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CATECHESI

 

CATECHESI

La c. (dal gr.​​ katechéin:​​ far risuonare) è l’insegnamento fondamentale della fede cristiana per l’interiorizzazione e maturazione della stessa fede. Essa si trova così nel cuore del processo di​​ ​​ socializzazione religiosa e di trasmissione del patrimonio culturale e religioso del cristianesimo alle nuove generazioni e a quanti vogliono diventare cristiani. Oggi questa attività si rivolge ancora prevalentemente a soggetti in età di sviluppo (fanciulli, adolescenti, giovani), ma si sente l’esigenza di mettere al centro dell’attenzione il mondo degli​​ ​​ adulti.

1.​​ La c.: termini e forme.​​ La c. ha ricevuto denominazioni diverse a seconda dei tempi e dei luoghi: educazione religiosa, insegnamento religioso, dottrina cristiana, catechismo, c., formazione religiosa, educazione della fede, trasmissione della fede, ecc. Il significato preciso di questi termini dipende dai diversi contesti e tradizioni culturali. Per es. nel mondo anglosassone si preferisce parlare di​​ Religious Education​​ o​​ Religious Instruction;​​ nell’area francofona di​​ enseignement religieux​​ o​​ formation religieuse.​​ Attualmente si tende a distinguere chiaramente, pur nella loro complementarità, tra c. e​​ insegnamento della​​ ​​ religione​​ nella scuola, con obiettivi e modalità diverse di attuazione. Le considerazioni che seguono si riferiscono esclusivamente alla c. Negli ultimi decenni vi è stato tutto un movimento di rinnovamento catechetico, soprattutto sotto la spinta del Concilio Vaticano II e di fronte alle nuove sfide della società. Oggi va considerata conclusa la concezione dell’«epoca del catechismo» o del «paradigma tridentino», secondo cui la c. – legata al compendio chiamato «catechismo» – appariva soprattutto come insegnamento dottrinale e trasmissione di conoscenze religiose. Oggi la c. si apre a una visione più personalistica, integrale e incarnata della fede e della sua crescita e quindi assume un’identità più ricca e pluridimensionale, in quanto opera di​​ ​​ iniziazione, di​​ ​​ insegnamento, di​​ ​​ educazione e socializzazione religiosa.

2.​​ La c. «educazione della fede».​​ La caratterizzazione della c. come «educazione della fede» è diventata proverbiale nella Chiesa, e come tale accolta nei documenti ufficiali. Anzi, si può dire che, nello sviluppo del rinnovamento catechistico, l’espressione «educazione della fede» riassume in qualche modo il passaggio dal «catechismo» alla «c.», dalla tradizionale educazione religiosa ad un’azione catechetica più attenta alla densità esistenziale del messaggio cristiano e della relativa risposta credente. Nell’epoca moderna, la riflessione sulla c. ha portato all’accentuazione della sua​​ dimensione pedagogica,​​ anche sotto l’influsso delle​​ ​​ scienze dell’educazione Di fatto, la «catechetica» come riflessione sistematica sulla c., è sempre stata fortemente collegata alla pedagogia e dominata in un certo senso da una duplice anima: quella «teologica», che ne determina soprattutto i contenuti e le finalità ultime, e quella «pedagogica», che presiede all’individuazione di obiettivi, processi e metodologie (Alberich, 2001). L’espressione «educazione della fede» va intesa correttamente, dal momento che non è possibile influire direttamente dall’esterno su una realtà così «indisponibile» e inafferrabile come la fede cristiana, che teologicamente rimanda alla gratuità del dono divino e alla imprevedibilità della libera risposta umana. Ha senso perciò parlare di «educazione della fede» soltanto in modo indiretto e strumentale, in riferimento alle mediazioni umane che possono facilitare, aiutare e rimuovere ostacoli nel processo di maturazione religiosa. Rimane esclusa qualsiasi forma di intervento diretto sulla fede stessa. Nell’attuazione del suo compito di educazione, la c. deve avere sempre davanti l’orizzonte della​​ ​​ maturità religiosa, evitando possibili forme di indottrinamento e di intervento infantilizzante, col pericolo di bloccare il processo di crescita religiosa. Bisogna riconoscere che non poche volte la c. ha favorito forme di immaturità, di religiosità funzionale e compensatoria, di espressioni inadeguate di fede, sotto la spinta di atteggiamenti clericali e paternalistici o di facili accomodamenti securizzanti da parte di persone che hanno paura della maturità.

3.​​ La c. fatto educativo.​​ Alla c. – nelle sue diverse forme – va riconosciuta una notevole​​ valenza educativa,​​ sia come elemento significativo dell’​​ ​​ educazione cristiana e religiosa, sia anche per la sua​​ dimensione educativa globale,​​ in quanto fattore di socializzazione, di​​ ​​ alfabetizzazione, di crescita culturale e morale, ecc. È un dato che emerge con chiarezza alla luce della storia e in sede di riflessione teoretica sulla natura della c.

3.1.​​ La c. nella storia: opera di educazione.​​ Uno sguardo alla storia permette di cogliere il peso certamente significativo dell’azione catechistica nei processi di educazione e di promozione, soprattutto a livello popolare e in particolare nell’epoca moderna, attraverso la diffusione dei​​ catechismi​​ e le svariate forme di​​ insegnamento​​ religioso e di​​ predicazione​​ al popolo cristiano (Braido, 1991). Anzi, in diversi Paesi, la c. è stata spesso uno strumento privilegiato, a volte unico, di alfabetizzazione e di promozione culturale. L’opera della c. appare legata tradizionalmente alle​​ ​​ istituzioni educative e ai luoghi e ambiti della prima socializzazione (famiglia, scuola, chiesa, comunità), assumendo le forme tipiche dell’​​ ​​ azione educativa: insegnamento, educazione, iniziazione, apprendistato, formazione, alfabetizzazione. Essa ha costituito di fatto, per molte generazioni, uno strumento efficace di socializzazione religiosa, e ha contribuito a plasmare l’identità umana e cristiana di molti credenti. Certo, è vero che non sempre la c. è stata all’altezza della sua vocazione educativa. Essa è apparsa a volte disincarnata, ghettizzata, intenta a una finalità che sembrava lasciar da parte i problemi fondamentali dell’uomo e della sua crescita. Non solo: la storia e l’esperienza ricordano tante forme inautentiche di c. che ne hanno compromesso la valenza educativa, come in certe forme di​​ ​​ indottrinamento e di strumentalizzazione ideologica (​​ ideologia) al servizio dell’autorità dominante o di interessi di parte; oppure sotto forma di chiusura confessionale e settaria che è stata di fatto una vera educazione al pregiudizio e all’intolleranza.

