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CREDIBILITÀ

 

CREDIBILITÀ

Dal punto di vista pedagogico, la c. può essere intesa come la condizione di persone, istituzioni, contenuti di proposte e inviti educativi che innestano dinamiche di coinvolgimento affettivo e spirituale e muovono al consenso.

1. La c. può essere condizione globale di un sistema e di un rapporto o riferirsi a un singolo fattore e atto dell’educazione. Appartiene alla pedagogia della​​ ​​ motivazione. Abitualmente gli esiti educativi buoni si attribuiscono agli educatori, le risposte negative o difettose alle condizioni del soggetto educando o dell’ambiente. Il primo si giudica poco disponibile, soprattutto a proposte e richieste valide e impegnative. Il secondo di solito viene rimproverato di scarsa collaborazione, di moltiplicazione delle difficoltà, d’essere responsabile oggi della quasi impossibilità di una buona educazione.

2. La c. si tende a darla quasi per scontata. Invece, oggettivamente, la responsabilità prima e ultima dell’intervento educativo è legata a un sistema di c., delle persone e delle comunità educatrici, alle loro proposte, alla qualità delle loro mediazioni, alla loro presenza o assenza. Credibili sono le persone che testimoniano, che pagano di persona, che mostrano amore e zelo, dedizione, pazienza. Credibili sono le proposte che si mostrano significative e ottengono per questo profonda risonanza interiore anche di fronte ad attese esigenti e critiche o dubbiose. Credibile è ciò che agisce in profondità, esprime valori permanenti, ma insieme corrisponde allo spirito dei tempi, alla pluralità delle condizioni e delle disponibilità. Credibile è un sistema che presenta le prove, i segni di valore e la forza dei contenuti che propone. Credibili sono le personalità e i modi della mediazione che suscitano dinamiche di attenzione e di fiducia, e spingono ad assumere in profondità e convinzione quanto viene proposto (v. anche​​ ​​ autorità educativa).

Bibliografia

Gianola P., «I giovani e la vita religiosa oggi: tra disponibilità e c.», in CIS,​​ Vocazioni giovanili e comunità d’accoglienza,​​ Roma, Rogate, 1982, 25-46; Guardini R., «La c. dell’educatore», in Id.,​​ Persona e libertà, Brescia, La Scuola, 1987.

P. Gianola




CRISI

 

CRISI

Termine di origine gr. (krino =​​ scelgo, discrimino, separo) usato dalla medicina ippocratica per indicare il momento decisivo del decorso d’una malattia.

1.​​ Definizione.​​ In ambito psicopedagogico si riferisce a una fase della vita caratterizzata dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla capacità di trasformare quegli schemi di atteggiamento e di comportamento che si rivelano inadeguati a far fronte alla nuova situazione.

2.​​ Tipologia.​​ La tendenza attuale della moderna​​ ​​ psicopedagogia è quella di distinguere tra vari tipi di c. alla luce di due criteri: la​​ natura del legame​​ della c. stessa con le fasi o gli eventi della vita, e la​​ libertà del soggetto​​ d’affrontare le varie situazioni di c. Prendendo in considerazione, anzitutto, il rapporto tra c. ed esistenza, avremo due tipi di situazioni critiche: a) c.​​ essenziali,​​ perché legate, direttamente o indirettamente, all’evolversi naturale della vita. Tali c., a loro volta, possono esser ancora di due tipi:​​ evolutive,​​ quelle connesse intrinsecamente alle stagioni classiche dell’esistenza umana (infanzia, adolescenza ecc., oggetto della psicologia evolutiva), o a particolari settori di sviluppo (e avremo allora le varie teorie dello sviluppo intellettuale di​​ ​​ Piaget, affettivo-sessuale di​​ ​​ Erikson, morale di​​ ​​ Kohlberg...). Tali c. sono prevedibili o, in ogni caso, è possibile preparare l’individuo ad affrontarle, espletando i corrispondenti «compiti evolutivi». Altro tipo di c. essenziale è la c.​​ vocazionale,​​ legata di per sé a un preciso passaggio evolutivo, quello che dalla​​ ​​ preadolescenza porta all’adolescenza e poi alla giovinezza, lungo il quale il soggetto decide della sua identità ideale e, all’interno d’essa, del suo futuro. Di fatto tale c. dovrebbe accompagnare in qualche modo tutta l’esistenza. b) Il secondo tipo di situazione esistenziale critica è rappresentato dalle c.​​ accidentali,​​ legate a eventi traumatici imprevedibili e indipendenti dalla persona, come lutti, malattie, cambi repentini, incidenti vari e quant’altro venga a turbare in modo emotivamente rilevante e spesso improvviso un certo assetto intrapsichico. La c. accidentale può esser determinata anche da eventi non del tutto imprevedibili né indipendenti dal soggetto, come possono essere situazioni d’infedeltà e incoerenza personali rispetto al proprio piano ideale di vita. Anche la c. accidentale può divenire fattore di sviluppo, purché il soggetto sia aiutato a integrare il limite esistenziale e personale. Prendendo in considerazione il grado di libertà interiore con cui si affronta la c. avremo queste due fondamentali distinzioni: a)​​ c. vera e propria d’identità:​​ è quella che è legata al concetto d’identità, concetto che è per natura sua dinamico al punto da comprendere l’idea stessa di c. Il senso dell’io, infatti, a partire da un nucleo di riferimento sostanzialmente positivo e stabile, deve continuamente riorganizzarsi nella definizione sempre più accurata dei suoi elementi costitutivi (io attuale e io ideale) e del rapporto interno a essi (di consistenza o inconsistenza), lungo i diversi stadi di sviluppo. Tale c. d’identità è normale e salutare per la crescita, poiché indica un io forte e pure duttile, disponibile a cogliere, di volta in volta, la non corrispondenza tra identità personale, esigenze e provocazioni della realtà esterna, e libero di lasciarsi sfidare dalle mutevoli situazioni della vita; b)​​ diffusione-dispersione d’identità​​ (Identity diffusion):​​ è di natura opposta alla precedente. È una situazione di contrasto fra «stati dell’Io vicendevolmente dissociati» (Kernberg, 1980, 222), come un conflitto interno che la persona non riesce a gestire ed armonizzare e che ne assorbe tutte le energie, impedendole di comunicare con la realtà esterna e di coglierne gli stimoli critici come opportunità educative. Tale chiusura segnala debolezza d’identità e preclude ogni possibilità di formazione permanente. In una prospettiva credente tale distinzione tra c. dell’io e diffusione d’identità prelude a un’altra e corrispondente distinzione, quella tra​​ c. psicologica​​ e​​ c. spirituale: la prima è un conflitto intrapsichico e senza sbocco, d’una parte dell’io contro un’altra parte; la seconda indica la lotta con Dio e i suoi desideri, un confronto con la sua parola e la sua volontà che è sempre oltre il progetto solo umano. È lotta biblica (cfr. Es 32,23-33) e sana, perché espone l’uomo alla massima provocazione e all’autentica realizzazione di sé.

