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ATTEGGIAMENTO

 

ATTEGGIAMENTO

È difficile trovare in letteratura una definizione univoca di questo concetto. Una classica è quella di​​ ​​ Allport (1935, 8) che lo intende come «uno stato mentale o neurologico di prontezza, organizzata attraverso l’esperienza, che esercita un’influenza direttiva o dinamica sulla risposta dell’individuo nei confronti di tutti gli oggetti e situazioni con cui entra in relazione». Questa definizione risulta molto ampia ed implica diversi aspetti che meriterebbero ulteriori specificazioni; in essa, comunque, appare chiaro che l’a. è un costrutto ipotetico, non osservabile direttamente, ma da dedurre dal​​ ​​ comportamento manifesto di una persona.

1. Oggi per lo più ci si riferisce al costrutto di a. per indicare una predisposizione appresa a rispondere prontamente in un modo generalmente favorevole o sfavorevole ad un oggetto, persona, istituzione, simbolo o evento. Esso include tre componenti: una componente cognitiva (le​​ ​​ credenze) che riguarda la percezione, la descrizione personale dell’oggetto dell’a., indipendentemente dal fatto che essa sia vera o falsa, e che si basa sia sull’evidenza oggettiva che sulle opinioni personali; una componente affettiva, riguardante i sentimenti di piacere, o dispiacere, e le valutazioni favorevoli, o meno, nei confronti dell’oggetto; e una componente comportamentale, cioè la disposizione, la tendenza ad agire in un certo modo verso l’oggetto in questione. Vanno comunque considerate posizioni diverse. L’approccio comportamentista considera l’a. fondamentalmente come una disposizione a valutare positivamente, o meno, un oggetto, disposizione che si forma grazie a ripetute e sistematiche associazioni tra oggetto ed eventi positivi o negativi; in questo approccio, infatti, la formazione degli a. viene spiegata in base ai principi dell’apprendimento (condizionamento classico, rinforzo, osservazione). L’approccio funzionalista lega l’origine dell’a. ai​​ ​​ bisogni o alle funzioni a cui esso serve. Ad es., vengono riconosciute all’a. una funzione strumentale (aiuta ad ottenere ricompense o evitare punizioni nel mondo sociale), una conoscitiva (serve come struttura per gestire e acquisire conoscenze, organizzando e semplificando il notevole flusso informativo con cui ci si confronta), una difensiva (protegge e accresce l’immagine di sé). Dal momento che gli a. sono funzionali a soddisfare alcuni bisogni fondamentali, la loro componente valutativa è connessa a tali motivi, e cioè emerge un a. positivo verso un oggetto se i motivi di fondo sono soddisfatti rispondendo favorevolmente ad esso, e viceversa se la soddisfazione scaturisce da una risposta negativa. Un terzo approccio, socio-cognitivo, si è infine affermato negli ultimi decenni, in linea con l’attuale tendenza generale in psicologia a spiegare la condotta secondo una prospettiva cognitivista o dell’information processing;​​ secondo questo approccio, infatti, l’a. viene principalmente concettualizzato in termini di cognizioni, schemi, in quanto esso si fonda sulle credenze personali riferite ad un oggetto. Ogni credenza collega un oggetto a degli attributi positivi o negativi, e la disposizione valutativa dell’a. è la risultante di tutte le credenze riferite ad un oggetto; inoltre, in quanto schema, l’a. influenza l’elaborazione delle informazioni sociali sia a livello di ricerca attiva e di codifica (percezione, giudizi) di informazioni collegate all’a., che di recupero di esse dalla memoria. Le credenze e, quindi, gli a. relativi al mondo sociale derivano dall’esperienza diretta con un oggetto, dalle informazioni acquisite nel processo di​​ →​​ socializzazione tramite famiglia, gruppi di riferimento, mezzi di​​ ​​ comunicazione di massa, e dalle inferenze elaborate sulla base di informazioni già possedute; insieme a tutto ciò, si deve tenere conto delle variabili personali che intervengono a modulare la percezione dei messaggi sociali ricevuti.

