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CALASANZ José de

 

CALASANZ José de

n. a Peralta de la Sal nel 1557 - m. a Roma nel 1648, educatore spagnolo, santo, fondatore degli​​ ​​ Scolopi.

1. La vita di C. (noto in Italia con il nome di Calasanzio) trascorre in Spagna (1557-1592) e a Roma (1592-1648). Consegue il dottorato in teologia, lavora con vari vescovi, è precettore dei loro domestici. Con questa esperienza si trasferisce a Roma aspirando ad un canonicato; però non riesce nell’intento e arriva a dire, nel 1600: «Ho trovato a Roma il miglior modo di servire Dio, aiutando questi poveri ragazzi; non lo lascerò per nulla al mondo». Dal 1595 si dedica alle opere di carità in diverse congregazioni, tra cui quella della Dottrina cristiana, dove si impartisce l’insegnamento del​​ ​​ catechismo a fanciulli e fanciulle la domenica e i giorni festivi e si insegna ad alcuni a leggere, scrivere e fare di conto; sembra che si sia iscritto alla Dottrina cristiana nella seconda metà del 1599. C. vuole che questa Congregazione gestisca le scuole quotidiane e gratuite da lui fondate nella chiesa di s. Dorotea, ma non vi riesce.

2. In queste scuole, che chiamò «Scuole Pie» (come l’Ordine religioso che le ha fatte sopravvivere), la dottrina cristiana fu la materia principale. C. si preoccupò, tra l’altro, di trovare una metodologia catechistica diversa da quella utilizzata per le altre discipline scolastiche, benché anche la catechesi seguisse la​​ Legge del dinamismo​​ psicologico​​ da lui enunciata per tutte le materie: «Nell’insegnamento della​​ ​​ grammatica e in qualunque altra materia, risulta di gran profitto per l’allievo che il​​ ​​ maestro segua un metodo semplice, efficace e, per quanto possibile, breve. Per questo si metterà tutto l’impegno nello scegliere il migliore fra quelli indicati dai più dotti ed esperti nella materia» (Constituciones,​​ n. 216). Si seguirà, inoltre, un metodo uniforme, tenuto conto della regionalizzazione e della creatività dei maestri. C. vuole catechisti preparati, un programma ben strutturato, libri, tecniche e tempi adeguati. Benché inserito nel campo della ragione e della cultura, vi è un momento nell’apprendimento catechistico nel quale il fanciullo deve realizzare gli atti richiesti dalla fede che apprende; e tutti gli alunni devono fare la preghiera personale nel​​ ​​ collegio. Questo insegnamento deve essere sistematico, universale e uniforme e, tenendo conto delle scansioni scolastiche, si deve attuare sin dai primi anni e giornalmente. C. si serve del catechismo per le lezioni di lettura (compitazione, sillabazione ad alta voce). Nelle sere della domenica e dei giorni festivi il catechismo viene insegnato nelle chiese parrocchiali a tutto il popolo con una speciale partecipazione degli alunni. Nel noviziato, lo scolopio deve apprendere già «il modo di insegnare la dottrina cristiana» ed i catechisti debbono avere «la cultura e l’autorità che caratterizza il sacerdozio».

3. C. pubblicò un suo catechismo, intitolato​​ Alcuni misteri della Vita e Passione di Cristo Signor Nostro da insegnarsi alli scolari dell’infime classi delle Scuole Pie​​ (la​​ ediz., Roma, 1599; ultima, 1691). Utilizzò e fece utilizzare i catechismi di Bellarmino, Romano, di s. Carlo​​ ​​ Borromeo e le opere di C. Franciotti. Instaurò e mantenne per 50 anni nelle sue scuole (fondò 37 collegi in Italia, Germania, Polonia, Ungheria, Boemia e Moravia) un organizzato e completo movimento catechistico. Davanti ad un tribunale difese il diritto del povero all’educazione primaria e media elementare. Viene considerato il creatore della scuola popolare moderna (1597).

Bibliografia

Santha G.,​​ De sancti Fundatoris nostri in Confraternitate Doctrinae christianae Urbis,​​ praesentia,​​ industria,​​ muneribus,​​ in «Ephemerides Calasanctianae» 6 (1958) 149-161; Cueva D.,​​ Catequesis calasanciana,​​ in «Analecta Calasanctiana» 65 (1991) 109-134; Spinelli M.,​​ J.d.C.,​​ pionero de la escuela popular, Madrid, Ciudad Nueva, 2002.

V. Faubell




calcolo delle PROBABILITÀ

 

PROBABILITÀ: calcolo delle

L’aggettivo​​ probabile​​ (dal lat.​​ probabilis,​​ meritevole di approvazione, ma anche verosimile, credibile) viene usato in riferimento a qualcosa che può essere vero, essere accaduto o accadere, ma su cui non si è in grado di pronunciarsi con sicurezza. Il sostantivo p. può essere quindi usato per indicare la «qualità» di ciò che è probabile e, in modo più rigoroso, il grado di attendibilità (espresso numericamente) di ciò che è considerato probabile.