3.​​ C. e opportunità educativa.​​ È ormai un dato acquisito dalle scienze pedagogiche la fondamentale ambiguità del concetto di c. che, infatti, nella lingua cinese, viene rappresentato dalla combinazione di due ideogrammi che indicano pericolo e opportunità. La «pedagogia della c.» è oggi sempre più orientata a studiare come sfruttare e non solo come evitare la c., e a capire come rendere la c. fattore di sviluppo e non di stasi o regressione, momento evolutivo e non involutivo, sottolineando le seguenti caratteristiche della c. «buona» o feconda (in opposizione a quella regressiva-sterile). Essa dev’essere: a)​​ Preparata,​​ almeno per quanto è possibile preparare i passaggi evolutivi dell’esistenza. Basti pensare a certi passaggi strategici, come quello tra preadolescenza e adolescenza, o tra vita attiva e ritiro dall’azione; una c. preparata è spesso una c. prevenuta. b) A volte la c. va addirittura​​ provocata.​​ È l’arte educativa finissima del sapere sfruttare certe «situazioni pedagogiche», come i momenti apparentemente negativi di frustrazione, assenza, silenzio, attesa, desiderio inappagato, domanda, lotta, nei quali emerge, in realtà, una dimensione ulteriore e inesplorata dell’uomo, o la verità più profonda del mistero umano. Sapere sfruttare significa la fatica di aiutare a scrutare questa verità, di cogliere il senso più autentico dell’attesa, «scavando domanda e desiderio» (Godin, 1983, 181ss.) per capire cosa il singolo stia cercando anche se non lo sa. La c. vocazionale, ad es., può esser intelligentemente provocata. c) Per esser fattore di sviluppo la c. deve però esser​​ proporzionata,​​ su misura del reale indice di maturità del soggetto, che non potrebbe «intendere» una provocazione eccessiva, né sarebbe adeguatamente sollecitato da proposte o ambienti educativi inferiori al suo livello di maturazione e dunque non abbastanza stimolanti. Secondo Kohlberg, l’autentica situazione critica educativa è quella che propone un compito e una sfida a un livello immediatamente superiore a quello raggiunto dal soggetto (Duska-Whelan, 1975, 65-66). d) Infine, condizione importante è che la c. sia​​ accompagnata​​ da un «fratello maggiore», che aiuti a individuarne la radice profonda, per verificare poi il tipo di risposta. Tale presenza amica, che nella tradizione ascetica cristiana è la guida spirituale, dovrà saper dosare accoglienza e provocazione, pazienza e urgenza, capacità di comprendere e confrontare, e quanto insomma consenta al giovane di vivere intensamente la sua c., e di non evitarla per paura o ignoranza.

Bibliografia

Duska R. - M. Whelan,​​ Lo sviluppo morale nell’età evolutiva,​​ Una guida a Piaget e Kohlberg,​​ Torino, Marietti, 1975; Godin A.,​​ Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà,​​ Brescia, Morcelliana, 1983; Guardini R.,​​ Le età della vita. Loro significato educativo e morale,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1992; Del Core P. (Ed.),​​ Difficoltà e c. nella vita consacrata,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1996; Tripani G., «Perché non posso seguirti ora?» Momenti di prova e formazione permanente,​​ Milano, Paoline, 2004; Grun A.,​​ 40 anni: età di c. o tempo di grazia?,​​ Padova, Messaggero, 2006; Parolari C.,​​ Vivere le prove con sincerità di cuore,​​ in «Tre Dimensioni» 2 (2006) 207-211.

A. Cencini




CRISOSTOMO Giovanni

 

CRISOSTOMO Giovanni

n. ad Antiochia di Siria nel 345 / 355 - m. a Comana nel 407, padre della Chiesa, santo.

1. Frequenta gli studi filosofici e letterari. Nel 372, ritiratosi tra i monti attorno ad Antiochia, rientra nel 378 ad Antiochia, vi è ordinato diacono (381) e poi presbitero (386). Volle da sempre essere solo «uomo ecclesiastico» e non monaco. Esercita il ministero ad Antiochia per dodici anni, fino alla sua elezione a vescovo e patriarca di Costantinopoli. Contestato oltretutto per le sue riforme, viene esiliato due volte. Muore di stenti a Comana nel Ponto. Possediamo di lui molte​​ Omelie​​ a commento (specie morale) della Scrittura,​​ Lettere​​ e diverse​​ Operette,​​ tra cui due trattati pedagogici:​​ Contro i detrattori della vita monastica​​ e​​ Sulla vanagloria e sull’educazione dei figli.

2. Il pensiero di C. subisce un’evoluzione dovuta alla progressiva esperienza pastorale. Nel trattato​​ Contro i detrattori della vita monastica,​​ egli sostiene la tesi estremista d’inviare i figli nei monasteri fino alla loro maturità spirituale. Ma più tardi (396-397), il trattato​​ Sulla vanagloria e sull’educazione dei figli​​ rappresenta il superamento del precedente: l’educazione morale-religiosa del fanciullo è da lui affidata ai genitori in famiglia, e l’educazione alle pubbliche scuole. La prima parte del trattato (1-15) presenta l’esclusiva preoccupazione dei padri per la futura professione civile dei figli, finalizzata alla gloria umana (Sulla vanagloria);​​ la seconda parte (16-90) pone in termini positivi il problema di una riuscita formazione cristiana dei figli (19-22), passando poi ad esporre i criteri e i modi di soluzione del problema (23-90) (Sull’educazione dei figli).​​ Emerge, per la prima volta in apposita operetta patristica, la necessità dell’educazione morale dei fanciulli in famiglia, il cui animo, molle come cera (20), deve essere educato fin dalla prima età (19). Le stesse​​ Omelie​​ offrono materiale pedagogico. Le fasi di sviluppo psicofisico-spirituale del giovane vengono individuate nell’infanzia-fanciullezza; adolescenza-giovinezza e fidanzamento-matrimonio. Particolarmente significativa è l’incidenza del vissuto ecclesiale sui giovani, in un tempo di mancanza di forme di associazionismo giovanile e di dominio dell’adultismo.

Bibliografia

Pasquato O.,​​ Pastorale familiare. La testimonianza di G.C.,​​ in «Salesianum» 51 (1989) 3-46; Xodo C., «C. G.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia Pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3369-3373; Pasquato O.,​​ «De inani gloria et de educandis liberis», di G.C., in «OCP» 58 (1992) 253-264; Id., «S.G.C.» (345 / 355-407), in M. Midali - R. Tonelli (Edd.),​​ Dizionario di pastorale giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci,​​ 21992, 1125-1131 (ora in CDr);​​ Id.,​​ Katechese (Katechismus),​​ in «RAC», Bd. XX (2003) 447-449; Id.,​​ I laici in G.C. Tra Chiesa,​​ famiglia e città, Roma, LAS,​​ 32006.

O. Pasquato




CRISTIANESIMO

 

CRISTIANESIMO

Il C., fin dalle sue origini, si è sempre occupato di educazione, sia pure con modalità molto diverse.

1. Le chiese cristiane, lungo la loro storia, hanno sempre avuto a che fare con problemi pedagogici e scolastici, anche se questi non furono predominanti. L’influsso del pensiero cristiano sulla prassi educativa, sulle istituzioni e dottrine pedagogiche è innegabile, ma non va neppure sottovalutato l’influsso che la formazione culturale e la scuola ebbero sulla vita delle comunità cristiane. Queste constatazioni sono interpretate e valutate in modi assai differenti – e talora opposti – dalle varie confessioni cristiane. Anche dopo il Conc. Vaticano II, non tutte le divergenze sono state superate; tuttavia si sta sempre più rafforzando, tra le differenti denominazioni cristiane, un fruttuoso dialogo ecumenico (​​ Ecumenismo) in questo settore.