2. Oltre a spiegare la formazione degli a., gli psicologi sociali ne hanno studiato le conseguenze, soprattutto per verificare l’influenza da loro esercitata sul comportamento sociale. Fino agli anni ’60 si dava per scontato che tale costrutto potesse spiegare e predire la condotta sociale, ma da una serie di studi è emersa una scarsa correlazione tra a. espressi verbalmente e successivo comportamento manifestato. Gli studiosi hanno dunque dovuto riconsiderare il rapporto tra a. e comportamento, concludendo che da un lato, l’espressione verbale di un a. va posta in relazione, più che con una singola condotta, con un insieme di misure di comportamenti attuati nei confronti della classe di oggetti dell’a., e dall’altro, che per predire una singola condotta a partire dall’a. è necessario chiedere alla persona di esprimere il suo a. in merito alla condotta specifica in questione (ad es.: donare il sangue), e non rispetto ad un ambito generale (ad es.: solidarietà). D’altra parte, bisogna tener presente che nell’attuazione di una condotta intervengono anche tanti fattori situazionali e personali. In questa linea Fishbein e Ajzen (1975) hanno proposto la teoria dell’azione ragionata, secondo cui un’azione è determinata dalle intenzioni comportamentali del soggetto; a loro volta le intenzioni dipendono dall’a. verso quella specifica condotta (composto dalle credenze sulle conseguenze di quel comportamento e dalla valutazione personale di queste), dalle credenze normative personali e sociali, e dalla motivazione a conformarsi a tali norme. Seguendo tale prospettiva interattiva e facendo riferimento allo specifico a. comportamentale, è possibile rendere più accurata, come è stato confermato da ricerche successive, la previsione di una condotta.

3. Essendo un costrutto ipotetico, non osservabile, l’a. viene inferito misurando le risposte cognitive, affettive e conative ad esso connesse. Di solito, per misurare un a., si usano metodi diretti nei quali i soggetti sono interrogati direttamente in merito ad un oggetto; tra questi metodi, oltre ad usare singole domande in cui le persone sono invitate ad esprimere la loro posizione (d’accordo, non d’accordo, incerto) circa affermazioni positive o negative su un oggetto, molto spesso si usano scale di misurazione come la scala Likert (una serie di affermazioni rispetto alle quali va indicato il grado di accordo, o meno, su una scala di 5 o 7 punti), e il differenziale semantico, in cui si invita a valutare l’oggetto dell’a. rispetto ad una serie di aggettivi bipolari (es.: buono - cattivo), in cui il centro del continuum esprime l’eventuale neutralità. Sono stati elaborati anche dei metodi indiretti (ad es.: test proiettivi, rilevazione parametri fisiologici), soprattutto quando gli a. toccano questioni delicate e si prevede un’alta probabilità di contraffazione delle risposte alle domande dirette; tali metodi, tuttavia, possono a volte implicare problemi etici e spesso si rivelano poco affidabili. Data la rilevanza degli a. in molti ambiti della vita sociale, molti studiosi si sono interessati, anche al fine di migliorare la convivenza civile, a come essi possano essere cambiati. In proposito ci sono molti modelli, tra cui ad es., il modello della comunicazione persuasiva (McGuire, 1985) che spiega l’effetto persuasivo di un messaggio sulla base di 5 processi: attenzione, comprensione, accettazione, ritenzione, azione.​​ Sempre in ambito cognitivista ci sono le teorie dell’equilibrio (Heider, 1946) e della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957), basate sull’assunto che si ha il bisogno di mantenere la coerenza tra gli elementi della propria struttura cognitiva; tale bisogno spiegherebbe sia la stabilità che il cambiamento di un a.: mentre da una parte si tende a selezionare le informazioni a seconda se sono congruenti o meno con il proprio quadro di riferimento, dall’altra, qualora si venisse a creare un’incongruenza a seguito di nuove esperienze o dati, mutare a. sarebbe uno dei modi per ristabilire lo stato di equilibrio. In sintesi, i diversi modelli ipotizzano due percorsi di elaborazione delle informazioni quando si cambia a.: uno centrale, sistematico, in cui ci si sofferma a riflettere sui dati a disposizione, e uno periferico, con meno attenzione, basato su euristiche quali ad es. fidarsi di chi parla se lo si ritiene esperto o simpatico (Petty-Cacioppo, 1981; Eagly-Chaiken, 1993). Alcuni considerano tali percorsi come aspetti in un unico percorso, con processi più o meno elaborati a seconda della motivazione, dello stato emotivo, e delle abilità cognitive delle persone (Cavazza, 2005).

