1

CICLO DIDATTICO

 

CICLO DIDATTICO

Dal lat.​​ Cyclus​​ (cerchio), rappresenta l’idea della serie, chiusa in se stessa, che si riproduce periodicamente; per estensione, nel linguaggio pedagogico-scolastico, corrisponde​​ all’unità comprensiva​​ ​​ una fase della progressione curricolare, in se stessa compiuta – che si ripete modularmente per costituire l’intero del​​ ​​ piano di studi; di fatto, il c si definisce organizzativamente come «multiplo» della classe, che resta l’unità operativa minima.

Storicamente, si può considerare l’analogo della «classe», alla quale si oppone come alternativa mirata a correggerne la rigida scansione annuale, che impone i ritmi dell’artificio cronologico-formale alla varietà dei gradienti di sviluppo individuali.

2. Rispetto alla «classe», c. è una nozione che si distingue per alcuni attributi definienti: a) il riferimento ad uno «stadio»​​ evolutivo della personalità dell’alunno in relazione ai compiti di​​ ​​ apprendimento.​​ Per questo aspetto,​​ il c. si qualifica per la relazione peculiare tra il piano di studi e l’età psicologica del soggetto in formazione, e quindi per​​ la funzione che assolve​​ (come nel francese​​ cycle d’orientation);​​ b) per l’idea di​​ discontinuità​​ che sottolinea, rispetto agli altri c., a ragione della compiutezza interna che esprime; c) viceversa, per l’idea di​​ continuità,​​ connessa alla successione di cui rappresenta una parte; d) per la caratterizzazione del​​ tipo di insegnamento​​ che richiede in relazione allo sviluppo dell’alunno.

3. Introdotto come risposta istituzionale alle istanze dell’attivismo (​​ Scuole Nuove), l’evoluzione dei modelli didattici verso la centratura sulle discipline di studio, sulle metodologie d’indagine e sugli obiettivi da perseguire ha ottenuto di far perdere rilievo ad un termine che si era affermato insieme alle denunce dei ritardi e degli insuccessi scolastici.

4. Il c. è tornato in auge negli ultimi dieci anni in riferimento a due contingenze : a) la riforma della durata ed articolazione interna dell’intero curricolo scolastico – v.​​ riordino dei c.​​ – in particolare per le divergenti politiche in materia di​​ ​​ obbligo scolastico e, più in generale, di «missione» della scuola; b) le strategie di razionalizzazione della rete scolastica, che ha visto la diffusione degli​​ ​​ «istituti comprensivi» e conseguentemente la pratica di «curricoli in verticale» fra diversi gradi scolastici.

Bibliografia

Calidoni M. - P. Calidoni P.,​​ Continuità educativa e scuola di base,​​ Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi,​​ La scuola in verticale, Napoli, Tecnodid, 2000; Damiano E. (Ed.),​​ Idee di scuola a confronto, Roma, Armando, 2002.

E. Damiano




CITTADINANZA

 

CITTADINANZA

Con il termine c. si indicano tanto la relazione tra un individuo e uno Stato quanto i diritti e i doveri che tale relazione comporta per l’individuo.

1. La c. moderna è il risultato di un duplice evento storico: l’affermarsi dell’idea di nazione (con la conseguente trasformazione dell’entità politica a cui gli uomini dovevano fedeltà: dalla città, dal clan, dall’aristocrazia alla nazione come entità geografica, culturale e politica) e la distruzione del sistema dei tre «stati» tipica dell’Ancien ré­gime​​ decretata dalla Rivoluzione francese con la conseguente affermazione del principio dell’uguaglianza giuridica di ciascun cittadino. Negli ultimi due secoli questa dimensione della c. si è, d’un lato, arricchita sul versante sociale (con la sempre più avvertita consapevolezza che senza uguaglianza sociale la stessa uguaglianza giuridica finisce per essere meramente formale) e, dall’altro, ha palesato evidenti limiti a fronte della realtà delle grandi comunità governate in modo rappresentativo.

2. Nella cultura politica contemporanea è possibile individuare – ragionando in termini molto schematici – alcune principali posizioni. La prima poggia sul presupposto che non sia più possibile nelle società postmoderne alcun tipo di c. «forte» e cioè poggiata su quel nucleo di valori etico-politici (come ad es. la nazione o i valori borghesi) su cui si è svolta per due secoli la cultura politica occidentale. Nel richiamare preferenzialmente la civiltà del cosmopolitismo ellenistico, anziché quella della​​ polis​​ greca, i sostenitori della c. «debole» rilanciano l’insegnamento di stoici ed epicurei che reputarono superato il modello politico-paidetico della​​ polis​​ e sostennero il valore dell’individuo indipendentemente dall’associazione politica di cui faceva parte. Inoltre essi condividono una concezione di Stato smagrito di qualsiasi contenuto ideale (e, dunque, molto diverso per es. dallo Stato-nazione otto-novecentesco) il cui compito principale dovrebbe essere quello di mediare i conflitti e garantire la molteplicità delle esperienze personali e le pari opportunità per ciascuno, sottraendo la c. a logiche normative, riconducendola ad una rete di rapporti egualitari basati sul reciproco riconoscimento (Habermas, Luhmann). Non mancano anche coloro che, pur riconoscendosi in questo contesto, reputano tuttavia necessarie alcune regole etico-politiche positive generali in grado di promuovere e conservare i valori della democrazia, giudicata il modello politico più perfetto (Bobbio). Negli ultimi anni, segnati dall’intensificarsi dei processi migratori e dal conseguente misurarsi e confrontarsi di culture, religioni, tradizioni diverse, si sono moltiplicati i tentativi per individuare un nucleo di «valori condivisi» o «valori comuni» (Maffettone, Veca, Viano) intorno ai quali elaborare una nozione di c. improntata al reciproco rispetto delle diversità. Questa posizione – che sta notevolmente influenzando i programmi scolastici di numerosi Paesi europei sulla scorta anche delle suggestioni di importanti documenti internazionali (tra tutti il cosiddetto Rapporto Delors,​​ Learning: the Treasure within, 1996) – si sta tuttavia scontrando con le tesi di quelle culture extra europee che rimproverano alla teoria dei «valori comuni» la sua matrice intrinsecamente illuministica ed eurocentrica.

