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CICERONE Marco Tullio

 

CICERONE Marco Tullio

n. ad Arpino nel 106 a.C. - m. a Formia nel 43 a.C, filosofo e uomo politico romano.

1.​​ L’uomo.​​ C. occupa un posto significativo sia nella storia della filosofia, che nella storia della letteratura latina, come pure nella storia politica di Roma. Compie i suoi studi umanistici e giuridici a Roma e li completa in Grecia e nelle colonie greche dell’Asia Minore (Atene, Rodi) particolarmente nel campo filosofico. È fortemente impegnato nella vita politica, sia con la sua attività oratoria in processi di grande importanza, sia per aver ricoperto diverse cariche politiche. Eletto Console nel 63 salva lo Stato dalla congiura di Catilina. Muore per mano dei sicari di Antonio. In questa sede ci interessa particolarmente l’apporto che con il suo pensiero, con i suoi scritti e con la sua attività ha dato alla pedagogia romana: alla sua base culturale, alla sua metodologia e particolarmente alla definizione e alla formazione dell’ideale dell’oratore.

2.​​ C. e la cultura romana.​​ C. è tra i più efficaci creatori di quella sintesi culturale che, superando una stretta chiusura sulla tradizione del​​ mos majorum,​​ ma senza sacrificarla, la apre all’apporto della raffinata cultura greca, dando origine a quella nuova cultura latina che prese il nome di​​ humanitas.​​ Una sintesi che allo stesso tempo è guidata dalla mentalità romana e ad essa è ordinata: l’idealità greca è calata nella concretezza e saggezza pratica romana, di cui C. è tipico modello, portando alla reciproca integrazione in un nuovo equilibrio che definisce l’humanitas,​​ cioè la cultura romana del periodo ellenistico. Una​​ humanitas letteraria,​​ etica e politica.​​ Sottolineiamo in particolare l’apporto dato da C. nel campo filosofico, come realizzatore di un​​ eclettismo​​ che compone elementi prevalentemente stoici con elementi peripatetici e anche platonici, con una prevalenza data all’aspetto pratico su quello speculativo e quindi alla dimensione etica su quella contemplativa.

3. C.​​ e la pedagogia romana.​​ Le competenze di C. sopra accennate, di filosofo, di letterato e di politico, determinano anche gli elementi costitutivi del suo apporto pedagogico per una sintesi umanistica unitaria. Esso si concretizza nell’ideale dell’oratore, che C. elabora soprattutto nelle sue opere​​ De oratore,​​ Orator,​​ Brutus,​​ Hortensius​​ (perduto). Nella figura e quindi nella formazione dell’oratore richiede l’integrazione armonica di due aspetti: quello​​ culturale​​ e quello​​ virtuoso,​​ tanto da formare quasi una endiadi di​​ humanitas et virtus.​​ Il primato va però alla virtù e alla sapienza, in continuità con la​​ virtus romana​​ ereditata dal​​ mos majorum.​​ Ha così un senso preciso la definizione dell’oratore ricevuta da Catone il Censore:​​ vir bonus dicendi peritus.​​ E si spiega anche che nella sua formazione il primo posto vada alla filosofia (intesa nel senso eclettico sopraddetto). La sapienza avrà dunque la precedenza sulla tecnica; l’eloquenza sulla retorica. In questo C. combatte l’opinione che riserva ai filosofi i temi relativi alla morale, al diritto, alla pietà; che debbono invece essere, in modo diverso e più vivo, trattati anche dall’oratore. Su questa base C. richiede nell’oratore la massima ampiezza di cultura e ricchezza di erudizione: letteratura latina e greca, storia, diritto, vasta esperienza; oltre alle discipline della comune​​ ​​ paideia ellenistica. Tale ampiezza di preparazione culturale era necessaria nell’oratore anche per la vastità e pluralità dei temi di cui si doveva interessare. Cultura contro verbosità. Per questo suggerisce che la sua formazione comprenda anche una permanenza integrativa nelle città della Grecia. Alla visione dell’ideale​​ dell’oratore si aggiunge in C. una buona sensibilità pedagogica: l’attenzione alla natura del giovane; il primo posto dato al talento, il secondo all’arte e all’esercizio; l’adeguamento anche delle mete da raggiungere, senza provocare scoraggiamento in alcuni o presunzione in altri.