3.2.​​ La c. in chiave educativa.​​ Oggi la riflessione catechetica insiste sul fatto che la c. deve essere​​ in funzione della riuscita totale dell’uomo.​​ In quanto trasmissione della parola liberante di Dio, la c. non si deve mai restringere a un settore «religioso» dell’esistenza, ma deve investire la totalità del progetto umano di vita, configurandosi perciò come «aiuto per la vita attraverso l’aiuto della fede» e avendo come scopo di fondo aiutare l’uomo a riuscire nella propria vita. È importante perciò mobilitare e valorizzare le molteplici valenze educative e promozionali dell’azione catechistica, sottolinearne la portata pedagogica e concepirla come un vero​​ processo educativo permanente​​ che deve accompagnare lo sviluppo integrale delle persone e dei gruppi. Tra gli obiettivi catechistici vanno perciò inclusi i grandi traguardi di ogni educazione umana: sviluppo della​​ ​​ personalità, apertura alla socialità, maturità psicologica e affettiva, senso critico, capacità di partecipazione e corresponsabilità. In riferimento alla c. possono essere segnalati diversi​​ fattori e istanze di rilevanza educativa:​​ a) A livello di​​ conoscenze,​​ la c. trasmette informazioni, arricchisce il patrimonio culturale, fornisce punti di riferimento per la ricerca di senso. b) Appartiene anche al compito della c. permettere la maturazione di​​ esperienze umane basilari,​​ che sono presupposto di ogni autentica crescita cristiana. Per es., senza l’esperienza della fiducia e del perdono è molto difficile capire il significato della penitenza e della riconciliazione; e senza maturità affettiva è impossibile cogliere in profondità il senso dell’amore cristiano. c) La c. è chiamata a dare grande importanza all’educazione morale e all’interiorizzazione​​ dei​​ ​​ valori, indissolubilmente connessi col processo di maturazione nella fede. Vanno promossi perciò valori quali: la fraternità, la​​ ​​ solidarietà, la giustizia, la pace, il coraggio, la veracità, la fedeltà, la gratitudine, la responsabilità sociale, il rispetto del creato, l’apertura alla mondialità, ecc. La c. è anche impegnata nel dialogo e interazione​​ tra fede e cultura​​ e questo, nella situazione attuale, costituisce un problema quanto mai urgente e impegnativo, data la distanza oggi esistente tra fede cristiana e cultura moderna. La c. si trova qui di fronte a una vera​​ sfida culturale,​​ ma anche messa in condizione di svolgere un compito di notevole rilevanza educativa: interpretare la cultura alla luce delle esigenze evangeliche e ripensare il patrimonio della fede cristiana alla luce delle istanze e dei valori della cultura contemporanea.

4.​​ In conclusione: non è concepibile un processo di maturazione della fede, e dunque un esercizio adeguato dell’attività catechistica, senza un innesto mirato sul processo globale di​​ maturazione della personalità.​​ Nell’attuazione di una c. inserita nel processo educativo sarà dunque necessario curare l’integrazione unitaria​​ delle diverse componenti educative, in modo da salvaguardare e portare a maturazione l’unità interiore della persona. Va evitato il rischio di​​ strumentalizzare​​ l’opera educativa in nome degli obiettivi superiori dell’educazione della fede. Ridurre i momenti fondamentali della maturazione umana (crescita culturale, educazione fisica, intellettuale, sociale, ecc.) a semplice​​ mezzo​​ per puntare a obiettivi esplicitamente religiosi (vita di fede, sacramenti, impegno ecclesiale) rivela una concezione inadeguata della maturazione stessa della fede e mancanza di rispetto per la qualità umanizzante di ogni autentica educazione. È una considerazione che invita a superare ogni dualismo antropologico e pedagogico e ogni malinteso primato della missione spirituale nell’azione dei cristiani.

Bibliografia

Bissoli C.,​​ C. ed educazione,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 27 (1980) 55-62;​​ Germain E.,​​ 2000 ans d’éducation de la foi,​​ Paris, Desclée,​​ 1983; Exeler A.,​​ L’educazione religiosa. Un itinerario alla maturazione dell’uomo,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990;​​ Fossion A.,​​ La catéchèse dans le champ de la communication. Ses enjeux pour l’inculturation de la foi,​​ Paris, Cerf,​​ 1990; Braido P.,​​ Lineamenti di storia della c. e dei catechismi,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1991; Groppo G.,​​ Teologia dell’educazione. Origine,​​ identità,​​ compiti,​​ Roma, LAS, 1991; Alberich E.,​​ La c. oggi.​​ Manuale di catechetica fondamentale,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 2001;​​ Giguère P.-A.,​​ Catéchèse et maturité de la foi, Montréal / Bruxelles,​​ Novalis / Lumen Vitae, 2002; Derroitte H.,​​ La c. liberata, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Gevaert J.,​​ Il dialogo difficile: problemi dell’uomo e c., Ibid., 2005.

E. Alberich




CATECHISMO

 

CATECHISMO

Nella prima accezione della parola, il c. è l’istruzione orale e familiare della religione cristiana fatta dopo il battesimo ai fanciulli e agli adulti. Di qui, a partire dal sec. XVI, il termine è passato a designare, ben presto quasi esclusivamente, il libro che contiene l’esposizione elementare delle verità fondamentali del cristianesimo. Il c. è allora un manuale popolare, un riassunto esatto e sicuro della dottrina cristiana, redatto a domande e risposte, approvato e proposto dal vescovo per la sua diocesi. È avvenuto spesso che fossero detti c. anche libri a domanda e risposta di altri rami del sapere.

1. Il c. come libro di studio per gli alunni si sviluppò dalle formule catechetiche trasmesse per tutto il​​ ​​ Medioevo, accresciute, verso la fine del periodo, sulla base dei «cataloghi dei peccati» usati nella prassi confessionale, come spiegazioni del​​ Credo​​ e del​​ Pater,​​ e poi anche del​​ Decalogo​​ e​​ dell’Ave Maria,​​ e dei cataloghi medievali delle virtù e dei vizi. I c. più diffusi del sec. XVI, quelli di Lutero (1529), Canisio (1555-59), Auger (1563, 1568), Astete (1576), Ripalda (1586) e Bellarmino (1597 / 98), sono manuali brevi, destinati ad essere appresi a memoria con un minimo di spiegazione. Si compilano anche c. con un discorso espositivo, dal C. Romano o del Concilio di Trento (1566) a numerosi altri dei secoli seguenti, per persone colte o come guida ai catechisti. Si tentano anche «c. storici», che seguono l’esposizione della storia della salvezza. Ma è solo verso la metà del sec. XX che (parallelamente al rinnovamento della​​ ​​ catechesi) si sperimentano nuove forme di c., meno dottrinali, che abbandonano il metodo mnemonico, si ispirano alla​​ ​​ Bibbia e alla​​ ​​ Liturgia e danno spazio all’esperienza di vita e a moderne concezioni del processo di insegnamento-apprendimento.

2. Il c. ha costituito, negli ultimi secoli, un fattore importante nello sviluppo della cultura popolare, ed è sempre più riconosciuto come un documento di importanza considerevole per conoscere la storia di un paese e di un popolo; e non solo la storia religiosa, ma quella totale, sociale e culturale. Non ha influenzato solo la formazione del cristiano, ma anche quella dell’uomo in generale. Il c. offre un elemento importante per comprendere come si trasmettono i valori e la rappresentazione del mondo da una generazione all’altra. Non è un fatto isolato, poiché si radica in una fede collettiva, in una pratica sociale, in una cultura. Nella sua forma elementare e volutamente sintetica è in un certo modo l’espressione di un tempo e di una società. Il testo di c. veniva letto ad alta voce, ripetuto, memorizzato: così ha avuto un ruolo incisivo nella formazione di coloro che lo hanno utilizzato, ha contribuito a formare il loro linguaggio religioso, la loro maniera di pensare e di esprimere la propria fede, influenzando la loro visione della vita e tutta la loro cultura. In alcuni Paesi, il c. redatto nella lingua nazionale, ha contribuito a superare il provincialismo dialettale.