3. Su posizioni del tutto diverse si muovono le tesi comunitariste (MacIntyre, Arendt, Sanders, Taylor) che ripropongono, invece, la validità dell’idea classica di c., prospettando l’esperienza comunitaria della​​ polis​​ greca come esemplare e la​​ Politica​​ di​​ ​​ Aristotele come un testo ancora in grado di parlare all’uomo contemporaneo. La c. è così vista in funzione dell’appartenenza alla comunità e nella prospettiva del bene comune ed è così in- tesa sia come categoria politica e sia come impresa educativa. I comunitaristi ipotizzano infatti uno stretto intreccio tra libertà, solidarietà e responsabilità individuali e comunitarie e le prassi, i riti, i processi socializzanti ed inculturanti attraverso cui essa si costituisce. Anche tra i comunitaristi esistono quanti avvertono tuttavia che l’ipotesi di c. ricca di ideali rappresenta certamente un fondamentale modello teorico, che risulta però di ardua praticabilità nella società complessa nella quale è difficile identificare un nucleo di valori comuni intorno a cui costruire un​​ ethos​​ comunitario. Per questi autori la c. comunitaria dovrebbe costituirsi in forme «societarie» (e non stataliste), facendo riferimento ai diritti dei singoli e dei gruppi sociali così come si realizzano nelle formazioni sociali autonome, quale che sia la loro sfera d’azione (economica, culturale, politica o sociale), intese come insieme o «rete» sociale capace di stabilire ed assicurare nuove e più significative relazioni all’interno della società (Donati).

4. Non è difficile constatare come i due principali modelli di c. oggi vivi nel confronto nella cultura contemporanea (universalistico-individualistico e comunitario) implicano approcci educativi molto diversi. Nell’ipotesi della c. universalistica dominano atteggiamenti formativi ispirati alla tolleranza, al senso di reciprocità delle esperienze, al pieno esplicarsi in senso per lo più individualistico delle attese e aspettative personali, al rispetto della diversità, considerata più come fatto individuale che come valore culturale e collettivo. Nel caso della c. comunitaria prevale, invece, la convinzione che tra la dimensione personale e quella storico-sociale della persona umana non c’è contraddizione e che anzi l’una integra l’altra (la libertà senza solidarietà sconfina nell’egoismo particolaristico). Le categorie pedagogiche prevalenti risultano perciò quelle dell’educazione alla responsabilità (intesa nel duplice senso di responsabilità personale e responsabilità comunitaria), al superamento di sé, alla partecipazione sociale, alla valorizzazione della «memoria» collettiva nella quale s’invera ciascuna esperienza personale.

5. Notevoli suggestioni in prospettiva educativa e pedagogica giungono anche dalle tesi di alcuni autori di ispirazione repubblicana (Gutman, Pettit, Skinner, Viroli) e non (Naval, Höffe) che hanno di recente rilanciato il motivo della «virtù civica» intesa come forma di appartenenza solidale alla società in cui si vive (il cosiddetto «cittadino attivo» o, nel linguaggio americano, il «cittadino patriota»). Lo scopo è quello di sfuggire al rischio intellettualistico connesso alla determinazione del valore condiviso. La virtù civica oltrepassa infatti il principio del valore condiviso, per coinvolgere in presa diretta il cittadino nell’esperienza della socialità civica. Le virtù civiche non pretendono che questi diventi una persona del tutto nuova, ma che più semplicemente sia capace di sacrificare il proprio interesse per il bene comune. Questo approccio di natura politologica manifesta punti di affinità – talvolta anche esplicitamente intrecciandosi – con le iniziative avviate negli Stati Uniti dal Movimento per l’educazione del carattere (tra i suoi maggiori esponenti va segnalato Thomas Lickona). L’obiettivo è quello di creare la «comunità morale» nel senso proposto da Kohlberg attraverso l’esercizio della volontà degli allievi, ponendoli di fronte a impegni severi e stimolandoli a raggiungere risultati eccellenti. Lo scopo è quello di aiutare gli allievi a conoscere l’altro come persona, a stimare i membri della comunità ed a sperimentare sensi di responsabilità verso il gruppo di appartenenza. La scuola della c. attiva non sarebbe perciò tanto o soltanto quella che si riconosce laicamente in alcuni valori condivisi, ma quella che lavora per sfuggire al rischio che la libertà personale si giochi insindacabilmente secondo il principio dell’autonomia il quale più cresce quanto più il soggetto si ritiene svincolato da un orizzonte che lo oltrepassa.

Bibliografia

Marshall T. H.,​​ C. e classe sociale,​​ Torino, UTET, 1976; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Damiano E. et al.,​​ L’educazione del cittadino,​​ Brescia, La Scuola, 1990; Lickona T.,​​ Education for character: how our schools can teach respect and responsibility, New York, Bantam Books, 1991; Bendix J., «C.», in​​ Dizionario delle scienze sociali,​​ vol. I, Torino, UTET, 1991, 772-777; Habermas J.,​​ Morale,​​ diritto,​​ politica,​​ Torino, Einaudi, 1992; Zincone G.,​​ Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile,​​ Bologna, Il Mulino, 1992; Donati P. P.,​​ La c. societaria,​​ Bari, Laterza, 1993; Kymlicka W.,​​ La c. multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999;​​ Putman R. D.,​​ Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2004;​​ Toso M.,​​ Democrazia e libertà: laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Roma, LAS, 2006.