1.​​ Origini del calcolo delle p.​​ L’interesse per i problemi posti dai risultati del gioco (dei dadi in particolare) si sviluppa nel sec. XVII e vede impegnati uomini famosi. Se ne occuparono occasionalmente G. Galilei e N. Tartaglia. Il punto di partenza per lo sviluppo di un’organica teoria della p. è però rappresentato da alcuni problemi, sempre relativi ai giochi d’azzardo, posti da un assiduo giocatore, il Cavaliere de Meré, a Pascal. Questi non solo risolse i problemi proposti ma ne fece oggetto di scambi epistolari con Fermat, ponendo le basi per la riflessione sul concetto di p. e per la sua sistemazione in quel grandioso edificio matematico che è l’attuale calcolo delle p. L’argomento fu sviluppato in modo organico da G. Bernoulli, la cui opera​​ Ars conjectandi​​ apparve postuma nel 1713. Le riflessioni sulla p. trovano una sistemazione teorica nelle opere di P.S. Laplace, in particolare nella​​ Théorie analytique des probabilités​​ del 1812.

2.​​ Interpretazioni della p.​​ La nuova disciplina ha posto all’attenzione degli studiosi diversi problemi: il significato da attribuire al concetto di p.; il modo di esprimere numericamente (misurare) i valori di p.; la costruzione del calcolo delle p. Le principali soluzioni proposte si possono così riassumere. L’interpretazione classica​​ afferma che la p. di un evento è data dal rapporto tra il numero dei casi favorevoli (successi) all’evento stesso e il numero dei casi possibili, supposti ugualmente possibili. La definizione, presente in Bernoulli, è stata teorizzata da Laplace e largamente adottata fino ai primi decenni del Novecento. L’interpretazione frequentista​​ vede la p. come il «limite» della frequenza relativa di un evento casuale in una serie di prove ripetute nelle stesse condizioni, al crescere del numero delle prove. Si tratta di un punto di vista da tempo applicato in​​ ​​ statistica (previsione della mortalità, assicurazioni, ricerche in campo fisico, medico...). Supponendo la ripetizione delle prove, questa definizione non è applicabile ad eventi isolati (es.: previsione del successo di una squadra in una determinata partita). Inoltre non sempre è facile giustificare la costanza delle condizioni nella ripetizione di prove e anche il concetto di «limite» (che non coincide con quello matematico) suscita qualche perplessità. L’interpretazione logicistica:​​ la p. viene considerata come una relazione tra proposizioni, che permette di estendere il campo di applicazione della logica formale. La principale difficoltà al riguardo sembra quella dell’assegnazione di una «misura» (p.) dell’aspettativa di un evento. L’interpretazione soggettivistica:​​ la p. viene definita come grado di fiducia che una persona manifesta nei confronti dell’aspettativa di un evento. Essa rappresenta l’interpretazione più ampia di p. (ingloba le precedenti). L’impostazione assiomatica:​​ rappresenta il tentativo di costruire su basi solide l’edificio del calcolo delle p., assumendo come primitiva la nozione di p. ed enunciando alcuni assiomi che permettono di procedere in modo logico e coerente, come accade in altri campi della matematica (geometria, aritmetica). Suo iniziatore qualificato il russo A.N. Kolmogorov, che la propose in una pubblicazione del 1933. Essa è utilizzabile nel contesto delle diverse interpretazioni di p. sopra ricordate.

3.​​ Le distribuzioni di p.​​ Per la descrizione teorica e lo studio di fenomeni aleatori sono importanti le distribuzioni di p. Tra esse si indicano in particolare: 1)​​ La distribuzione binomiale:​​ è la più semplice da costruire, poiché basta utilizzare le «semplici» premesse ricordate sopra e ricorrere all’algebra e precisamente allo sviluppo delle potenze di un binomio (di qui il nome di distribuzione binomiale) per i calcoli. A questa distribuzione si perviene considerando prove che ammettono solo due risultati A o B (come nel lancio di una moneta: testa o croce). Eseguendo n prove nelle stesse​​ condizioni e con p. costante (e quindi q = 1 - p), la p. di ottenere x risultati (0 ≤ x ≤ n) favorevoli, per es. ad A (uscita di testa nel lancio di una moneta) è data da p(x) = (n) pxqn-x, termine generico dello sviluppo del binomio (p + q)n. Di questa distribuzione è possibile calcolare il valore medio (o atteso), che si dimostra essere μ​​ = np e la dispersione dei risultati attorno ad esso fornita da σ = √npq. 2)​​ La distribuzione normale:​​ a differenza delle precedenti, si applica alla descrizione di variabili casuali continue. Ad essa si può giungere sia considerandola come approssimazione della distribuzione binomiale (teorema di De Moivre-Laplace) o come modello matematico unificatore per presentare l’andamento degli errori di misura di fenomeni naturali (Laplace e Gauss – dal nome di quest’ultimo deriva anche l’appellativo di distribuzione gaussiana). Essa è caratterizzata dalla media μ e dalla varianza σ2.​​ Data la sua fondamentale importanza essa è stata tabulata [sono stati calcolati, per diversi valori di z (​​ statistica), le aree comprese fra la media (0) e i punti z stessi].

4. Modelli probabilistici.​​ Il ricorso a questi modelli, interessa ormai tutti i campi della ricerca e rappresenta l’insostituibile fonte a cui attinge abitualmente la statistica inferenziale per risolvere i suoi problemi. Anche un modello apparentemente semplice e relativamente facile da costruire come quello binomiale può prestarsi a molte applicazioni: nascite in famiglia (M o F); risposte a domande del tipo Giusto - Sbagliato; comportamento di un ratto in un labirinto (Destra - Sinistra). Di particolare importanza è la distribuzione normale. In primo luogo perché l’esame delle distribuzioni empiriche di alcuni fenomeni naturali (la distribuzione degli errori accidentali di misura in particolare) suggerisce spesso il ricorso al modello normale come il più adatto per lo studio della situazione. Ma l’importanza della distribuzione normale è sottolineata soprattutto dal fatto che essa si propone come buona approssimazione ad altre distribuzioni teoriche, laboriose e difficili da trattare.