3. L’apprendimento «catechistico» si presta a severe critiche dal punto di vista didattico e pedagogico. Il metodo domanda-risposta usato dal c. aveva perduto ogni traccia del dialogo socratico, volto alla ricerca della verità, o di quello della disputa medievale, mirante alla intelligenza di un testo, per diventare uno strumento destinato ai semplici, al fine di inculcare loro una dottrina di cui è garanzia l’autorità del maestro. È un limite che nelle comunità protestanti veniva superato dalla lettura della Bibbia, e in quelle cattoliche dall’educazione familiare e dalla partecipazione alla liturgia parrocchiale, che ne completavano e compensavano l’austerità. Nel mondo cattolico troppo sovente il c. è diventato un sostituto della Bibbia. Mentre questa presenta un insegnamento più aperto e non sistematico, il c. tende a offrire una enciclopedia elementare della dottrina cristiana. L’idea di c. è correlativa a quella di totalità. L’uso del c. ha spesso comportato una mutazione nell’atteggiamento: non si è più nel clima di ascolto e di accoglienza proprio della​​ lectio divina,​​ ma in quello della comprensione e dell’argomentazione. Siamo nell’universo della razionalità, che caratterizza l’età moderna. Inoltre, il carattere «dottrinale» del c. non rendeva ragione della dimensione storica e personale del fatto cristiano. Per motivi teologici e pedagogici, il c. è oggi considerato come uno strumento da concepire in forma nuova, se si vuole assicurare un’educazione religiosa più adeguata sia alla natura del cristianesimo sia al genio dell’epoca contemporanea.

Bibliografia

Mangenot E., «Catéchisme», in​​ Dictionnaire de Théologie Catholique,​​ P. II, T. II, Paris, Letouzey et Ané, 1905, coll.​​ 1895-1968; Gianetto U., «L’idea di c. nella storia della Chiesa», in Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale (Ed.),​​ Il​​ rinnovamento della catechesi in Italia,​​ Brescia, La Scuola, 1977, 41-58;​​ Paul E. - G. Stachel - W. Langer,​​ Katechismus - Ja? Nein? Wie?,​​ Einsiedeln, Benziger,​​ 1982; Alberich E. - U. Gianetto (Edd.),​​ Il c. ieri e oggi,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1987; Audinet J.,​​ «Le modèle “catéchisme”: fonction et fonctionnement», in P. Colin et al.,​​ Aux origines du catéchisme en France,​​ Tournai, Desclée, 1989, 261-271;​​ Resines L.,​​ Astete frente a Ripalda: dos autores para una obra,​​ in «Teología y Catequesis» 58 (1996) 89-138.

U. Gianetto




CATECUMENATO

 

CATECUMENATO

Il c. richiama storicamente l’istituzione dei primi secoli della​​ ​​ Chiesa per l’accoglienza e accompagnamento dei candidati al battesimo. È un processo di apprendistato della fede e della vita cristiana con diverse tappe e riti, in vista della piena incorporazione nella Chiesa per mezzo dei sacramenti d’iniziazione (​​ sacramenti).

1. Il c. ebbe il suo momento migliore nel sec. III e attesta la serietà con cui era seguito il cammino di conversione e maturazione dei candidati cristiani. Scomparve poi praticamente nel sec. V con la generalizzazione del battesimo dei bambini. Nell’evo moderno si sono avute forme di ripristino del c. in Asia e Africa e, dopo gli anni ’50, anche in Europa e altrove, come esigenza di una società secolarizzata e pluralistica. Il c. prevede ordinariamente 4 tappe: il​​ precatecumenato,​​ tempo di accoglienza e primo approccio alla fede; il c. propriamente detto, tirocinio di catechesi, riti ed esperienze di vita; il tempo della​​ purificazione e illuminazione,​​ che porta ai sacramenti pasquali di iniziazione; la​​ mistagogia​​ o rafforzamento della vita sacramentale e comunitaria.

2. È grande la rilevanza pedagogica del c. in quanto agenzia di​​ ​​ socializzazione religiosa, luogo di​​ apprendimento della fede​​ e esperienza forte di​​ ​​ iniziazione cristiana. Da parte del catecumeno, il c. offre diversi fattori e contenuti (persone significative, processi di apprendimento, momenti celebrativi, riti di passaggio ed esperienze di comportamento) per la maturazione di atteggiamenti e condotte. Il c. impegna anche diverse figure di educatori (accompagnatori, catechisti, padrini, pastori) che svolgono un importante ruolo educativo di discernimento, accoglienza e accompagnamento.

Bibliografia

Laurentin A.,​​ Breve storia del c.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1984; Floristán C.,​​ Il​​ c.,​​ Roma, Borla, 1993; Bourgeois H.,​​ Teologia catecumenale, Brescia, Queriniana, 1993; Cavallotto G.,​​ C. antico. Diventare cristiani secondo i Padri,​​ Bologna, Dehoniane, 1996.

E. Alberich




CENTRO GIOVANILE

 

CENTRO GIOVANILE

Vi è anzitutto una questione terminologica che va chiarita. Da una parte la dizione c.g. suppone di assumere il termine come sinonimo (o quasi) di​​ ​​ oratorio (nel qual caso il più delle volte si unificano i due con la terminologia di oratorio-c.g.); dall’altra si suppone una certa differenziazione che esamineremo.

1. Il primo caso è frequente soprattutto fuori Italia, in particolar modo nei Paesi di lingua spagnola. In questi il termine «oratorio» rimanda non alle esperienze ricche che si legano alla tradizione italiana, come ambiente che nel suo insieme risponde al programma di educazione cristiana integrale della gioventù, soprattutto nel tempo lasciato libero da altre istituzioni e passando attraverso le domande più diversificate dei giovani; al contrario esso sta a indicare un luogo di accoglienza di ragazzi e giovani per le sole attività del​​ ​​ tempo libero, e soprattutto per il gioco (come appare a prima vista entrando in un «normale» oratorio: il ricreatorio), oppure come appendice della parrocchia soprattutto per la catechesi dei ragazzi (oratorio), e dunque con connotazioni che potrebbero sapere di passato e di un certo clericalismo. Il termine c.g. allora renderebbe meglio, con la sottolineatura dei destinatari specifici, l’insieme del «progetto». I referenti dei termini diversi sono comunque la stessa realtà che si vuole indicare. Nella realtà italiana in effetti quando si utilizza la dizione ampia oratorio-c.g. è per indicare tutto quell’insieme di progettualità educativa a favore dei giovani stessi, diversificando al suo interno, per le diverse fasce di età, itinerari formativi, attività, metodologie, e sollecitando i giovani a diventare gruppo-circolo e ad aprirsi maggiormente all’impegno nel volontariato socio-politico e nell’animazione educativa.

2. Nel secondo caso (quando si vuole distinguere tra oratorio e c.g.), si intende esprimere, rispetto all’oratorio, una specifica differenziazione. E allora l’oratorio viene inteso come un ambiente indirizzato ai ragazzi (fino alla preadolescenza), con prevalente apertura alla massa, con livelli di appartenenza vari e spontanei, con speciale sottolineatura dell’aspetto ludico ed espressivo, dove l’educazione viene continuata nella forma della socializzazione assieme alle altre agenzie educative, soprattutto la famiglia, e dove l’educazione religiosa avviene soprattutto attraverso la catechesi sacramentale. Il c.g. viene invece pensato come ambiente destinato ai giovani, con un prevalente rapporto di gruppo (gruppi giovanili), con un’organizzazione e aggregazione più determinate e con un peso decisivo dell’impegno umano-cristiano.