G. Chiosso




CIVILTÀ

 

CIVILTÀ

Dall’antichità fino ai tempi più recenti la c. è stata generalmente considerata in un rapporto d’identità con la​​ ​​ cultura – intesa in senso prevalentemente classico-umanistico – in quanto designa la forma più alta della vita di un popolo.

1. Tale nozione si fonda sulla preferenza accordata a certi valori; privilegia certe particolari forme di attività o di esperienza umana, ritenute particolarmente indicative del grado di formazione umana e spirituale raggiunta da un popolo; e contemporaneamente esalta quei gruppi umani presso i quali tali forme di esperienza e di attività appaiono particolarmente sviluppate (Abbagnano, 1980, 130-131). Ad es., per i Latini, e per vari secoli,​​ civilitas​​ era la società dei cittadini: il​​ civis,​​ l’uomo della città, raffinato ed evoluto, è contrapposto al​​ ruralis,​​ ossia all’uomo esterno al mondo urbano, e per ciò stesso forestiero ed anche rozzo e villano. Tale concezione di c. ha sempre conservato una notevole connotazione aristocratico / elitaria, sia perché in genere solo una minoranza privilegiata riusciva ad accedere pienamente a tale ricchezza culturale, sia perché l’«uomo civile» tendeva a distaccarsi con disprezzo dal resto dell’umanità. Troviamo la qualifica di​​ volgo,​​ all’interno, di​​ barbari,​​ all’esterno, per designare gli esclusi o gli emarginati, nell’epoca greco-latina, medioevale, umanistico / rinascimentale, illuministica. Celebri, a questo riguardo, le affermazioni di Orazio:​​ Odi profanum vulgus et arceo​​ (Odi,​​ 3,1) e del poeta cristiano Prudenzio:​​ Tantum distant Romana et barbara quantum quadrupes abiuncta​​ est bipedi vel muta loquenti​​ (Contra Symmacum,​​ 2, 817-8).

2. Con l’affermazione della moderna borghesia, quale classe fortemente differenziata, fiorita con il Rinascimento ed esplosa con l’Illuminismo e il Positivismo, la​​ c.​​ ​​ cioè l’autoapprezzamento che si esprimeva nell’attribuzione della​​ civilitas​​ al proprio modo di vita e ai propri ideali, ossia alla propria cultura – «divenne piuttosto il metro sul quale la classe borghese misurava sia gli altri strati sociali, sia anche i popoli stranieri al di là dei propri confini» (Thurn, 1979, 34-35). Sorge così un imperialismo civilizzatore animato da tenace zelo missionario per insegnare ai popoli «non civilizzati» a recepire la cultura europea. Tale mentalità, fondata su una determinata gerarchia di valori e privilegiante l’Occidente cristiano, pur stemperandosi negli estremismi classisti e regionalisti, supporta il classico concetto di c. «come simbolo del traguardo più elevato che viene raggiunto dalle attività culturali degli uomini, di modo che lo si riserva ai livelli più progrediti, nutriti e affascinanti del progresso culturale, mentre lo si nega ai livelli più arretrati, che vengono anche definiti appunto incivili. In questo significato emerge l’aspetto deontologico della cultura superiore, come fonte di orientamenti morali qualificanti e come garanzia di status sociale rispettabile» (Mamo - Minardi, 1987, 638). Una traccia di questa mentalità permane ancora nei nostri giorni: «Alcuni autori riservano il termine c. a manifestazioni superiori e particolarmente importanti della cultura: in tale accezione, il grattacielo è “c.”, la capanna, “cultura”; la bomba atomica è “c.”, la freccia e il​​ boomerang​​ sono “cultura”» (Costanzo, 1988, 506-507).

3. Da quando poi si cominciò a usare il termine c. al plurale – come, per es., fa Toynbee (1889-1975), che lo contrappone a quello di «società primitive» per indicare le società con mondi culturali relativamente autonomi – il termine c. è impiegato semplicemente come​​ cultura​​ (in senso antropologico moderno). Del resto già il classico dell’antropologia culturale,​​ Primitive culture​​ (1871) di Taylor, nella nota definizione, parlava di «cultura o c.». In definitiva, quantunque il concetto di c. presso etnologi e antropologi continui talvolta a sottolineare uno stadio o grado (relativamente) più avanzato di sviluppo di una società, la dicotomia tra c. e cultura sembra non avere reali fondamenti, ragion per cui oggi i due termini vengono considerati comunemente come sinonimi. Oggi, in un contesto di​​ ​​ globalizzazione si parla di incontro tra culture e dialogo interculturale, ma anche di «scontro tra c.».

Bibliografia

Thurn H. P.,​​ Sociologia della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1979; Abbagnano N., «C.», in Id.,​​ Dizionario di filosofìa,​​ Torino, UTET, 1980, 131-133: Mamo D. - E. Minardi, «Cultura», in E. Demarchi - A. Ellena - B. Cattarinussi (Edd.),​​ Nuovo dizionario di sociologia,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1987, 635-642; Costanzo L., «La cultura», in M. Toscano (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli, 1988, 489-525; Torrealta M. (Ed.),​​ Incontro e scontro di civiltà, Roma, EdUP, 2006.

M. Montani




CLAPARÈDE Jean Alfred Édouard

 

CLAPARÈDE Jean Alfred Édouard

n. a Ginevra nel 1873 - m. ivi nel 1940, psicologo svizzero.

1. Fondatore e direttore della rivista «Archives de Psychologie» (1901); direttore del laboratorio di psicologia sperimentale di Ginevra (1904); fondatore dell’Institut J. J. Rousseau (1912); segretario permanente dei congressi internazionali di psicologia (1926) e organizzatore delle conferenze internazionali di psicotecnica (1920). C. ebbe una formazione poliedrica; anche se si maturò nell’ambito del materialismo psicofisico, fu aperto al kantismo, al pragmatismo, e attento alla tradizione protestante espressa nel movimento del​​ cristianesimo sociale.