5.​​ Significato educativo.​​ Nel ricorso ai modelli probabilistici occorre tuttavia considerare, oltre all’utilità pratica, il valore teorico. Le distribuzioni teoriche di p. descrivono l’andamento di fenomeni in situazioni di incertezza. Ciò permette di offrire un riferimento sicuro per la valutazione delle situazioni di vita (tra esse quelle educative), in vista di scelte (decisioni) tese a ridurre al minimo le possibilità di errore (non ad escluderlo, ovviamente). Di qui l’utilità di approfondire il significato del ricorso ai modelli probabilistici e di creare per tempo (anche e soprattutto a livello di scuola) interesse alla loro conoscenza e utilizzazione.

Bibliografia

De Finetti B.,​​ Teoria della p.,​​ voll. 1-2, Torino, Einaudi, 1970; Costantini D.,​​ Introduzione alla p.,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1977; D’Amore B.,​​ P. e Statistica, Milano, Angeli, 1986; Boffa M. - C. Caredda,​​ P. e insegnamento elementare,​​ Torino, SEI, 1990; Ottaviani M. G.,​​ Una bibliografia ragionata sulla didattica della P. e​​ della Statistica nella scuola, in «Induzioni», 1991, n. 2; Baldi P.,​​ Calcolo delle p. e statistica,​​ Milano, McGraw-Hill, 1992; Scozzafava R.,​​ Primi passi in p. e statistica, Bologna, Zanichelli, 1995; Orsi R.,​​ P. e inferenza statistica,​​ Bologna, Il Mulino, 1995; Dacunha-Castelle D.,​​ La scienza del caso:​​ Previsioni e p. nella società contemporanea, Bari, Dedalo, 2001; Bergamini M. - A. Trifone,​​ Elementi di​​ p. e statistica descrittiva, Bologna, Zanichelli, 2001; Prodi R. - M. T. Sainati,​​ Scoprire la matematica:​​ P.​​ e statistica, Milano, Corbi e Ghisetti, 2003; Negrini P. - M. Magagni,​​ La P., Roma, Carocci, 2005.

S. Sarti




CALONGHI Luigi

 

CALONGHI Luigi

n. a San Bassano (Cremona) nel 1921 - m. a Torino nel 2005, pedagogista sperimentale e docimologo, sacerdote salesiano.

1. Si è laureato in filosofia e teologia; specializzato in Psicopedagogia presso l’Università di Lovanio (Belgio) con R.​​ ​​ Buyse. È stato docente, direttore d’istituto, preside e Rettore della Pontificia Università Salesiana di Roma e professore ordinario all’Università Statale di Torino, Salerno e Roma.​​ è​​ stato Presidente dell’IRRSAE Piemonte. Ha collaborato attivamente al rinnovamento della scuola it. partecipando a convegni e commissioni tecniche del MPI. Particolare impegno ha dedicato dal 1977 al 1993 alla messa a punto della scheda di valutazione per la scuola media (D.M. 5.5.93).

2. Ha sviluppato ampie ricerche empiriche in ambito didattico e docimologico, validando strumenti di rilevazione e controllando ipotesi innovative con il supporto di affinate tecniche statistiche e di approfondimenti qualitativi (riflessione verbalizzata). Ha messo la ricerca a servizio dei problemi della scuola, predisponendo manuali, sussidi diagnostici, test e guide. Ha una vasta produzione scientifica che conta più di 50 voll.; oltre 60 contributi a voll. e quasi 200 articoli. È stato membro del comitato scientifico di numerose riviste; cofondatore di «Orientamenti Pedagogici» e della SIRD; consulente scientifico di sussidiari, testi di lettura, batterie di prove oggettive per la scuola elementare e media. Ha contribuito all’affinamento della metodologia della ricerca didattico-educativa, alla sua diffusione tra gli insegnanti e ha dato un contributo significativo all’introduzione delle teorie e delle pratiche della valutazione formativa nella scuola dell’obbligo italiana.

Bibliografia

C.L.,​​ Valutazione, Brescia, La Scuola, 1976; Id.,​​ Sperimentazione nella scuola, Roma, Armando, 1977; Nanni C. (Ed.),​​ La ricerca pedagogica didattica, Roma, LAS, 1997; La Marca A. (Ed.),​​ Ricerca,​​ educazione,​​ didattica. L’opera di L.C.: sviluppi attuali,​​ Palermo, Palumbo, 2006.

C. Coggi




CAMBIO SOCIALE

 

CAMBIO SOCIALE

Per c.s. si intendono tutte le trasformazioni che si producono in un dato periodo di tempo nella struttura di una determinata​​ ​​ società.