3. Nei due casi sono naturalmente i destinatari che determinano la diversità della realizzazione. Si può dire che nel c.g. i giovani sono non solo destinatari, ma promotori, soggetti attivi, assieme agli adulti-educatori, della loro personale formazione ed elaborazione di un progetto di vita, chiamati in causa e sollecitati a liberare le loro risorse e potenzialità, in attivo scambio con le proposte culturali e religiose, con una decisa spinta alla scelta vocazionale. Le proposte dunque diventano più esigenti, le iniziative più diversificate, il grado di coinvolgimento più stretto. Volendo indicare alcuni settori specifici di questo impegno giovanile, si possono citare i seguenti: il settore educativo animativo, quello socioculturale, quello socio-politico, di impegno per lo sviluppo e di educazione al servizio (servizio civile, volontariato, anche missionario), di ricerca anche vocazionale.

4. Negli ultimi anni, in Italia, si è notevolmente ridotto l’utilizzo del termine «c.g.» riferito all’oratorio in cui operano da protagonisti anche i giovani, oltre ai ragazzi e agli adolescenti, anche perché la società civile e le istituzioni del territorio (associazioni, partiti politici, assessorati…) hanno dato vita a numerosi centri di aggregazione, ambienti di incontro per adolescenti e giovani (ma anche per ragazzi più piccoli), aconfessionali e destinati a occupare il tempo libero extrascolastico ed evitare che i ragazzi lo trascorrano in strada o a casa perlopiù da soli. La comunità territoriale infatti si è resa sempre maggiormente conto della necessità di occuparsi dell’educazione dei propri ragazzi e ragazze e di organizzarsi e organizzare luoghi adeguati di aggregazione, di offerte soprattutto in campo espressivo e ludico. Il C. promuove così l’incontro tra soggetti diversi e abilita a una capacità e qualità specifica: la «socialità». Esso si propone dunque come palestra e come setting in cui sviluppare abilità e competenze sociali, e insieme come luogo di espressione del riconoscimento del valore e del funzionamento dello spazio sociale.

Bibliografia

Orlando V.,​​ Il​​ c.g. nella Chiesa e nel territorio,​​ in «I Quaderni dell’Animatore» 18, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1985; CSPG,​​ Frontiere per gruppi giovanili,​​ Ibid., 1988; Id.,​​ Gruppi giovanili a servizio nella società,​​ Ibid., 1989; Vecchi J. E., «L’Oratorio salesiano: luogo di nuova responsabilità e missionarietà giovanile», in​​ L’Oratorio dei giovani: insieme per essere fedeli alla vocazione giovanile e popolare,​​ Roma, CISI, 1993, 55-72;​​ Atti del primo Meeting dei c. di aggregazione giovanile, Rovigo, 2006.

G. Denicolò




CERRUTI Francesco

 

CERRUTI Francesco

n. a Saluggia (Vercelli) nel 1844 - m. a Torino nel 1917, educatore e pedagogista italiano.

1. Di famiglia contadina, C. rimase orfano di padre a due anni; nel 1856 entrò come allievo nella prima istituzione educativa fondata da don​​ ​​ Bosco a Torino-Valdocco; si fece salesiano (1862) e fu ordinato sacerdote (1866). Ottenne il dottorato in lettere (1866) presso l’Università di Torino, dove ebbe come professore di antropologia e pedagogia​​ ​​ Rayneri. Nel 1885, chiamato al Consiglio generale dei​​ ​​ Salesiani, fu responsabile degli studi e della stampa. Rimase in carica fino alla morte, realizzando una significativa opera di organizzazione e promozione delle scuole salesiane e delle​​ ​​ Figlie di Maria Ausiliatrice.

2. La produzione letteraria di C. è ampia su svariati temi (letteratura, storia, religione, educazione e didattica); un centinaio di scritti riguardano argomenti pedagogici; fra di essi testi per gli istituti magistrali:​​ L’insegnamento secondario classico in Italia​​ (1882),​​ Storia della pedagogia in Italia​​ (1883),​​ Elementi di pedagogia​​ (1895),​​ Norme per l’insegnamento della aritmetica​​ (1897). C. collaborò in diversi giornali («L’Unità Cattolica», «La Stampa», «L’Italia Reale», «Il Momento») con scritti sulla politica scolastica del tempo e a difesa dei valori umanistici e cristiani della scuola. I suoi interventi furono apprezzati dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli. Infine un nucleo significativo di scritti va individuato attorno al sistema preventivo:​​ Idee di don Bosco sull’educazione e sull’insegnamento​​ (1886),​​ Don Bosco educatore​​ (1898),​​ Una trilogia pedagogica: ossia Quintiliano,​​ Vittorino da Feltre e don Bosco​​ (1908),​​ Il problema morale nell’educazione​​ (1916).

3. L’autore è ritenuto il «sistematore delle scuole e degli studi» salesiani (Luchelli, 1917, 22) e «uno dei più fedeli interpreti del pensiero e del sistema pedagogico di D. Bosco» (Atti,​​ 1903, 151). Va ricordata anche la sua opera nell’ambito degli istituti educativi delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Atti del III congresso dei Cooperatori salesiani,​​ Torino, Tip. Salesiana, 1903; F.C.,​​ Lettere circolari e programmi di insegnamento (1885-1917). Introduzione, testi critici e note a cura di J. M. Prellezo, Roma, LAS, 2006. b)​​ Studi: Luchelli A.,​​ Don F.C. consigliere scolastico generale della Pia Società Salesiana,​​ Torino, S.A.I.D., 1917; Prellezo J. M.,​​ F.C. direttore generale delle scuole e della stampa salesiana,​​ in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 127-164; Id.,​​ Paolo Boselli e F.C. Carteggio inedito (1888-1912), in «Ricerche Storiche Salesiane» 19 (2000) 87-123.

J. M. Prellezo




CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI

 

CERTIFICAZIONE​​ DEGLI APPRENDIMENTI

1.​​ Introduzione.​​ La c.d.a. rappresenta un’azione tesa a descrivere in modo sistematico le acquisizioni della persona ed a registrarle in modo condiviso tra i diversi attori del sistema educativo e del mondo del lavoro, con l’indicazione delle esperienze (formali, non formali ed informali) su cui tali acquisizioni sono state formate. La c. si riferisce a due categorie di fenomeni: a) le​​ competenze​​ intese come fattori che qualificano il grado di autonomia e di responsabilità della persona a fronte di specifiche categorie di compiti / problema dal rilevante valore personale, sociale e professionale; b) nel contempo, essa specifica le​​ conoscenze​​ e le​​ abilità, ovvero le risorse di cui la persona si è impadronita e che ha saputo certamente mobilitare nel lavoro di soluzione dei compiti / problema indicati. Nella c.d.a. debbono essere evidenziati i livelli di padronanza delle competenze, che possono essere indicati per gradi progressivi: basilare, adeguato, eccellente.

2.​​ Spiegazione. La spinta finalizzata alla elaborazione di strumenti atti a certificare gli apprendimenti delle persone deriva da tre cause differenti: a) la necessità di garantire la leggibilità e la confrontabilità degli esiti dei percorsi di apprendimento da parte delle imprese che necessitano di personale da impegnare nella propria struttura, tenuto conto della perdita di valore delle tradizionali declaratorie professionali; b) la necessità di consentire – entro grandi sistemi economici e sociali qual è l’ambito dell’Unione europea – la riconoscibilità degli apprendimenti così da consentire la mobilità delle persone ed il loro accesso ai vari sistemi sociali ed economici propri dei diversi stati nazionali; c) la necessità di finalizzare i percorsi formativi a vere e proprie competenze, ovvero non solo al sapere, ma alla sua attivazione effettiva da parte del soggetto nei contesti reali di impegno e dei compiti-problema che questi evidenziano.

