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BUBER Martin

 

BUBER Martin

n. a Vienna nel 1878 - m. a Gerusalemme nel 1965, pensatore ebreo.

1. Di antica famiglia ebraica originaria di Leopoli, professore di religione ed etica ebraica all’università di Francoforte dal 1923, nello stesso anno pubblica il suo testo filosofico fondamentale «Ich und Du»​​ («Io e Tu»). Dal 1925 al 1954 lavora con F. Rosenzweig alla nuova traduzione tedesca della Bibbia ebraica. Nel 1938 emigra in Palestina. B. è probabilmente il più rappresentativo pensatore ebreo del sec. XX. In lui la filosofia si coniuga con la tradizione ebraica, l’esegesi biblica e la riflessione teologica. La sua concezione dialogica trova il riferimento ultimo nella teologia dell’alleanza tra Dio e il popolo. Peraltro, nello stare in una relazione Io-Tu con la natura, gli altri, gli esseri spirituali e con Dio (cui si contrappone una relazione di tipo Io-Esso), si coglie il senso autentico della vita e la​​ ​​ persona prende coscienza di sé e della propria soggettività.

2. Sebbene B. non abbia sviluppato una approfondita teoria dell’educazione, la problematica educativa emerge in molti suoi scritti. Nella dimensione interpersonale essa è fondata nel «principio dialogico» dell’Io-Tu e finalizzata alla formazione del «grande carattere». Nella dimensione comunitaria del «Noi», essa spinge alla conversione individuale e sociale, a ricercare il dialogo tra comunità diverse ed apre verso l’utopia della «communitas communitatum» e della pace in cui gli uomini siano «una cosa sola».

Bibliografia

B.M.,​​ Werke,​​ 3 voll., München, Kösel, 1962-1964; trad. it.:​​ Il principio dialogico e altri saggi,​​ Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1993; Milan G.,​​ Educare all’incontro. La pedagogia di M.B.,​​ Roma, Città Nuova,​​ 42002; Zank M. (Ed.),​​ New perspectives on M. B., Tübingen, Mohr Siebeck, 2006.

C. Nanni




BUDDHISMO

 

BUDDHISMO

Il termine B. deriva da Buddha-Dharma, che significa l’Insegnamento (Dharma) dell’«Illuminato» (il Buddha). Siddharta Gautama, nome con cui il Buddha era conosciuto prima dell’illuminazione, nacque a Lumbini, nel sud dell’odierno Nepal, nel VI sec. a.C. È il fondatore del B.

1.​​ Aspetti generali.​​ Il B. è sia una filosofia che una religione; è una raccolta di dottrine e un modo di vivere. Come filosofia, è una teoria dell’esistenza basata su tre elementi essenziali: il dolore (dukha),​​ la transitorietà (anicca)​​ e la non individualità (anatta).​​ Come religione, il B. mostra la «via» verso la beatitudine finale (nirvana),​​ che non è nient’altro che la liberazione definitiva dalla catena delle successive rinascite: queste rinascite sono dovute all’intrinseco potere causale dell’azione (karma)​​ e possono essere eluse tramite la rinuncia ed il distacco. Nel B. perciò non c’è posto per la mediazione degli dei e per la realtà perenne dell’esistenza, principi fondamentali dell’​​ ​​ Induismo. Il B. si fonda su tre tesori: il Buddha, il Dharma che egli insegna e il Sangha (o la comunità di monaci e suore) il cui ruolo è di praticare e trasmettere il suo insegnamento. Ci sono due rami principali del B.: il primo è il Theravada (la dottrina degli Anziani), conosciuto anche come Hinayana (piccolo veicolo); questo è il tipo di B. che è andato affermandosi nei seguenti paesi: Sri Lanka, Myanmar, Thailandia, Laos e Kampuchea. Il secondo è il Mahayana (grande veicolo): ha seguaci in Cina, Giappone e Corea.