2. Partendo da una concezione biologica della psicologia, C. sviluppò ricerche nei molteplici settori della psicologia indagando quelle componenti biologiche che trovano nel bisogno, nell’interesse, nell’istinto il punto di partenza dal quale nascono e si differenziano sia le scienze dell’uomo che l’evoluzione stessa dell’individuo. Attraverso la legge dell’interesse momentaneo​​ si comprenderebbe il meccanismo della condotta umana e, attraverso la legge della​​ presa di coscienza,​​ il senso e la direzione della differenziazione e dello sviluppo umano. C. ebbe il merito di studiare i fenomeni psicologici sperimentalmente, senza isolarsi, però, dal processo concreto, cercando sempre una stretta relazione tra il fatto da spiegare e la condotta, ossia,​​ la funzione​​ del fatto psichico. Il concepire l’uomo nella sua interezza, porta C., fra l’altro, a studiare il ruolo dell’​​ ​​ intelligenza (Genèse de l’hypothèse),​​ il legame fra struttura biologica e attitudini mentali (Comment diagnostiquer les aptitudes chez les écoliers),​​ a privilegiare la sperimentazione psicologica, senza però rinchiudersi in essa.

3. Sostenitore della​​ ​​ pedologia, ritenne che qualsiasi​​ ​​ intervento educativo si dovesse fondare sugli interessi reali del fanciullo, al fine di porre tutto in funzione dei suoi bisogni e quindi del suo naturale processo di sviluppo (Éducation fonctionnelle),​​ per rendere la scuola adatta e proporzionata ai suoi poteri (École sur mesure).​​ C. si inserisce, così, nel movimento delle​​ ​​ Scuole Nuove. Nella sua concezione psicopedagogica C. ritiene che lo scopo della scienza sia quello d’indagare i metodi scientifici più adatti ad educare il singolo alla probità, alla democrazia, alla solidarietà, alla comprensione internazionale, allo spirito critico (Morale et politique). Pur essendo forte in lui una tendenza antropologica fondata sulla biologia e sul funzionalismo, prevale una tensione alta per valorizzare l’uomo proprio attraverso la moralità, il civismo, la ricerca della pace.

Bibliografia

Trombetta C.,​​ E.C.: La famiglia,​​ gli studi,​​ la bibliografia,​​ Roma, Bulzoni, 1976; Bucci S.,​​ Inediti pedagogici di E.C.,​​ Perugia, Università degli Studi, 1984: Trombetta C.,​​ E.C. psicologo,​​ Roma, Armando, 1989; Hameline D.,​​ E.C., in «Perspectives»​​ 23 (1993) 161-173.

C. Trombetta




CLARET Antonio María

 

CLARET Antonio María

n. a Sallent (Barcellona) nel 1807 - m. a​​ Fontfroide​​ (Francia) nel 1870, educatore spagnolo, catechista, fondatore dei Claretiani, santo.

1. Lavora come operaio e tecnico tessile prima di entrare in seminario (1829). Ordinato sacerdote (1835), alterna il lavoro parrocchiale con l’impegno nelle missioni popolari e nella diffusione della buona stampa; scrive opuscoli e libri, collabora alla fondazione dell’editrice Librería Religiosa di Barcellona. Nel 1849 fonda i Claretiani («Misioneros Hijos del Corazón de María»). Nominato arcivescovo di Santiago di Cuba, C. realizza importanti opere apostoliche e sociali, promuovendo la creazione di scuole gratuite. Offre il suo aiuto a Antonia París, fondatrice di un istituto per l’educazione delle ragazze: «Instituto de María Inmaculada de la Enseñanza». Nel 1857 rientra in patria come confessore di Isabella II e precettore dei figli.

2. Nel periodo di permanenza a Madrid, esplica un’intensa attività educativa e culturale: organizza un seminario e un liceo a El Escorial, crea la Academia de San Miguel, per artisti e intellettuali cattolici, diffonde le biblioteche parrocchiali. Dopo la rivoluzione del 1868 viene esiliato e muore in Francia. L’interesse pedagogico di C. comprende un ampio ventaglio: catechesi, educazione popolare, orientamento vocazionale, formazione dei seminaristi e delle ragazze, educazione familiare. Nella produzione (più di 94 titoli) emergono:​​ El colegial o seminarista,​​ teórica y prácticamente instruido​​ (1860),​​ La colegiala instruida​​ (1864),​​ La vocación de los niños. Cómo se han de educar e instruir​​ (1864). I Claretiani occupano un posto significativo nell’ambito della scuola (​​ Congregazioni insegnanti maschili).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ A.M.C.,​​ Escritos autobiográficos, Madrid, BAC, 1985. b)​​ Studi: Pérez Iturriaga T., «San A.M.C.», in A. Galino (Ed.),​​ Textos pedagógicos hispanoamericanos,​​ Madrid, Narcea, 1974, 989-1008; Alaiz A.,​​ Vida de san A.M.C.,​​ Madrid, San Pablo, 1995; Vilarrubias A.,​​ Sant A.M.C. sempre en missió, Barcelona, Centre de Pastoral Litúrgica, 2004.

J. M. Prellezo




CLASSE SCOLASTICA

 

CLASSE SCOLASTICA

Rappresenta l’unità compositiva della «scuola burocratica», raggruppando un numero più o meno ampio di alunni della stessa età scolastica, tenuti a seguire lo stesso segmento del curricolo formativo, nelle medesime condizioni di tempo e di spazio, sotto la guida dello stesso insegnante (o gruppo di insegnanti).