1. Il​​ concetto​​ non indica di per sé la direzione in cui il cambiamento avviene. L’interesse della sociologia per il c.s. va ricercato nel fatto che in una società, intesa come un insieme di sotto-sistemi interdipendenti, cambiamenti strutturati di un settore possono provocare tensioni e processi di adattamento negli altri. Il c.s. è uno dei problemi più affascinanti e nello stesso tempo più difficili in sociologia. Infatti la sociologia moderna ha iniziato con i tentativi di spiegare le cause del c.s. e in proposito ha cercato di elaborare una teoria che doveva rivelare le «leggi del mondo». La maggior parte delle interpretazioni aveva un carattere evoluzionistico: l’influsso maggiore è stato esercitato da Marx che sosteneva che il «modo di produzione» ed i rapporti di produzione da esso generati erano la «struttura» fondamentale della società, rispetto alla quale tutte le altre istituzioni, politiche, religiose e familiari, erano la «sovrastruttura». Con lo studio del c.s. si passa immediatamente dai problemi dell’organizzazione della società a quelli riguardanti le sue modificazioni, si passa cioè dalla statica alla dinamica sociale. Il c.s. riguarda il movimento delle persone o delle istituzioni da una posizione ad un’altra nell’ambito di una qualsiasi articolazione della società. Esso è sempre un cambiamento qualitativo, sia positivo sia negativo, e non si riferisce tanto alle vicende sociali di un singolo individuo, quanto piuttosto ai mutamenti collettivi di interi gruppi di persone, come per es. quando, in seguito allo sviluppo industriale, si verifica il passaggio da un’economia agricola ad una industriale. Nello studio del c.s., esattamente come in quello della stratificazione, possiamo distinguere due diversi aspetti: quello che i singoli compiono all’interno della stratificazione, e quello collettivo, dove invece l’attenzione si sposta sulle classi sociali, in quanto il tasso di mutamento di una società viene fatto dipendere dall’evoluzione storica dei rapporti sociali. Va subito detto che dal punto di vista sociologico non soltanto le due dimensioni citate sono singolarmente valide, ma esse sono anche compatibili con tre ordini di fattori, quelli individuali e quelli collettivi, quelli soggettivi e quelli oggettivi, quelli psicologici e quelli economici.

2. Nella​​ divisione del lavoro sociale,​​ ​​ Durkheim (1962) traccia un quadro generale del c.s. come differenziazione. Le società erano un tempo organizzate meccanicamente, avevano leggi repressive ed erano dominate da una coscienza collettiva particolaristica e onnipresente con una​​ ​​ solidarietà meccanica. Gradualmente esse si sono mosse verso una solidarietà organica, dove le leggi sono restitutive e la moralità collettiva è generalizzata ed astratta. Durkheim si concentra qui primariamente sui cambiamenti economici e sulla separazione della religione dalle funzioni politiche e legali. Una delle teorie correnti del c.s. risale a W. Ogburn (1964) e sostiene che nelle società occidentali moderne sia la tecnica a determinare il cammino: ciò significa che la tecnica rappresenta la variabile indipendente e che il progresso in essa provoca negli altri settori della società processi di adattamento. Alcuni autori considerano il c.s. una categoria generale in cui rientrano tutti i fenomeni, i processi e i movimenti che implicano una qualunque trasformazione della società umana o di qualche sua parte. Se si accoglie questo significato, l’evoluzione, lo sviluppo e il progresso diventano casi speciali o interpretazioni particolari del c.s., fenomeno universale che abbraccia tutto l’ambito degli studi sociologici.

3. I​​ fattori​​ del c.s. possono essere interni o esterni, secondo che abbiano origine all’interno o all’esterno del sistema considerato. Tra i fattori interni sono da includere: il conflitto tra i gruppi, le associazioni, le organizzazioni e le classi sociali, che mobilita e orienta le forze necessarie per introdurre mutamenti più o meno radicali e più o meno rapidi; l’accumulazione del capitale e i nuovi investimenti nei diversi settori produttivi; i movimenti collettivi, soprattutto allo stato nascente. Tra i fattori esterni si annoverano: la guerra, l’occupazione militare, il conflitto internazionale, gli interventi di una potenza straniera politicamente o economicamente dominante, la caduta di un regime legale come quella di uno illegale; forti aumenti o diminuzioni della popolazione, anche per effetto di intensi flussi migratori, per cui un sistema socio-economico, non riuscendo ad assorbire l’incremento demografico, entra in crisi e tende ad essere mutato; lo sviluppo della tecnologia, della scienza, dell’industria o con una parola della cultura materiale; i contatti con altre culture, l’acculturazione, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, il turismo.

4. Ultimamente non si nota in generale tanto interesse per il c.s. Gli sforzi oggi si concentrano maggiormente sullo studio dettagliato di particolari società, comunità e istituzioni usando mezzi di osservazione, di indagine e di misurazioni sempre più esatti. Il c.s. viene analizzato in sociologia come una condizione normale della società. Ogni società e cultura è sottoposta a un rapido e costante c.s. I mutamenti non sono isolati né temporalmente né spazialmente e le conseguenze tendono a ripercuotersi su intere regioni o in tutto il mondo attraverso la tecnologia moderna e le strategie sociali. Nella mentalità moderna il c.s. si è quasi istituzionalizzato: in questo senso, all’ordine dato della tradizione si sostituisce l’accettazione del c. continuo. In altre parole, non è positivo fare quello che tutti hanno sempre fatto, ripetere i modelli prestabiliti, ma innovare, come in economia, o scoprire e riformulare leggi, come nelle scienze. Pertanto si tratta di un passaggio da un insieme relativamente indifferenziato a una diversificazione crescente di ruoli, status, e istituzioni. La società moderna, postindustriale, accelera il processo di divisione del lavoro e aumenta il numero delle funzioni e delle specializzazioni.