2.​​ Idee pedagogiche.​​ Il B. andò affermandosi verso l’inizio del V sec. a.C., in un periodo in cui la maggior parte della gente era rimasta delusa dai rituali e sacrifici vedici e l’istruzione era monopolio dei bramini, la classe sacerdotale. Buddha ed i suoi discepoli scelsero di insegnare in Pali, la lingua comune del popolo; essi insegnavano a chiunque, indipendentemente dalla casta, dal credo o dal sesso. Per quei tempi fu un fatto rivoluzionario. L’istruzione e l’insegnamento buddhista si incentrarono intorno ai monasteri, e divennero parte della storia del monachesimo buddhista. Sin dall’inizio i monasteri buddhisti si impegnarono nell’istruzione sia secolare che religiosa. Il risultato di ciò fu una diffusa crescita dell’istruzione elementare e dell’istruzione superiore. I monasteri servivano al duplice scopo di insegnare e preparare le persone per il sacerdozio. Dato che lo scopo ultimo della vita è il raggiungimento del Nirvana (eterna beatitudine dell’essere puro), l’istruzione era fondamentalmente indirizzata verso questo fine. I giovani discepoli erano affidati ad un insegnante conosciuto per la sua integrità morale, l’autoconcentrazione, la saggezza, il distacco e la sapienza. I suoi compiti consistevano nell’istruire i discepoli sui precetti della retta condotta, su elementi di moralità, su questioni relative al Dharma (insegnamento) e ai Vinayas (regole monastiche). Il nucleo centrale dell’insegnamento includeva invariabilmente le quattro nobili verità esposte dal Buddha nel suo primo sermone dopo l’illuminazione, cioè l’esistenza del dolore, le sue origini, la sua estinzione e l’ottuplice sentiero che conduce alla fine del dolore e alla rinascita. L’istruzione buddhista raggiunse il suo acme tra il V e l’VIII sec. d.C. in seguito alla fondazione della famosa Università di Nalanda sotto i re Gupta. All’apice della fama, l’Università di Nalanda aveva 1.500 insegnanti e più di 10.000 studenti da tutta l’Asia. Oltre alle materie religiose, ne venivano insegnate altre, quali legge, matematica, astronomia, logica, metafisica, medicina, arti e mestieri, e letteratura. Persino oggi, il B. ha molto da offrire per la crescita e lo sviluppo dell’uomo come essere umano: la meditazione e la preghiera, il culto e la comunità, il distacco dal mondo, la via della salvezza e la ricerca dell’Assoluto. Il B. quindi rimane una filosofia ed una religione autorevole, a cui si rivolgono in molti, ed il suo valore pedagogico per la vera promozione dell’uomo non sarà mai sufficientemente enfatizzato.

Bibliografia

Humphreys C. (Ed.),​​ The wisdom of Buddhism, London, Unwin Brothers Ltd., 1960; Ling L.,​​ The Buddha,​​ London, Temple Smith, 1973; Mookerji R. K.,​​ Ancient Indian education,​​ New Delhi, 1974; Sir Hari Singh Gour,​​ The spirit of Buddhism,​​ voll.​​ I​​ &​​ II,​​ New Delhi, Cosmo Publications, 1986; Goyal S. R.,​​ A history of Indian Buddhism,​​ Kusmanjali Prakashan, Meerut, 1987.

G. Kuruvachira




BUGIA

 

BUGIA

Asserzione coscientemente non conforme alla​​ ​​ verità con lo scopo d’indurre altri in errore. Tale asserzione può essere fatta attraverso la parola, lo scritto, il gesto o anche il silenzio. L’uso del termine b. si riferisce in modo particolare all’​​ ​​ infanzia.

1. Il bambino è in grado di dire b., allorché acquista la capacità di distinguere il vero dal falso e ciò avviene verso i 6-7 anni. All’inizio dell’età scolare la b. è fisiologica e svolge una funzione adattiva alla realtà. Il bambino cioè vi ricorre per conseguire la propria autonomia e per difendere il proprio mondo interno nei confronti dell’ambiente, avvertito come troppo intrusivo. Esistono due principali tipi di b.: a)​​ b. utilitaristica, al fine di conseguire un vantaggio o evitare un castigo (es.: la falsificazione del voto); b)​​ b. compensatoria,​​ al fine di evadere da una situazione di​​ ​​ frustrazione (es.: inventarsi una famiglia più ricca).