4. Va accennato, infine, che gli a. sono stati studiati anche in ambito educativo. In proposito si è particolarmente evidenziata l’importanza degli a. relazionali degli​​ ​​ educatori al fine di promuovere un efficace​​ ​​ rapporto educativo (Franta, 1995): il comportamento relazionale degli educatori, tenendo conto dei loro a. di fondo nei confronti dell’educazione e delle persone in divenire con le quali si relazionano, è stato analizzato in base all’a. emozionale e socio-operativo. Il primo riguarda la creazione di un positivo contatto affettivo con gli educandi volto a valorizzarli, rapporto che risulta fondamentale sia alla loro crescita che alla costruzione di un’adeguata piattaforma educativa; il secondo riguarda la realizzazione del ruolo di guida e di controllo da parte dell’educatore, della sua funzione regolativa e orientativa al fine di favorire l’autosupporto negli educandi. Tale funzione può essere svolta secondo uno stile autoritario, lassista, o autorevole, e quest’ultimo, dagli studi in proposito, risulterebbe essere il più costruttivo per l’​​ ​​ educando.

Bibliografia

Allport G. W., «Attitudes», in C. M. Murchison (Ed.),​​ A handbook of social psychology,​​ Worchester, Clark University Press, 1935, 798-844; Heider F.,​​ Attitudes and cognitive organization,​​ in «Journal of Psychology» 21 (1946) 107-112; Fishbein M. -​​ I.​​ Ajzen,​​ Belief attitude,​​ intention,​​ and behavior: an introduction to theory and research,​​ Reading (Mass.), Addison-Wesley, 1975; Petty R. E. - J. T. Cacioppo,​​ Attitudes and persuasion: classic and contemporary approaches, Dubuque (Ia.), Brown Company Publishers, 1981; McGuire W. J., «Attitudes and attitude change», in G. Lindzey - E. Aronson (Edd.),​​ The handbook of social psychology,​​ vol. II, New York, Random House,​​ 31985, 233-346; Eagly A. H. - S. Chaiken,​​ The psychology of attitudes, Orlando (Fl.), HBJ College Publishers, 1993; Franta H.,​​ A. dell’educatore.​​ Teoria e training per la prassi educativa,​​ Roma, LAS, 1995; Stroebe W. - M. S. Stroebe,​​ Psicologia sociale e salute, Milano, McGraw-Hill Libri Italia s.r.l., 1997; Cavazza N.,​​ Psicologia degli a. e delle opinioni, Ibid., 2005.

C. Messana




ATTENZIONE

 

ATTENZIONE

L’a. è generalmente definita come la capacità della mente di concentrarsi o di focalizzarsi su alcuni elementi dell’ambiente. La sua importanza nella vita di ogni giorno è sotto gli occhi di tutti. Essa infatti controlla l’attività elaborativa della mente selezionando il flusso delle informazioni in base alle capacità dell’individuo e regolando la distribuzione delle risorse fra compiti competitivi. Sebbene spesso si parli dell’a. come di un processo unitario e specifico, in realtà sembra che ciò che viene indicato con questo termine corrisponda a un modo generico di categorizzare processi e comportamenti diversi.

1.​​ Processi attentivi.​​ Con lo sviluppo della psicologia cognitivista l’a. è tornata di attualità. Questo approccio ha promosso un ricco filone di ricerche formulando vari modelli interpretativi, sviluppando nuovi settori di indagine (neurologico e psicologico) e delineando una ricca tipologia di processi attenzionali (selettivo, automatico o inconscio e controllato). Sebbene gli studi siano ancora agli inizi, non mancano dati sulle basi nervose dei processi attentivi. Sembra che i lobi parietali del cervello siano coinvolti nell’a. sensoriale e che l’ippocampo abbia un ruolo nell’a. a breve termine. Nel 1958 Broadbent, attraverso esperimenti che analizzavano l’ascolto dicotico (stimoli diversi inviati ai due orecchi) sostenne la presenza di un «filtro» sensoriale che selezionava l’accesso dell’informazione ai livelli di elaborazione superiori. Treisman (1960) sostenne che, più che di un «filtro», si dovesse parlare di un processo di «attenuazione» dello stimolo, perché negli esperimenti da lui condotti i soggetti che ricevevano il doppio messaggio erano in grado di seguire ambedue se uno di essi era significativo rispetto all’altro. Deutsch e Deutsch (1963) e successivamente Norman (1972) introdussero ulteriori modificazioni ipotizzando che la selezione fosse determinata dalla «pertinenza» dello stimolo. Johnston e Heinz (1978) sostennero un modello di a. selettiva flessibile basato appunto sulla disponibilità delle risorse: la selezione degli elementi dello stimolo comincia dall’inizio, ma la quantità delle risorse aumenta a mano a mano che ci si avvicina alla risposta da dare. Kahneman (1973) spostò l’enfasi della ricerca sul problema delle risorse avanzando l’idea che il processo di selezione analizzato dai precedenti ricercatori era da reinterpretare in termini di quantità di risorse disponibili per svolgere i compiti assegnati.