Bibliografia

Durkheim E.,​​ La divisione del lavoro sociale,​​ Milano, Edizioni di Comunità, 1962; Ogburn W.,​​ On culture and social change.​​ Selected papers,​​ Chicago / London,​​ The University of Chicago Press, 1964; Jeffrey C. A.,​​ Teoria sociologica e mutamento sociale,​​ Milano, Angeli, 1990; Bourdieu P. - J. S. Coleman,​​ Social theory for a changing society,​​ Boulder / Colorado, New York, Westview Press, 1991; Crespi F.,​​ Evento e struttura. Per una teoria del mutamento sociale,​​ Bologna, Il Mulino, 1993; Toscano M. A. (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli,​​ 71993; Nisbet R. A.,​​ History of the idea of progress,​​ Estover, Plymouth, Transaction Publishers, 1994; Sztompka P.,​​ The sociology of social change,​​ Oxford, Blackwell, 1994; Ortoleva P.,​​ Mediastoria.​​ Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Parma, Pratiche, 1995; Belardinelli S. - L. Allodi (Edd.),​​ Sociologia della cultura, Angeli, 2006; Granieri P.,​​ La società digitale, Bari, Laterza, 2006.

J. Bajzek




CAMPANELLA Tommaso

 

CAMPANELLA Tommaso

n. a Stilo, Calabria, nel 1568 - m. a Parigi nel 1639, filosofo italiano.

1. C., religioso domenicano, fu perseguitato e imprigionato per ragioni politiche. È il più tipico filosofo del Rinascimento italiano. Sulla scia di B. Telesio, ma con più profonda capacità metafisica, interpreta lo spirito di rinnovamento del naturalismo rinascimentale e ne formula l’incontro con il cristianesimo nella sua sintesi filosofica, nella gnoseologia e nella metafisica. La prima, accentuando il distacco dalla visione aristotelica, valorizza nel​​ sensus inditus​​ la coscienza (costitutiva) di sé come base di ogni ulteriore conoscenza, dovuta al​​ sensus additus,​​ che deriva dal contatto con gli altri esseri. La presenza della​​ mens​​ (spirito) garantisce l’oggettività del conoscere. Si ha così una sintonia con la nuova ricerca della conoscenza della natura; ma resta la difficoltà di un residuo sensismo. La seconda ha come fondamento la concezione delle​​ tre primalità​​ (potentia,​​ sapientia,​​ amor)​​ costitutive dei vari esseri: in Dio nelle tre divine Persone, e, in modo gradualmente partecipato, negli esseri creati. L’accentuazione dell’amor sui​​ come prima tendenza, che in quanto tendenza all’essere diventa anche​​ amor Dei,​​ porta alla concezione di una religiosità sostanzialmente radicata nella natura (religio indita),​​ che viene precisata e perfezionata dalle religioni positive (religio addita)​​ e nel modo più perfetto dal cristianesimo.

2. La profondità e l’impostazione della sua speculazione pongono il C. nel cuore della cultura rinascimentale. Lo specifico interesse e influsso pedagogico è legato a un aspetto della sua opera utopica: la​​ Città del sole.​​ In essa trovano fantasiosa applicazione i principi elaborati nella filosofia di C., in un tentativo di sintesi politico-filosofico-religiosa e di esaltazione della natura: libertà, spontaneità, superamento dell’egoismo e dedizione al bene comune caratterizzano la vita dei cittadini, governati (in clima di pieno comunismo, sul tipo della​​ Repubblica​​ di​​ ​​ Platone) da un principe-sacerdote (il​​ «Metafisico»)​​ assistito da tre magistrati (traduzione in dimensione politica delle​​ tre primalità).

3. L’educazione dei piccoli, maschi e femmine, è realizzata nel contatto con la natura, all’aria aperta; l’apprendimento è attuato attraverso pitture murali sui muri della città, la visita alle botteghe degli artigiani, le attività meccaniche e agricole. In questa visione utopica C. anticipa, in certo modo, l’evoluzione dei metodi pedagogici e didattici. Ciò spiega l’influsso esercitato presso i successivi pedagogisti della corrente realista, per es.​​ ​​ Comenio.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ C.,​​ La città del sole e altri scritti, a cura di F. Mollia, Milano, A. Mondadori, 1991. b)​​ Studi:​​ Di Napoli G., «L’utopia pedagogica in Moro, C. e Bacone», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. I, Brescia, La Scuola, 1977; Frauenfelder E.,​​ La Città del Sole di Fra’ T. C., Napoli, Ferraro, 1981; Genovesi G. - T. Tomasi,​​ L’educazione nel paese che non c’è. Storia delle idee e delle istituzioni educative in utopia, Napoli, Liguori, 1985; Negri L.,​​ Fede e ragione in T. C.,​​ Milano, Massimo, 1990; Garin E.,​​ Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche, Firenze, Le Lettere, 1993; Vasoli C.,​​ Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavarino, Milano, B. Mondadori, 2002; Amerio R. - M. Guglielminetti - P. Ponzio, «C.», in​​ Enciclopedia Filosofica, vol. II, Milano, Bompiani, 2006, 1588-1595.

M. Simoncelli




CAMPIONE STATISTICO

 

CAMPIONE STATISTICO

Parte di una popolazione ritenuta rappresentativa dell’intera popolazione in un particolare contesto di studio.