2. Lo studio dei rapporti tra C. e educazione dovrebbe essere sia di ordine teoretico che storico, però è talmente vasto da non poter essere compreso sotto un’unica voce. Si è costretti pertanto a suddividerne la trattazione e a collocarla sotto differenti voci. Qui ci limitiamo a segnalarne le principali. Per le trattazioni di ordine​​ storico,​​ cioè riguardanti i rapporti che nei due millenni di vita del C. le chiese e le comunità cristiane hanno instaurato con le istituzioni educative e scolastiche presenti nelle varie culture, si possono vedere le seguenti voci: Agazzi, Agostino, Aporti, Barnabiti, Basilio, Benedetto, Borromeo, Bosco, Calasanz, Casotti, Clemente Alessandrino, Comenio, Congregazioni insegnanti, Da Silva, Deontologia, Direzione spirituale, Dottrina sociale della Chiesa, Dupanloup, Ebraismo, Erasmo, Förster, Francke, Figlie di Maria Ausiliatrice, Fratelli delle Scuole cristiane, Gesuiti, Giansenismo, Giussani, Guanella, Guardini, Isidoro di Siviglia, La Salle, Lutero, Manjón, Maritain, Medioevo, Monachesimo, Movimenti ecclesiali, Nebreda, Pietismo, Protestantesimo, Salesiani, Scolopi, Tommaso d’Aquino,​​ Willmann.

3. Lo studio​​ teoretico​​ dei rapporti tra C. e educazione è di natura essenzialmente teologica ed è assai complesso. Comprende anzitutto un primo gruppo di problemi riguardanti il​​ perché​​ la Chiesa – la cui missione di ordine essenzialmente spirituale sarebbe quella di essere «sacramento» del Regno di Dio nel mondo –​​ debba​​ occuparsi anche di educazione e di scuola, che sono invece attività e istituzioni temporali. Questo primo gruppo di interrogativi fa parte della più ampia problematica concernente i fondamenti teologici dell’azione della Chiesa nel temporale. Un secondo gruppo riguarda invece il​​ come​​ la Chiesa possa occuparsi di educazione e di scuola (e, in generale, delle realtà e finalità temporali), senza venir meno alla sua missione spirituale di servizio del regno di Dio. Anche in questo caso la trattazione di questa problematica (che verrà fatta in un clima di dialogo ecumenico, pur privilegiando la prospettiva teologica della Chiesa Cattolica) viene suddivisa in una pluralità di voci, che segnaliamo: Bibbia, Catechesi, Catechismo, Catecumenato, Chiesa, Educazione cristiana, morale, religiosa, spirituale, Esperienza religiosa, Formazione vocazionale, Gruppi di ascolto, Insegnamento della religione cattolica, Pastorale, Pedagogia cristiana, Preghiera, Relativismo morale, Sistema preventivo, Spiritualità, Teologia dell’educazione, Virtù.

Bibliografia

Corallo G., «Il C. e l’educazione», in L. Volpicelli (Ed.),​​ Pedagogia,​​ vol. 8:​​ Storia della pedagogia,​​ Milano, Vallardi, 1972, 171-221; Quacquarelli A.,​​ Scuola e cultura dei primi secoli cristiani,​​ Brescia, La Scuola, 1974; Braido P. (Ed.),​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia,​​ 2 voll., Roma, LAS, 1981; Sagramola O.,​​ Alle radici della pedagogia cristiana: educazione,​​ cultura e scuola nel C. dei primi secoli, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2003.

G. Groppo




CRITICA

 

CRITICA

È un termine filosofico, relativo alla natura e al senso razionale della conoscenza, che ha diverse applicazioni in sede di pedagogia e di educazione.

1. Il termine (dal gr.​​ kritiké téchne,​​ arte di giudicare) rimanda alla tecnica di analisi testuale e valutazione delle fonti, al giudizio di opere letterarie e artistiche, e da​​ ​​ Kant in poi, sta alla base del criticismo filosofico, che si caratterizza per l’esame radicale a cui viene razionalmente sottomessa la conoscenza e la ragione stessa nei suoi diversi modi di porsi. È noto che​​ ​​ Lombardo Radice prospettò una c. didattica, intesa come filosofia vissuta che discute e passa al vaglio l’opera didattica, cioè l’istituzione, i metodi, gli atteggiamenti e i comportamenti scolastici concreti; la produzione didattica e pedagogica; gli esperimenti di innovazione didattica e scolastica. In tal modo credette di poter superare il tecnicismo e la pedanteria erudita; di stimolare la formazione degli insegnanti e l’opinione pubblica; di far penetrare nella scuola e nelle famiglie idee pedagogiche nuove e atteggiamenti più rispettosi della​​ ​​ creatività del fanciullo. Negli anni settanta, nel generale clima di radicale contestazione della scuola e della pedagogia, soprattutto negli ambienti tedeschi, si parlò di scienza c. dell’educazione, così come di didattica c. per una educazione e una comunicazione non-autoritaria nella scuola. Oggetto suo proprio sarebbe dovuto essere la denuncia dei condizionamenti ideologici e strutturali, che impediscono una comunicazione dialogica, un apprendimento riflessivo-critico, la ricerca dell’autonomia soggettiva e l’emancipazione individuale e collettiva. Negli anni novanta, a fronte della complessificazione della vita e della crisi della modernità occidentale, si è ripreso a parlare in Italia di pedagogia c. al fine di superare impostazioni scientistiche, riduttive, schematiche, unilaterali; di ricercare itinerari di razionalità educativa; di valorizzare la particolarità, la storicità, la soggettività, la varietà delle situazioni, la ricchezza delle differenze individuali, esistenziali, culturali; di saldare dimensioni epistemologiche, etiche, valoriali, politiche ed operative.

2. In tal senso la c. pedagogica può essere vista come un compito fondamentale della teoria e della​​ ​​ filosofia dell’educazione che indaga e discute pubblicamente le idee e le pratiche educative per saggiarne la validità, l’attendibilità, l’adeguatezza e la significatività sia rispetto ai bisogni educativi e alla domanda sociale di formazione attuale e futura sia rispetto alle esigenze della razionalità e della scientificità contemporanea. A sua volta, in sede di educazione la criticità è tradizionalmente indicata come una caratteristica essenziale dell’educazione moderna e specialmente dell’educazione scolastica, in un più ampio quadro di educazione alla ragione, di​​ ​​ educazione scientifica e tecnologica, di educazione ai​​ ​​ valori della tradizione, alle novità e​​ ​​ mode del tempo. In particolare l’educazione al​​ ​​ pensiero critico si raccomanda oggi a fronte del vasto pluralismo, della multicultura e della complessità vitale che caratterizzano l’esistenza contemporanea.

Bibliografia

Lombardo Radice G.,​​ Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale,​​ Palermo, Sandron, 1936; Bertoldi F.,​​ C. della certezza pedagogica, Roma, Armando, 1981; Cambi F. - G. Cives - R. Fornaca,​​ Complessità,​​ pedagogia c.,​​ educazione democratica,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1991; Granese A.,​​ Il labirinto e la porta stretta. Saggio di pedagogia c., Ibid., 1993; Ragnedda M.,​​ Eclisse o tramonto del pensiero critico? Il ruolo dei mass media nella società post-moderna, Roma, Aracne, 2006; Sartori G.,​​ Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma / Bari, Laterza, 2007.

