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CARATTERE

 

CARATTERE

Lo studio del c. è stato di notevole interesse per psicologi, pedagogisti ed educatori, anche se il concetto è rimasto sempre poco preciso e definito. Basterebbe un elenco di definizioni date nel tempo dagli studiosi per capire l’ampiezza entro cui esse si muovono e, in conseguenza, la poca precisione del termine. Si va da definizioni che puntano su caratteristiche quasi congenite e comunque fisse e stabilizzate, a caratteristiche legate al mondo dei​​ ​​ valori e delle​​ ​​ credenze del soggetto interessato.

1. Frequentemente il termine c. è associato a quello di temperamento, dando al primo un peso più «psicosociale» e legato all’educazione e all’ambiente, e al secondo un significato più «somatopsichico» e congenito. Il c., inoltre, ha frequentemente una connotazione morale, assente completamente nelle definizioni di temperamento. Volendo portare agli estremi le varie posizioni degli studiosi potremmo dire che, per alcuni, il c. è qualcosa di strutturale; per altri è qualcosa di reattivo pur garantendo un minimo di «coerenza»del comportamento.

2. Senza impegnarci in un’esegesi delle varie definizioni, ma allo scopo di confermare quanto fin qui detto, eccone alcune, storiche e contemporanee. Per F. R. Paulhan (1902) il c. è «ciò che fa che una persona sia se stessa e non un’altra». Per​​ ​​ Spranger (1927) «il c. è la diversa tipica attitudine assunta dalla persona, di fronte a valori quali quello estetico, economico, politico, sociale, religioso». Molto significativa, nella sua sinteticità, è la definizione di A. Niceforo (1953): «c. è l’io in società». Una delle definizioni che sembra più completa e convincente è quella di R. Diana. Per questo studioso, c. è «l’insieme delle disposizioni congenite e di quelle stabilmente acquisite che definiscono l’individuo nella sua completa attitudinalità psichica e lo rendono tipico nel modo di pensare e di agire». Questa definizione contiene due aspetti significativi della condotta dell’individuo: unità (modo di agire coerente) e stabilità (unità continuata nel tempo). In altre parole, il c. sarebbe una strutturazione psicologica di natura reattiva all’ambiente. Da queste definizioni si coglie bene l’interesse pedagogico della conoscenza del c. e l’attenzione prestata a questa realtà individuale da parte degli educatori di tutti i tempi: atteggiamento di fronte ai valori e disposizioni stabilmente acquisite sono due dimensioni di notevole portata formativa.

3. Nonostante ciò, la sua connotazione di staticità ha reso lo studio del c. meno attuale con il progredire della psicologia dinamica e della personalità (termine, quest’ultimo, molto più usato oggi al posto di c.), che, tuttavia, il termine c. lo ha sempre usato: basti ricordare Freud che, già nel 1908, fece il passaggio da «sintomo» nevrotico a «c.» nevrotivo, comprendendo che il sintomo era radicato nel c. dell’individuo e che l’azione terapeutica doveva essere rivolta al c. e non al sintomo.

Bibliografia

Paulhan F. R.,​​ Les caractères,​​ Paris, Alcan, 1902;​​ Spranger E.,​​ Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit,​​ Halle, Niedermeyer,​​ 1927; Niceforo A.,​​ Avventure e disavventure della personalità e dell’uomo in società,​​ Milano, Bocca, 1953; Diana R.,​​ Guida alla conoscenza degli uomini. Tipologia caratterologica,​​ Roma, Paoline, 1964; Fedeli M.,​​ Temperamenti e personalità: profilo medico e psicologico,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1992; La Marca A.,​​ Educazione del c.​​ e personalizzazione educativa a scuola, Brescia, La Scuola, 2005.

M. Gutiérrez




CARATTEROLOGIA

 

CARATTEROLOGIA

La c. non è certamente di moda, e viene sempre meno presa in considerazione dagli studiosi delle differenze (individuali e di gruppo) del​​ ​​ comportamento. Il calo di interesse per la c. è indubbiamente legato ai limiti intrinseci che essa presenta nel suo intento classificatorio e nella sua staticità, ma è contemporaneamente legato allo sviluppo della psicologia dinamica e della personalità, anche se questa non ha mancato di prendere in considerazione sia l’aspetto classificatorio del carattere che la possibilità di collegare questa tipologia a specifici interventi psicoterapeutici: basti ricordare quanto scritto nella voce «carattere» sul pensiero di Freud e, più recentemente e solo a titolo di esempio, gli studi di Bioenergetica.

1. Lo studio del​​ ​​ carattere nella sua struttura, nei suoi elementi costitutivi, nei fattori che lo influenzano (c. generale) e nei suoi tentativi classificatori in base a elementi comuni (c. speciale) ha comunque costituito un valido tentativo di avvicinamento al singolo individuo, mettendo in risalto elementi caratterizzanti ma paragonabili con altri. Senza addentrarci in approfondite analisi si può dire che le principali scuole caratterologiche hanno avuto alla base dei loro tentativi di classificazione o il tipo (​​ tipologia) o il tratto (​​ tratti di personalità), considerati isolatamente, in rapporto tra essi, con maggiore o minore intensità di presenza.