2. Il ricorso sistematico alla b. denuncia un esasperato bisogno di onnipotenza ed un’intolleranza nei confronti della realtà. In un simile contesto, può avvenire che l’individuo si trasformi in un bugiardo inconscio e quindi sia incapace di riconoscere che sta mentendo. È il caso di chi comunica superficialmente, senza colore, senza sensibilità e con contenuti futili, e di chi ricorre sistematicamente al cliché nel suo modo di parlare e di agire. Talvolta può avvenire che alcune b. volontarie vengano utilizzate per comunicare in codice verità inconsce. Il bugiardo psicopatico, ad es., usa la b. come metafora attraverso cui inconsciamente cerca di dire una verità che gli è difficile manifestare in termini realistici. Un tipico aspetto patologico della b. è rappresentato dalla​​ mitomania,​​ in cui si manifesta la tendenza ad un’accentuata confabulazione, fino a sfociare, nei casi estremi, nel delirio d’immaginazione ed in comportamenti perversi. Il mitomane è un soggetto labile, iperemotivo e suggestionabile ed evidenzia una seria difficoltà di adattamento alla realtà.

Bibliografia

Sutter J. M.,​​ La b. del bambino,​​ Roma, Paoline, 1974; Ekman P.,​​ I volti della menzogna,​​ Firenze, Giunti, 1985; Langs R.,​​ La comunicazione inconscia nella vita quotidiana,​​ Roma, Astrolabio, 1988; Anolli L. - M. Balconi - R. Ciceri,​​ Fenomenologia del mentire: Aspetti semantici e psicologici della menzogna,​​ in «Archivio Psicologia Neurologia e Psichiatria» 55 (1994) 1-2, 268-295; Abraham K. et al.,​​ Bugiardi e traditori, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Delloz D.,​​ La b., Milano, Ancora, 2002.

V. L. Castellazzi




BÜHLER Karl

 

BÜHLER Karl

n. a Meckesheim (Baden) nel 1879 - m. a Los Angeles nel 1963, psicologo tedesco.

1. Allievo a Friburgo di J. von Kries, dopo essersi laureato in medicina (1903) e in filosofia (1904) lavora sotto la guida di O. Külpe. Tra il 1907 e il 1908 pubblica quattro lavori in cui, utilizzando il metodo dell’introspezione controllata, si propone di studiare i «contenuti» complessi della mente, con l’intento di mettere in rilievo i processi (o atti o funzioni) che veicolano l’elaborazione di tali contenuti e ricorre, per ottenere dai propri soggetti informazioni dettagliate sui processi decisionali seguiti, a una tecnica di intervista di tipo clinico. Sulla base di risultati sperimentali, B. sostiene il carattere non sensoriale di molti elementi che contraddistinguono la coscienza nei compiti cognitivi nonché l’impossibilità di classificare taluni «elementi di pensiero» nella stessa categoria che comprende le sensazioni o le immagini. Pur continuando a muoversi in ambito sperimentale, sottolinea inoltre l’esigenza di collocare lo studio del pensiero lungo una dimensione ontogenetica e nel suo libro​​ Lo sviluppo psichico del bambino​​ (1918) affronta il problema della formazione dei concetti nel bambino e quello dei rapporti tra pensiero e linguaggio, e delinea una periodizzazione dello sviluppo psichico a cui negli anni successivi avrebbero fatto riferimento diversi psicologi.

2. Insegna a Dresda e quindi a Vienna dal 1922 al 1938. Nel 1927 con il libro​​ La crisi della psicologia,​​ che avrà grande risonanza (tradotto in it., 1979), denuncia l’estrema frantumazione in scuole separate della psicologia contemporanea e propone, come essenziale per la fondazione di una concezione unitaria dei processi psichici, un’analisi critica dei principi concettuali delle scuole psicologiche dell’epoca. Abbandonato l’introspezionismo di Würzburg, si avvicina alle tesi dell’indirizzo gestaltico. Negli anni ’30 porta avanti, insieme con il gruppo di linguisti del circolo di Praga, una serie di ricerche di estrema rilevanza sulla psicologia del linguaggio. Arrestato nel 1938 dai nazisti, si rifugia dapprima a Oslo ed emigra successivamente negli Stati Uniti, dove insegnerà psicologia al Saint Thomas College di Saint Paul e dal 1945 all’Università di Los Angeles, California.