C. Nanni




CULTURA

 

CULTURA

L’etimologia del vocabolo c. ci rinvia al lat.​​ colere​​ (curare, onorare, esercitare), da cui​​ cultus,​​ come in​​ cultus deorum​​ e​​ cultus agri​​ (locuzione, quest’ultima, divenuta in seguito​​ c. agri).​​ Di qui si è sviluppata l’espressione​​ c. mentis​​ del tardo Medioevo (in realtà già Cicerone​​ ​​ in​​ Tusculanae Disputationes​​ 2,5,13​​ ​​ scriveva:​​ C. animi philosophia est)​​ e del primo Rinascimento, che è all’origine del concetto classico tradizionale assunto dal termine c. quando venne introdotta nelle lingue moderne (Kluckhohn - Kroeber, 1982). Attualmente il termine c., pur proponendosi in ogni sua accezione di specificare il regno delle attività umane differenziato e rapportato (talvolta contrapposto) al regno della natura, viene adoperato per indicare fondamentalmente due realtà distinte, di cui però la prima è inclusa nella seconda: a) il processo di educazione o formazione della persona umana: è il senso tradizionale,​​ classico-umanistico;​​ b) «quel complesso insieme​​ [complex whole],​​ quella totalità che comprende la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società»: è il senso moderno,​​ sociologico-antropologico, nella prima celebre definizione lanciata nel 1871 da C. B. Tylor, punto di riferimento per tutte le successive rielaborazioni (Kluckhohn-Kroeber, 1982, 99).

1.​​ La c. come visione globale dell’esistenza umana.​​ Per un discorso critico sulla c.​​ ​​ che sempre prenderemo nel senso antropologico-moderno​​ ​​ è necessario superarne la semplice descrizione fenomenologica, per individuarne l’essenzialità e l’importanza, quali premesse e fondamenti per una proposta educativa. Ripercorrendo il processo dell’intellezione (umana), mediante il quale l’uomo comprende se stesso come «esistente, con gli altri, nel mondo», si configura sempre più chiaramente il​​ concetto filosofico​​ di c. in quanto tale, che potremmo così definire: l’insieme dei modi di vita, inscindibilmente espressi sia negli orientamenti speculativi (letteratura, filosofia, arte, religione, musica, ecc.) sia nei comportamenti pratici (tecnica, economia, norme sociali, ecc.), che sono creati, appresi e trasmessi da una generazione all’altra fra i membri di una particolare società; modi di vita che sono indispensabili ai singoli e alla comunità, in un ineluttabile reciproco condizionamento, e che, per la loro finalità ai valori universali di perfezionamento della persona umana, esigono di aprirsi ad un arricchente confronto con le altre c. (Montani, 1991, 37-48). Ne consegue che «la c. non è una specie di ornamento estrinseco che verrebbe ad aggiungersi all’esistenza dell’uomo per dargli qualche attrattiva supplementare, per principio non indispensabile. È la condizione stessa dell’esistenza veramente umana» (Ladrière, 1978, 114). La c. è parte costitutiva della natura umana, perché solo la c. «fa di noi degli esseri specificamente umani, razionali e critici ed eticamente impegnati. Grazie alla c. discerniamo i valori ed effettuiamo delle scelte. L’uomo si esprime per mezzo della c., prende consapevolezza di se stesso, si riconosce come un progetto incompiuto, rimette in questione le sue realizzazioni, ricerca instancabilmente nuovi significati e crea opere che lo trascendono» (Unesco, 1982).

2.​​ Gli elementi fondamentali della c.​​ Poiché la c. è tutta opera dell’uomo, se ne potranno specificare gli elementi costitutivi fondamentali partendo dalla classica distinzione dell’azione umana. Ovviamente questi diversi fattori culturali saranno strettamente uniti tra di loro in quanto costituiscono una struttura, intesa nel senso di un tutto organico formato di elementi solidali, tali che ognuno dipende dagli altri e non può quindi essere pienamente comprensibile se non attraverso la reciproca relazione dell’uno con tutti gli altri.

2.1.​​ La lingua.​​ Il «conoscere» è l’azione mediante cui l’uomo tende a rendersi consapevole della realtà (soggettiva e oggettiva) in un contesto di rapporti dialettici sociali. La capacità simbolizzatrice ha avuto una funzione primaria nella caratterizzazione dell’uomo, nella trasformazione dell’essere umano in persona e dell’evoluzione in storia umana: «Senza simbolo non ci sarebbe c., e l’uomo sarebbe un animale, non un essere umano» (Chiavacci, 1977, 667). La forma più importante dell’espressione simbolica è la lingua (accanto all’arte). Senza una lingua (​​ linguaggio) non avremmo una c. La lingua pertanto è formativa non meno che formata: prima di essere strumento del parlare essa è legge dello stesso pensare. Perciò come una lingua povera e rozza (di un gruppo, di una subcultura) rende difficoltosa la riflessione che apre alla consapevolezza dei valori, così una mancata padronanza della lingua rende difficoltosa la​​ ​​ comunicazione e la difesa della stessa verità, nonché dei doveri e dei diritti di ogni membro di una comunità.

2.2.​​ La tecnica.​​ Il «fare» (poiéo)​​ è l’azione umana che ha per fine principale quello di produrre, di dominare e di organizzare una materia esteriore (​​ tecnologia). È il dominio della tecnica, qui intesa nell’accezione generica di attività rivolta a costruire e manipolare processi fisici e sociali per porli al servizio delle necessità esterne della vita. Oltre alla sua palese efficacia applicativa e produttiva, essa rivela un carattere sintomatico del modello di valori dominanti in una società. In più, non va dimenticato che la dispotica pretesa della «grande scienza» e la concomitante superefficienza tecnico-produttiva dei nostri tempi sorreggono una colossale struttura di sapere e di potere, in stretti rapporti di dipendenza dallo Stato e dai suoi interessi politico-militari. La c. autentica non è semplicemente il progresso tecnico, ma è lo scopo e l’autenticazione di tale progresso. Infatti, antitetico al progresso tecnico-scientifico​​ ​​ pienamente auspicabile allorché diventa a sua volta coefficiente del perfezionamento della persona umana​​ ​​ è possibile, teoricamente e storicamente, individuare anche un progresso tecnico-scientifico che si accompagna ad un regresso morale-sociale, in quanto può essere sviluppato da un «uomo-non-umano» e creare quindi una «c.-non-culturale».

2.3.​​ Le norme sociali.​​ L’«agire» (prásso)​​ è l’azione umana che mira a formare colui che agisce, a modellarne il comportamento in un contesto di forme del vivere comune e socialmente acquisite. Le norme sociali, che impegnano ogni singolo membro di una​​ ​​ società (e la società stessa) al rispetto e all’osservanza, diventano, in definitiva, l’epifania più appariscente e più genuina della​​ ​​ Weltanschauung​​ di un popolo. Con una classificazione sociologica ormai divenuta comune distingueremo le norme sociali in: a)​​ folkways,​​ usanze e consuetudini tramandate senza speciale riflessione o procedura, seguite più o meno inconsciamente, e che, di per sé, non cadono direttamente sotto l’ordine morale (per es.: modi di vestire, di mangiare, di divertirsi, ecc.); b)​​ mores,​​ modi di agire che molto più precisamente sono considerati come giusti, appropriati e quasi essenziali al bene sociale, e che quindi, se violati, vengono puniti molto più severamente (per es.: fedeltà coniugale, condotta sessuale, diritto di proprietà, rispetto della vita altrui, ecc.); c)​​ leggi,​​ che nelle società più complesse diventano necessarie per assicurare l’ordine sociale, non bastando più la sola opinione pubblica e la sola coscienza degli individui, generalmente sufficienti nelle società primitive (Bartoli, 1987). Naturalmente il riferimento ai valori (personali e comunitari) sarà molto diverso nelle singole norme delle singole culture: avremo una gradualità di rapporto che va dall’indifferenza (etica) ad un pieno coinvolgimento (etico). Tra questi vincoli culturali, l’istituzione politica e l’istituzione educativa sono ritenuti i più determinanti ed essenziali nella trasmissione e nella compattezza del tessuto di una c.