2.1. In campo​​ scolastico​​ la c. mira a sollecitare un approccio per competenze e quindi a superare una metodologia eccessivamente centrata sulla didattica disciplinare per trasferimento di nozioni ed abilità, aprendo la strada ad una formazione più autentica in cui la persona è chiamata a confrontarsi con situazioni reali – più o meno problematiche – che sollecitano la sua attenzione, responsabilità e attivazione al fine di giungere ad una soluzione idonea e soddisfacente. Tali competenze della persona sono dimostrate dalla natura dei problemi fronteggiati, dalla metodologia di intervento, dalla capacità di superare crisi e difficoltà, dalla riflessione discorsiva sulle esperienze attraverso un linguaggio pertinente ed in grado di evidenziare tutti gli aspetti in gioco e quindi di «dimostrare» concretamente l’effettivo possesso del sapere.

2.2. In campo​​ professionale, la c. richiede innanzitutto un’intesa preliminare tra organismi formativi e strutture dell’economia intorno ad un metodo di descrizione delle competenze e ad un repertorio di profili professionali di riferimento per l’azione formativa; inoltre esige una convergenza di sforzi e di strumenti al fine di qualificare il percorso formativo con esperienze virtuali o reali entro le quali la persona sia sollecitata alla mobilitazione delle proprie capacità e risorse; infine richiede un’intesa circa la valutazione ed in particolare la validazione delle competenze acquisite, che rivestono in tal modo un significato non solo legale, ma sostanziale e condiviso. In tal modo la valutazione-c. non si realizza in rapporto a standard «scritti sulla carta», ma in riferimento alla concreta realtà di esercizio delle competenze indicate con il coinvolgimento diretto dei partner sociali. L’azione di c. non può pertanto essere concepita come una mera compilazione amministrativa di schede, ma rappresenta un’azione complessa di natura autenticamente sociale, tesa a soddisfare i seguenti criteri: a) la​​ comprensibilità​​ del linguaggio, che deve riferirsi – in forma narrativa e non quindi in modo stereotipato – a locuzioni e sintagmi che consentano ai diversi attori di visualizzare le competenze descritte; b) l’attribuibilità​​ delle competenze al soggetto tramite l’indicazione delle evidenze che consentano di contestualizzarle entro processi reali in cui egli è coinvolto insieme ad altri attori; c) la​​ validità​​ dei metodi adottati nella valutazione e validazione delle competenze stesse, con specificazione del loro livello di padronanza.

2.3. Circa il​​ modello di c., si prevedono normalmente due fattispecie: a) La c. è​​ legale​​ quando si riferisce al titolo di studio posseduto e indica il rapporto tra il possesso di tale titolo e l’effettiva padronanza delle acquisizioni che vi sono implicate. In tal modo l’atto certificativo risulta un’aggiunta – una sorta di appendice – rispetto alle prassi valutative ed amministrative proprie dei titoli di studio. b) La c. è​​ sociale​​ quando il certificato cui ci si riferisce rappresenta una documentazione composita che consente di rendere trasparente – quindi leggibile entro categorie comprensibili – la dotazione della persona di capacità, saperi, abilità e competenze, in riferimento alle esperienze entro cui queste si sono formate.

2.4. Nel caso italiano, la funzione certificativa risulta variamente citata nelle leggi relative al sistema educativo ed al mercato del lavoro, anche se il sistema difetta di una vera e propria​​ istituzione​​ di tale funzione, con l’indicazione degli organismi e delle figure professionali cui è fatta carico e delle metodologie e con la precisazione del valore di tali certificati per la persona che li possiede come pure degli impegni per i vari organismi una volta che questa esibisca documenti attestanti la sua preparazione. Infatti, l’oggetto della c. non va visto solo in chiave dichiarativa, ma anche valutativa. In questo secondo significato, esso rappresenta un​​ credito formativo, ovvero l’attribuzione alla specifica acquisizione certificata di un​​ valore esigibile​​ presso un organismo formativo, in vista del raggiungimento di uno specifico titolo. Essa quindi presenta un valore di accessibilità oltre che di risparmio del tempo previsto per coloro che non possiedono le acquisizioni dimostrate nel certificato.

2.5. Il​​ peso reale​​ (in termini di accesso alle azioni formative e di risparmio di tempo) di tale valore viene attribuito da parte dell’organismo ricevente, se questo riconosce la c. emessa da quello inviante ed attribuisce a questa c. un valore in ordine ad un quadro metodologico e descrittivo dei fenomeni oggetto dell’atto certificativo. Di conseguenza, il semplice rilascio di un documento certificativo da parte di un qualsiasi organismo non rappresenta di per sé un credito; perché un credito sia tale bisogna che ci sia un «potere» che lo riconosce o che impone alle organizzazioni coinvolte di riconoscerlo. Tale potere risulta da un’intesa condivisa dai diversi attori, in forza della quale si definiscono i criteri di individuazione delle acquisizioni ed il percorso formativo e relativo livello entro cui la persona può indirizzarsi.

2.6. I crediti formativi sono pertanto da intendere in senso sostanziale, ovvero non solo in riferimento allo sforzo necessario in termini di tempo per soddisfarli (è questa la concezione universitaria del credito), ma precisamente agli apprendimenti effettivamente posseduti e validamente accertati. Il credito inteso in senso sostanziale non può essere gestito tramite processi automatici. Esso richiede un approccio discreto, in grado di attribuire alla documentazione attestante gli apprendimenti il giusto valore in termini di personalizzazione del percorso formativo. Ciò richiede comunque un dialogo ed una negoziazione tra i soggetti coinvolti (organismo inviante, organismo ricevente, persona interessata). Ciò definisce un metodo di lavoro necessariamente relazionale e dialogico-narrativo.

Bibliografia

Schön D. A.,​​ Il professionista riflessivo, Milano, Dedalo, 1983;​​ Aubret J. - F. Aubret - C. Damiani,​​ Les bilans personnels et professionnels, Paris, Éditions Eap-Inetop, 1990;​​ Cepollaro G. (Ed.),​​ Competenze e formazione, Milano, Guerini & Associati, 2001; Comoglio M.,​​ La valutazione autentica e il portfolio, paper, Roma, 2001;​​ Ajello A. M. (Ed.),​​ La competenza, Bologna, Il Mulino, 2002;​​ CIOFS / FP,​​ Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa, Roma, 2003.

D. Nicoli




CHAMPAGNAT Marcellin-Joseph-Benoît

 

CHAMPAGNAT Marcellin-Joseph-Benoît

n. a Marlhes nel 1789 - m. a L’Hermitage (Loira) nel 1840, sacerdote francese, fondatore dei​​ ​​ Maristi.

1. Viene ordinato sacerdote nel 1816. Fin dal primo contatto con la realtà rurale a Lavalla (Loira), Ch. è colpito dall’abbandono e ignoranza dei ragazzi. Nel 1817, disegna il primo progetto di una congregazione insegnante. Alla morte di Ch. essa contava 280 membri e 40 scuole. La sua prassi educativa si ispira a quella dei​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane. Nella redazione della​​ Guide des écoles​​ (1817), i primi collaboratori di Ch. usano la​​ Conduite des écoles chrétiennes​​ (1811).

2. La «pedagogia marista», aperta ad altre fonti d’ispirazione (Pascal,​​ ​​ Fénelon,​​ ​​ Rollin,​​ ​​ Dupanloup), mette l’accento su alcuni aspetti che diventano caratterizzanti:​​ ​​ prevenzione e presenza del maestro tra gli allievi; centralità dell’insegnamento religioso e della devozione mariana; canto, non soltanto come fattore educativo, ma anche come mezzo di partecipazione alla vita liturgica parrocchiale; metodo fonico nell’insegnamento della lettura; introduzione di nuove materie come la contabilità e l’educazione fisica.