C. «tipo» dell’orator.​​ L’esperienza politica, il profondo senso della romanità (del​​ mos majorum​​ e della​​ virtus romana,​​ dello​​ Stato romano),​​ la sincera ricerca filosofica, la formazione giuridica, l’ampia erudizione e l’eminente capacità oratoria qualificano la personalità di C. e da essa si proiettano nell’ideale che egli elabora dell’orator. In questo senso​​ ​​ Quintiliano ha potuto asserire che il nome di C. è il nome stesso dell’eloquenza (cfr.​​ Inst. orat.​​ 10,1). È anche questo un elemento importante in prospettiva pedagogica, poter offrire un​​ modello concreto​​ dell’ideale prospettato.

5.​​ Influsso e risonanze.​​ L’influsso esercitato da C. in campo culturale e pedagogico si può costatare a vari livelli. Uno immediato, come si è detto, nell’ambito della cultura ellenistico-romana; con una incidenza determinante sulla formazione dell’oratore, anche quando, con la crisi della Repubblica e l’avvento dell’Impero, il suo impatto sulla vita dello Stato sfumò. A lui sarà debitore anche Quintiliano nella sua​​ Institutio oratoria.​​ Nel ritorno alla classicità degli umanisti rinascimentali (​​ Umanesimo rinascimentale) C. non solo è uno dei punti di riferimento più significativi, ma la sua imitazione porta anche a quel fenomeno di decadenza formalistica che si chiamò​​ ciceronianismo.​​ C. resta uno dei maestri validi nella storia della pedagogia.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ C,​​ Opere politiche e filosofiche,​​ a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, UTET, 1953;​​ Dell’Oratore, a cura di A. Pacitti, Bologna, Zanichelli, 1974-77, 3 voll.; b)​​ Studi:​​ Narducci E.,​​ Introduzione a C., Roma / Bari, Laterza, 1992;​​ Galino M. A.,​​ Historia de la educación.​​ I.​​ Edades antigua y media,​​ Madrid, Gredos,​​ 1960; Bonner S. F.,​​ L’educazione nell’antica Roma: da Catone il Censore a Plinio il Giovane,​​ Roma, Armando, 1986; Montanari F. (Ed.),​​ Rimuovere i classici? Cultura classica e società contemporanea, Milano, Einaudi, 2003.

M. Simoncelli




CICLO DI VITA

 

CICLO DI VITA

L’idea di c.d.v. implica una sequenza di eventi che scandiscono l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di un processo con caratteristiche di unitarietà interna.

1. La vita dell’uomo nel suo sviluppo dalla nascita alla morte, ha indotto spesso uno studio segmentato per fasi. Del c.d.v. si sono occupati la biomedicina (genetica, auxologia, gerontologia), la​​ ​​ psicologia sociale ed evolutiva (fasi e compiti di sviluppo con le relative soglie critiche), la​​ ​​ demografia, che descrive il c. riproduttivo e i modi in cui si succedono le generazioni dei figli a quelle dei padri, la sociologia della famiglia, che utilizza l’approccio evolutivo o del «c.d.v. familiare» suddiviso in vari stadi, cui competono corrispondenti «compiti di sviluppo familiari».

2. L’uso della categoria del c.d.v. ha diversi pregi connessi sia con la maggior aderenza alla realtà che con la modernità metodologica. Infatti l’attenzione longitudinale ai comportamenti meglio coglie gli eventi consecutivi che definiscono il percorso vitale dei soggetti. Inoltre l’attenzione alla sequenza temporale e delle decisioni fa studiare ogni passo successivo come condizionato dai precedenti. Infine per quanto riguarda la​​ ​​ famiglia,​​ l’approccio del c.d.v. familiare​​ («Developmental Approach») permette di analizzarla come sistema vivente che nasce, si sviluppa e muore avendo in sé una minima relazionalità sociale. Questa verrebbe a cadere quando invece se ne studiano soltanto le variabili singole, come nella prospettiva del concetto di «corso della vita»,​​ che per alcuni Autori (Saraceno, 1986) dovrebbe sostituire il c.d.v. Tale approccio allora enfatizzerebbe soprattutto la dimensione individualistica dello sviluppo e della coppia. Nelle società attuali il c.d.v. è molto più complesso che nel passato per una serie di variabili intervenienti di tipo economico, culturale, strutturale e psicologico che alterano e compromettono la regolarità delle sequenze degli eventi attesi o rendono più imprevedibili gli avvenimenti improvvisi.