2.4.​​ I valori.​​ Il «contemplare» (theôreô)​​ è l’attività umana che indaga sui​​ ​​ valori​​ per arricchire il regno dell’umanità e tendere all’autenticità della vita. Sono i valori che orientano le fondamentali scelte di comportamento (personali e comunitarie) e che rivestono una straordinaria importanza per il gruppo sociale, tanto da venire assunti come criteri di giudizio, norme di condotta e modelli dell’educazione. Bisogna sottolineare che nelle c. contemporanee, più sofisticate delle precedenti, il fenomeno della comunicazione ha raggiunto modalità, potere, intensità tali da influire sulla consistenza stessa e sulla «esemplarità educativa» dei valori (o dei non-valori) veicolati. Di qui la necessità, per i contemporanei, di potenziare le capacità di analisi, di giudizio, di scelta, affinché il gigantesco «mercato delle notizie» non monopolizzi il dominio delle idee.

2.5.​​ La religione.​​ Un’attenzione privilegiata va accordata al​​ valore religioso,​​ perché motivi di ordine sociologico e teoretico impongono di non eludere la controversa questione se la​​ ​​ religione sia o no il fondamento ultimo, il costitutivo supremo, la base più profonda di una c. In linea teorica ci sembra non esservi dubbio che nella religione, in cui l’uomo si mette a disposizione di Dio, si celi una delle scaturigini più essenziali della c. Passando però al piano esistenziale del rapporto religione-c., siamo convinti che la religione tanto più sarà scaturigine di valori culturali quanto più verrà percepita come un «valore» (e non semplicemente come una fredda «coerenza a delle verità»), quanto più andrà continuamente depurandosi da strumentalizzazioni arbitrarie (la​​ religio instrumentum regni)​​ e quanto più si presenterà come una proposta «ragionevole» (il che non è sinonimo di «razionale»), pienamente rispettosa della dignità umana, rigettando fondamentalismi, guerre sante, teocrazie dispotiche, roghi, fanatismi, ecc. I cristiani, in particolare, per non separare la religione dalla c., sono oggi vivamente stimolati sia a purificare la loro fede da negative incrostazioni storiche, sia ad impegnarsi in un vigile «aggiornamento» sintonizzandosi con i «segni dei tempi», che sono luogo della crescita umana e l’«ora» della continuata creazione di un Dio-Padre.

3.​​ L’universalismo culturale.​​ Oggi le sempre più numerose relazioni (politiche, economiche, turistiche, sportive) uniscono talmente tra di loro i vari popoli della terra da non mettere più in dubbio il cammino di tutta l’umanità verso una​​ mondializzazione della c.​​ La costruzione di tale progetto culturale planetario dovrà trovare l’equilibrio fra due esigenze fondamentali: da una parte, l’esigenza di difendere l’ineliminabile singolarità delle c. (con il rischio di chiudere e impoverire lo sviluppo della natura umana); dall’altra parte, l’esigenza di aprirsi ai valori di cui altre c. sono portatrici (con il rischio dello scetticismo o del relativismo della proposta di sviluppo della natura umana). Sarebbe, allora, più esatto parlare non di​​ c. planetaria​​ ma di​​ dimensione planetaria​​ delle c., che è lo sforzo di ogni popolo di rispettare e capire le diversità dell’altro.​​ Mondialità culturale​​ non significherà neppure​​ monocultura,​​ né tanto meno​​ occidentalizzazione forzata​​ delle altre c., perché la comunione tra le diverse c. non si dovrà necessariamente configurare​​ ​​ come prevalentemente è avvenuto nel passato​​ ​​ secondo un rapporto di dipendenza o come estensione geografica di un solo modello culturale, ma piuttosto si costruirà in un rapporto di mutua priorità, in cui ognuno conserva la propria originalità in un libero dare e avere. Forse solo nei nostri tempi ci si è convinti della necessità per ogni c. di «mettere in questione​​ ​​ dal suo interno​​ ​​ se stessa, rinunciando alla propria assolutezza e definitività. [...] È finito il tempo in cui gli “altri” erano o un nulla insignificante (i barbari) o il male, i cattivi da combattere e da salvare convertendoli alla propria c.» (Chiavacci, 1977, 671). Pare dunque che la nostra epoca debba cimentarsi e qualificarsi nella capacità di dialogo. Ben lungi dall’insinuare l’idea che si debba avallare quel relativismo culturale per cui una c. assiologicamente considerata ne varrebbe un’altra, riteniamo, al contrario, che il vero problema stia nel trovare il «criterio di giudizio» per valutare una c., che sarà analogo a quello adoperato per giudicare l’uomo: sarà la verità sull’uomo, nella totalità delle sue dimensioni (corporale e spirituale, individuale e sociale) e quale soggetto di libertà e quindi portatore di responsabilità. Poiché la c. non è un assoluto (valore assoluto, su questa terra, è solo la persona umana), ma è l’indispensabile condizionamento e mediazione per un’armoniosa costruzione dell’universo personale e comunitario, essa si qualificherà e dovrà essere valutata, concretamente, per quanto saprà disinteressatamente offrire, effettivamente favorire e imparzialmente difendere, per tutti i membri di una società: una sufficiente quantità di beni economici, indispensabili per​​ esistere​​ e​​ vivere​​ «da uomini»; l’emancipazione da ogni forma di schiavitù, in un quadro di solidarietà e di libertà, senza sacrificare mai l’una o l’altra per nessun pretesto; delle istituzioni socio-politiche democratiche e partecipative, con conseguente rifiuto di ogni forma di totalitarismo e di paternalismo; il rispetto del principio di sussidiarietà, secondo cui i poteri pubblici non devono soffocare i corpi sociali intermedi, nei quali i cittadini possono (e debbono) adempiere i loro doveri ed esercitare i loro diritti con maggiore responsabilità e sicurezza; un abbordabile accesso ai «luoghi» e ai «tempi» che consentono alle persone di scoprire e maturare i valori; un’energica vigilanza nel rispettare l’integrità e il ritmo della natura (questione ecologica); un’indefessa concomitante preoccupazione per la pace.

Bibliografia

Giovanni Paolo II,​​ Sollicitudo rei socialis,​​ nn. 28, 46, 33, 44, 15, 26; Rossi P. (Ed.),​​ Il​​ concetto di c.: I fondamenti teorici della scienza antropologica,​​ Torino, Einaudi,​​ 71970; Ladrière J.,​​ I​​ rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle c.,​​ Torino, SEI, 1978; Gilson É.,​​ La società di massa e la sua c.,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1981; Kluckhohn C. - A. Kroeber,​​ Il​​ concetto di c.,​​ intr. di T. Tentori, Bologna, Il Mulino, 1982; Unesco,​​ Conferenza Mondiale sulle Politiche Culturali,​​ Messico, 1982; Guardini R.,​​ La fine dell’epoca moderna. Il potere,​​ Brescia, Morcelliana, 1984; Rickert H.,​​ Il fondamento delle scienze della c.,​​ intr. di M. Signore, Ravenna, Longo,​​ 21986; Lazzati G.,​​ La c.,​​ Roma, AVE, 1987; Szaszkiewicz J.,​​ Filosofia della c.,​​ Roma, EPUG,​​ 21988; Montani M.,​​ Filosofia della c.: Problemi e prospettive,​​ Roma, LAS, 1991;​​ Carrier H.,​​ Lexique de la culture pour l’analyse culturelle et l’inculturation,​​ Tournai / Louvain la Neuve, Desclée,​​ 1992; Houston R. A.,​​ C. e istruzione nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2000.