Bibliografia

Wellek K. K.,​​ K. B. 1879-1963,​​ in «Arch. Ges.​​ Psychol.» 116 (1964) 3-8;​​ Symposium on K. B’s contribution to psychology,​​ in «Journal of General Psychology» 75 (1966) 181-219; Marion P.,​​ K. B. e la «crisi della psicologia»,​​ in «Per un’analisi storica e critica della psicologia» 4-5 (1978) 33-62.

F. Ortu - N. Dazzi




BULIMIA

 

BULIMIA

La b. consiste in una fame insaziabile ed incontrollabile. Il termine deriva da due parole greche (bous​​ =​​ bue e​​ limòs​​ = fame). Letteralmente: «fame da bue».

1. Tale disturbo, come per l’​​ ​​ anoressia, nella maggioranza dei casi riguarda il sesso femminile. Tra gli studenti universitari, le femmine denunciano la percentuale del 4,5% contro lo 0,40% dei maschi. Esso inoltre è dalle 5 alle 10 volte più diffuso dell’anoressia. La b. di solito compare verso i 15-16 anni, con punte massime dopo i 20 anni. Il decorso è intermittente con tendenza verso la cronicizzazione.

2. I sintomi principali della b. sono: ricorrenti episodi di abbuffate senza alcun controllo, vomito auto-indotto, uso di lassativi o di diuretici, eccessiva preoccupazione per il peso corporeo, ricorso all’alcol o a sostanze stupefacenti, scarsa​​ ​​ stima di sé, ricerca di appoggio,​​ ​​ depressione. A differenza delle anoressiche, le bulimiche tendono ad essere sessualmente attive, anche se poi denunciano una certa difficoltà nell’ottenere soddisfazione dei loro bisogni emotivi. Entro questo contesto, l’orgia alimentare viene vissuta, per un verso, come tentativo di «prendersi cura» e, per un altro, come rabbia nei confronti dell’oggetto frustrante e deludente.

Bibliografia

Igoin L.,​​ La boulimie et son infortune,​​ Paris, PUF, 1979; Gordon R. A.,​​ Anoressia e b. Anatomia di un’epidemia sociale,​​ Milano, Cortina, 1991;​​ Sánchez Cárdenas M.,​​ Le comportement boulimique,​​ Paris, Masson,​​ 1991; Lavanchy P.,​​ Il corpo in fame, Milano, Rizzoli, 1994; Selvini Palazzoli M.,​​ Ragazze anoressiche e bulimiche, Milano, Cortina, 1998; Miller J. A.,​​ Gli imbrogli del corpo, Roma, Borla, 2006; Jeammet Ph.,​​ Anoressia b., Milano, Angeli, 2006; Recalcati M. - M. Zuccardi Merli,​​ Anoressia,​​ b. e obesità, Torino, Bollati Boringhieri, 2006.

V. L. Castellazzi




BULLISMO

 

BULLISMO

Il termine italiano b. viene dalla parola inglese​​ bullying​​ (tiranneggiare), termine usato nella letteratura internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo.