2.​​ Processi automatici e processi sotto controllo.​​ Un nuovo orientamento alla ricerca sull’a. avvenne ad opera di Schneider e Shiffrin (1977) (processi automatici e sotto controllo) e di Posner e Snyder (processi inconsci). I processi automatici procedono in parallelo, non sono intenzionali, né consci, né subiscono interferenze, né richiedono grande quantità di risorse. Al contrario i processi sotto controllo sono intenzionali, sono diretti ad uno scopo e richiedono molte più risorse dei primi. In genere i processi automatici si applicano a compiti familiari e semplici, quelli controllati a compiti complessi e inusitati. Automaticità e controllo sono due dimensioni che permettono di spiegare anche le esperienze di a. divisa. Nel caso di processi simultanei, i compiti complessi non automatizzati, richiedendo maggiori risorse, diversamente da quelli semplici e automatici, impongono una divisione delle risorse stesse. Le precedenti ricerche e interpretazioni spiegano i fenomeni della a. selettiva o dell’a. automatica e sotto controllo, ma non spiegano ancora altri fenomeni attentivi. Ad es., come interpretare il comportamento dell’a. su qualche cosa che è noiosa? Le ricerche su questo problema sono state numerose anche per la particolare connessione che esso ha con l’attività di lavoro. Molti fattori sembrano intervenire per spiegare le variazioni dei livelli di a. L’a. vigilante o il sostegno dell’a. necessaria ad una prestazione prolungata nel tempo sembrano progressivamente allentarsi a seconda del tipo di stimolo, della periodicità con cui vengono conosciuti i risultati della propria attività, del contesto esterno, dell’assunzione di sostanze stimolanti (anfetamine) e del tipo di personalità introversa o estroversa.

3.​​ A. e apprendimento.​​ L’interesse per l’argomento è comprensibile perché le conoscenze sull’a. possono fornire indicazioni preziose alla scuola sia per migliorare il livello di prestazione degli studenti che per attenuare le conseguenze dei limiti attentivi di alcune categorie, come gli iperattivi o i ritardati mentali. A questo riguardo si sono studiati gli effetti dell’aiuto nell’identificazione delle informazioni più importanti, delle tecniche di evidenziazioni attraverso figure e immagini, della frammentazione della monotonia dello stimolo, dell’automatizzazione dei processi secondari per aumentare la quantità delle risorse disponibili, dell’uso frequente di domande, del pensare ad alta voce e del verbalizzare ciò che viene svolto, dell’uso di ricompense e dell’immediato​​ feedback, dell’esercizio costante e continuo su un compito per automatizzare le prestazioni. L’effetto positivo del mantenimento dell’a. sul compito dato dal variare degli stimoli, dal contesto mutevole e dalla frequenza di​​ feedback​​ ha suggerito la possibilità di strategie educative di sequenzializzazione di operazioni come il «fermati-osserva-ascolta», «fermati-ricorda-rifletti-decidi», ecc.