M. Montani




CULTURA RADICALE

 

CULTURA RADICALE

Nel corso di quelli che sono stati detti i «difficili anni ’70» sono stati messi in crisi le ideologie, i modelli culturali, i modi tradizionali della ricerca scientifica (e di quella delle scienze umane in particolare); ma si sono pure ricercati nuovi modi di sentire, di fare c. e di fare scienza. In tale contesto può essere collocata quella che è stata denominata globalmente come c.r. (ad indicare un modo globale di sentire che va «alla radice» e che «porta all’estremo» le questioni).

1. Essa si è sostentata soprattutto della psicoanalisi strutturalista post-lacaniana e delle suggestioni di F. Nietzsche; e più genericamente di un certo neo-nichilismo che azzera verità e valori tradizionali e che nega ogni assolutezza. Il concetto tradizionale di soggettività ne esce profondamente scosso. L’uomo è ridotto ad un gioco pirotecnico di pulsioni e di bisogni, che atomizzano l’esistenza individuale e collettiva. Una razionalità immanente alla storia, così come una normatività oggettiva della natura sono considerate assolutamente impensabili. Al limite l’uomo viene paragonato al «rizoma», pianta senza vero fusto e foglie, ricco di riserve interne, dalle diramazioni clandestine e dagli sviluppi sotterranei non prestabiliti. Analogamente la vita collettiva è considerata simile a quella di un formicaio in cui ogni individualità è come dominata da un incessante dinamismo che la supera e che si riproduce oltre ogni mutilazione od eliminazione di questa o quella individualità. Rifiutata ogni fondazione razionale ed ogni collegamento rigido alla tradizione od ogni tentativo di riduzione ad unità organiche, l’esistenza è vista come incessante e libera produzione dei bisogni e dei desideri che liberano «dis-organicamente» la molteplicità spontanea di quelli che son detti «bisogni radicali». Il loro soddisfacimento e la loro libera espansione diventano il principio e la regola suprema d’azione.

2. Tali modi di pensare hanno fatto moda culturale. Per tanti versi hanno interpretato la diffusa aspirazione al benessere e il fascino discreto del consumismo attuale, come pure il desiderio di​​ ​​ emancipazione da ogni forma di soggezione sociale e dall’autoritarismo tradizionale. In tal senso la c.r. è contro l’educazione, vista come apparato e strumento di soggiogamento interiore e di omologazione culturale. Più largamente, oggi essa si manifesta come lotta anti-global contro l’imprenditoria e il mercato mondializzato a difesa delle libertà individuali e di un ecosistema sano; e come laicità progressista e difesa ad oltranza dei diritti umani soggettivi contro ogni forma di fondamentalismo o di ingerenza clerical-conservativa nella vita civile e politica.

Bibliografia

Marcuse H.,​​ Saggio sulla liberazione,​​ Torino, Einaudi, 1969; Heller A.,​​ La filosofia radicale,​​ Milano, Il Saggiatore, 1976; Deleuze G. - F. Guattari,​​ Rizoma,​​ Parma, Pratiche, 1977; Acquaviva S.,​​ In principio era il corpo,​​ Roma, Borla, 1977; Berni S.,​​ Nietzsche e Foucault. Corporeità e potere in una critica radicale della modernità, Milano, Giuffrè, 2005.

C. Nanni




CUOCO Vincenzo

 

CUOCO Vincenzo

n. a Civitacampomarano (CB) nel 1770 - m. a Napoli nel 1823, uomo politico, storico, filosofo, pedagogista italiano.

Inizialmente avviato all’avvocatura, partecipa alla rivoluzione partenopea del ’99. Costretto all’esilio, trascorre un periodo a Milano ove scrive il​​ Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799​​ e il​​ Platone in Italia.​​ Fonda il «Giornale Italiano». Torna a Napoli (1805) e ricopre importanti cariche pubbliche. Membro della Commissione appositamente nominata dal re, redige il​​ Rapporto al re Gioacchino Murat e progetto di decreto per l’organizzazione della P.I.​​ (1809). Punto fondamentale del suo pensiero è una chiara derivazione dal​​ ​​ Vico con la conseguente valorizzazione della storia e, in questa, dell’insopprimibile opera dell’uomo (onde la Costituzione politica deve trovare la sua linfa vivificatrice negli usi e nella tradizione del popolo). Valore insostituibile ha l’educazione «senza la quale le migliori leggi restano inutili: esse potranno essere scritte, ma la sola educazione può imprimerle nel cuore dei cittadini». L’educazione deve essere​​ universale​​ (cioè comprendere tutte le scienze e tutte le arti),​​ pubblica​​ (trovare cioè il pieno appoggio nei pubblici poteri) e​​ uniforme​​ (in modo tale, però, che non ne venga «distrutta l’energia dell’individuo»). Un’educazione che «educhi gli uomini alla morale, insegnandola dalla prima età, insegnandola in tutte le età, mostrandola in tutti i modi», sì da educare «la nazione intera, rendendola egualmente potente di senno, di cuore, di mano». Il C., relatore della citata Commissione, prevede una struttura scolastica articolata in direzione generale, educazione primaria, media, sublime (università) concludendo: «in tutto il nostro progetto abbiamo proposto sempre lo scopo di perfezionare non solo le scienze, ma gli uomini».

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Cortese N. - F. Nicolini,​​ Scritti vari di V.C.,​​ Parte prima (1801-1806), Parte seconda (1806-1815), Bari, Laterza, 1924. b)​​ Studi:​​ Gentile G.,​​ V.C. pedagogista,​​ in «Rivista Pedagogica» (1908) 2, 161-180; 3, 257-284; Flores d’Arcais G.,​​ La pedagogia di V.C.,​​ Padova, CEDAM, 1948; Nicolini G.,​​ V.C. pedagogista politico, Padova / Rovigo, 1951; L aporta R.,​​ La libertà nel pensiero di V. C., Firenze, La Nuova Italia, 1957; Borghi L. (Ed.),​​ Il Risorgimento, Firenze, Giuntine-Sansoni, 1958; Gambaro A., «La pedagogia italiana nell’età del Risorgimento», in​​ Nuove questioni di storia del Risorgimento, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 535-792; Scirocco A.,​​ L’Italia del Risorgimento​​ (1800-1860), Bologna, Il Mulino, 1990; Scuderi G.,​​ Storicismo e pedagogia. Vico,​​ C.,​​ Croce,​​ Gramsci, Roma, Armando, 1995; Flores d’Arcais G., «C.», in​​ Enciclopedia Filosofica, vol. III, Milano, Bompiani, 2006, 2488-2490.

F. De Vivo




CURE MATERNE

 

CURE MATERNE

La c. di una madre per il figlio si identifica con l’interessamento affettuoso e sollecito che la spinge a provvedere ai suoi bisogni sia di tipo fisico che emotivo.

1. Questa c. deve incominciare già in gravidanza in quanto tutto ciò che la madre vive influirà sensibilmente sul figlio. Infatti è stato ipotizzato, sulla base di diverse ricerche effettuate da psicologi e neurobiologi, che il feto, specialmente nelle ultime settimane di gestazione, accoglie ed in certo modo elabora gli stimoli che la madre consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente gli fa giungere.