2. Sono stati molti i criteri in base ai quali le varie scuole hanno costruito le loro classificazioni. Ad es., tratti caratterologici legati a strutture biologiche (bilioso, sanguigno, linfatico, ecc.); ad atteggiamenti generali di approccio alla realtà (introverso, estroverso; oggettivo, soggettivo); alla morfologia (macrosomico, microsomico; endomorfo, mesomorfo, ectomorfo; leptosomico, atletico, picnico); alla patologia mentale (schizotimico, ciclotimico). Qualsiasi caratteristica psicologica, per essere presa in considerazione per una classificazione tipologica, dovrebbe possedere alcuni requisiti: essere di rilievo e bene definita; avere un’altra caratteristica antagonista; indicare qualcosa di sufficientemente stabile; essere un centro nodale con altre caratteristiche ad essa collegate e da essa, in qualche modo, dipendenti.

3. Nonostante i limiti che presenta qualunque tentativo di «classificare» una persona, non si può negare che le varie scuole caratterologiche abbiano dato un notevole contributo allo sviluppo della​​ ​​ psicologia differenziale e abbiano dato un prezioso apporto agli educatori aiutandoli a cogliere almeno alcune caratteristiche significative dei loro educandi e ad impostare azioni educative che tenessero conto di particolari esigenze individuali (Roldán). L’individuazione dei soggetti «più tipici»; la possibilità di avere uno schema di osservazione uguale per tutti, favorendo i confronti; la possibilità di arrivare alla conoscenza di caratteristiche «nascoste» attraverso quelle più facilmente rilevabili, sono tutti elementi che costituiscono un aiuto per l’educatore nella sua azione di orientamento e indirizzo.

Bibliografia

Bertin G. M.,​​ La c.,​​ Milano, Bocca, 1951; Lorenzini G.,​​ Lineamenti di c. e tipologia applicate all’educazione,​​ Torino, SEI, 1954; Allers R.,​​ Psicologia e pedagogia del carattere,​​ Ibid., 1960;​​ Roldán A.,​​ Introducción a la ascética diferencial,​​ Madrid, Razón y Fe,​​ 1960; Rohracher H.,​​ Elementi di c.,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1970; Lowen A.,​​ Il linguaggio del corpo,​​ Milano, Feltrinelli, 2006.

M. Gutiérrez




CARATTEROLOGIA

 

CARATTEROLOGIA

La c. non è certamente di moda, e viene sempre meno presa in considerazione dagli studiosi delle differenze (individuali e di gruppo) del​​ ​​ comportamento. Il calo di interesse per la c. è indubbiamente legato ai limiti intrinseci che essa presenta nel suo intento classificatorio e nella sua staticità, ma è contemporaneamente legato allo sviluppo della psicologia dinamica e della personalità, anche se questa non ha mancato di prendere in considerazione sia l’aspetto classificatorio del carattere che la possibilità di collegare questa tipologia a specifici interventi psicoterapeutici: basti ricordare quanto scritto nella voce «carattere» sul pensiero di Freud e, più recentemente e solo a titolo di esempio, gli studi di Bioenergetica.

1. Lo studio del​​ ​​ carattere nella sua struttura, nei suoi elementi costitutivi, nei fattori che lo influenzano (c. generale) e nei suoi tentativi classificatori in base a elementi comuni (c. speciale) ha comunque costituito un valido tentativo di avvicinamento al singolo individuo, mettendo in risalto elementi caratterizzanti ma paragonabili con altri. Senza addentrarci in approfondite analisi si può dire che le principali scuole caratterologiche hanno avuto alla base dei loro tentativi di classificazione o il tipo (​​ tipologia) o il tratto (​​ tratti di personalità), considerati isolatamente, in rapporto tra essi, con maggiore o minore intensità di presenza.

2. Sono stati molti i criteri in base ai quali le varie scuole hanno costruito le loro classificazioni. Ad es., tratti caratterologici legati a strutture biologiche (bilioso, sanguigno, linfatico, ecc.); ad atteggiamenti generali di approccio alla realtà (introverso, estroverso; oggettivo, soggettivo); alla morfologia (macrosomico, microsomico; endomorfo, mesomorfo, ectomorfo; leptosomico, atletico, picnico); alla patologia mentale (schizotimico, ciclotimico). Qualsiasi caratteristica psicologica, per essere presa in considerazione per una classificazione tipologica, dovrebbe possedere alcuni requisiti: essere di rilievo e bene definita; avere un’altra caratteristica antagonista; indicare qualcosa di sufficientemente stabile; essere un centro nodale con altre caratteristiche ad essa collegate e da essa, in qualche modo, dipendenti.