1.​​ Premessa.​​ Quando si pianifica una ricerca – in campo educativo, psicologico, sociale, ma anche in campo fisico, agrario o altro – si ha in mente qual è la​​ popolazione​​ (detta anche​​ universo)​​ che si vuole studiare. Ad es., se si decide di studiare i metodi usati dai docenti italiani per insegnare la storia ai ragazzi che frequentano la scuola media dell’obbligo, la popolazione è costituita da tutti i docenti italiani che in una qualsiasi scuola media insegnano quella disciplina. Una popolazione può essere quantificata in modo preciso. Nel nostro caso, sia pure con qualche difficoltà, sarebbe possibile fare un elenco nominativo di tutti gli insegnanti di storia delle scuole medie italiane. Nella maggior parte dei casi, raggiungere e studiare tutti gli individui che compongono una popolazione è troppo lungo e costoso. Se però si vuole che le conclusioni dello studio, anche se basate su una parte dei soggetti, possano ragionevolmente essere riferite all’intera popolazione, bisogna che la porzione scelta per lo studio – il c. – sia scelta secondo regole ben definite.

2.​​ Tipi di c.​​ Il​​ c.​​ casuale semplice​​ è il tipo di c. che con più rigore rispetta le esigenze di rappresentatività, in quanto garantisce che ogni membro della popolazione abbia le stesse probabilità di essere estratto e di entrare a far parte del c. Questo si ottiene assegnando ad ogni elemento della popolazione un numero ed estraendo i numeri con un procedimento rigorosamente casuale, simile a quello con cui si estraggono i numeri del lotto. Viene considerata una buona approssimazione al c. casuale il c.​​ sistematico,​​ in cui si parte da un numero scelto a caso e si procede a intervalli uguali. Non sono equiparati ai c. casuali i​​ c​​ .accidentali,​​ scelti «come capita» o, peggio, in base alla facilità di accesso. Sono c. accidentali gli alunni esaminati dai loro stessi insegnanti, gli elettori all’uscita del seggio più vicino alla casa degli intervistatori, i pazienti studiati dai loro terapeuti e così via. I c. – casuali o no – sono detti​​ stratificati​​ quando la popolazione, anziché essere costituita da un’unica lista indifferenziata di individui, è articolata in categorie descrittive quali età, sesso, studi compiuti ecc. Sono detti​​ a gruppi​​ quando la popolazione non è costituita da un elenco di individui, ma da un elenco di gruppi: per es., se ogni elemento della lista è una classe scolastica, una unità abitativa, ecc.

3.​​ Precisione delle misure ottenute nel c.​​ Posto che il c. sia estratto a caso, quanto più è numeroso tanto più rispecchia in modo adeguato le caratteristiche della popolazione da cui è estratto. Il principio di base tenuto presente per stimare la precisione delle statistiche calcolate su c. è definito da una formula nota come disuguaglianza o teorema di Tchebycheff. Se il c. non è casuale ma accidentale si ha motivo di ritenere che quanto più è ampio il c. tanto più sono forti le distorsioni che lo rendono diverso e peculiare rispetto alla popolazione.

Bibliografia

Kendall M. G.,​​ The advanced theory of statistics,​​ vol. 1, London, Griffin, 1952; Calonghi L.,​​ La scelta del c.,​​ Roma, Università Salesiana, 1973; Hays W. L.,​​ Statistics for the social sciences,​​ New York, Holt,​​ 21973; Som R. K.,​​ A Manual of sampling techniques, London, Heinemann, 1973; De Carlo N. A. - E. Robusto,​​ Teoria e tecniche di campionamento nelle scienze sociali, Milano, LED, 1996.

L. Boncori




capacità di SCELTA

 

SCELTA: capacità di

1. La capacità di s. consiste in una serie di operazioni mentali che il soggetto deve compiere per indicare una preferenza tra più opzioni. Essa presuppone la presenza di più alternative e l’assenza di vincoli tali da pregiudicare totalmente la facoltà di deliberare. È caratterizzata da una quota di rischio dovuta all’impossibilità di ponderare tutte le implicazioni. I termini s. e​​ ​​ decisione vengono spesso utilizzati in maniera intercambiabile. Alcuni autori invece distinguono la s., intesa come «elezione» di un’opzione tra più possibilità, dalla​​ decisione​​ come esclusione progressiva («tagliar via») delle alternative e come risoluzione finale che spinge all’azione (Khul).

2. I modelli teorici sulla s. si distinguono in normativi e descrittivi. I primi, elaborati principalmente in ambito matematico ed economico, intendono fornire strategie per giungere alla risoluzione più conveniente. I secondi, invece, si propongono di comprendere le «norme» di s. più frequenti. Tra questi ultimi citiamo il modello processuale «dell’immagine» (Beach, 1998), che descrive dettagliatamente due momenti della s. (generazione delle alternative e confronto tra le stesse). Esso considera un’ampia serie di fattori (cognitivi, emotivo-affettivi e contestuali). La capacità di s. prevede: processi induttivi e deduttivi; attenzione selettiva; memoria a breve termine; strategie elaborative e metacognitive; capacità critica; regolazione delle emozioni; tolleranza del rischio; stima di sé ed autoefficacia; motivazione; criteri etici di riferimento. Si tratta di fattori importanti da considerare nel momento in cui si intendano impostare interventi educativi di potenziamento.