1. Dobbiamo a Michel Foucault la ricostruzione storica delle istituzioni della modernità, fra le quali la scuola «a classi», lo spazio seriale come una delle grandi mutazioni tecniche dell’insegnamento e della «disciplinazione» degli alunni mediante l’inquadramento spazio-temporale. Questo spiega perché la c. è sempre stata considerata (e discussa) in riferimento al potere dell’insegnante ed alla conduzione disciplinare della scolaresca. L’organizzazione per c. fa la sua comparsa con l’avvento dei primi Collegi rinascimentali e successivamente nelle scuole popolari (​​ Comenio, a Patak); da quel momento in poi si estende fino a diventare​​ la struttura organizzativa modulare minima​​ del sistema scolastico. Nel lessico scolastico sta a designare: a)​​ gli alunni​​ all’insieme dei quali s’impartisce l’insegnamento; b)​​ lo spazio fisico –​​ più esattamente​​ aula –​​ dove ha luogo un insegnamento polivalente (per distinguerlo, per es., dai laboratori o dalla palestra, spazi didattici specializzati).

2. Il dibattito sui ritardi e sull’​​ ​​ insuccesso scolastico ha sollevato in passato appassionate denunce all’idea di c., soprattutto all’inizio di questo secolo e nel contesto dei movimenti delle​​ ​​ Scuole Nuove. La discussione ha generato proposte differenziate di raggruppamenti alternativi al principio dell’età formale​​ ​​ le cosiddette​​ non-graded schools​​ e le tecniche di​​ streaming​​ e di​​ screening –​​ che si possono ricondurre ai seguenti criteri: a) relativi​​ all’interesse​​ per un argomento; b) alla​​ complementarità​​ per l’esecuzione di un progetto; c) alla​​ elettività​​ delle preferenze fra gli alunni; d) al​​ gradiente di sviluppo cognitivo​​ effettivamente controllato; e) al​​ rendimento scolastico;​​ f) alla​​ distribuzione dei compiti​​ nel quadro di attività programmate in comune fra c. diverse (o per l’intera scuola).

3. Tuttavia, la pratica della c. ha resistito alle critiche, risultando un raggruppamento conveniente per organizzare il lavoro formativo, soprattutto se si alternano momenti frontali con fasi di lavoro di piccolo gruppo, a coppie ed individualizzato e se si offrono occasioni con interscambi e ricomposizione di gruppi con altre c. («c. aperte»). La c., non da oggi, è tutt’altro che un’opzione assoluta, si possono dare raggruppamenti intra-c., come inter-c. fino ad organizzazioni per cicli pluriennali. Oggi l’ICT (Internet Communication Technology) consente l’attivazione di c. «virtuali» per l’apprendimento a distanza (​​ e-learning).

4. Sulla scorta del movimento femminista e della «didattica di genere», si è tornato a discutere il criterio consolidato della​​ coeducazione​​ e delle c. miste, riproponendo la differenziazione tra c. maschili e femminili (Salomone).

Bibliografia

Foucault M.,​​ Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975;​​ Storia della sessualità, Milano, Feltrinelli,​​ 1978;​​ Goodlad J. I. - R. H. Anderson,​​ The non-graded-school. Scuola senza c.,​​ Torino, Loescher, 1972; Shaplin J. T. - H. F. Olds,​​ Team teaching. Una nuova organizzazione del processo educativo,​​ Ibid., 1973; Meirieu P.,​​ Lavoro di gruppo e apprendimenti individuali, Firenze, La Nuova Italia, 1987;​​ Freinet C.,​​ Oeuvres pédagogiques, Paris, Seuil, 1994;​​ Perrenoud Ph.,​​ Les cycles d’apprentissage,​​ de nouveaux espaces-tempe de formation, in «Educateur» 14 (1998) 23-29;​​ De la gestion de classe à l’organisation du travail dans un cycle d’apprentissage, in T. Nault - J. Fijalkow,​​ La gestion de classe, in «Revue des Sciences de l’Education» 3 (1999) 533-570;​​ Salomone R.,​​ Same,​​ different,​​ equal: rethinking single-sex schooling, Yale, Yale Univ. Press, 2003.

E. Damiano




CLASSE SOCIALE

 

CLASSE SOCIALE

È uno tra i più cruciali e più controversi concetti della sociologia. In genere c.s. è l’insieme degli individui o delle famiglie che godono della stessa quantità di reddito, prestigio e potere; più specificamente è la posizione occupata dai diversi gruppi nel sistema della stratificazione sociale.

1.​​ Tratti caratteristici.​​ Secondo una descrizione che, al di là di qualunque interpretazione, indichi i​​ tratti caratteristici​​ e costanti della c.s. possiamo rilevare: a) diversamente dalla​​ casta​​ e dai​​ ceti,​​ le c.s. non dipendono da ordinamenti legali e religiosi. I confini tra le c.s. non sono mai netti, così che non esistono restrizioni formali particolari, né tanto meno al matrimonio tra i membri appartenenti a c.s. diverse; b) la c.s. di un individuo non è semplicemente ascritta, ma in buona parte anche acquisita; c) le c.s. si fondano sulle differenze e / o disuguaglianze di potere, di prestigio e di ricchezza, come per es. nel trattamento salariale, nelle condizioni di lavoro, nella proprietà e nel controllo delle risorse materiali.

2.​​ Due accezioni di c.s.​​ Nella letteratura corrente sono emerse due accezioni di c.s.: una definita​​ realista od organica,​​ predominante nel pensiero politico e nella sociologia europea, ed una definita​​ nominalistica od ordinale,​​ predominante nella sociologia americana.​​ In una definizione realista od organica​​ c.s. è quel complesso assai vasto di individui, che si trovano in una posizione simile nella struttura sociale storicamente determinata da rapporti politici ed economici. È un soggetto collettivo, capace anche di azione unitaria, dove l’interdipendenza tra le c.s. (in senso cooperativistico o conflittuale) è alta. L’insieme delle c.s. costituisce una «struttura di c.». La c.s. è il fondamento della disuguaglianza sociale (e non viceversa) in fatto di potere, di ricchezza e di prestigio che si osserva tra le persone, pur in presenza di una riconosciuta uguaglianza giuridica.​​ In una definizione nominalistica,​​ la c.s. è costituita da uno strato di persone sociali che hanno in comune determinate caratteristiche di​​ ​​ status: non solo ricchezza, prestigio e potere, ma anche​​ ​​ stili di vita, educazione e​​ ​​ cultura. L’appartenenza ad una c.s. condiziona infatti in modo oggettivo, cioè indipendentemente dalla coscienza o dalla volontà del soggetto, alcuni fondamentali aspetti della vita, come la professione, il livello del reddito, le possibilità educative, la speranza di vita,lo stile di vita, il prestigio di cui si gode, la possibilità di intervenire nelle decisioni politiche locali e nazionali.

