterno riguarda gli aspetti formali della trasmissione che l’emittente esplicita indicando le fasi della comunicazione (per es. introduzione, fase espositiva) e distinguendo le parti essenziali dalle meno rilevanti. Il criterio della​​ brevità​​ richiede che l’emittente trasmetta i significati attraverso messaggi propriamente necessari, evitando ridondanze e prolissità. Il criterio della​​ stimolazione, infine, concerne la capacità dell’emittente di rendere la comunicazione interessante, piacevole e coinvolgente. Se i parametri appena descritti riguardano la formulazione dei messaggi (cosa si trasmette), le qualità processuali si riferiscono agli aspetti più propriamente relazionali (come lo si trasmette). A tal proposito, si richiede all’emittente di prestare attenzione al comportamento non verbale, di esprimersi in modo descrittivo ed orientato al problema, spontaneamente ed empaticamente, rispettando la pari dignità, al fine di instaurare un clima di fiducia ed apertura reciproca con le persone in comunicazione. Al contrario quando l’emittente interagisce in modo valutativo, quando cerca di esercitare il controllo, usa strategie manipolative e non si coinvolge come persona, quando dimostra superiorità ed assume atteggiamenti rigidi e dogmatici, facilmente si può creare un clima di difesa e di ostilità.

4. Oltre a curare gli aspetti contenutistici e relazionali nel ruolo di emittenti, ai fini di un buon c. si richiede ai partners in interazione di sapersi ascoltare. Ciò implica una apertura verso la fonte comunicativa nonché l’impegno a comprendere i messaggi nel significato che essi hanno per la fonte comunicativa. In particolare si richiede al ricevente di essere attento ai messaggi nel loro contesto comunicativo, di effettuare comportamenti di supporto e di sospendere preventivamente un atteggiamento critico-valutativo. Si realizza l’attenzione​​ ai messaggi all’interno del contesto comunicativo, quando il ricevente recepisce questi ultimi con un’attenzione non strutturata (Villard-Whipple, 1976) cogliendoli in riferimento all’intero contesto. Nel caso, invece, in cui una persona recepisse in modo selettivo i messaggi, o li interpretasse indipendentemente dal loro contesto, il ruolo di ricevente sarebbe realizzato deficitariamente. Soltanto quando ci apriamo alla totalità dei messaggi comprendendoli secondo gli schemi, le esperienze e le intenzioni dell’emittente, possiamo soddisfare il criterio dell’apertura e della attenzione non strutturata. Realizzare il ruolo di ricevente comprende anche comportamenti di​​ supporto. L’esperienza quotidiana ci mostra come sia indispensabile vedere che gli altri seguono la nostra comunicazione. Nelle situazioni comunicative in cui il ricevente si mostra freddo, si comporta in modo non autentico ed interviene in modo direttivo, non solo non si stabilisce una piattaforma relazionale, ma si possono anche indurre delle esperienze di scoraggiamento e di disinteresse nel proseguire la comunicazione. Ricevere la comunicazione degli altri non soltanto richiede che il ricevente si apra alla totalità della comunicazione dell’altro e che realizzi un adeguato comportamento di supporto, ma che la​​ interpreti appropriatamente. L’interpretazione della comunicazione può essere facilitata se il ricevente esamina il tipo di messaggi, la loro corrispondenza alla realtà e ai diversi contenuti in essa comunicati. Per quanto riguarda il riconoscere i tipi di messaggi, il ricevente dovrà esaminare se si tratta di una costatazione, una valutazione o di una ipotesi sulla realtà. Nel caso della costatazione l’emittente riporta dati di fatto, possibilmente osservati e documentati; nel caso delle valutazioni o ipotesi circa la realtà vengono comunicati contenuti che riflettono le esperienze e le cognizioni dell’emittente sulla realtà. Questo ultimo tipo di comunicazione è comunque da valutare riguardo alla personalità dell’emittente ed alle sue competenze circa il trattamento della realtà in riferimento. La qualità dell’interpretazione della comunicazione dipende anche dalla capacità del ricevente di esaminarla considerando gli aspetti taciti ed espliciti presenti in un messaggio. A questo riguardo Schulz von Thun (1984, 44s.) suggerisce di discriminare i messaggi secondo tre dimensioni: la dimensione contenutistica («Cosa l’altro dice?»), la dimensione relazionale («Come lo dice?», «Come definisce la relazione reciproca?») ed, infine, la dimensione appellativa («Che cosa devo fare, pensare e sentire di fronte alla sua comunicazione?»). Quando il ricevente legge la comunicazione tenendo presenti queste dimensioni facilmente può cogliere i contenuti nella loro interezza realizzando una buona comprensione. Pertanto, la buona riuscita di un c. non può prescindere dalle competenze comunicative dell’emittente, ma soprattutto del ricevente.