Bibliografia

Beach L. R. (Ed.),​​ Image theory: theoretical and empirical foundations, Mahwah-London, Lawrence Erlbaum Associates Publishers, 1998; Howse R. B. - D. L. Best - E. R.​​ Stone,​​ Children’s decision making: the effects of training,​​ reinforcement,​​ and memory aids, in «Cognitive Development» 18 (2003) 247-268.

P. Ricchiardi​​ 




CAPITALISMO

 

CAPITALISMO

È il sistema economico nato con la rivoluzione industriale (e ad essa intimamente congeniale) nell’Europa occidentale alla fine del sec. XVIII ed ora diffuso in maniera e misura diverse, in quasi tutto il mondo.

1. Il c. è fondato sulla proprietà privata (spesso anonima) dei mezzi di produzione (costituenti appunto quello che si chiama il capitale), sulle elevate (e crescenti) dimensioni delle unità produttive (le imprese), sul ruolo egemone dell’imprenditore, nell’organizzazione dell’attività produttiva, sulla dipendenza dell’apparato produttivo dalle richieste di un mercato libero e concorrenziale. Rispetto all’imprenditore i prestatori di lavoro si trovano in una posizione di subordinazione, sancita dal contratto di lavoro. I capitalisti sono i titolari della proprietà del capitale; ma i rischi (e naturalmente i vantaggi) dell’attività produttiva ricadono sull’imprenditore. Come il lavoro, così anche il capitale, quando non appartiene direttamente all’imprenditore (ed è la norma) deve essere adeguatamente rimunerato, secondo un prezzo determinato dal mercato. Il c. ha quindi esaltato la produttività del denaro; ne ha istituzionalizzato il mercato; ha creato un complesso di istituzioni finanziarie, aventi il compito di raccogliere il risparmio e di farlo affluire verso l’investimento. Simili istituzioni vengono ad assumere nel sistema un potere economico enorme, capace di esercitare forme di pesante condizionamento sulla politica sociale dei popoli.

2. Il primo c. è stato caratterizzato da forme di sfruttamento selvaggio del lavoro, che hanno prodotto, come reazione, la nascita del sindacalismo moderno e la formazione delle ideologie e dei movimenti socialisti. Col trascorrere del tempo, attraverso successivi e continui adeguamenti alle trasformazioni sociali, il c. ha mutato profondamente la sua fisionomia e si presenta oggi, con caratteri notevolmente diversi, costituiti soprattutto da un continuo aumento della produttività e della dimensione delle unità produttive, per una maggiore e più equa diffusione della ricchezza (almeno per i Paesi industriali avanzati), e per un tasso altissimo e crescente di consumi. Ma la creazione di un unico mercato mondiale, ha esasperato il divario economico esistente tra Paesi industriali avanzati e Paesi ancora in via di sviluppo, creando forme di miseria intollerabili, da cui non esiste per ora via praticabile di uscita. Dal punto di vista culturale, il c. può essere adeguatamente capito solo sullo sfondo dell’ideologia liberale. Il valore privilegiato da questa forma di pensiero è quello dell’individualità personale. Compito della​​ ​​ società è quello di liberarne tutte le possibilità di espansione attiva e di stimolarne intensamente le prestazioni sia materiali che culturali. Questa liberazione e questo stimolo sarebbero garantiti dal carattere competitivo del sistema capitalista. Il sistema stesso, col suo specifico funzionamento, senza bisogno di programmare nessuna forma sistematica di indottrinamento, esercita un influsso educativo inconsapevole ma efficace, volto a diffondere questa sua specifica visione dell’uomo e della società. Spetta perciò alla scuola e agli educatori di professione il compito di aiutare le nuove generazioni a una valutazione critica di questa ideologia e di una messa in guardia nei confronti di questo indottrinamento occulto, così largamente diffuso nella nostra cultura.

Bibliografia

Perroux F.,​​ Le capitalisme,​​ Paris, PUF, 1960; Sweezy P. M.,​​ La teoria dello sviluppo capitalistico,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1970; Dobb M.,​​ Economia politica e c.,​​ Ibid., 1972; Pont. Consiglio della Giustizia e della Pace,​​ Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004.

G. Gatti




CAPPONI Gino

 

CAPPONI Gino

n. a Firenze nel 1792 - m. ivi nel 1876, storico, filologo, letterato, politico, pedagogista italiano.

1. Nasce da una delle più antiche e celebri famiglie fiorentine. Ricco di censo e d’ingegno, possiede una vasta cultura, che gli viene dalla conoscenza delle lingue classiche e moderne, da forti studi, da molte letture, dai viaggi in Italia ed Europa. Significativi quelli nella cosiddetta provincia pedagogica europea di cui dà relazione con​​ Ragguaglio dello stabilimento di educazione del p.​​ ​​ Girard a Friburgo​​ (1820),​​ Considerazioni sopra un libro relativo agli Istituti di Hofwyl​​ (1822). È tra i fondatori dell’«Antologia», del «Giornale Agrario Toscano», dell’«Archivio Storico Italiano». È membro della Società fiorentina per la diffusione del​​ ​​ mutuo insegnamento; promuove e sostiene gli asili aportiani; segue con interesse la vita dell’Istituto s. Cerbone dell’amico​​ ​​ Lambruschini; è in relazione personale o epistolare con i maggiori pedagogisti italiani ed europei dell’Ottocento.