3. Nonostante i limiti che presenta qualunque tentativo di «classificare» una persona, non si può negare che le varie scuole caratterologiche abbiano dato un notevole contributo allo sviluppo della​​ ​​ psicologia differenziale e abbiano dato un prezioso apporto agli educatori aiutandoli a cogliere almeno alcune caratteristiche significative dei loro educandi e ad impostare azioni educative che tenessero conto di particolari esigenze individuali (Roldán). L’individuazione dei soggetti «più tipici»; la possibilità di avere uno schema di osservazione uguale per tutti, favorendo i confronti; la possibilità di arrivare alla conoscenza di caratteristiche «nascoste» attraverso quelle più facilmente rilevabili, sono tutti elementi che costituiscono un aiuto per l’educatore nella sua azione di orientamento e indirizzo.

Bibliografia

Bertin G. M.,​​ La c.,​​ Milano, Bocca, 1951; Lorenzini G.,​​ Lineamenti di c. e tipologia applicate all’educazione,​​ Torino, SEI, 1954; Allers R.,​​ Psicologia e pedagogia del carattere,​​ Ibid., 1960;​​ Roldán A.,​​ Introducción a la ascética diferencial,​​ Madrid, Razón y Fe,​​ 1960; Rohracher H.,​​ Elementi di c.,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1970; Lowen A.,​​ Il linguaggio del corpo,​​ Milano, Feltrinelli, 2006.

M. Gutiérrez




CARCERE

 

CARCERE

Il c., inteso come luogo di detenzione, è un’istituzione piuttosto recente nella storia.

1. Prima del XIX sec. si ricorreva frequentemente a forme punitive il cui effetto deterrente e dissuasivo consisteva o nelle pene fisiche (torture, lavori forzati...) o in quelle di tipo economico (confisca dei beni, ammende...), mentre per i reati più gravi veniva applicata la condanna a morte. Il c. moderno si fonda invece sulla logica della privazione della «libertà» al fine di rieducare / risocializzare il soggetto che ha «deviato» dalla norma. L’effetto-pena trova applicazione in questo caso nel «luogo» utilizzato per mandare ad effetto tale deprivazione (appunto, il penitenziario), mentre la gravità del reato viene misurata in base al «tempo» durante il quale il cittadino è privato della libertà.

2. Nell’affrontare il tema della funzione educante del c. il legislatore ha tenuto a sottolineare che: «Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi...» (art. 1, Cap. I del​​ Trattamento penitenziario).​​ Questo processo che ha permesso di passare da pene disumanizzanti (come erano in passato quelle fisiche) a forme meno umilianti per la condizione umana e per di più mirate al recupero del soggetto trasgressivo, richiede tuttavia di verificare se sono stati effettivamente raggiunti quegli scopi rieducativi per i quali è stato introdotto l’odierno istituto di pena. Se si misurano i risultati finora conseguiti in rapporto ai fenomeni di recidività dei comportamenti trasgressivi di chi è stato oggetto di un trattamento carcerario, la risposta è doppiamente negativa: un tale trattamento, così come viene attuato oggi, non solo non costituisce un deterrente al reato, ma in genere non serve alla funzione rieducativa / risocializzante del soggetto deviante dalla norma, dal momento che l’istituzione carceraria, pur in presenza di una legislazione innovativa, nella maggior parte dei casi ancora oggi non risponde ai fini per i quali è stata istituita, per cui in pratica perde la sua funzione «correttiva».

3. Il punto debole dell’attuale sistema carcerario va individuato anzitutto nel continuare ad assolvere prioritariamente ad una funzione custodialistica. E fin quando una istituzione («totale», come la definisce Goffman) ricorrerà a metodi repressivi, di emarginazione ed isolamento, è chiaro che essa potrà difficilmente avanzare la pretesa di essere uno strumento riabilitativo nei confronti di un soggetto da rieducare, dal momento che è essa stessa causa di disadattamento. Al suo interno vengono meno infatti quelle condizioni innovative previste dalla legge per assolvere agli scopi rieducativi / risocializzanti: le misure alternative riguardano una parte della popolazione carceraria, il lavoro rimane per molti un «sogno», le nuove figure professionali, le quali dovrebbero operare nel c. con funzioni rieducative, in realtà risultano a tutt’oggi insufficienti ed infine mancano veri e propri programmi d’intervento coordinati tra le differenti parti deputate alla riabilitazione morale e sociale del soggetto in trattamento carcerario.

4. La sfida futura di una società che intende essere «democratica» nel pieno senso del termine consisterà perciò nella capacità di saper recuperare il «deviante» lungo il graduale passaggio da forme penitenziarie chiuse / isolate a quelle sempre più aperte e decentratrate nel sociale; fino ad arrivare a proporre una parziale e, chissà, anche totale eliminazione dell’attuale sistema carcerario. Studi e ricerche promosse in ambienti penitenziari (CNOS-FAP, 1989) hanno permesso di rilevare che il c. non è un’isola né deve stare nelle isole; che dare la «morte sociale» al cittadino non assolve alla funzione di riequilibrio dell’ecosistema sociale; che il lavoro è un «diritto per tutti» tanto più per chi intende riscattare la propria posizione di «ristretto»; ed infine che a questa «apertura delle c.», mirata al recupero integrale del soggetto deviante, non può rimanere estraneo il territorio nelle sue variegate componenti, pubbliche e private, le quali sono parte integrante di un «corpo sociale» ove ciascun individuo ha il dovere morale e sociale di assolvere ad un compito di responsabilità nei confronti delle componenti meno sane del sistema.