1.​​ Definizione e descrizione del fenomeno. «Il b. consiste nella messa in atto di comportamenti aggressivi, offensivi, umilianti, tendenti all’isolamento ed alla ridicolizzazione, ripetuti costantemente da uno o più alunni (i bulli) nei confronti di un compagno di solito più debole o diverso in qualche caratteristica (la vittima) al cospetto di altri compagni (i testimoni) che si divertono per l’aggressione, incitando i bulli a continuare oppure facendo finta di niente, mantenendo il silenzio e l’omertà» (Mariani, 2005, 75). Secondo questa definizione per poter parlare di b. ci devono essere tre attori: a) il bullo, b) la vittima, c) i testimoni. I coetanei possono assumere, all’interno del gruppo, ruoli diversi, ponendosi dalla parte del bullo, intervenendo a sostegno delle vittime o rimanendo semplici osservatori. C’è anche da sottolineare che si instaura una sorta di complementarità tra bullo e vittima, in quanto quest’ultimo non è in grado di porre fine al sopruso, anzi lo alimenta con i suoi comportamenti goffi e maldestri. I bulli possono essere di tre tipi: a)​​ Il bullo aggressivo:​​ tale soggetto è aggressivo su chiunque possa essere identificato come vittima e non si preoccupa minimamente delle conseguenze del suo comportamento. È impulsivo, è favorevole alla violenza, ha un forte desiderio di dominare gli altri, è molto forte sia psicologicamente che fisicamente, è del tutto insensibile ai sentimenti degli altri ed infine ha un’elevata stima di sé. b)​​ Il bullo ansioso:​​ tale categoria di soggetti ha più problemi di qualsiasi altro bullo o vittima, condividendo molte delle caratteristiche di quest’ultima. Infatti è sia ansioso che aggressivo, è insicuro di sé, e spesso se la prende con ragazzi più grandi e più forti di lui. c)​​ Il bullo passivo:​​ in quest’ultima categoria di bulli rientrano tutti quegli individui che affiancano il leader. Lo fanno per due motivi principali: il primo è per proteggere se stessi, il secondo è per avere lo status di appartenenza al gruppo (Marini - Mameli, 1999, 63). Anche la​​ vittima​​ fa parte del «sistema»: ha la funzione del «capro espiatorio». È un / a ragazzo / a che evidenzia difficoltà nel difendersi e si trova in una situazione di impotenza nei confronti di coloro che lo / a molestano. Presenta elevati livelli di ansia e insicurezza, scarsa autostima; tende ad essere più debole dei coetanei e più preoccupato per l’incolumità fisica. Vi è anche la categoria di vittima provocatrice che è una combinazione di modelli reattivi, ansioso ed aggressivo.

2.​​ L’intervento.​​ Per risolvere o modificare il fenomeno del b. sono necessari interventi​​ ad hoc. Il compito degli insegnanti è quello di intervenire precocemente per modificare comportamenti che tendono a cronicizzarsi. È importante sviluppare una collaborazione tra insegnanti, educatori e famiglia (sovente causa iniziale della violenza del bullo). Ma è soprattutto decisivo lavorare sul gruppo-classe. Ci sono esercizi che aiutano gli alunni a prendere coscienza della grave ingiustizia che si sta perpetrando, dei problemi che essa maschera, delle possibilità che hanno di risolvere, cooperando, i loro problemi. Esistono delle tecniche specifiche per aiutare i bulli a ridurre la loro violenza e altre per sostenere la vittima e farle acquisire delle competenze per reagire più adeguatamente. Sono ormai collaudati i «Circoli di Qualità» (CQ) che hanno una metodologia specifica per affrontare il problema. L’importante è che la scuola, di fronte a tale fenomeno, non lo neghi o lo banalizzi. Essa deve reagire con una serie di provvedimenti anti-b. Se non ha un esperto, può acquisirlo dall’esterno, per esempio uno psicologo specializzato sull’argomento. Poco opportuna appare invece la presenza di un tutore dell’ordine.

Bibliografia

Olweus D.,​​ B. a scuola.​​ Ragazzi oppressi,​​ ragazzi che opprimono, Firenze, Giunti, 1996; Fonzi A.,​​ Il​​ b. in Italia: il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia. Ricerche e prospettive d’intervento, Ibid., 1997; Marini F. - C. Mameli,​​ Il b. nelle scuole, Roma, Carocci, 1999; Sharp S. - P. K. Smith,​​ Bulli e prepotenti nella scuola: prevenzione e tecniche educative,​​ Trento, Erickson, 2000; Lawson S.,​​ Il b.: suggerimenti per genitori ed insegnanti, Roma, Editori Riuniti, 2001; Mariani U.,​​ Alunni cattivissimi: come affrontare il b.,​​ l’iperattività,​​ il vandalismo ed altro ancora, Milano, Angeli, 2005; Di Sauro R. - M. Manca,​​ Strategie di intervento e prevenzione del b. in adolescenza, Roma, Edizioni Kappa, 2006.

G. Vettorato




BURNOUT

 

BURNOUT

Il rischio del b. è molto attuale tra quanti sono impegnati in professioni di aiuto agli altri (psicologi, operatori sociali, medici, infermieri, insegnanti, operatori pastorali), cioè tra quanti investono le proprie energie attraverso un eccessivo coinvolgimento con i bisogni delle persone a cui essi si dedicano, una malattia da «eccesso di impegno» (Cherniss, 1983) che comprende una condizione di esaurimento emotivo derivante dallo stress dovuto a fattori sia personali che ambientali. È una sindrome multidimensionale che si traduce nel rischio di esaurire le proprie energie psicofisiche e di reagire ad un ambiente lavorativo considerato come troppo esigente ed incapace di apprezzare la propria dedizione (Gabassi - Mazzon, 1995).