2. Oltre ai molti scritti di carattere storico, letterario, economico, politico, va segnalato quello che la critica ritiene il suo capolavoro:​​ Sull’educazione. Frammento di G. C.,​​ 1841​​ pubblicato a Firenze nel 1869, ma stampato anonimo nel 1845. In esso C. insiste perché l’educazione sia fondata sugli affetti, sul rispetto della spontaneità e della​​ ​​ personalità, sull’esigenza di esempi buoni, sul ruolo della​​ ​​ famiglia, in particolare della madre, che educa il cuore. Infatti per C. l’educazione è sviluppo integrale della persona mediante le forze vive dello spirito, che vanno conosciute e rispettate. Per questo è fortemente critico nei confronti di chi fonda l’educazione solo su metodi e precetti. Nel 1856 pubblica​​ Brano di studio morale,​​ con spunti originali di psicologia femminile.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Lettere di G.C. e di altri a lui,​​ a cura di A. Carbaresi, Firenze, Le Monnier, 1882-1890, 3 voll.; G.C.,​​ Scritti pedagogici,​​ a cura di A. Gambaro, Brescia, La Scuola, 1968; b)​​ Studi: Nencioni G. (Ed.),​​ G.C.: linguista,​​ storico,​​ pensatore, Firenze, Olschki,1977; Spadolini G.,​​ La Firenze di G.C. fra restaurazione e romanticismo: gli anni dell’Antologia, Firenze, Le Monnier, 1986;​​ G.C. Storia e progresso nell’Italia dell’Ottocento, Atti del Convegno di studi (Firenze, 21-23 gennaio 1993), a cura di P. Bagnoli, Firenze, Olschki, 1994.

R. Lanfranchi




CARATTERE

 

CARATTERE

Lo studio del c. è stato di notevole interesse per psicologi, pedagogisti ed educatori, anche se il concetto è rimasto sempre poco preciso e definito. Basterebbe un elenco di definizioni date nel tempo dagli studiosi per capire l’ampiezza entro cui esse si muovono e, in conseguenza, la poca precisione del termine. Si va da definizioni che puntano su caratteristiche quasi congenite e comunque fisse e stabilizzate, a caratteristiche legate al mondo dei​​ ​​ valori e delle​​ ​​ credenze del soggetto interessato.

1. Frequentemente il termine c. è associato a quello di temperamento, dando al primo un peso più «psicosociale» e legato all’educazione e all’ambiente, e al secondo un significato più «somatopsichico» e congenito. Il c., inoltre, ha frequentemente una connotazione morale, assente completamente nelle definizioni di temperamento. Volendo portare agli estremi le varie posizioni degli studiosi potremmo dire che, per alcuni, il c. è qualcosa di strutturale; per altri è qualcosa di reattivo pur garantendo un minimo di «coerenza»del comportamento.

2. Senza impegnarci in un’esegesi delle varie definizioni, ma allo scopo di confermare quanto fin qui detto, eccone alcune, storiche e contemporanee. Per F. R. Paulhan (1902) il c. è «ciò che fa che una persona sia se stessa e non un’altra». Per​​ ​​ Spranger (1927) «il c. è la diversa tipica attitudine assunta dalla persona, di fronte a valori quali quello estetico, economico, politico, sociale, religioso». Molto significativa, nella sua sinteticità, è la definizione di A. Niceforo (1953): «c. è l’io in società». Una delle definizioni che sembra più completa e convincente è quella di R. Diana. Per questo studioso, c. è «l’insieme delle disposizioni congenite e di quelle stabilmente acquisite che definiscono l’individuo nella sua completa attitudinalità psichica e lo rendono tipico nel modo di pensare e di agire». Questa definizione contiene due aspetti significativi della condotta dell’individuo: unità (modo di agire coerente) e stabilità (unità continuata nel tempo). In altre parole, il c. sarebbe una strutturazione psicologica di natura reattiva all’ambiente. Da queste definizioni si coglie bene l’interesse pedagogico della conoscenza del c. e l’attenzione prestata a questa realtà individuale da parte degli educatori di tutti i tempi: atteggiamento di fronte ai valori e disposizioni stabilmente acquisite sono due dimensioni di notevole portata formativa.

3. Nonostante ciò, la sua connotazione di staticità ha reso lo studio del c. meno attuale con il progredire della psicologia dinamica e della personalità (termine, quest’ultimo, molto più usato oggi al posto di c.), che, tuttavia, il termine c. lo ha sempre usato: basti ricordare Freud che, già nel 1908, fece il passaggio da «sintomo» nevrotico a «c.» nevrotivo, comprendendo che il sintomo era radicato nel c. dell’individuo e che l’azione terapeutica doveva essere rivolta al c. e non al sintomo.

Bibliografia

Paulhan F. R.,​​ Les caractères,​​ Paris, Alcan, 1902;​​ Spranger E.,​​ Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit,​​ Halle, Niedermeyer,​​ 1927; Niceforo A.,​​ Avventure e disavventure della personalità e dell’uomo in società,​​ Milano, Bocca, 1953; Diana R.,​​ Guida alla conoscenza degli uomini. Tipologia caratterologica,​​ Roma, Paoline, 1964; Fedeli M.,​​ Temperamenti e personalità: profilo medico e psicologico,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1992; La Marca A.,​​ Educazione del c.​​ e personalizzazione educativa a scuola, Brescia, La Scuola, 2005.

M. Gutiérrez