Bibliografia

Morrone A.,​​ Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Padova, CEDAM, 2003; Santarelli G.,​​ Pedagogia penitenziaria e della devianza, Roma, Carocci Faber, 2004; Benecchi D. (Ed.),​​ Dei diritti e delle pene, Modena, Sigem, 2004; Ferrario G.,​​ Psicologia e c., Milano, Angeli, 2005; Anastasia S. - P. Gonnella,​​ Patrie galere, Roma, Carocci, 2005; Astarita L. (Ed.),​​ Dentro ogni c. Antigone nei 208 istituti di pena italiani. Quarto rapporto sulle condizioni di detenzione, Ibid., 2006.

V. Pieroni




CARISMA

 

CARISMA

Il c. si può definire come una relazione di potere fra una guida ispirata e i suoi seguaci, che riconoscono in essa e soprattutto nel suo messaggio la promessa di un ordine nuovo a cui essi aderiscono con una convinzione intensa. Per il leader carismatico che occupa una posizione del tutto centrale in un determinato gruppo di adepti o in una comunità emozionale, il messaggio è al tempo stesso una missione.

1. Il termine c., dal gr.​​ charisma​​ (grazia divina), è stato usato in sociologia per primo da E. Troeltsch (1912) e poi approfondito da​​ ​​ Weber (1922). Il c. è il potere straordinario di alcuni personaggi che possiedono un fascino particolare sugli altri. Esso è senz’altro diverso dal potere di un burocrate e si definisce per il suo carattere straordinario, sovrumano e sovrannaturale. Il carismatico è un «inviato da Dio» o da una forza eccezionale. Per lui non sono importanti tanto i compiti da svolgere, che sono vari e molto diversi, ma è importante piuttosto il modo, lo stile con cui realizzare la sua missione. Egli non dispone di un apparato organizzativo, economico o coercitivo perché l’obbedienza è assicurata attraverso la persuasione. L’opposto di un capo carismatico è il tiranno che governa attraverso la forza e la paura, oppure un governante al quale si obbedisce, indipendentemente dalle sue capacità personali.

2. Nel linguaggio corrente c., popolarità e contagio emotivo sono considerati sinonimi: tuttavia, a livello scientifico le differenze non mancano. Un individuo popolare non pretende niente; invece il capo carismatico è molto esigente. Così il c. non è riducibile alla popolarità anche se molte volte è associato a manifestazioni diffuse di entusiasmo. Il potere carismatico è sempre molto personale e per questo rende fragile l’istituzionalizzazione. Gesù è stato un capo puramente carismatico durante tutta la vita. Il carismatico, come portatore di c., ha su molti un fascino che si fonda probabilmente sull’apprezzamento dei comportamenti e delle prestazioni, ma che si sposta poi gradualmente sulla mera esistenza di essi. Così i carismatici, per il fatto stesso di esserci, contano e sono socialmente importanti; soddisfano i bisogni di dipendenza, di comportamenti individuali e collettivi e tendono a diventare criterio di verità e di valore. In tal senso, nel bene e nel male, i portatori di c. vengono ad avere una loro significatività educativa.

Bibliografia

Troeltsch E.,​​ Die Soziallehren der Christlichen Kirchen und Gruppen,​​ Tübingen, Mohr, 1912; Weber M.,​​ Wirtschaft und Gesellschaft,​​ Ibid., 1922; Eisenstadt S. N.,​​ Max Weber​​ on charisma and institution buildings.​​ Selected papers,​​ Chicago, University of Chicago Press, 1968; Ardigò A.,​​ Crisi di governabilità e mondi vitali,​​ Bologna, Cappelli, 1980; Alberoni F.,​​ Movimento e istituzione,​​ Bologna, Il Mulino, 1981; Tedeschi E.,​​ Per una sociologia del millennio. David Lazzaretti: c. e mutamento sociale,​​ Venezia, Marsilio, 1989; Tuccari F.,​​ C. e leadership nel pensiero politico di Max Weber, Milano, Angeli, 1991.

J. Bajzek




CASA-FAMIGLIA

 

CASA-FAMIGLIA

La c.f. è una struttura di accoglienza, costituita da una normale abitazione, in cui vive, per un periodo di tempo variabile ma non lungo, un ridotto gruppo di soggetti (tra gli 8 e i 10) in assenza di una famiglia o in alternativa ad essa. Oltre a surrogarne le funzioni permette ai suoi ospiti di vivere in un contesto non istituzionale e quindi caratterizzato da relazioni significative e a valenza educativa.