Bibliografia

Mcgoldrick M. - E. A. Carter, «Il c.d.v. della famiglia», in F. Walsh (Ed.),​​ Stili di funzionamento familiare, Milano, Angeli, 1986, 259-296; Saraceno C. (Ed.),​​ Età e corso della vita, Bologna, Il Mulino, 1986; Scabini E. - P. P. Donati (Edd.),​​ Tempo e transizioni familiari, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Id.,​​ Nuovo lessico familiare, Ibid., 1995; Istat,​​ Indagini multiscopo sulle famiglie​​ (2000-2007), Roma, 2000-2007; Romano M. C. - T. Cappadozzi, «Generazioni estreme: nonni e nipoti», in G. B. Sgritta (Ed.),​​ Il gioco delle generazioni. Famiglie e scambi sociali nelle reti primarie, Milano, Angeli, 2002; Bertocchi F.,​​ Sociologia delle generazioni, Padova, CEDAM, 2004; Romano R. G. (Ed.)​​ C.d.v. e dinamiche educative nella società postmoderna, Milano, Angeli, 2005; Donati P. P.,​​ Manuale di sociologia della famiglia, Roma / Bari, Laterza, 2006.

R. Mion




CICLO DIDATTICO

 

CICLO DIDATTICO

Dal lat.​​ Cyclus​​ (cerchio), rappresenta l’idea della serie, chiusa in se stessa, che si riproduce periodicamente; per estensione, nel linguaggio pedagogico-scolastico, corrisponde​​ all’unità comprensiva​​ ​​ una fase della progressione curricolare, in se stessa compiuta – che si ripete modularmente per costituire l’intero del​​ ​​ piano di studi; di fatto, il c si definisce organizzativamente come «multiplo» della classe, che resta l’unità operativa minima.

Storicamente, si può considerare l’analogo della «classe», alla quale si oppone come alternativa mirata a correggerne la rigida scansione annuale, che impone i ritmi dell’artificio cronologico-formale alla varietà dei gradienti di sviluppo individuali.

2. Rispetto alla «classe», c. è una nozione che si distingue per alcuni attributi definienti: a) il riferimento ad uno «stadio»​​ evolutivo della personalità dell’alunno in relazione ai compiti di​​ ​​ apprendimento.​​ Per questo aspetto,​​ il c. si qualifica per la relazione peculiare tra il piano di studi e l’età psicologica del soggetto in formazione, e quindi per​​ la funzione che assolve​​ (come nel francese​​ cycle d’orientation);​​ b) per l’idea di​​ discontinuità​​ che sottolinea, rispetto agli altri c., a ragione della compiutezza interna che esprime; c) viceversa, per l’idea di​​ continuità,​​ connessa alla successione di cui rappresenta una parte; d) per la caratterizzazione del​​ tipo di insegnamento​​ che richiede in relazione allo sviluppo dell’alunno.

3. Introdotto come risposta istituzionale alle istanze dell’attivismo (​​ Scuole Nuove), l’evoluzione dei modelli didattici verso la centratura sulle discipline di studio, sulle metodologie d’indagine e sugli obiettivi da perseguire ha ottenuto di far perdere rilievo ad un termine che si era affermato insieme alle denunce dei ritardi e degli insuccessi scolastici.

4. Il c. è tornato in auge negli ultimi dieci anni in riferimento a due contingenze : a) la riforma della durata ed articolazione interna dell’intero curricolo scolastico – v.​​ riordino dei c.​​ – in particolare per le divergenti politiche in materia di​​ ​​ obbligo scolastico e, più in generale, di «missione» della scuola; b) le strategie di razionalizzazione della rete scolastica, che ha visto la diffusione degli​​ ​​ «istituti comprensivi» e conseguentemente la pratica di «curricoli in verticale» fra diversi gradi scolastici.

Bibliografia

Calidoni M. - P. Calidoni P.,​​ Continuità educativa e scuola di base,​​ Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi,​​ La scuola in verticale, Napoli, Tecnodid, 2000; Damiano E. (Ed.),​​ Idee di scuola a confronto, Roma, Armando, 2002.

E. Damiano




CITTADINANZA

 

CITTADINANZA

Con il termine c. si indicano tanto la relazione tra un individuo e uno Stato quanto i diritti e i doveri che tale relazione comporta per l’individuo.