2. Dopo la nascita sarà più importante ancora il tipo di interazione che si stabilirà tra il bambino e la madre sulla base della modalità di c. adottata da questa. In tale compito la madre è aiutata nei primi tempi dalla «preoccupazione materna primaria» (Winnicott, 1981, 186), un’elevata identificazione con figlio, che l’aiuta a cogliere le sue prime necessità e bisogni. Molta ricerca ha evidenziato l’importanza della capacità materna sia di fornire c. per il sostentamento materiale che di avere scambi affettivi sintonizzati con il vissuto emotivo del figlio (Stern, 1998). C.m. almeno «sufficientemente buone» (Winnicott, 1981, 64) nel rispondere con prontezza ed in modo costante alle richieste del figlio, nel mostrargli con le parole ed il comportamento non verbale una piena accettazione di tutti i suoi vissuti, avranno un influsso positivo sullo sviluppo del bimbo. Tutto ciò, infatti, influisce sul tipo di attaccamento che questi svilupperà, attaccamento che da vari studi risulta essere un potente organizzatore del successivo sviluppo psico-sociale del bambino, con ripercussioni anche sul suo sviluppo cerebrale (Siegel - Hartzell, 2005). Per il bambino è pericolosa non tanto la perdita delle c. materiali della madre, che però all’occorrenza possono venir soddisfatte altrettanto bene anche da altre persone, quanto la privazione o la diminuzione del legame affettivo con la madre stessa. Questo può avvenire per vari motivi legati a problemi personali della madre, che possono essere presenti già da prima della nascita del figlio. Fra i tanti ci può essere il timore per la gravidanza, sia desiderata che non voluta, la delusione circa il sesso del bambino, l’inconscio rifiuto, attraverso il figlio, di qualcosa di sé, o anche difficoltà legate a modelli relazionali negativi sperimentati con i propri genitori e non elaborate. Il disagio materno che a volte giunge fino all’impossibilità psicologica di accudire serenamente il figlio, può favorire in lui difficoltà fisiche, cognitive, esperienziali che potranno evidenziarsi nell’arco della vita e che sarà necessario sanare.

3. È importante che il modo di provvedere ai bisogni del bambino cambi quando questi, crescendo, ha necessità di una guida che non sia iperprotettiva e che lo prepari, attraverso un’accurata frustrazione e una graduale responsabilizzazione, a saper vivere in un mondo che presenta rischi, difficoltà e nel quale esistono norme e valori da seguire. La c.m. deve dunque essere integrata con proibizioni ed eventuali rimproveri attraverso i quali il figlio possa venire a conoscenza di ciò che la società esigerà da lui ed a prevedere, per evitarli, gli eventuali pericoli. Il modo nuovo di manifestargli affetto e apprezzamento, come pure il rispetto verso la sua maggiore capacità cognitiva, permetterà al figlio di sentire che nei momenti di crisi può comunque contare sull’appoggio e l’interessamento della madre e che, sentendosi protetto grazie a questo, potrà raggiungere una valida consapevolezza di sé ed un buon grado di​​ ​​ socializzazione.

Bibliografia

Bowlby J.,​​ C.m. e igiene mentale del fanciullo,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1971; Id.,​​ Attaccamento e perdita,​​ voll. I e II, Torino, Bollati Boringhieri, 1978; Winnicott D. W.,​​ Sviluppo affettivo e ambiente,​​ Roma, Armando,​​ 31981; Stern D. N.,​​ Il mondo interpersonale del bambino,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Id.,​​ Le interazioni madre-bambino nello sviluppo e nella clinica,​​ Milano, Cortina, 1998; Siegel D. J. - M. Hartzell,​​ Errori da non ripetere. Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori,​​ Ibid., 2005.

W. Visconti - C. Messana




CURRICOLO

 

CURRICOLO

L’insieme delle esperienze di apprendimento che una​​ ​​ comunità scolastica progetta, attua e valuta in vista di​​ ​​ obiettivi formativi esplicitamente espressi. Dal lat.​​ currere​​ (correre), tradizionalmente indicava il corso di studi frequentato o da frequentare per raggiungere un certo livello di qualificazione scolastica o accademica. Nell’antichità veniva usato anche per indicare ogni carriera politica, culturale, militare. Ancor oggi un​​ curriculum vitae​​ è l’insieme degli studi compiuti e delle esperienze e competenze professionali raggiunte nel corso della propria vita.

1.​​ La nascita dell’idea attuale di c.​​ L’autore, che ha avuto, e ha tuttora, una grande influenza sullo sviluppo degli studi curricolari è Ralph Tyler. In un volumetto del 1949 dal titolo​​ Principi fondamentali per il c. e l’insegnamento,​​ con buon senso e penetrante lucidità gettava le basi di un’impostazione razionale della programmazione della formazione scolastica. Non si trattava, come lui stesso ha sottolineato, di un manuale per costruire un programma educativo, ma solo di uno schema di come esso dovrebbe configurarsi per poter diventare un vero strumento di formazione. Tale schema partiva dall’enunciazione di quattro domande fondamentali, cui occorreva successivamente rispondere per sviluppare qualsiasi c. o piano educativo. Le domande erano: 1) Quali sono le finalità educative che la scuola dovrebbe cercare di raggiungere? 2) Quali esperienze educative, verosimilmente adatte a raggiungere queste finalità, sono disponibili? 3) Come possono in concreto essere organizzate queste esperienze? 4) In quale modo è possibile verificare che queste finalità sono state raggiunte? Queste quattro domande e le relative risposte costituiscono, secondo Tyler, il «quadro di riferimento razionale secondo il quale esaminare i problemi del c. e dell’educazione» (Tyler, 1949, 2).

2.​​ Primi sviluppi.​​ Un’analoga, anche se più sostanziosa impresa, fu compiuta da una allieva di Tyler, Hilda Taba (1962), che impostò un percorso razionale di sviluppo di un piano educativo secondo una serie di passi successivi: 1) diagnosi dei bisogni; 2) formulazione degli obiettivi; 3) selezione dei contenuti; 4) organizzazione dei contenuti; 5) selezione delle esperienze di apprendimento; 6) organizzazione delle esperienze di apprendimento; 7) determinazione di ciò che si deve valutare, di come e con quali strumenti è possibile farlo. Se l’intervento deve essere personalizzato è inevitabile giungere ad una conoscenza più approfondita di ciascuno degli allievi: questa è una condizione previa per poter ritagliare su misura un piano educativo. Da questa valutazione iniziale emerge la domanda educativa, cioè l’insieme di conoscenze, abilità e atteggiamenti di cui i giovani necessitano per poter procedere più sicuramente e validamente non solo nelle esperienze scolastiche, ma soprattutto in quelle della vita e della professione. Tra il 1969 e il 1983 Schwab in una serie di interventi, ha criticato la tendenza sviluppatasi dopo Tyler, diretta verso un’eccessiva teorizzazione degli studi curricolari. Il concetto base da cui Schwab parte è quello di «arte del pratico», in altre parole arte del deliberare. Schwab si colloca nel quadro di riferimento elaborato da Tyler, ma ne critica due punti. Il primo concerne l’eccessiva enfasi di Tyler nei riguardi della definizione degli obiettivi. Il problema sta nel fatto che questi si presentano spesso ambigui ed equivoci e quindi offrono poca «materia concreta» per prendere decisioni pratiche. Inoltre è facile giungere a falsi consensi. Il secondo riguarda la poca attenzione posta sulla difficoltà del processo deliberativo, difficoltà derivante dalla complessità del compito. Una mancata formazione alla capacità di prendere decisioni, soprattutto in gruppo, rende impossibile ogni elaborazione curricolare effettiva. Nel frattempo un gruppo di allievi e collaboratori di Tyler, poi giunti a livelli professionali elevati, sviluppava le sue idee soprattutto per quanto riguarda la definizione e la formulazione degli​​ ​​ obiettivi educativi e didattici. Tra questi si possono ricordare B. Bloom, R. Mager, L. Briggs.