1. A livello psicologico, il b. si riferisce ad un insuccesso nel processo di adattamento emozionale dinanzi alle richieste ambientali, una sorta di strategia che la persona adotta per rispondere alle tensioni stressanti che si accumulano nel contesto della propria professione di aiuto, con conseguenti comportamenti di demotivazione e di distacco emozionale, ma anche di logoramento psicologico dovuto al contatto estenuante e prolungato con le esigenze e i bisogni degli altri (Edelwich - Brodsky, 1980). Inoltre, dal punto di vista del contesto lavorativo, il b.​​ è considerato come l’esito di una condizione ambientale stressante divenuta ormai intollerabile per i diversi fattori che subentrano, quali il pagamento inadeguato, le condizioni di lavoro precarie, le situazioni di urgenza con cui gli utenti spesso rivolgono le loro richieste (Maslach, 1992; Freudenberger, 1974).

2. I diversi fattori che intervengono nella concezione del b.​​ hanno degli effetti anche sulle strategie di prevenzione: devono coinvolgere non solo la persona attraverso adeguate strategie di​​ coping​​ che permettano di rafforzare la stima personale e la soddisfazione lavorativa, ma anche l’organizzazione e l’ambiente di lavoro per umanizzarlo e renderlo più adeguato non soltanto alle esigenze della struttura lavorativa ma anche ai bisogni dell’individuo (Baiocco et al., 2004).

Bibliografia

Freudenberger H. J.,​​ Staff b., in «Journal of Social Issues», 30 (1974) 159-165; Edelwich J. - A. Brodsky,​​ B. stages of disillusionment in the helping professions,​​ New York, Human Sciences Press, 1980; Maslach C.,​​ La sindrome del b. Il prezzo dell’aiuto agli altri, Assisi, Cittadella Editrice, 1992; Gabassi P. G. - M. Mazzon,​​ B.: 1974-1994.​​ Venti anni di ricerche sullo stress degli operatori socio-sanitari,​​ Milano, Angeli, 1995; Maslach C. - M. P. Leiter,​​ B. e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro,​​ Trento, Erickson, 2000; Baiocco R. et al.,​​ Il rischio psicosociale nelle professioni di aiuto, Ibid., 2004.

G. Crea




BURT Cyril

 

BURT Cyril

n. a Londra nel 1883 - m. ivi nel 1971, psicologo inglese.

1. Dopo esser stato allievo di McDougall a Oxford e aver portato a termine, come professore incaricato di psicologia a Liverpool (1907-1912), numerosi studi di tipo empirico e sperimentale sulla misurazione dell’intelligenza (nel 1909 aveva pubblicato sul «British Journal of Psychology» uno studio sui​​ ​​ test sperimentali di intelligenza generale e nel 1911 era stato il primo a costruire, sulla base dei lavori di​​ ​​ Spearman, una procedura per la somministrazione di gruppo dei test mentali) ottiene nel 1912, per interessamento di​​ ​​ Galton, il posto di psicologo scolastico retribuito presso la London County Council Education Authority, il consiglio di contea di Londra. Dirige successivamente una sezione di orientamento professionale dell’Istituto Nazionale di Psicologia Industriale ed è professore di psicologia all’Università di Londra.

2. I suoi studi su gruppi di bambini normali, ipo e iper dotati, e con caratteristiche antisociali, nonché quelli sui gemelli monozigoti educati separatamente, saranno considerati fondamentali per le successive indagini sull’infanzia e sull’educazione. In​​ Mental and scholastic tests​​ (1932), dopo aver proposto una revisione della scala di Binet-Simon, B. presenta una serie di test speciali relativi al livello di educazione raggiunto nella lettura, nella scrittura, nello svolgimento di temi, nell’aritmetica e in altre forme fondamentali di attività scolastica e, in disaccordo con Spearman, sostiene che i punteggi dei test rappresentano una misurazione non di una capacità generale ma di capacità operanti a differenti livelli, e cioè a livello senso-motorio, a livello percettivo, associativo, relazionale. Considera inoltre i fattori in cui la capacità fondamentale è scomponibile alla stregua di costrutti logici e non di agenti causali: servono cioè semplicemente a classificare in maniera coerente le correlazioni individuate fra i punteggi di test diversi. Nel 1938 avanza l’ipotesi di una correlazione fra classificazioni basate sulla contrapposizione tra introversione ed estroversione da un lato e differenze somatiche dall’altro. Propone inoltre uno schema di interpretazione del TAT in termini di livelli di organizzazione (coerenza), grado di osservazione dei particolari, fluidità verbale, estroversione-introversione. Infine, nel 1956 applica la teoria multifattoriale dell’eredità, basata sul metodo di analisi quantitativa di Fisher, all’analisi delle differenze individuali.