Bibliografia

Schulz von Thun F.,​​ Verständlich informieren,​​ in «Psychologie Heute»​​ 2 (1975) 42-51; Villard K. L. - L. J. Whipple,​​ Beginnings in relational communication,​​ London, J. Wiley, 1976; Franta H. - G. Salonia,​​ Comunicazione interpersonale,​​ Roma, LAS, 1979;​​ Schulz v. Thun F.,​​ Miteinander reden: Störungen und Klarungen. Psychologie​​ der zwischenmenschlichen Kommunikation,​​ Rowohlt, Reinbek,​​ 1984; Franta H.,​​ Comunicazione interpersonale nella scuola: dimensioni di ricerca,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 428-440; Trentini G.,​​ Manuale del c. e dell’intervista, Torino, UTET, 1995; Lis A. - P. Venuti - M. De Zordo,​​ Il c. come strumento psicologico, Firenze, Giunti, 1995; Pombeni M.,​​ Il c. di orientamento, Bologna, Il Mulino, 1995; Crimini P. - E. Del Pianto,​​ Come affrontare una selezione, Milano, Angeli, 2000.

H. Franta - A. R. Colasanti




COLOMB Joseph

 

COLOMB Joseph

n. a Lione nel 1902 - m. a Strasburgo nel 1979, sacerdote francese, educatore religioso.

1. Ordinato sacerdote nel 1926, insegnò filosofia nella Facoltà Cattolica di Lione, e venne nominato alla direzione della catechesi nella diocesi nel 1945. Divenuto nel 1954 direttore del Centro nazionale francese della catechesi, in seguito alla crisi del 1957 sul «catechismo progressivo», lasciò Parigi nel 1958 e fondò nel 1962 a Strasburgo l’Institut de Pastorale Catéchétique,​​ che diresse fino al 1971. Si dedicò quindi all’educazione religiosa degli adulti e a scrivere un importante manuale di​​ ​​ catechetica.

2. Merita di essere considerato il contributo di C. alla pedagogia religiosa. Valido organizzatore e promotore del movimento per l’educazione religiosa, fondò a Lione una scuola a tempo pieno per la formazione di catechisti di professione, rivalutò l’opera dei genitori come educatori religiosi e propugnò la necessità dell’educazione religiosa per tutte le età della vita. Segnalò fin dall’inizio l’urgenza di una riforma radicale dell’organizzazione, dei contenuti e dei metodi dell’educazione religiosa e cristiana, adatta a una società in avanzata​​ ​​ secolarizzazione. L’istituzione catechistica doveva trasformarsi in vero e proprio catecumenato, i contenuti dovevano essere arricchiti con gli apporti del movimento liturgico e biblico contemporanei (Aux sources du catéchisme,​​ 1946-48) e del rinnovamento teologico (La doctrine de vie au catéchisme,​​ 1952-54): Bibbia, liturgia e dottrina dovevano contribuire a una solida formazione spirituale. Accettò l’ispirazione della pedagogia attiva in campo religioso, e fondò su studi psicologici il lancio di una catechesi progressiva, che le autorità ecclesiastiche ritennero bisognosa di una necessaria e prudente correzione. La sua più importante opera teorica è il manuale di catechetica​​ Le service de l’Évangile​​ (1968), subito tradotto in lingua it. e sp. C. è un vero teologo della catechesi e rimane soprattutto teologo, però con forti interessi verso gli apporti della psicologia e della sociologia (forse meno della pedagogia), nell’intento proclamato di una composizione tra il mistero cristiano e i dati provenienti dalla situazione culturale e pastorale e dalle scienze umane («fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo»).