1. Si tratta una soluzione prevista dal sistema di offerta dei servizi sociali nei confronti dei minori in attesa di​​ ​​ adozione o di collocazione in​​ ​​ affidamento familiare o di coloro per cui si reputa necessario un allontanamento più o meno lungo dalla famiglia di origine, in quanto questa non è ritenuta idonea a fornire un’educazione appropriata. Si tratterebbe pertanto di una struttura a dichiarata valenza socio-educativa. Analoga è l’esperienza dei «focolari» riservati ad adolescenti che presentano forme di disagio sociale. Tale soluzione viene altresì contemplata anche per altre categorie di utenza pur se con finalità diverse, o per assicurare una stabile comunità di vita. Così si può dire delle strutture per disabili, malati di mente e anziani che assumono una valenza di tipo più socio-assistenziale, rispondendo al bisogno di alloggio e protezione di persone con insufficiente livello di autonomia. Tali sono le comunità alloggio, i moduli comunitari delle Residenze Sanitarie Assistenziali, le comunità protette, le c. rifugio per donne abusate, fino ai gruppi appartamento e ai gruppi assistiti dove la presenza di personale è limitata a poche ore al giorno e gli ospiti sperimentano la loro capacità di autogestione in un percorso di progressiva autonomia. Per ciascun tipo di tali strutture comunitarie, variamente denominate, le Regioni stabiliscono precisi standard strutturali e di personale a cui i soggetti gestori si devono attenere sia per ottenere l’autorizzazione che, eventualmente, per accreditarsi.

2. La c.f. o altrimenti detta «gruppo famiglia» è una struttura residenziale protetta, in cui cioè gli operatori – o una coppia di coniugi riconosciuti idonei – sono presenti nelle 24 ore con compiti di educazione, animazione e sostegno affettivo («figure calde») e materiale (cura, assistenza alla persona, tutela) assicurando altresì ai propri ospiti una normale vita sociale esterna nelle attività scolastiche, ludiche, occupazionali e relazionali, e garantendo un collegamento con gli altri​​ ​​ servizi del territorio. La realizzazione di tale struttura è quasi sempre di iniziativa pubblica e compete all’Ente Locale titolare delle funzioni socio-assistenziali che per lo più ne affida la gestione al privato sociale in forma di cooperativa di servizio.

Bibliografia

Punzi I.,​​ Logoterapia e AIDS. L’esperienza della c. f. «Padre Monti»,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 1191-1198;​​ C.f. Aspetti sociali e amministrativi, Roma, Fondazione Italiana per il Volontariato, 2001.

R. Frisanco




CASOTTI Mario

 

CASOTTI Mario

n. a Roma nel 1896 - m. a Marina di Pietrasanta nel 1975, pedagogista italiano.

1. Si formò alla scuola di​​ ​​ Gentile, con il quale discusse la tesi dal titolo​​ La concezione idealistica della storia​​ (pubblicata nel 1920). Egli si distinse subito come uno dei giovani più promettenti del vivaio gentiliano, ricoprendo, dapprima, le funzioni di redattore capo di «Levana» e assumendo, quindi la condirezione de «La Nuova Scuola Italiana», due riviste fondate nei primi anni ’20 dal​​ ​​ Codignola. Pubblicò, in particolare, due studi di carattere teoretico:​​ Introduzione alla pedagogia​​ (1921) e​​ La nuova pedagogia e i compiti dell’educazione moderna​​ (1923). Tali studi sono tanto più significativi in quanto mostrano che C. era, ormai, avviato a un ripensamento della pedagogia gentiliana. Nel 1923 giunse a Torino per insegnare materie umanistiche presso il Magistero, ma vi restò solo pochi mesi. Sciolta la crisi spirituale nella quale si dibatteva e abbracciato il cattolicesimo, nel 1924 fu chiamato da padre​​ ​​ Gemelli all’Università Cattolica quale docente di pedagogia. A conferma dei suoi nuovi orientamenti giunse la pubblicazione​​ Lettere su la religione​​ (1925), che segnava l’abbandono delle tesi idealiste in favore della concezione cristiana della vita e della filosofia aristotelico-tomista. Presso l’Università Cattolica C. rimase per circa un quarantennio, assicurando l’insegnamento non solo di pedagogia, ma anche di storia della pedagogia. Con i primi anni ’30 venne, per altro, collaborando in modo sempre più stretto con la casa editrice La Scuola e nel ’53 assunse la direzione di «Pedagogia e Vita», mantenendola fino al 1970.