Bibliografia

Broadbent D. E.,​​ Perception and communication,​​ Oxford, Pergamon Press, 1958; Treisman A. M.,​​ Contextual cues in dichotic listening,​​ in «Quarterly Journal of Experimental Psychology» 12 (1960) 242-248; Deutsch J. A. - D. Deutsch,​​ Attention: some theoretical considerations,​​ in «Psychological Review» 70 (1963) 80-90; Norman D. A.,​​ Memory and attention: an introduction to human,​​ New York, Wiley,​​ 21972; Kahneman D.,​​ Attention and effort,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1973; Schneider W. - R. M. Shiffrin,​​ Controlled and automatic information processing​​ I:​​ Detection search and attention,​​ in «Psychological Review» 84 (1977) 1-66; Johnston W. A. - S. P. Heinz,​​ Flexibility and capacity demands of attention task,​​ in «Journal of Experimental Psychology General» 107 (1978) 420-435; Cohen R. A.,​​ The neuropsychology of attention,​​ New York, Plenum, 1993.

M. Comoglio




ATTESE

 

ATTESE

Se per «ruolo» si intende quella serie di funzioni o compiti che la società «si attende» che la persona svolga all’interno delle strutture, contemporaneamente emerge anche il concetto di​​ a. sociali,​​ che è fondamentale nello studio delle interazioni sociali (la teoria dell’​​ ​​ interazionismo simbolico). La persona infatti, nel corso della sua vita sociale quotidiana, agisce anche in rapporto alle a. che gli​​ altri,​​ specialmente se​​ significativi,​​ hanno nei suoi confronti. Quando però le a. rimangono inadempiute diventano la causa di conflitti interpersonali o almeno di delusioni e frustrazioni.

1. In tale contesto soprattutto se​​ didattico,​​ il concetto di a. coinvolge diverse dimensioni, che influiscono notevolmente sul rapporto educatore-educando e insegnante-alunno. Le a. condizionano infatti diversi tipi di comportamento: le​​ a. positive​​ degli insegnanti nei confronti della riuscita dello​​ ​​ studente sono uno stimolo al successo scolastico («effetto​​ ​​ Pigmalione»), come le​​ a. negative​​ pongono condizioni che contribuiscono all’insuccesso. In questo secondo caso però le correlazioni tra i fattori sono meno elevate. Infatti le a. negative provocano da parte dell’alunno una serie di meccanismi di difesa per cui egli non perde necessariamente il concetto di sé, anzi sviluppa atteggiamenti di avversione verso l’autore delle a. D’altra parte le a. positive per essere efficaci devono essere minimamente fondate sulla realtà e non eccessivamente elevate (la legge della «giusta distanza» rispetto ai fini), per evitare fenomeni di scoraggiamento o di rifiuto dei tentativi di approccio. Vi sono inoltre a. degli studenti nei confronti della propria carriera scolastica e / o professionale.

2. Quando queste a. sono alte diventano un incentivo favorevole all’impegno per un miglior rendimento. Esse sono correlate con i concetti di «aspirazioni», di «ambizione» e di «motivazione», pur senza confondervisi. Le a. hanno infatti una triplice componente: cognitivo-intellettiva, affettivo-emotiva e conativo-intenzionale. Ciascuna contribuisce ad influenzare i rispettivi comportamenti, così che un intervento su qualcuna di esse può modificare le successive condotte. L’effetto verificato però è maggiore sulla relazione interpersonale che non sul successo intellettuale e sui risultati oggettivi. Non va sottaciuto il fatto che la qualità stessa delle esperienze passate circa le proprie relazioni interpersonali conduce alla formazione di a., che a loro volta condizionano la successiva interazione. Nel processo educativo infine è ormai un dato verificato che sul comportamento dell’adulto incidono reazioni dello stesso adolescente. Rimane tuttavia ancora aperta la questione circa l’individuazione dei vari settori maggiormente influenzabili e delle condizioni più predisponenti a tale reciprocità.

Bibliografia

Cicourel A.​​ V.​​ - K. Knorr Cetina,​​ Advances in social theory and methodology,​​ London,​​ Routledge and P. Kegan, 1981; Woods P.,​​ Sociology and the school. An interactionist view-point, Ibid., 1983; Rosenthal R. - L. Jacobson,​​ Pigmalione in classe.​​ L’immagine che chi insegna si fa di chi apprende sotto la sua guida, Milano, Angeli, 1992; Fele G. - I. Paoletti,​​ L’interazione in classe, Bologna, Il Mulino, 2003; Palmonari A. et al.,​​ Psicologia sociale, Ibid., 2002.

R. Mion