Bibliografia

Boyer A.,​​ Un demi-siècle au sein du mouvement catéchétique français,​​ Paris, L’École, 1966;​​ J.C. et le mouvement catéchétique,​​ in «Catéchèse» 20 (1980) 80 (n. monogr.); Adler G. - G. Vogeleisen,​​ Un siècle de catéchèse en France,​​ Paris, Beauchesne, 1981.

U. Gianetto




COMPETENZA

 

COMPETENZA

La parola deriva in realtà dal latino «cum petere», ovvero chiedere insieme, pretendere, ma evoca anche il verbo italiano «competere», cioè far fronte a una situazione sfidante, o il sostantivo «competizione», che riporta all’immagine di atleti che si confrontano per vincere un gara, o di candidati politici, che aspirano a conquistare i voti necessari per ottenere un seggio parlamentare. Le accezioni attuali più comuni sono da una parte di natura giuridica e, dall’altra, di natura professionale. La prima accezione riguarda la legittimità di un mandato, di trattare una categoria di affari, avendo l’autorità per farlo. La seconda, concerne l’autorevolezza che deriva dalla padronanza di un saper condurre in un ambito specifico attività professionali specializzate. L’utilizzazione che progressivamente è stata adottata del termine c. nel mondo della formazione e del lavoro, e poi della scuola, risente di queste due accezioni: è la richiesta di ottenere un riconoscimento della padronanza di capacità specifiche nel contesto in cui si opera; e, contemporaneamente, considerare questo riconoscimento come legittima base per una sua valorizzazione nella propria carriera di studio e / o professionale.

1.​​ Definizione.​​ Una c. è definibile a partire dalla tipologia di compiti o attività che si devono svolgere validamente ed efficacemente. Esse, in base ai compiti per i quali sono richieste, possono essere più specificatamente legate a una disciplina o materia di insegnamento, oppure avere carattere trasversale. In questo secondo caso i compiti hanno caratteristiche comuni quanto a conoscenze, abilità e disposizioni interne che devono essere attivate e coordinate. La complessità e novità del compito o della attività da sviluppare caratterizzano anche la qualità e il livello della c. implicata. Tali caratteristiche dipendono dall’età e dall’esperienza dello studente. È ben diversa la situazione di un bambino della scuola dell’infanzia, della seconda classe della scuola primaria o della terza classe della scuola secondaria di 1° grado. Una c. si manifesta perché si riesce a mettere in moto e coordinare un insieme di conoscenze, abilità e altre disposizioni interne (interessi, significati, valori, ecc.) al fine di svolgere positivamente il compito o l’attività prescelta. Queste risorse interne debbono essere quindi possedute a un grado di significatività, stabilità e fruibilità adeguato, tale cioè da poter essere individuate e messe in moto quando esse siano necessarie per affrontare il compito richiesto. Tra le risorse che occorre saper individuare, utilizzare e coordinare molto spesso occorre considerare non solo risorse interne, ma anche risorse esterne. Non si tratta solo di risorse di natura fisica o materiale come libri, strumenti di calcolo, computer, ma anche umane come il docente stesso, i compagni, altre persone che è possibile coinvolgere nella propria attività. Si parla oggi di comunità di studenti per indicare che molte volte è la capacità di coordinare la pluralità delle c. possedute dai membri del gruppo che consente di portare a termine il compito o i compiti assegnati. Di qui una definizione sintetica di c. valorizzabile in campo educativo scolastico e formativo: capacità di mettere in moto e di coordinare le risorse interne possedute e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti da svolgere e / o di situazioni sfidanti.