1. La c. moderna è il risultato di un duplice evento storico: l’affermarsi dell’idea di nazione (con la conseguente trasformazione dell’entità politica a cui gli uomini dovevano fedeltà: dalla città, dal clan, dall’aristocrazia alla nazione come entità geografica, culturale e politica) e la distruzione del sistema dei tre «stati» tipica dell’Ancien ré­gime​​ decretata dalla Rivoluzione francese con la conseguente affermazione del principio dell’uguaglianza giuridica di ciascun cittadino. Negli ultimi due secoli questa dimensione della c. si è, d’un lato, arricchita sul versante sociale (con la sempre più avvertita consapevolezza che senza uguaglianza sociale la stessa uguaglianza giuridica finisce per essere meramente formale) e, dall’altro, ha palesato evidenti limiti a fronte della realtà delle grandi comunità governate in modo rappresentativo.

2. Nella cultura politica contemporanea è possibile individuare – ragionando in termini molto schematici – alcune principali posizioni. La prima poggia sul presupposto che non sia più possibile nelle società postmoderne alcun tipo di c. «forte» e cioè poggiata su quel nucleo di valori etico-politici (come ad es. la nazione o i valori borghesi) su cui si è svolta per due secoli la cultura politica occidentale. Nel richiamare preferenzialmente la civiltà del cosmopolitismo ellenistico, anziché quella della​​ polis​​ greca, i sostenitori della c. «debole» rilanciano l’insegnamento di stoici ed epicurei che reputarono superato il modello politico-paidetico della​​ polis​​ e sostennero il valore dell’individuo indipendentemente dall’associazione politica di cui faceva parte. Inoltre essi condividono una concezione di Stato smagrito di qualsiasi contenuto ideale (e, dunque, molto diverso per es. dallo Stato-nazione otto-novecentesco) il cui compito principale dovrebbe essere quello di mediare i conflitti e garantire la molteplicità delle esperienze personali e le pari opportunità per ciascuno, sottraendo la c. a logiche normative, riconducendola ad una rete di rapporti egualitari basati sul reciproco riconoscimento (Habermas, Luhmann). Non mancano anche coloro che, pur riconoscendosi in questo contesto, reputano tuttavia necessarie alcune regole etico-politiche positive generali in grado di promuovere e conservare i valori della democrazia, giudicata il modello politico più perfetto (Bobbio). Negli ultimi anni, segnati dall’intensificarsi dei processi migratori e dal conseguente misurarsi e confrontarsi di culture, religioni, tradizioni diverse, si sono moltiplicati i tentativi per individuare un nucleo di «valori condivisi» o «valori comuni» (Maffettone, Veca, Viano) intorno ai quali elaborare una nozione di c. improntata al reciproco rispetto delle diversità. Questa posizione – che sta notevolmente influenzando i programmi scolastici di numerosi Paesi europei sulla scorta anche delle suggestioni di importanti documenti internazionali (tra tutti il cosiddetto Rapporto Delors,​​ Learning: the Treasure within, 1996) – si sta tuttavia scontrando con le tesi di quelle culture extra europee che rimproverano alla teoria dei «valori comuni» la sua matrice intrinsecamente illuministica ed eurocentrica.

3. Su posizioni del tutto diverse si muovono le tesi comunitariste (MacIntyre, Arendt, Sanders, Taylor) che ripropongono, invece, la validità dell’idea classica di c., prospettando l’esperienza comunitaria della​​ polis​​ greca come esemplare e la​​ Politica​​ di​​ ​​ Aristotele come un testo ancora in grado di parlare all’uomo contemporaneo. La c. è così vista in funzione dell’appartenenza alla comunità e nella prospettiva del bene comune ed è così in- tesa sia come categoria politica e sia come impresa educativa. I comunitaristi ipotizzano infatti uno stretto intreccio tra libertà, solidarietà e responsabilità individuali e comunitarie e le prassi, i riti, i processi socializzanti ed inculturanti attraverso cui essa si costituisce. Anche tra i comunitaristi esistono quanti avvertono tuttavia che l’ipotesi di c. ricca di ideali rappresenta certamente un fondamentale modello teorico, che risulta però di ardua praticabilità nella società complessa nella quale è difficile identificare un nucleo di valori comuni intorno a cui costruire un​​ ethos​​ comunitario. Per questi autori la c. comunitaria dovrebbe costituirsi in forme «societarie» (e non stataliste), facendo riferimento ai diritti dei singoli e dei gruppi sociali così come si realizzano nelle formazioni sociali autonome, quale che sia la loro sfera d’azione (economica, culturale, politica o sociale), intese come insieme o «rete» sociale capace di stabilire ed assicurare nuove e più significative relazioni all’interno della società (Donati).