2. Dopo il suo approdo all’Università Cattolica, C. si sforzò di trasferire le prospettive della filosofia neoscolastica nel campo più specifico della riflessione pedagogica. Questa linea di ricerca lo condusse a configurare la pedagogia «come scienza e come arte», ovvero come sapere pratico-poietico volto a promuovere e a migliorare i concreti processi educativi. Egli sottolineava che il discorso pedagogico, lungi dal concentrare la sua attenzione sulla dimensione antropologica, era teso a valorizzare anche le problematiche metodologico-didattiche e ad aprirsi al contributo della stessa sperimentazione. Ma il frutto più significativo del suo impegno di studio fu la messa a punto del concetto di educazione. Nel rinviare l’uno contro l’altro i riduttivismi che tendevano a privilegiare ora il ruolo del maestro ora quello del discepolo, C. affermava che ai fini di una corretta opera educativa occorreva prevedere la piena partecipazione di ambedue gli interlocutori, secondo le linee elaborate da s.​​ ​​ Tommaso nel​​ De Magistro​​ e nello spirito della riflessione promossa dalla pedagogia del nostro​​ ​​ Risorgimento. In tale contesto si collocano le critiche che, soprattutto fra gli anni ‘30 e ’50, egli rivolse, non senza qualche esasperazione polemica, all’attivismo delle​​ ​​ Scuole Nuove, inficiato, a suo modo di vedere, da un’impostazione che, per favorire il cosiddetto spontaneismo dello scolaro, trascurava le superiori esigenze della verità. Gli scritti pubblicati da C. spaziavano dalla ricerca squisitamente teoretica (Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell’educazione,​​ 1930;​​ Pedagogia generale,​​ 1947-48) all’indagine storica (La pedagogia di Raffaello Lambruschini,​​ 1929;​​ La pedagogia di San Tommaso d’Aquino,​​ 1931;​​ La pedagogia di Antonio Rosmini,​​ 1937). Durante il suo lungo magistero egli si applicò, in particolare, ad approfondire le valenze pedagogiche del Vangelo, alimentando una corrente di studi che conobbe allora un certo fervore e nel cui ambito doveva emergere​​ ​​ Nosengo, uno dei suoi più fedeli allievi. Testimonianza di questi interessi, cui C. dedicò vari corsi universitari è lo scritto​​ La pedagogia del Vangelo​​ (1953). Ai suoi occhi, la pedagogia evangelica acquistava un’importanza del tutto speciale, poiché era persuaso che essa fosse in condizione di autenticare le istanze dello stesso attivismo, liberandolo dagli aspetti deteriori dei quali era, a suo giudizio, intriso.

3. Nell’ultima fase del suo pensiero, C. sembrò propugnare un recupero di taluni aspetti dell’idealismo, in special modo nell’interpretazione datane dal Gentile. Tuttavia, nel riproporre le suggestioni della lezione gentiliana, egli intendeva non già rinnegare la visione della pedagogia neoscolastica in favore dell’attualismo, ma riassestare il discorso pedagogico fornendogli una più esplicita fondazione etico-filosofica. L’esigenza di questo riassestamento gli sembrava allora tanto più urgente, in quanto aveva l’impressione che, in un contesto culturale che vedeva le cosiddette scienze umane guadagnare terreno, molta ricerca pedagogica fosse sempre più esposta ai rischi del sociologismo e dello psicologismo.

Bibliografia

Lombardi F. V.,​​ M.C.: la pedagogia della neoscolastica,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 10 (1963) 472-493; Id.,​​ Filosofia e pedagogia nel pensiero di M.C.,​​ in «Rivista di Filosofia Neoscolastica» 69 (1977) 103-118; Bertin G. M.,​​ Pedagogia italiana del novecento. Autori e prospettive,​​ Milano, Mursia, 1989; Damiano E.,​​ La sperimentazione pedagogica secondo M.C.,​​ in «Pedagogia e Vita» 50 (1992) 6, 44-65; Scurati C.,​​ Teoria della didattica e didattica operativa in M.C.,​​ in «Pedagogia e Vita» 51 (1993) 1, 59-77.

L. Pazzaglia




CASSIODORO

 

CASSIODORO

Vissuto tra il 490 ca. e il 580 ca., senatore romano; C. è, insieme a S. Boezio, fautore della rinascita culturale promossa dal re degli Ostrogoti Teodorico, di cui diviene ministro.

1. L’interesse culturale di Flavio Magno Aurelio C. si estende oltre la durata e i limiti del regno di Teodorico in favore della cultura, sia classica che propriamente cristiana, non contrapposte, ma integrate. Gli ambiti di questa sua opera sono diversi. Nell’ambito, che diremmo​​ politico,​​ si impegna per la promozione e la valorizzazione dell’opera dei maestri a tutti i livelli. È significativa, a tal proposito, una sua lettera al Senato, sotto il re Atalarico, successore di Teodorico, per propiziare un adeguato stipendio agli insegnanti dei vari gradi delle scuole romane. Nell’ambito ampiamente​​ ecclesiale,​​ il suo interesse si estende alla ricerca dell’integrazione del sapere classico con lo studio serio della Bibbia e dei Padri. Elabora, in accordo con papa Agapito, il progetto di un​​ Centro superiore di studi religiosi​​ e di una grande​​ Biblioteca​​ da realizzarsi in Roma. Le difficoltà della situazione sociale e politica non ne permettono l’attuazione.