2.​​ Sviluppo delle c.​​ Lo sviluppo delle c. è certamente legato alla costruzione di conoscenze e abilità significative, stabili e fruibili, allo sviluppo di disposizioni interiori valide e feconde, ma è la pratica, l’esercizio che ne sta alla base. A questo proposito sono state suggerite varie modalità di intervento per promuoverle nel contesto scolastico. Tra queste, quattro presentano aspetti positivi e qualche problema di attuazione: l’apprendistato cognitivo; la presentazione di una famiglia di situazioni; la pedagogia del progetto; la valorizzazione della situazione-problema (Pellerey, 2004). Lo sviluppo delle c. non avviene solo come complessificazione di schemi interpretativi e d’azione, bensì anche sulla base di un loro adattamento e di una loro valorizzazione in situazioni e contesti diversi da quello nel quale esse sono state sviluppate. Si tratta di ciò che è stato denominato il problema del transfer o trasferimento delle c. La capacità di attivare un processo di transfer o trasferimento delle proprie c., implica lo sviluppo di quattro componenti fondamentali (Pellerey, 2002). In primo luogo occorre promuovere la disponibilità a considerare da un punto di vista superiore le proprie c. in relazione alle nuove situazioni o ai nuovi compiti da affrontare. È una forma di consapevolezza del proprio livello di c. di fronte ai nuovi impegni. In secondo luogo, entra in gioco un’adeguata sensibilità per avvertire, se c’è, la presenza di una distanza tra le c. già acquisite e quelle che si richiederebbero nella nuova situazione. Ciò non basta; occorre anche che si riesca ad avvertire l’entità di tale distanza e quindi quanto impegnativo in termini di tempo e di sforzo personale potrà essere l’adattare o il trasformare le proprie c. In terzo luogo è coinvolta la capacità di individuare quali risorse interne o esterne debbono essere prese in considerazione al fine di affrontare la sfida incontrata. Non solo, se si constata che alcune conoscenze e / o abilità sono inadeguate, essere disponibile ad arricchirle opportunamente. Infine, è bene non dimenticarlo, è richiesta la capacità non solo di giungere alla decisione effettiva di affrontare il lavoro necessario per adattare o trasformare le c. in oggetto, ma anche, e soprattutto, la capacità di impegnarsi per un tempo adeguato e mettendo in campo tutte le forme di controllo dell’azione che consentono di portare a termine la decisione presa.

3.​​ Valutazione delle c.​​ Il riconoscimento da parte degli altri della presenza di una c. non è impresa facile, perché per sua natura una c. è una qualità personale interna non direttamente osservabile. Ciò che possiamo cogliere sono le sue manifestazioni esterne, cioè la capacità di portare a termine validamente i compiti assegnati. Occorre anche dire che di per sé non è sufficiente rilevare una singola prestazione positiva (o negativa) per poter certificare il possesso o meno di una c., bensì occorre disporre di un ventaglio o insieme di prestazioni, sulla base del quale sia possibile arguire la presenza di una c. che costituisca ormai un patrimonio stabile della persona. È possibile, dunque, inferire la presenza di una c. non solo genericamente, ma anche in maniera articolata sulla base di una famiglia di prestazioni, e di un insieme di comportamenti, che svolgono il ruolo di indicatori di esistenza e di livello raggiunto. Solo nel caso di c. elementari che mettano in gioco schemi d’azione di tipo ripetitivo, oppure assai semplici applicazioni di regole e principi, è possibile valutarne l’acquisizione osservando una o poche prestazioni. Dalla constatazione della complessità del processo di valutazione e ancor più di certificazione delle c. deriva l’indicazione di procedere a una raccolta sistematica di elementi documentari provenienti da fonti e secondo metodi diversificati per poter giungere a una conclusione sufficientemente fondata e plausibile. Di conseguenza spesso si suggerisce di procedere secondo un piano di lavoro che si richiama al metodo della «triangolazione», a volte utilizzato nella ricerca educativa e sociale. In sintesi, si tratta di raccogliere informazioni pertinenti, valide e affidabili con una pluralità di modalità di accertamento, in genere almeno tre, che permettono di sviluppare un lavoro di interpretazione e di elaborazione del giudizio che sia fondato e conclusivo.