3. Considerato uno dei principali psicologi del secolo per le sue ricerche sui test attitudinali nella scuola, sull’ereditarietà dell’intelligenza, sull’analisi fattoriale in psicologia e per la grande influenza esercitata sulla psicologia e la pedagogia inglese, B. è invece divenuto in anni più recenti (in conseguenza dello scandalo suscitato dallo psicologo statunitense L. Kamin che nell’articolo​​ The science and politics of IQ​​ [1974] ha denunciato la manipolazione compiuta da B. sui suoi dati per dimostrare la tesi dell’ereditarietà dell’intelligenza) il simbolo di un’indagine psicologica fortemente connotata a livello ideologico e volta a sostenere interventi sociali e pedagogici selettivi e classisti.

Bibliografia

Glassey W.,​​ Educational development of children: the teachers’ guide to the keeping of school records,​​ with a foreword by professor Sir C.B., London, University of London Press, 1950; Hernshaw L. S.,​​ C.B.,​​ psychologist,​​ London, Hodder & Stoughton, 1979; Fletcher R.,​​ Science,​​ ideology and the media: the C.B. scandal,​​ New Brunswick / London, Transaction Publ., 1991.

F. Ortu - N. Dazzi




BUYSE Raymond

 

BUYSE Raymond

n. a Tournai nel 1889 - m. ivi nel 1974, pedagogista belga.

1. Ha insegnato per 10 anni nelle scuole secondo le sollecitazioni dell’attivismo (​​ Scuole Nuove); come ispettore scolastico e docente ha insistito sull’uso delle tecniche d’indagine nella verifica dei risultati e sull’organizzazione scolastica secondo i principi del taylorismo; è stato collaboratore di​​ ​​ Decroly con il quale ha scritto, ma dal quale ha dissentito contrapponendo la scuola dell’esperienza vissuta a quella che utilizza la ricerca sperimentale. Nel 1928 ha iniziato l’insegnamento all’Università cattolica di Lovanio, ove ha fondato e diretto il Laboratorio di​​ ​​ pedagogia sperimentale. I suoi meriti quale «capofila» della pedagogia sperimentale in Europa (​​ Dottrens) lo hanno portato ad essere il primo presidente di Paedagogica (1950), società internazionale di studi e ricerche pedagogiche e poi presidente onorario dell’AIPSLF (Associazione internazionale di Pedagogia Sperimentale di Lingua Fr.). È stato formatore di insegnanti e di ricercatori, animatore della ricerca sperimentale specie tramite i suoi allievi.

2. Ha cercato di definire il contributo della sperimentazione all’interno della pedagogia. Nell’insegnamento e nella direzione delle ricerche s’è occupato della scuola, dell’apprendimento, ha insistito sulla necessità della verifica dei risultati e d’una organizzazione razionale. Gli interessi culturali di B. hanno riguardato anche l’​​ ​​ orientamento e la famiglia.

Bibliografia

B.R.,​​ L’expérimentation en pédagogie, Bruxelles, M. Lamertin,​​ 1935; Bonboir A. et al.,​​ L’oeuvre pédagogique de R.B.,​​ Louvain, Vander, 1969; Gille A.,​​ R.B.,​​ promoteur de la pédagogie expérimentale,​​ in «Revue de Psychologie et des Sciences de l’Éducation» 10 (1975) 15-24;​​ Montalbetti K.,​​ La pedagogia sperimentale di R.B., Milano, Vita e Pensiero, 2002.

L. Calonghi - C. Coggi