3. È stato sottolineato giustamente «il metodo dell’amore» anche nella​​ ​​ disciplina, il cui scopo «non è di frenare gli alunni con la forza e col timore dei​​ ​​ castighi, ma di preservarli dal male, di correggerli dei loro difetti, di formare la loro volontà». Di conseguenza, i maestri devono comportarsi da padri e non da padroni, animati da sentimenti di benevolenza, «pur attenuati da una qualche accentuazione dell’autorità e del rispetto, inevitabili in un clima post-rivoluzionario di diffidenza nei riguardi del troppo conclamato e smentito trinomio libertà-uguaglianza-fraternità» (Braido, 1981, II, 285); v. anche​​ ​​ Congregazioni insegnanti.

Bibliografia

Furet J. B.,​​ Avis,​​ leçons & instructions du vénérable père Ch.,​​ Lyon / Paris, Emmanuel Vitte,​​ 1914; Braido P.,​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, vol.​​ II, Roma, LAS, 1981;​​ Zind P.,​​ B.M.Ch.,​​ son oeuvre scolaire dans son contexte historique,​​ Rome, Maison Généralice, 1991; Lanfray A.,​​ M. Ch. et les Frères maristes: instituteurs congreganistes au XIX siècle, Paris, Éditions Don Bosco,​​ 1999; González Lucini F.,​​ Marcelino Ch., Madrid, Edelvives, 2004.

J. M. Prellezo




CHIESA

 

CHIESA

Il discorso è limitato alla C. Cattolica nei suoi rapporti con la realtà educativa privilegiando il punto di vista teoretico rispetto a quello storico (​​ Cristianesimo).

1. C.​​ e istituzioni educative e scolastiche.​​ La C., vivendo nel mondo, ha dovuto continuamente affrontare e risolvere a livello teorico e pratico, nell’orizzonte significativo della Parola di Dio, quei problemi che nascono dall’inevitabile incarnarsi della sua esperienza di fede nelle culture. Sia il​​ ​​ Magistero della C. che i teologi si sono resi conto che i cristiani, dovendo vivere la loro fede integralmente non solo nell’ambito del cultuale e del religioso ma anche nei settori profani della vita, erano obbligati ad affrontare i problemi emergenti dall’impatto della fede con la​​ ​​ cultura, inventando soluzioni che da una parte fossero coerenti con le esigenze irrinunciabili della loro fede, dall’altra fossero adatte al contesto socioculturale nel quale la fede cristiana doveva incarnarsi. Questo è avvenuto in passato e avviene ancor oggi nel settore educativo e pedagogico. Sono sorti in questo modo, nell’orizzonte significativo della fede cristiana, vari tipi di prassi e di istituzioni educative come pure di teorie pedagogiche, segnate dalla cultura del tempo e del luogo che le ha espresse, diverse tra loro, tuttavia possedenti, ciascuna, una caratteristica che, mentre le accomuna, nello stesso tempo le differenzia dagli altri tipi di educazione. Si tratta infatti di processi educativi, di istituzioni e di teorie pedagogiche messe in opera dalle comunità cristiane all’interno di progetti pastorali ultimamente finalizzati alla​​ ​​ conversione e alla crescita cristiana (​​ educazione cristiana,​​ ​​ pedagogia cristiana,​​ ​​ teologia dell’educazione). I rapporti tra C. e istituzioni educative e scolastiche, lungo i secoli cristiani, non furono né monolitici né univoci. È significativo, ad es., il fatto che, nei primi quattro secoli non solo durante le persecuzioni ma anche dopo la pace costantiniana, la C. non abbia pensato a crearsi su larga scala istituzioni educativo-scolastiche proprie, neppure per il suo clero. Accettò di fatto, sia pure come una necessità e malvolentieri, la scuola ufficiale, legata alla religione pagana, cercando di ovviare al pericolo che essa costituiva per la fede, premunendone gli alunni e provvedendo alla loro educazione e formazione cristiana nell’ambito della famiglia e della comunità liturgica. Molto diverso invece è stato il comportamento della C. in campo educativo e scolastico durante il​​ ​​ Medioevo e nell’epoca moderna e contemporanea. Nell’epoca moderna troviamo qualche presa di posizione autorevole da parte del Magistero in difesa dell’educazione cristiana e della scuola confessionale. Ma solo nell’epoca contemporanea, a partire da Pio XI, la C. ha affrontato in modo organico ed autorevole il problema dell’educazione cristiana in due documenti, differenti per importanza e per l’impostazione e la soluzione di alcuni problemi, tuttavia non in contraddizione tra loro: l’Enciclica​​ Divini Illius Magistri​​ (1929-1930) di Pio XI e la Dichiarazione​​ Gravissimum Educationis​​ (1965) del Conc. Vatic. II.

2.​​ Perché la C. deve interessarsi di educazione e di scuola.​​ Dopo il Conc. Vat. II, l’ecclesiologia cattolica colloca nella natura «sacramentale» della C. rispetto al Regno di Dio il fondamento teologico ultimo della sua funzione umanizzatrice nei confronti delle realtà terrestri, tra cui l’educazione e la scuola. Essendo infatti l’impegno fondamentale della C. quello di servire il Regno di Dio (di cui essa è sacramento, cioè segno e strumento) per la salvezza integrale dell’umanità, le comunità cristiane devono sforzarsi di essere​​ testimonianza​​ (con la vita e con la loro azione),​​ annuncio​​ (con la predicazione),​​ attuazione misterica​​ (con la liturgia) di questa stessa salvezza, offerta a tutta l’umanità da Dio nella pienezza dei tempi per mezzo di Gesù Cristo, manifestazione suprema e parola definitiva di Dio al mondo. Ora questa salvezza, annunciata e mediata dalla C. per la presenza in essa dei carismi dello Spirito Santo, è​​ dono gratuito di Dio,​​ ma è anche​​ impegno che investe la totalità dell’esistenza umana.​​ L’agape,​​ donata alla C. dallo Spirito Santo, mentre da una parte orienta tutta la sua azione pastorale alla conversione e crescita in Cristo dell’umanità intera, dall’altra spinge le comunità cristiane a interessarsi in modo particolare delle nuove generazioni; non solo della loro crescita in Cristo, ma anche della loro educazione morale e formazione culturale, in una parola della loro crescita umana, tenendo presente che questa avviene, oggi, in un mondo ampiamente secolarizzato, ideologicamente e religiosamente pluralistico e conflittuale, ampiamente pervaso, attraverso i mass media, di visioni della vita non solo anticristiane ma pure gravemente disumanizzanti. Per questo ed entro questi limiti, essa è​​ Mater et Magistra​​ per l’umanità intera. La situazione che caratterizza il mondo contemporaneo impone sia alla C. universale che alle c. particolari opzioni nuove e coraggiose proprio in campo educativo e scolastico. Per il bene dell’umanità, le comunità cristiane devono preoccuparsi di formare cristiani umanamente e moralmente adulti e maturi. I singoli cristiani poi, ciascuno secondo le proprie competenze e secondo i doni ricevuti, in collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, devono contribuire, sotto l’ispirazione della fede, a una maggiore umanizzazione ed efficienza delle strutture e istituzioni educative e scolastiche esistenti o, dove questa collaborazione non fosse possibile, devono tentare, a proprio rischio, di progettarne delle nuove, rendendole agenzie di autentica maturazione umana.