3.​​ Nella storia del pensiero sociologico.​​ L’attuale teoria delle c.s. deriva quasi interamente dagli scritti di Marx , di​​ ​​ Weber, della Scuola di Mosca e di Pareto. Ciò non significa che molti altri autori non abbiano fornito intuizioni valide sulla struttura di c. e sulle forme di disuguaglianza. Marx fonda la definizione di c. sulla opposizione e sfruttamento che i proprietari del capitale e dei mezzi di produzione (i capitalisti) esercitano su coloro che vendono la loro forza-lavoro (il proletariato). Secondo Marx il sistema capitalistico è la fonte delle disuguaglianze sociali e di un differente accesso alle risorse. Contributi più recenti a tale teoria sono stati apportati da Lukacs, da Gramsci e ultimamente da Althusser. Essi hanno corretto l’idea della coercizione e del controllo sul proletariato, esercitato materialmente dallo Stato capitalistico, con la categoria della manipolazione ideologica, dell’indottrinamento e della propaganda. Secondo Althusser, infatti, nella società capitalistica è presente un complesso di istituzioni («gli apparati ideologici di Stato») che riescono a indottrinare e manipolare il proletariato. Weber invece inserisce tra i criteri per la formazione della c.s. anche quelli non economici, come il livello di educazione, la qualificazione professionale, l’occupazione, il reddito, il prestigio, l’etnia di appartenenza, l’affiliazione religiosa, l’autorità, il potere, la capacità di gestire i processi politici e decisionali. Per questo gli si attribuisce l’intuizione di «modello multidimensionale» della stratificazione sociale. Mentre la c.s. è data oggettivamente dai fattori economici, lo status dipende dalle valutazioni soggettive delle differenze sociali espresse dagli individui ed è associato ai diversi stili di vita dei gruppi. La maggior parte dei sociologi ritiene che lo schema weberiano offra una base più flessibile e sofisticata per l’analisi delle c.s.

4.​​ Le c.s. in Italia.​​ L’analisi più documentata e convincente è stata compiuta dall’economista Paolo Sylos Labini, il cui criterio per la stratificazione è stato non tanto il livello di reddito, quanto il modo in cui lo si ottiene. Sulla base di tale categoria l’A. ha distinto sei grandi di c.s.: la borghesia, le c. medie costituite dalla piccola borghesia impiegatizia, dalla piccola borghesia relativamente autonoma e dalla piccola borghesia di alcune categorie particolari, quindi la c. operaia e il sottoproletariato. Rimangono però sempre aperti gli​​ interrogativi​​ circa l’origine delle c.s., le coordinate del potere, i rapporti tra le c. e lo status, il grado di integrazione / differenziazione interna, l’influsso di ciascuna all’interno dei sistemi.

Bibliografia

Lukacs G.,​​ Storia e coscienza di c.,​​ Milano, Sugar, 1967; Dahrendorf R.,​​ C. e conflitto di c. nella società industriale,​​ Bari, Laterza, 1970; Mauke M.,​​ La teoria delle c. nel pensiero di Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1970; Giddens A.,​​ La struttura di c. nelle società avanzate,​​ Bologna, Il Mulino, 1975; Sylos Labini P.,​​ Saggio sulle c.s.,​​ Bari, Laterza, 1988;​​ Carabana J. - A. De Francisco (Edd.),​​ Teorías contemporáneas de las clases sociales,​​ Madrid, Pablo Iglesias, 1993; Crompton R.,​​ C.s. e stratificazione, Bologna, Il Mulino, 1999; Marshall Th.,​​ Cittadinanza e c.s., Bari, Laterza, 2002; Bevilacqua E.,​​ La società nascosta. C.s. e rappresentazioni ideologiche nell’Italia contemporanea, Milano, Angeli, 2003.

R. Mion




CLASSIFICAZIONE

 

CLASSIFICAZIONE

Raggruppamento di oggetti in «classi», cioè in categorie indipendenti. La c. è la forma più elementare di misurazione («scale nominali»). Rende possibile anche la trattazione statistica dei dati qualitativi e quindi la verifica sperimentale di ipotesi a loro attinenti.

1. Il processo di c. si fonda sul rapporto di equivalenza: tutti gli oggetti inclusi in una classe sono considerati equivalenti tra loro e le differenze tra oggetti all’interno di una stessa classe diventano irrilevanti ai fini della misurazione. Ad es., tra i candidati dichiarati «non idonei» a un concorso possono essere presenti livelli di capacità diversi. Nonostante ciò, il più capace dei «non idonei» è escluso dalla vincita del concorso esattamente come il meno capace. La c. implica il riferimento a più classi indipendenti, che si escludono a vicenda. L’indipendenza comporta che: a) qualsiasi oggetto deve poter essere univocamente classificato in una classe e in nessun’altra; b) l’ordine in cui le classi sono disposte può cambiare a piacere, non avendo significato; c) la denominazione attribuita a ciascuna classe può variare a piacere ed essere espressa sia da una parola sia da un numero. Nel caso l’etichetta sia espressa da un numero, il numero non ha proprietà aritmetiche, ma è un semplice distintivo, come può esserlo una targa automobilistica, il numero sulle maglie dei giocatori ecc.