2. C., però, non desiste dal suo impegno, ma ne cerca un altro ambito di realizzazione: fonda a Vivarium, in Calabria, una​​ forma di vita monastica,​​ i cui membri si dedichino contemporaneamente alle finalità spirituali-ascetiche proprie del monachesimo e a una finalità specificamente culturale nella ricerca dell’integrazione tra lo studio delle Sacre Scritture e dei Padri e quello della cultura classica. Di qui l’importanza di un programma di studi e di lavoro letterario; come pure dell’attività dello​​ scriptorium,​​ per la cura e la trascrizione dei codici. Il programma è contenuto nelle​​ Institutiones divinarum et saecularium litterarum.​​ Questa intenzionale​​ duplice finalità​​ applicata alla vita monastica stabilisce una diversificazione tra il Monachesimo di C. e quello di altri Ordini, come quello Benedettino, nei quali – pur non trascurando, anzi supponendo una base culturale, l’attività degli​​ scriptoria​​ e un meritorio apporto alla cultura – ciò non entra nella finalità della vita monastica, ma resta un mezzo al suo servizio. Tale specificità, mentre caratterizza l’opera di C. nella storia della cultura e della pedagogia, segna anche il limite della sua risonanza nella storia del Monachesimo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ C.,​​ Opera omnia,​​ P.L., 69-70; C.,​​ Le istituzioni, Roma, Città Nuova, 2001. b)​​ Studi:​​ Riché P.,​​ Éducation et culture dans l’Occident barbare,​​ Paris, Seuil,​​ 1967; Xodo C.,​​ Cultura e pedagogia nel monachesimo alto medioevale. «Divinae vacare lectioni»,​​ Brescia, La Scuola, 1980; Leclercq J.,​​ Umanesimo e cultura monastica, tr. it., Milano, Jaca Book, 1989; Cavallo G., «Tra “volumen” e “codex”. La lettura nel mondo romano», in G. Cavallo - R. Chartier (Edd.),​​ Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma / Bari, Laterza, 1995, 37-69; Parkes M., «Leggere, scrivere, interpretare il testo: pratiche monastiche nell’alto medioevo», in Ibid., 1995, 71-90; Bettetini M., «C.», in​​ Enciclopedia Filosofica, vol. II, Milano, Bompiani, 2006, 1696-1697.

M. Simoncelli




CASTIGHI

 

CASTIGHI

Consistono, in senso ampio, nell’infliggere una pena o dolore (psicologico o fisico) o nel privare di un bene allo scopo di far espiare una mancanza e / o di ristabilire un ordine (morale, giuridico o sociale). In prospettiva pedagogica i c. appartengono alla sfera affettiva dell’educazione e si propongono nell’ambito dei mezzi di motivazione (​​ premi).

1. Il tema dei c. occupa un vasto capitolo della storia della pedagogia e della scuola. Basti qui fare alcuni cenni. Ha avuto un forte e duraturo influsso la concezione predominante nell’antichità: «L’orecchio del ragazzo è sopra la schiena, ed egli dà ascolto quando è battuto». Nella​​ ​​ Bibbia (Prv 29,15) si avverte che «il bastone e il rimprovero procurano sapienza». Nella Roma antica la «ferula» è il mezzo comune su cui il maestro basa la propria autorità. Alla fine del primo secolo della nostra era i metodi brutali cominciano ad essere messi in discussione; tuttavia la disciplina scolastica continua ad essere severa e i c. frequenti. Nel clima umanistico rinascimentale, educatori particolarmente sensibili, come M. Veggio (1406-1448), chiedono che «non si impauriscano troppo i bambini con minacce e percosse». Una considerazione sempre più oculata viene fatta poi all’interno delle congregazioni insegnanti (​​ Gesuiti,​​ ​​ Barnabiti,​​ ​​ Scolopi,​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane) e dai maggiori pedagogisti dell’età moderna, convinti, come​​ ​​ Comenio, che ci sono «mezzi più efficaci della frusta». Tra gli educatori del sec. XIX va citato don​​ ​​ Bosco, assertore convinto del​​ ​​ sistema preventivo e della «pedagogia dell’amore», che cerca di liberare gli allievi «dai dispiaceri, dai c., dai disonori». Contro la prassi educativa troppo legata ancora a una disciplina severa, prende posizione, agli inizi del nostro sec., il movimento delle​​ ​​ Scuole Nuove. Riprendendo la tesi rousseauiana della «bontà naturale», alcuni dei loro fautori sono giunti però a posizioni di condanna radicale di quanto potrebbe minacciare la «spontaneità del bambino». La riflessione pedagogica sui c. è oggi più attenta e articolata.

2. Il c. educa solo se incluso nell’arco di un intervento che, difendendo dalle attrazioni fuorvianti, aiuta a cambiare in senso positivo la condotta. Questo spesso richiede un lungo cammino. Per sé il c. può essere usato solo in caso di insufficienza soggettiva o oggettiva dei mezzi positivi di sostegno motivante, per arrestare un comportamento sbagliato, connettendolo con un’immagine punitiva che faccia riflettere e scegliere meglio, resistere a false suggestioni e pulsioni. A livello psicologico, il c. induce una tensione distogliente di sofferenza fisica, affettiva, morale; produce conflitto, rifiuto e fuga da ciò che lo ha provocato o lo potrebbe provocare. È antieducativo destinarlo a punire, far espiare, ristabilire la parità offesa. Urta e danneggia il c. che è espressione di vendetta e di aggressività, che umilia e offende la personalità intima e sociale (lo fanno quasi sempre i c. fisici). Infantilizza il «bisogno di pagare» per sentirsi in pace.