3.​​ Modalità di attuazione.​​ Sono principalmente tre le condizioni che permettono alla C. di occuparsi di educazione e di scuola, senza venir meno alla sua missione fondamentale di essere «segno sacramentale» del regno di Dio. La​​ prima​​ consiste nel riconoscimento della bontà e relativa autonomia delle realtà e finalità temporali nei riguardi di quelle specificamente cristiane. Il Conc. Vat. II (GS​​ nn. 33-39) lo ha affermato in modo esplicito e inequivocabile, presentando questa dottrina come conseguenza necessaria del dogma della creazione da parte di Dio di tutta la realtà con le sue finalità intrinseche. Perciò la promozione di processi educativi e di istituzioni scolastiche, finalizzati al conseguimento di cultura e di autentica maturazione umana, è un’attività «buona» in se stessa, a prescindere da ulteriori finalità specificamente cristiane, alle quali può essere ulteriormente ordinata. Queste ultime, però, non devono né fagocitare né strumentalizzare in modo indebito le finalità umane di ordine temporale, eticamente buone. Affermare la distinzione tra realtà e finalità di ordine temporale e realtà e finalità specificamente cristiane appartenenti all’ordine soprannaturale, non significa tuttavia, in alcun modo, arrivare ad una loro separazione o addirittura ad una loro contrapposizione. Al contrario, pensandole nell’orizzonte della Parola di Dio, si deve giungere ad affermare una loro implicanza reciproca nella prassi pastorale ed educativa delle comunità cristiane. La​​ seconda​​ si attua mediante l’accettazione, umile e sincera, del contributo della saggezza umana, presente nell’esperienza viva delle diverse culture, e dell’apporto delle scienze dell’educazione, assunti, l’uno e l’altro, con vigile senso critico nell’orizzonte della Parola di Dio, in funzione di soluzioni sempre più adeguate dei problemi pedagogici. Non è possibile infatti ricavare dalla Parola di Dio sull’educazione, contenuta nella​​ ​​ Bibbia, e dalle interpretazioni date ad essa dalla tradizione cristiana lungo i secoli, una pedagogia rivelata valida per tutti i tempi e le culture, ma solo orientamenti generali per poterla poi costruire in dialogo con le scienze dell’educazione. Perciò i credenti devono impegnarsi in questa ricerca della saggezza umana e nell’utilizzazione delle conquiste umane sia nel campo del sapere pedagogico che in quello delle istituzioni educative. La​​ terza​​ condizione è data dalla prospettiva misterica ed escatologica che deve guidare la C. nel suo impegno di umanizzazione del mondo. Il continuo esigere, nella Bibbia, la sottomissione del sapere e dell’agire umani alla Parola di Dio fa evidentemente supporre non solo la possibilità ma anche l’esistenza di tensioni e contrasti tra saggezza umana e saggezza divina anche in campo educativo. Perciò la C., pur rispettando e promuovendo il lavoro della ragione in campo pedagogico, proprio per la sua adesione incondizionata alla Parola di Dio mediante la fede, dovrà essere sempre vigilante e critica verso ogni esercizio della ragione che avvenga in contrasto con il suo Credo. Inoltre pur riconoscendo la bontà e la validità di ogni sforzo educativo per un’umanità sempre più matura, pur collaborando sinceramente con tutti gli uomini di buona volontà all’attuazione di processi di liberazione e umanizzazione degli oppressi, le comunità cristiane dovranno impegnarsi in queste attività temporali, testimoniando, soprattutto con la vita prima ancora che con la parola, di essere animate dalla fede nell’esistenza di realtà e finalità trascendenti. Infine le comunità cristiane, anche quando reagiscono contro ogni forma di oppressione e di emarginazione o si impegnano a promuovere con sincerità e convinzione processi educativi di crescita e maturazione umano-cristiana all’interno delle differenti culture, devono farlo con motivazioni e in una prospettiva differente rispetto a quelle dei non credenti. Esse infatti, fondate sulla Parola di Dio, credono fermamente che la pienezza della perfezione dell’umanità e il compimento definitivo della​​ ​​ maturità umana a livello personale e comunitario non siano utopie illusorie e irraggiungibili. Sono certi che si realizzeranno a conclusione della storia, con la parusia del Cristo glorioso e la resurrezione, con l’instaurazione dei nuovi cieli e della nuova terra per ogni persona umana che si sforza di vivere secondo verità e ama di amore oblativo e operoso il prossimo. La messa in opera – all’interno di questi orizzonti di significato e sulla base di questi fondamenti – di istituzioni educative e di processi di formazione umano-cristiana, mentre da una parte non li sacralizza né clericalizza, dall’altra li umanizza e permette di qualificarli come «cristiani».

Bibliografia

Nipkow D. E., «Erziehung», in​​ Theologische Realenzyklopädie​​ 10 (1982) 232-253; Valentini D., «C.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 2558-2571; Groppo G. - G. A. Ubertalli, «L’educazione cristiana: natura e fine», in N. Galli (Ed.),​​ L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1992, 25-62; Casella F.,​​ Punti nodali della riflessione pedagogica dalla Divini Illius Magistri alla Gravissimum Educationis, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 293-304; Zani A.V.,​​ Il cammino della C. dalla Gravissimum Educationis a oggi, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 203-226.

G. Groppo




CICERONE Marco Tullio

 

CICERONE Marco Tullio

n. ad Arpino nel 106 a.C. - m. a Formia nel 43 a.C, filosofo e uomo politico romano.

1.​​ L’uomo.​​ C. occupa un posto significativo sia nella storia della filosofia, che nella storia della letteratura latina, come pure nella storia politica di Roma. Compie i suoi studi umanistici e giuridici a Roma e li completa in Grecia e nelle colonie greche dell’Asia Minore (Atene, Rodi) particolarmente nel campo filosofico. È fortemente impegnato nella vita politica, sia con la sua attività oratoria in processi di grande importanza, sia per aver ricoperto diverse cariche politiche. Eletto Console nel 63 salva lo Stato dalla congiura di Catilina. Muore per mano dei sicari di Antonio. In questa sede ci interessa particolarmente l’apporto che con il suo pensiero, con i suoi scritti e con la sua attività ha dato alla pedagogia romana: alla sua base culturale, alla sua metodologia e particolarmente alla definizione e alla formazione dell’ideale dell’oratore.

2.​​ C. e la cultura romana.​​ C. è tra i più efficaci creatori di quella sintesi culturale che, superando una stretta chiusura sulla tradizione del​​ mos majorum,​​ ma senza sacrificarla, la apre all’apporto della raffinata cultura greca, dando origine a quella nuova cultura latina che prese il nome di​​ humanitas.​​ Una sintesi che allo stesso tempo è guidata dalla mentalità romana e ad essa è ordinata: l’idealità greca è calata nella concretezza e saggezza pratica romana, di cui C. è tipico modello, portando alla reciproca integrazione in un nuovo equilibrio che definisce l’humanitas,​​ cioè la cultura romana del periodo ellenistico. Una​​ humanitas letteraria,​​ etica e politica.​​ Sottolineiamo in particolare l’apporto dato da C. nel campo filosofico, come realizzatore di un​​ eclettismo​​ che compone elementi prevalentemente stoici con elementi peripatetici e anche platonici, con una prevalenza data all’aspetto pratico su quello speculativo e quindi alla dimensione etica su quella contemplativa.