2. Se la c. è riferita simultaneamente a due sistemi di categorie i dati possono essere inseriti in una «tabella di contingenza», all’interno della quale ogni casella contiene frequenze attinenti simultaneamente a due classi, una per ciascuno dei due sistemi usati. Le operazioni che si possono compiere sulle c. sono sostanzialmente: all’interno di ogni classe il conto delle frequenze e l’identificazione della moda (​​ statistica), nell’insieme delle classi la misurazione della variabilità delle frequenze e la stima della​​ ​​ significatività statistica delle differenze tra distribuzioni di frequenze in due sistemi di classi (per es. mediante​​ chi quadro​​ o statistiche d’informazione).

Bibliografia

Calonghi L.,​​ Statistiche d’informazione e valutazione,​​ Roma, Bulzoni, 1978; Cristante F. - A. Lis - M. Sambin,​​ Statistica per psicologi,​​ Firenze, Giunti-Barbera,​​ 1982; Siegel S. - N. J. Jr.​​ Castellan,​​ Statistica non parametrica,​​ Milano, McGraw Hill, 1992 (ed. orig. New York, McGraw Hill, 1988); Lombardo C. - L. Boncori,​​ I test in psicologia. Esercitazioni pratiche, Bologna, Il Mulino, 2007.

L. Boncori




CLEMENTE DI ALESSANDRIA

 

CLEMENTE DI ALESSANDRIA

n. nel 150 - m. nel 215, padre della Chiesa.

C. di A. (Tito Flavio C.) è il primo padre della Chiesa a tematizzare l’educazione cristiana nei suoi scritti e a concepire la storia della salvezza come una pedagogia divina con la quale Dio educa progressivamente la sua creatura, fino a portarla alla divinizzazione finale. In questo senso C. può definirsi giustamente come il primo pedagogista cristiano.

1. C. nacque probabilmente ad Atene, intorno al 150 d.C. da genitori pagani. Uomo assetato di verità, la cercò sempre con passione, anche attraverso lunghi viaggi, finché scelse come ambiente ideale e più congeniale all’impegno della sua ricerca Alessandria, la metropoli cosmopolita capitale della polivalente cultura ellenistica del suo tempo. Qui C. si convertì al Cristo-Logos e divenne maestro spirituale nel celebre​​ Didaskaléion,​​ la prima scuola cristiana per la catechesi e l’educazione. Durante la persecuzione di Settimio Severo (202-203) C. dovette lasciare la città per rifugiarsi in Cappadocia, presso il discepolo ed amico Alessandro, futuro vescovo di Gerusalemme (intorno al 211).

2. Le opere giunte sino a noi sono: il​​ Protettico,​​ il​​ Pedagogo,​​ gli​​ Strómati,​​ gli​​ Estratti da Teodoto,​​ le​​ Ecloghe profetiche​​ e l’omelia​​ Quale ricco può salvarsi?​​ Ci soffermeremo per un breve cenno solo sull’opera che tratta specificamente dell’educazione. Il​​ Pedagogo​​ consta di tre libri ed è il primo manuale di formazione pedagogica cristiana. Il primo libro contiene la parte più sistematica in cui C. pone i principi fondamentali della sua metodologia pedagogica. Gli altri due libri, invece, dai principi scendono alla prassi, con l’indicazione minuziosa delle norme di comportamento codificate in una specie di​​ galateo​​ proprio dell’educando cristiano. Chiude l’opera un inno poetico al divino Pedagogo, un «cantico dell’infanzia e dei fanciulli».

3. Pedagogia in C. non è semplice categoria di passaggio e occasionale, ma è il filo conduttore di tutta l’opera del​​ Pedagogo.​​ Basti annotare anche solo il fatto che questo termine (e suoi derivati) vi compare ben 163 volte. Contro la mentalità propria dell’ellenismo – recepita anche dallo gnosticismo del suo tempo – piuttosto incurante, per non dire ostile, al mondo dei fanciulli e dei piccoli, C. si schiera appassionatamente dalla loro parte, mettendoli al centro dell’amore educante del divino Pedagogo. «Per noi la designazione dell’età dei fanciulli è la primavera della vita» (Pedagogo​​ I , 5).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Migne, PG 8-9; Staehlin O. - Früchtel L. - Treu U.,​​ Clemens Alexandrinus​​ (=​​ Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte,​​ 12,15,17), Berlin / Leipzig, 1934-1972;​​ Marrou H. I.,​​ Clément d’Alexandrie. Le Pédagogue,​​ Paris, Cerf,​​ 1960-1970. b)​​ Studi:​​ Gallinari L.,​​ La problematica educativa di C. Alessandrino,​​ Cassino, 1976; Pasquato O., «Crescita del cristiano in C. Alessandrino. Tra ellenismo e cristianesimo: interpretazione storiografica di Marrou H.I.», in S. Felici (Ed.),​​ Crescita dell’uomo nella catechesi dei Padri (Età prenicena),​​ Roma, LAS, 1988, 57-72; Bergamelli F., «C. di A.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.),​​ Dizionario di pastorale giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992,187-192; Nardi C.,​​ Gioventù e riconciliazione cristiana. La proposta di C. Alessandrino,​​ in «Rivista di Ascetica e Mistica» 62 (1993) 343-371; Sanguineti J. J.,​​ La antropología educativa de C.​​ Alejandrino. El giro del paganismo​​ al cristianismo,​​ Pamplona, EUNSA, 2003.