4. Non è difficile constatare come i due principali modelli di c. oggi vivi nel confronto nella cultura contemporanea (universalistico-individualistico e comunitario) implicano approcci educativi molto diversi. Nell’ipotesi della c. universalistica dominano atteggiamenti formativi ispirati alla tolleranza, al senso di reciprocità delle esperienze, al pieno esplicarsi in senso per lo più individualistico delle attese e aspettative personali, al rispetto della diversità, considerata più come fatto individuale che come valore culturale e collettivo. Nel caso della c. comunitaria prevale, invece, la convinzione che tra la dimensione personale e quella storico-sociale della persona umana non c’è contraddizione e che anzi l’una integra l’altra (la libertà senza solidarietà sconfina nell’egoismo particolaristico). Le categorie pedagogiche prevalenti risultano perciò quelle dell’educazione alla responsabilità (intesa nel duplice senso di responsabilità personale e responsabilità comunitaria), al superamento di sé, alla partecipazione sociale, alla valorizzazione della «memoria» collettiva nella quale s’invera ciascuna esperienza personale.

5. Notevoli suggestioni in prospettiva educativa e pedagogica giungono anche dalle tesi di alcuni autori di ispirazione repubblicana (Gutman, Pettit, Skinner, Viroli) e non (Naval, Höffe) che hanno di recente rilanciato il motivo della «virtù civica» intesa come forma di appartenenza solidale alla società in cui si vive (il cosiddetto «cittadino attivo» o, nel linguaggio americano, il «cittadino patriota»). Lo scopo è quello di sfuggire al rischio intellettualistico connesso alla determinazione del valore condiviso. La virtù civica oltrepassa infatti il principio del valore condiviso, per coinvolgere in presa diretta il cittadino nell’esperienza della socialità civica. Le virtù civiche non pretendono che questi diventi una persona del tutto nuova, ma che più semplicemente sia capace di sacrificare il proprio interesse per il bene comune. Questo approccio di natura politologica manifesta punti di affinità – talvolta anche esplicitamente intrecciandosi – con le iniziative avviate negli Stati Uniti dal Movimento per l’educazione del carattere (tra i suoi maggiori esponenti va segnalato Thomas Lickona). L’obiettivo è quello di creare la «comunità morale» nel senso proposto da Kohlberg attraverso l’esercizio della volontà degli allievi, ponendoli di fronte a impegni severi e stimolandoli a raggiungere risultati eccellenti. Lo scopo è quello di aiutare gli allievi a conoscere l’altro come persona, a stimare i membri della comunità ed a sperimentare sensi di responsabilità verso il gruppo di appartenenza. La scuola della c. attiva non sarebbe perciò tanto o soltanto quella che si riconosce laicamente in alcuni valori condivisi, ma quella che lavora per sfuggire al rischio che la libertà personale si giochi insindacabilmente secondo il principio dell’autonomia il quale più cresce quanto più il soggetto si ritiene svincolato da un orizzonte che lo oltrepassa.

Bibliografia

Marshall T. H.,​​ C. e classe sociale,​​ Torino, UTET, 1976; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Damiano E. et al.,​​ L’educazione del cittadino,​​ Brescia, La Scuola, 1990; Lickona T.,​​ Education for character: how our schools can teach respect and responsibility, New York, Bantam Books, 1991; Bendix J., «C.», in​​ Dizionario delle scienze sociali,​​ vol. I, Torino, UTET, 1991, 772-777; Habermas J.,​​ Morale,​​ diritto,​​ politica,​​ Torino, Einaudi, 1992; Zincone G.,​​ Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile,​​ Bologna, Il Mulino, 1992; Donati P. P.,​​ La c. societaria,​​ Bari, Laterza, 1993; Kymlicka W.,​​ La c. multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999;​​ Putman R. D.,​​ Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2004;​​ Toso M.,​​ Democrazia e libertà: laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Roma, LAS, 2006.

G. Chiosso




CIVILTÀ

 

CIVILTÀ

Dall’antichità fino ai tempi più recenti la c. è stata generalmente considerata in un rapporto d’identità con la​​ ​​ cultura – intesa in senso prevalentemente classico-umanistico – in quanto designa la forma più alta della vita di un popolo.