3. C.​​ e la pedagogia romana.​​ Le competenze di C. sopra accennate, di filosofo, di letterato e di politico, determinano anche gli elementi costitutivi del suo apporto pedagogico per una sintesi umanistica unitaria. Esso si concretizza nell’ideale dell’oratore, che C. elabora soprattutto nelle sue opere​​ De oratore,​​ Orator,​​ Brutus,​​ Hortensius​​ (perduto). Nella figura e quindi nella formazione dell’oratore richiede l’integrazione armonica di due aspetti: quello​​ culturale​​ e quello​​ virtuoso,​​ tanto da formare quasi una endiadi di​​ humanitas et virtus.​​ Il primato va però alla virtù e alla sapienza, in continuità con la​​ virtus romana​​ ereditata dal​​ mos majorum.​​ Ha così un senso preciso la definizione dell’oratore ricevuta da Catone il Censore:​​ vir bonus dicendi peritus.​​ E si spiega anche che nella sua formazione il primo posto vada alla filosofia (intesa nel senso eclettico sopraddetto). La sapienza avrà dunque la precedenza sulla tecnica; l’eloquenza sulla retorica. In questo C. combatte l’opinione che riserva ai filosofi i temi relativi alla morale, al diritto, alla pietà; che debbono invece essere, in modo diverso e più vivo, trattati anche dall’oratore. Su questa base C. richiede nell’oratore la massima ampiezza di cultura e ricchezza di erudizione: letteratura latina e greca, storia, diritto, vasta esperienza; oltre alle discipline della comune​​ ​​ paideia ellenistica. Tale ampiezza di preparazione culturale era necessaria nell’oratore anche per la vastità e pluralità dei temi di cui si doveva interessare. Cultura contro verbosità. Per questo suggerisce che la sua formazione comprenda anche una permanenza integrativa nelle città della Grecia. Alla visione dell’ideale​​ dell’oratore si aggiunge in C. una buona sensibilità pedagogica: l’attenzione alla natura del giovane; il primo posto dato al talento, il secondo all’arte e all’esercizio; l’adeguamento anche delle mete da raggiungere, senza provocare scoraggiamento in alcuni o presunzione in altri.

C. «tipo» dell’orator.​​ L’esperienza politica, il profondo senso della romanità (del​​ mos majorum​​ e della​​ virtus romana,​​ dello​​ Stato romano),​​ la sincera ricerca filosofica, la formazione giuridica, l’ampia erudizione e l’eminente capacità oratoria qualificano la personalità di C. e da essa si proiettano nell’ideale che egli elabora dell’orator. In questo senso​​ ​​ Quintiliano ha potuto asserire che il nome di C. è il nome stesso dell’eloquenza (cfr.​​ Inst. orat.​​ 10,1). È anche questo un elemento importante in prospettiva pedagogica, poter offrire un​​ modello concreto​​ dell’ideale prospettato.

5.​​ Influsso e risonanze.​​ L’influsso esercitato da C. in campo culturale e pedagogico si può costatare a vari livelli. Uno immediato, come si è detto, nell’ambito della cultura ellenistico-romana; con una incidenza determinante sulla formazione dell’oratore, anche quando, con la crisi della Repubblica e l’avvento dell’Impero, il suo impatto sulla vita dello Stato sfumò. A lui sarà debitore anche Quintiliano nella sua​​ Institutio oratoria.​​ Nel ritorno alla classicità degli umanisti rinascimentali (​​ Umanesimo rinascimentale) C. non solo è uno dei punti di riferimento più significativi, ma la sua imitazione porta anche a quel fenomeno di decadenza formalistica che si chiamò​​ ciceronianismo.​​ C. resta uno dei maestri validi nella storia della pedagogia.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ C,​​ Opere politiche e filosofiche,​​ a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, UTET, 1953;​​ Dell’Oratore, a cura di A. Pacitti, Bologna, Zanichelli, 1974-77, 3 voll.; b)​​ Studi:​​ Narducci E.,​​ Introduzione a C., Roma / Bari, Laterza, 1992;​​ Galino M. A.,​​ Historia de la educación.​​ I.​​ Edades antigua y media,​​ Madrid, Gredos,​​ 1960; Bonner S. F.,​​ L’educazione nell’antica Roma: da Catone il Censore a Plinio il Giovane,​​ Roma, Armando, 1986; Montanari F. (Ed.),​​ Rimuovere i classici? Cultura classica e società contemporanea, Milano, Einaudi, 2003.

M. Simoncelli




CICLO DI VITA

 

CICLO DI VITA

L’idea di c.d.v. implica una sequenza di eventi che scandiscono l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di un processo con caratteristiche di unitarietà interna.

1. La vita dell’uomo nel suo sviluppo dalla nascita alla morte, ha indotto spesso uno studio segmentato per fasi. Del c.d.v. si sono occupati la biomedicina (genetica, auxologia, gerontologia), la​​ ​​ psicologia sociale ed evolutiva (fasi e compiti di sviluppo con le relative soglie critiche), la​​ ​​ demografia, che descrive il c. riproduttivo e i modi in cui si succedono le generazioni dei figli a quelle dei padri, la sociologia della famiglia, che utilizza l’approccio evolutivo o del «c.d.v. familiare» suddiviso in vari stadi, cui competono corrispondenti «compiti di sviluppo familiari».

2. L’uso della categoria del c.d.v. ha diversi pregi connessi sia con la maggior aderenza alla realtà che con la modernità metodologica. Infatti l’attenzione longitudinale ai comportamenti meglio coglie gli eventi consecutivi che definiscono il percorso vitale dei soggetti. Inoltre l’attenzione alla sequenza temporale e delle decisioni fa studiare ogni passo successivo come condizionato dai precedenti. Infine per quanto riguarda la​​ ​​ famiglia,​​ l’approccio del c.d.v. familiare​​ («Developmental Approach») permette di analizzarla come sistema vivente che nasce, si sviluppa e muore avendo in sé una minima relazionalità sociale. Questa verrebbe a cadere quando invece se ne studiano soltanto le variabili singole, come nella prospettiva del concetto di «corso della vita»,​​ che per alcuni Autori (Saraceno, 1986) dovrebbe sostituire il c.d.v. Tale approccio allora enfatizzerebbe soprattutto la dimensione individualistica dello sviluppo e della coppia. Nelle società attuali il c.d.v. è molto più complesso che nel passato per una serie di variabili intervenienti di tipo economico, culturale, strutturale e psicologico che alterano e compromettono la regolarità delle sequenze degli eventi attesi o rendono più imprevedibili gli avvenimenti improvvisi.

Bibliografia

Mcgoldrick M. - E. A. Carter, «Il c.d.v. della famiglia», in F. Walsh (Ed.),​​ Stili di funzionamento familiare, Milano, Angeli, 1986, 259-296; Saraceno C. (Ed.),​​ Età e corso della vita, Bologna, Il Mulino, 1986; Scabini E. - P. P. Donati (Edd.),​​ Tempo e transizioni familiari, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Id.,​​ Nuovo lessico familiare, Ibid., 1995; Istat,​​ Indagini multiscopo sulle famiglie​​ (2000-2007), Roma, 2000-2007; Romano M. C. - T. Cappadozzi, «Generazioni estreme: nonni e nipoti», in G. B. Sgritta (Ed.),​​ Il gioco delle generazioni. Famiglie e scambi sociali nelle reti primarie, Milano, Angeli, 2002; Bertocchi F.,​​ Sociologia delle generazioni, Padova, CEDAM, 2004; Romano R. G. (Ed.)​​ C.d.v. e dinamiche educative nella società postmoderna, Milano, Angeli, 2005; Donati P. P.,​​ Manuale di sociologia della famiglia, Roma / Bari, Laterza, 2006.

R. Mion