3.​​ Alcuni sviluppi europei.​​ Il tedesco S. B. Robinsohn (1976), dopo aver soggiornato negli Stati Uniti al fianco di R. Tyler, propose in Germania nel 1967 un modello di lavoro per l’organizzazione dei c. scolastici, che in qualche modo tenesse conto di due campi principali di applicazione: quello prevalentemente orientato alla formazione culturale e personale degli allievi e quello principalmente diretto alla loro preparazione professionale. Il punto di partenza per la definizione degli obiettivi educativi e didattici non era tanto collegato da Robinsohn con le analisi dei bisogni individuali, quanto con la ricerca delle situazioni di vita, che con ogni probabilità i giovani si sarebbero trovati a dover affrontare in un più o meno prossimo futuro. La capacità di dominare tali situazioni di vita, secondo questo Autore, può essere scomposta in alcune competenze, qualificazioni e atteggiamenti, che le fanno da presupposto. Dalla individuazione di queste qualifiche deriva la possibilità di selezionare le parti componenti l’intero percorso educativo che si intende organizzare e, in particolare, gli obiettivi. È evidente lo sforzo di ricollegare i bisogni educativi degli allievi con l’insieme delle situazioni personali, sociali, politiche e professionali, che essi dovrebbero saper affrontare in maniera positiva al termine dell’esperienza scolastica. In Inghilterra sono stati particolarmente significativi i contributi di A. V. Kelly e L. Stenhouse. Kelly (1977) riprende e sviluppa alcune utili distinzioni a proposito dei c., anche se si muove nella tradizione inglese di un grande decentramento decisionale, tradizione ora modificata dalla riforma scolastica del 1988, che ha introdotto un «c. nazionale», cioè un programma di studi deciso centralmente da un Comitato nominato dal Ministero dell’ educazione. Egli infatti distingue tra il c. relativo al processo d’insegnamento di una specifica disciplina, quello di un corso di studi e quello di una scuola vista nel suo complesso. Infatti diverse sono le persone, le competenze, le responsabilità coinvolte ai vari livelli; diversi sono i risultati che ci si aspetta di ottenere, il loro grado di specificità e di operatività. D’altra parte è utile anche insistere sulla differenza tra c. ufficiale, c. effettivamente seguito e c. nascosto, quello che può riferirsi ai​​ ​​ valori che fanno da riferimento all’organizzazione e al sistema di relazioni presente nella scuola oppure alle credenze e prospettive del singolo docente. Spesso il c. nascosto è più influente degli altri sullo sviluppo della persona. Infine può essere fatta la distinzione tra c. formale, quello proprio dell’orario di lezione, e c. informale, quello che potremmo definire delle attività integrative o extracurricolari, tra le quali attività sportive, teatrali, ecc. Nel giungere a una definizione di c., Kelly preferisce muoversi in una prospettiva descrittiva più che prescrittiva e definisce il c. come «l’insieme di tutto l’apprendimento che è programmato e sviluppato dalla scuola, sia che si svolga individualmente sia in gruppo, sia dentro che fuori dalla scuola» (Kelly, 1977, 7). L. Stenhouse (1977) ha sviluppato un quadro che per molti versi si pone come alternativo, rispetto alle forme più rigide di organizzazione curricolare basate su obiettivi esplicitamente e chiaramente espressi. Per Stenhouse un c. è un tentativo di rendere comunicabili i principi essenziali e le configurazioni concrete di una proposta educativa, in modo da renderla disponibile all’analisi critica e passibile di una effettiva traduzione operativa. In altre parole un c. è uno strumento per mezzo del quale una proposta educativa è resa pubblicamente disponibile. Esso include tanto il contenuto che il metodo e, nella più larga accezione, rende conto anche del problema affrontato, del suo sviluppo e del suo ruolo entro il sistema educativo. Il c. è considerato da Stenhouse, più come un processo di risoluzione dei problemi inerenti alla vita della scuola e della classe, che come un lavoro segnato da una tecnologia specifica e da scelte di natura ideologica o psicologica specifiche. È un’attività svolta da coloro che nella scuola vivono e lavorano, seguendo la logica della partecipazione democratica alle decisioni e quella di render pubblico e oggetto di analisi e discussione da parte della più larga comunità quanto deciso.

4.​​ Alcuni sviluppi italiani.​​ In Italia M. Pellerey negli anni settanta ha inquadrato il problema della progettazione, conduzione e valutazione dei c. scolastici nell’ambito di una rinnovata concezione della tecnologia dell’educazione che valorizza per analogia i passaggi propri di ogni tecnologia moderna: progettazione del prodotto e del processo produttivo, gestione della realizzazione del progetto, valutazione continua e finale del processo produttivo e del prodotto. Questa prospettiva va però oggi riconsiderata, tenendo conto della pratica educativa e didattica dei docenti, maggiormente legata alla cosiddetta saggezza pratica implicata nel saper prendere decisioni collettive in situazioni complesse e con forti caratterizzazioni contestuali. C. Scurati ha delineato in questo modo le caratteristiche di una programmazione curricolare: «Affrontare una programmazione vera e propria significa determinare precisi obiettivi formativi, operare delle scelte fra valori nell’universo della tradizione e della cultura esistente, articolare ed organizzare forme molteplici e compenetranti di intervento formativo e di comunicazione didattica. In una parola “gestire” con chiare finalizzazioni e complesse strumentazioni operative l’intero arco delle opportunità di sviluppo e di apprendimento di un gruppo di alunni, secondo cadenze ispirate ai nuclei costitutivi della realtà, della razionalità, della socialità e della pubblicità» (Scurati, 1977, 22-24). Recentemente la tematica del c. è stata ripresa da M. Baldacci (2006), che ha evidenziato i due piani secondo cui dovrebbe essere impostato un c.: uno più immediato riferito ai singoli contenuti delle discipline di insegnamento e uno più a lungo termine che tiene conto dello sviluppo delle competenze e delle disposizioni stabili.

5.​​ Tendenze successive negli Stati Uniti.​​ E. Eisner in una serie di interventi ha ripreso la definizione originaria di c. come includente: «tutte le esperienze che l’allievo ha sotto l’egida della scuola» (Eisner, 1985, 40). La parola «esperienze» si riferisce a quanto prova il singolo. In questo senso si può parlare di c. quando esso è stato sperimentato dagli alunni e non prima e, spesso, un alunno impara molto di più di quanto si svolge in classe o è inteso dall’insegnante: in esso giocano un ruolo importante anche gli aspetti informali. Quindi va sostenuta la distinzione spesso avanzata tra c. come esperienza vissuta e c. come documento scritto. D’altra parte la scuola ha una missione da compiere e dunque deve offrire un programma ai suoi utenti. Di qui un tentativo di definizione: «Il c. di una scuola o di un corso può essere concepito come una serie di eventi programmati che intende avere conseguenze educative per uno o più studenti» (Eisner, 1985, 45). Il concetto di c. è stato anche rivisitato dal punto di vista ideologico. M. Schiro (1978) ha indicato una griglia di analisi delle proposte curricolari che distingue due dimensioni. La prima ha come polarità estreme il privilegiare la fonte della conoscenza e l’uso della conoscenza; la seconda, la realtà soggettiva e quella oggettiva. La composizione delle due dimensioni dà origine a quattro quadranti entro i quali si possono collocare quattro differenti impostazioni che sottolineano rispettivamente l’alunno, le discipline di studio, la professionalità, la trasformazione sociale. Pinar e coll. (1995) e P. Slattery (22006) hanno riletto le proposte curricolari secondo molteplici prospettive, evidenziando non poche delle problematiche nascoste entro i vari testi sia ufficiali nazionali, sia elaborati dalle singole istituzioni scolastiche e formative, evidenziandone le assunzioni ideologiche spesso implicite.

Bibliografia

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M. Pellerey