Bibliografia

Le Boterf G.,​​ De la compétence. Essai sur un attracteur étrange, Paris, Éditions d’Organisation, 1994; Id.,​​ Construire les compétences individuelles et collectives, Ibid., 2000; Perrenoud P.,​​ Costruire c. a partire dalla scuola, Roma, Anicia, 2003; Varisco B. M.,​​ Portfolio,​​ valutazione di apprendimenti e c., Roma, Carocci, 2004; Pellerey M.,​​ Le c. individuali e il portfolio, Firenze, La Nuova Italia, 2004;​​ López-Mezquita Molina Ma​​ T.,​​ La evaluación de la competencia léxica: tests de vocabulario,​​ su fiabilidad y validez, Granada, Editorial Universidad de Granada, 2007.

M. Pellerey




COMPETITIVITÀ

 

COMPETITIVITÀ

La c. è quella serie di atteggiamenti, comportamenti e processi messi in atto da una pluralità di individui o gruppi sociali che convergono con uguali pretese per il raggiungimento di scopi o risorse identiche, ma fortemente limitate rispetto ad una domanda sempre relativamente eccedente.

1.​​ Distinzioni.​​ Il moltiplicarsi dei soggetti sociali, tratto caratteristico della società complessa, amplifica anche la concorrenzialità rispetto a obiettivi e beni scarsamente riproducibili. Il primo obiettivo della c. è perciò diretto ad ottenere l’oggetto desiderato più che a concorrere con i competitori. Questi vogliono tutti ottenere per sé, sottraendola necessariamente agli altri, la quota più alta possibile della stessa risorsa (reddito, potere, prestigio). La scarsità delle risorse perciò è un elemento essenziale della c., ma non lo è nello stesso modo del​​ ​​ conflitto. Per Park e Burgess, la c. si distingue dal conflitto, in quanto questa è una lotta tra individui o gruppi che non sono necessariamente in contatto, né comunicano tra loro, mentre il conflitto è una contesa in cui il contatto è indispensabile. La c. inoltre è inconscia, mentre il conflitto è sempre cosciente; si manifestano quindi come due tipi di rapporto sociale assai diversi. Dahrendorf però respinge questa distinzione, affermando che sia il conflitto che la c. comportano sempre una lotta per delle risorse limitate (1963). I primi ecologisti hanno considerato la c. come il processo fondamentale dell’umana organizzazione sociale, capace di determinare la stessa distribuzione spaziale e funzionale della popolazione.

2.​​ Prospettive e tipologie.​​ La c. è perciò una categoria che si pone all’incrocio di un sistema sia sociopolitico (c. sociopolitica)​​ che socioeconomico (c. socioeconomica).​​ In questa seconda prospettiva il modello della c. è definito dalla situazione di mercato, in cui le opportunità per competere sono per principio equamente distribuite, come anche le sanzioni sono le stesse per tutti. La c. però viene limitata quando tra i competitori vi è una disuguale distribuzione delle risorse da scambiare, come nel caso del monopolio, in cui il controllo sulla controparte è virtualmente completo. Ciò avviene in modo tipico tra i Paesi dipendenti e le multinazionali nei mercati delle​​ materie prime basati su uno scambio ineguale. Infine in una società caratterizzata dal pluralismo culturale si assiste all’emergere anche di una​​ c. socioculturale,​​ di cui un esempio tipico è dato nel campo della religione dalla concorrenza delle agenzie di significati diverse da quelle religiose o dal diffondersi a macchia d’olio delle​​ ​​ sette religiose. In una prospettiva​​ pedagogica,​​ è tuttora un nodo di discussione l’efficacia della c. nella ricerca del successo, soprattutto in ambito scolastico. In questo contesto essa può essere considerata secondo​​ tre accezioni:​​ come una​​ struttura per l’​​ ​​ apprendimento​​ (è fatta dal clima, dall’organizzazione, e dall’ethos creato in classe); come​​ tratto di​​ ​​ personalità​​ compulsivamente motivato al successo; come​​ ​​ comportamento teso alla superiorità, nei confronti degli altri, in contrapposizione alla cooperazione. Tutto ciò comporta una serie complessa di fattori dove sono coinvolti atteggiamenti e relazioni interpersonali sia degli insegnanti che degli allievi.