3. Quando si ama e si è amati, tutto può servire da c.: lo stesso amore offeso, mostrato sofferente. Sono c. educativamente validi il giudizio critico espresso al momento opportuno, il tratto relazionale bene amministrato. Ma forse il c. educativamente più valido è la coscienza e l’esperienza, magari rinforzata, del bene non fatto, del valore non conseguito, del talento e della opportunità sprecati, dell’ordine offeso, della buona relazione interrotta. L’autopunizione soggettiva per la condotta errata corregge più di ogni danno materiale subìto o del c. esterno. L’educatore deve preparare e coltivare le condizioni perché tali esperienze abbiano luogo nei confronti del bene oggettivo.

4. È debole e perfino non educativo il c. imposto e subìto al di fuori dei rapporti interpersonali e dei progetti in corso. Il metodo preventivo che imposta l’educazione su valori e su forti relazioni positive, riduce i c. o li rende subito educativamente efficaci. Il ricorso ai c. penosi come «camere di riflessione», maltrattamenti, punizioni gravi, costrizioni, ha effetti incerti o ambivalenti, spesso controproducenti, colpendo la​​ ​​ stima di sé, non includendo la possibilità e l’offerta di contro esperienze, non dando indicazioni per la risalita immediata e continua. Vale il c. che include indicazioni per riparare, che fa reagire con forti motivazioni di ordine affettivo e morale, sociale. Anche il c. fisico, grave o leggero, educa solo in contesti abituali di amore e ragione.

Bibliografia

Auffray A.,​​ Come castigava un santo,​​ Torino, SEI, 1956; Vuri V., «Premi e c.», in L. Volpicelli (Ed.),​​ La pedagogia,​​ vol. X, Milano, Vallardi, 1972, 199-269; Prellezo J. M.,​​ Dei c. da infliggersi nelle case salesiane. Una lettera circolare attribuita a don Bosco,​​ in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 263-308; Scurati C.,​​ La disciplina nella scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1988; Miller A.,​​ La fiducia tradita, Milano, Garzanti, 1995; Pietropolli Charmet G. (Ed.),​​ Ragazzi sregolati. Regole e c. in adolescenza, Milano, Angeli, 20052.

P. Gianola




CASTIGLIONE Baldassar

 

CASTIGLIONE Baldassar

n. a Casatico (Mantova) nel 1478 - m. a Toledo (Spagna) nel 1529, uomo di corte, diplomatico, umanista italiano.

1. Di illustre famiglia imparentata ai Gonzaga, riceve un’eccellente educazione umanistica. È alle corti di Milano, Mantova, Urbino, Roma; ambasciatore in Inghilterra e presso l’imperatore Carlo V; amico di letterati, musicisti, pittori. È una delle figure più rappresentative del Rinascimento italiano perché incarna l’ideale dell’uomo colto, armonico, padrone di sé, pronto all’azione come all’amabile e piacevole conversazione. Per questo Carlo V, alla notizia della sua morte, dice: «È morto uno dei migliori cavalieri del mondo».

2. La sua opera maggiore,​​ Il​​ Cortegiano,​​ è un dialogo ambientato nella corte di Urbino, dove uomini di cultura discutono per delineare la figura del perfetto uomo di corte e della «dama di palazzo». Consta di una dedica e di quattro libri. Il 1° tratta dei requisiti che deve possedere il perfetto cortegiano: nobiltà (non legata a discendenza dinastica), grazia, abilità nell’uso delle armi, nell’arte della parola, della musica, della pittura, della danza; il 2° discute in che modo e in quali circostanze il cortegiano deve usare le capacità di cui è fornito; il 3° tratteggia la figura ideale della «donna di palazzo»; il 4° affronta i rapporti del cortegiano con il principe, il problema politico e l’amore platonico. Ne​​ Il​​ Cortegiano,​​ C.​​ presenta l’uomo di corte ideale che, per le doti acquisite, ma soprattutto per le sue virtù morali, consiglia il principe a un’azione di governo illuminata e saggia, ispirata alla moderazione, alla giustizia, alla magnanimità, all’amore verso i sudditi. L’opera è subito tradotta nelle principali lingue e in latino ed esercita un influsso notevole su tutte le corti d’Europa.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Opere volgari e latine del conte B.C.,​​ raccolte, ricorrette ed illustrate da Giov. Ant. e Gaetano Volpi, Padova, 1733;​​ Il​​ libro del Cortegiano con una scelta delle opere minori di B.C.,​​ a​​ cura di B. Maier, Torino, UTET, 1973;​​ Il libro del Cortegiano, Introduzione di A. Quondam, Milano, Garzanti, 1981 (XI ed. 2003). b)​​ Studi: Barberi G.,​​ L’onore in Corte. Dal C. al Tasso, Milano, Angeli, 1986; Ossola C.,​​ Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo». Storia di un libro e di un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987; Scarpati C.,​​ Dire la verità al principe, Milano, Vita e Pensiero, 1988;​​ Gagliardi A.,​​ La misura e la grazia. Sul «Libro del Cortegiano», Torino, Tirrenia Stampatori, 1989.

R. Lanfranchi