1. Tale nozione si fonda sulla preferenza accordata a certi valori; privilegia certe particolari forme di attività o di esperienza umana, ritenute particolarmente indicative del grado di formazione umana e spirituale raggiunta da un popolo; e contemporaneamente esalta quei gruppi umani presso i quali tali forme di esperienza e di attività appaiono particolarmente sviluppate (Abbagnano, 1980, 130-131). Ad es., per i Latini, e per vari secoli,​​ civilitas​​ era la società dei cittadini: il​​ civis,​​ l’uomo della città, raffinato ed evoluto, è contrapposto al​​ ruralis,​​ ossia all’uomo esterno al mondo urbano, e per ciò stesso forestiero ed anche rozzo e villano. Tale concezione di c. ha sempre conservato una notevole connotazione aristocratico / elitaria, sia perché in genere solo una minoranza privilegiata riusciva ad accedere pienamente a tale ricchezza culturale, sia perché l’«uomo civile» tendeva a distaccarsi con disprezzo dal resto dell’umanità. Troviamo la qualifica di​​ volgo,​​ all’interno, di​​ barbari,​​ all’esterno, per designare gli esclusi o gli emarginati, nell’epoca greco-latina, medioevale, umanistico / rinascimentale, illuministica. Celebri, a questo riguardo, le affermazioni di Orazio:​​ Odi profanum vulgus et arceo​​ (Odi,​​ 3,1) e del poeta cristiano Prudenzio:​​ Tantum distant Romana et barbara quantum quadrupes abiuncta​​ est bipedi vel muta loquenti​​ (Contra Symmacum,​​ 2, 817-8).

2. Con l’affermazione della moderna borghesia, quale classe fortemente differenziata, fiorita con il Rinascimento ed esplosa con l’Illuminismo e il Positivismo, la​​ c.​​ ​​ cioè l’autoapprezzamento che si esprimeva nell’attribuzione della​​ civilitas​​ al proprio modo di vita e ai propri ideali, ossia alla propria cultura – «divenne piuttosto il metro sul quale la classe borghese misurava sia gli altri strati sociali, sia anche i popoli stranieri al di là dei propri confini» (Thurn, 1979, 34-35). Sorge così un imperialismo civilizzatore animato da tenace zelo missionario per insegnare ai popoli «non civilizzati» a recepire la cultura europea. Tale mentalità, fondata su una determinata gerarchia di valori e privilegiante l’Occidente cristiano, pur stemperandosi negli estremismi classisti e regionalisti, supporta il classico concetto di c. «come simbolo del traguardo più elevato che viene raggiunto dalle attività culturali degli uomini, di modo che lo si riserva ai livelli più progrediti, nutriti e affascinanti del progresso culturale, mentre lo si nega ai livelli più arretrati, che vengono anche definiti appunto incivili. In questo significato emerge l’aspetto deontologico della cultura superiore, come fonte di orientamenti morali qualificanti e come garanzia di status sociale rispettabile» (Mamo - Minardi, 1987, 638). Una traccia di questa mentalità permane ancora nei nostri giorni: «Alcuni autori riservano il termine c. a manifestazioni superiori e particolarmente importanti della cultura: in tale accezione, il grattacielo è “c.”, la capanna, “cultura”; la bomba atomica è “c.”, la freccia e il​​ boomerang​​ sono “cultura”» (Costanzo, 1988, 506-507).

3. Da quando poi si cominciò a usare il termine c. al plurale – come, per es., fa Toynbee (1889-1975), che lo contrappone a quello di «società primitive» per indicare le società con mondi culturali relativamente autonomi – il termine c. è impiegato semplicemente come​​ cultura​​ (in senso antropologico moderno). Del resto già il classico dell’antropologia culturale,​​ Primitive culture​​ (1871) di Taylor, nella nota definizione, parlava di «cultura o c.». In definitiva, quantunque il concetto di c. presso etnologi e antropologi continui talvolta a sottolineare uno stadio o grado (relativamente) più avanzato di sviluppo di una società, la dicotomia tra c. e cultura sembra non avere reali fondamenti, ragion per cui oggi i due termini vengono considerati comunemente come sinonimi. Oggi, in un contesto di​​ ​​ globalizzazione si parla di incontro tra culture e dialogo interculturale, ma anche di «scontro tra c.».

Bibliografia

Thurn H. P.,​​ Sociologia della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1979; Abbagnano N., «C.», in Id.,​​ Dizionario di filosofìa,​​ Torino, UTET, 1980, 131-133: Mamo D. - E. Minardi, «Cultura», in E. Demarchi - A. Ellena - B. Cattarinussi (Edd.),​​ Nuovo dizionario di sociologia,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1987, 635-642; Costanzo L., «La cultura», in M. Toscano (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli, 1988, 489-525; Torrealta M. (Ed.),​​ Incontro e scontro di civiltà, Roma, EdUP, 2006.

M. Montani