F. Bergamelli




CLIMA EDUCATIVO / SCOLASTICO

 

CLIMA EDUCATIVO /​​ SCOLASTICO

Si riferisce alle proprietà d’insieme ed alle capacità espressive dell’istituto scolastico, definito come comunità sensibile e ricettiva rispetto ai compiti di sviluppo ed al benessere sociale, intellettuale, emotivo ed affettivo dei soggetti – alunni, insegnanti ed altri operatori – che a vario titolo interagiscono. Secondo questo approccio ecologico all’educazione, la sinergia degli elementi costitutivi comprende anche la configurazione degli spazi e degli arredi, l’inquadramento temporale e i ritmi, quotidiani e non quotidiani, le relazioni fra i singoli ed i gruppi, fino a identificare un​​ ​​ curricolo implicito​​ della​​ ​​ organizzazione scolastica, che esercita una​​ ​​ didattica indiretta in grado di influenzare oggettivamente i comportamenti mediante la condivisione pratica delle regole costitutive.

1.​​ L’indagine specifica sul concetto di c.e.s. si colloca nel quadro della ricerca educativa sugli «effetti-scuola», interessata ai risultati in termini di apprendimento, diretto ed indiretto, che il c.e.s. può ottenere. Quando si afferma l’effetto-scuola ci si riferisce all’esperienza piuttosto comune che mostra come ci siano istituti scolastici tristi, squallidi, altri austeri, severi, mentre alcuni sono accoglienti, attraenti, e addirittura gioiosi. Tradotto in forma di domanda, il problema si formula così:​​ il «c.» di una scuola influenza il comportamento degli insegnanti ed il loro rendimento? e il comportamento e l’apprendimento degli alunni?​​ A questi interrogativi si risponde immancabilmente di sì, anche se risulta difficile provarlo. All’origine della ricerca sul «c.» ritroviamo​​ ​​ Lewin, il quale introdusse il concetto già alla fine degli anni ’30 allo scopo di rappresentare le dinamiche indotte dai diversi stili di​​ leadership​​ nei gruppi. Fu egli ad adottare un’immagine già climatica, l’atmosfera,​​ che definisce come «qualcosa di intangibile, una proprietà della situazione sociale complessiva, che potrà essere valutata scientificamente se verrà colta da questo punto di vista»​​ (orig. 1948, trad. it. l980, 114). Come si vede, fin dall’origine il concetto si qualifica per la sua portata globale, che si servì in modi peculiari di nozioni geometriche, non metriche bensì topologiche, proprio per identificare fenomeni interpersonali e sociali continui, non riducibili a sommatorie di elementi discreti. Da allora, la ricerca ha continuato a dibattersi intorno alla questione dei rapporti fra le parti ed il tutto, oscillando tra l’approccio di tipo elementaristico, che esamina il peso specifico dei singoli fattori e quello sistemico e olistico, che punta sulle qualità «oggettive» dell’organizzazione nel suo insieme. Un passo avanti rispetto al comportamentismo imperante fu promosso da Argyris nel 1958, che riprese la nozione di «c.» in chiave organizzativa, per assumerla all’interno di un modello cibernetico e identificarla come uno​​ stato omeostatico del sistema​​ e​​ funzione di regolazione​​ sovraordinato rispetto a tre aggregati di variabili: a) le politiche, le procedure e le posizioni formali dell’organizzazione; b) i fattori personali, includenti bisogni, valori e capacità individuali; c) le variabili associate relative agli sforzi degli individui per conformare i propri fini a quelli dell’organizzazione. Secondo questo​​ approccio olistico, il «c.» viene concepito come​​ attributo dell’organizzazione​​ e non la risultante di percezioni individuali.

2. Per quanto concerne la ricerca sui c. scolastici, l’adozione di un’idea di c.e.s. che recupera i contributi della fenomenologia, dell’interazionismo simbolico e dell’etnometodologia, è rintracciabile nel​​ modello di Tagiuri​​ (1968), che si articola su quattro gradi tassonomici: 1) l’ecologia, ovvero gli aspetti materiali della scuola (numero di alunni al totale, numero di alunni per classe, attrezzature, rifiniture dei locali, pulizia, manutenzione…); 2) l’ambiente umano,​​ ovvero le caratteristiche degli alunni e degli operatori, scolastici e amministrativi; 3) il​​ sistema sociale, ovvero l’assetto amministrativo, ruoli e funzioni di singoli, gruppi ed altre aggregazioni, formali ed informali; 4) la​​ cultura, ovvero le norme, le credenze, i valori, i sistemi di significato… prevalenti all’interno della scuola. Più recentemente la Gather Thurler ha proposto, attraverso tre indicatori di portata complessiva – Modalità di relazioni professionali fra gli insegnanti, Stili di direzione, Genere di consenso in rapporto alle finalità educative​​ – una interessante tipologia di «profili climatici»:​​ individualismo,​​ balcanizzazione,​​ grande famiglia,​​ collegialità imposta,​​ cooperazione e interdipendenza. Da segnalare, infine, che tra i fattori che sembrano orientare significativamente il c.e.s. sono state indicate la personalità e le strategie educazionali del​​ ​​ dirigente scolastico.

Bibliografia

Lewin K. - R. Lippit - R. K. White,​​ Patterns of aggressive behavior in experimentally created «social climates», in «Journal of Social Psychology» 10 (1939) 271-299; Argyris C.,​​ Some problem in conceptualizing organizational climate. A case-study of a bank, in «Administrative Science Quarterly» (1958) 2, 501-520; Tagiuri R., «The concept of organizational climate», in R. Tagiuri - G. H. Litwin (Edd.),​​ Organizational climate: exploration of a concept, Boston, Harvard University, l968, 11-32; Lewin K.,​​ I conflitti sociali​​ (1948), Milano, Angeli, 1980; Anderson C. S.,​​ The search for school climate: A review of the research, in «Review of Educational Research» 3 (1982) 368-420;​​ Bressoux P.,​​ Les recherches sur les effets-écoles et les effets-maîtres, in «Revue Française de Pédagogie» (1994) 108, 91-137; Gather Thurler M.,​​ Rélations professionnels et cultures des établissements scolaires: au-delà du culte de l’individualisme?, in «Revue Française de Pédagogie» (1994) 109, 19-39.

E. Damiano