Bibliografia

Owens L. - R. G. Stratton,​​ The development of a cooperative,​​ competitive,​​ and individualised learning preference scale for students,​​ in «British Journal of Educational Psychology» 50 (1980) 147-161; Bagnasco A. et al.,​​ Corso di sociologia,​​ Bologna, Il Mulino, 1997; Comoglio M.,​​ Educare insegnando.​​ Apprendere ad applicare il «cooperative learning», Roma, LAS, 2000; Cesareo V. - M. Magatti (Edd.),​​ Comunità,​​ individuo e globalizzazione, Roma, Carocci, 2001; Vasapollo L. et al.,​​ Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, Milano, Jaca Book, 2004.

R. Mion




COMPITI EDUCATIVI

 

COMPITI EDUCATIVI

Possono essere riferiti agli operatori in campo pedagogico – e per estensione alle istituzioni educative – ma anche ai destinatari coinvolti nei processi educativi, quando vengono designati in quanto soggetti protagonisti della loro educazione.

1. Nella prima accezione, l’espressione c.e. è sinonimo di «finalità», intendendo con questa formulazione l’assunzione, in termini pedagogici, dei «fini» assegnati alla pianificazione sociale dal​​ progetto simbolico​​ che una comunità si è data in una determinata congiuntura storico-politica. Solitamente le aspirazioni societarie, nella fase della loro ideazione, si traducono in intenzionalità educative che vengono assegnate – in quanto e, appunto – al sistema scolastico, globalmente o per qualcuno dei suoi gradi: in questo caso, possiamo avere la definizione di «programmi scolastici» – più o meno prescrittivi nei riguardi degli operatori – i quali, in caso di riorientamenti profondi delle «finalità», possono essere concepiti come vere e proprie «riforme». Queste, in senso proprio, investono ancora più intimamente l’istituzione, giungendo a modificare le regole costitutive sulle quali fondavano, mutando di segno, gli​​ aspetti materiali​​ ​​ strutture spaziali, inquadramento spazio-temporale, profili professionali, caratteri delle utenze – e la​​ cultura​​ interna, ispirando secondo altri​​ ​​ valori il senso delle attività e il significato di norme e comportamenti quotidiani. Sempre in questa prima prospettiva, si tende a parlare diffusamente di c.e. nelle fasi di transizione dei modelli culturali, quando le istituzioni pedagogiche possono apparire in «crisi» e pertanto prolificano le proposte per i cambiamenti auspicati. Oggi, al passaggio alla società post-moderna, tra inflazione dei c.e. attesi, deflazione dell’immagine pubblica degli insegnanti, ricorso a risorse professionali esterne, in grado di colmare lo scarto rispetto alla manifestazione di bisogni educativi non saturati, sullo sfondo della «caduta del programma istituzionale» della scuola-istituzione, la crisi percepita investe il modo stesso col quale l’insegnante è tenuto a concepire le sue funzioni.

2. In senso più tecnico, circola da una decina d’anni una seconda accezione del termine, nel contesto di una revisione del​​ ​​ naturalismo pedagogico – indiziato di indulgere non-direttivamente ai​​ ​​ bisogni dei soggetti in formazione – e della «pedagogia per​​ ​​ obiettivi» – accusata di precostituire autoritariamente i desideri educativi degli adulti –. Si parla in questo caso di «pedagogia del contratto», all’atto del quale si tracciano le condizioni per un negoziato capace di ottenere la presa in carico, da parte degli studenti, dei c.e. che hanno contribuito a definire e che si sono impegnati a realizzare. Su questa base, l’emergere della soggettività dei «nuovi studenti» ha indotto forme di negoziazione diffusa, continua e latente dei tempi scolastici e dei carichi d’apprendimento.

Bibliografia

Burguière E. et al.,​​ Contrats et éducation, Paris, L’Harmattan-INRP, 1987; Rayou P.,​​ La cité des Lycéens, Paris, L’Harmattan, 1998; Derouet J. L.,​​ L’école dans plusieurs mondes, Paris, De Boeck, 2000; Dubet F.,​​ Le déclin de l’institution, Paris, Seuil,​​ 2002; Drago R.,​​ Tempo di scuola. appunti e riflessioni sull’organizzazione del tempo scolastico, 2005, in http: / / ospitiweb.indire.it / adi / temposcuola / temposcuola_bibliografia.htm (contatto del 24.06.07).

E. Damiano