ARISTOTELE
n. a Stagira nel 384 / 383 a.C. - m. a Calcide nel 322 a.C. Filosofo, scienziato, figlio di Nicomaco, medico alla corte macedone, alla scuola di → Platone dal 367 / 6 al 347 (morte del Maestro), ben presto con un’attività letteraria e di ricerca autonoma. All’inizio del secondo soggiorno ad Atene (334ss.) vi fonda il Liceo, dove insegna, ricerca, rivede corsi tenuti ad Asso e a Mitilene e ne redige nuovi fondamentali; nel 323 abbandona Atene non più sicura dopo la morte di Alessandro Magno.
1. A. non ha scritto trattati sull’educazione, ma si è occupato esplicitamente di essa all’interno del discorso morale e politico, intrinsecamente «pedagogico», in particolare nell’Etica a Nicomaco e nella Politica. Tra i più impegnati e sistematici interpreti della pedagogia di A. si segnalano: O. Willmann (A. als Pädagog und Didaktiker, Berlin, 1909); M. Defournoy (Aristote et l’éducation, in «Annales de l’Institut Supérieur de Philosophie de Louvain», 4,1920,1-176 e Aristote. Études sur la «Politique», Paris, 1932); E. Fink (Metaphysik der Erziehung im Weltverstandnis von Plato und A.s, Frankfurt a.M., 1970). Il primo sottolinea l’aspetto etico del pensiero pedagogico di A., mentre Defournoy accentua quello politico. Nella sua ricostruzione storico-critica E. Fink mette in luce il carattere razionale della concezione educativa aristotelica, dimostrandola solidale con l’ontologia, l’antropologia, l’etica e la politica. Una visione della «paideia» aristotelica – intesa come pedagogia e come prassi educativa – inserita all’interno dell’intero sistema è presentata e documentata in un volume antologico di fonti da E. Braun (A.s und die Paideia, Paderborn, 1974). Una compendiosa esposizione del programma educativo di A. si trova nel lavoro di I. Düring (A.s. Darstellung und Interpretation seines Denkens, Heidelberg, 1966; ediz. it. aggiornata, Milano, 1976), che ne evidenzia i fondamenti e i significati etico-politici e l’attenzione alle condizioni storiche.
2. Tutte le espressioni del pensiero filosofico e scientifico di A. fanno capo ai concetti fondamentali di forma e di sostanza, del movimento come transizione dalla potenza all’atto e di causa finale. La sua visione dell’universo, esistente ab aeterno, si presenta, quindi, fortemente unitaria. Dio e i corpi celesti, gli uomini, gli animali e gli esseri inanimati hanno un posto ben preciso, con la perfezione propria, in una scala gerarchica onnicomprensiva, nella quale gli esseri superiori attraggono finalisticamente quelli inferiori. Ciò vale anzitutto per il primo motore immobile (pensiero del pensiero), che muove in quanto oggetto di desiderio e di amore i corpi celesti, a loro volta causa efficiente del moto nel mondo sublunare. Per la sua particolare natura l’uomo occupa un posto singolare nell’universo: dotato di ragione è prossimo al divino, mentre è insieme partecipe sostanzialmente del mondo dell’animalità. La sua anima è la forma di un tutto composito la cui materia è il corpo. Essa è principio di tutte le funzioni vitali legate alla corporeità, che accomunano l’uomo agli altri animali: nutrizione e riproduzione, sensazione, desiderio, locomozione, fantasia; ma è soprattutto sede di quella funzione che caratterizza e specifica l’uomo, il pensiero, la cui attività, indipendente dal corpo, le consente di accogliere in sé l’immateriale «forma intelligibile» delle cose.
3. Il pensiero mette l’uomo in rapporto connaturale con l’intelligibile, il divino, e trova nella ricerca (la filosofia) e nel possesso intellettuale di esso (la sapienza, la contemplazione) la più alta espressione di vita. Inoltre, esso ne fa un essere capace di scelte autonome, libere, responsabili, valutabili secondo criteri di bontà o di malvagità morale. Infatti se per tutte le cose «il bene è quello a cui tendono» (EN I 1,1094 a 2), cioè la compiutezza e la perfezione conseguente alla propria «forma» (EN I 6, 1097 b 22), anche per l’uomo esiste un fine e un bene. Egli è dunque chiamato a non rimanere inerte (argós), ma a compiere l’opera propria secondo la sua natura intellettuale (EN I 6,1097 b 22-34). In questo consiste la riuscita della sua vita, la felicità (l’eudaimonía): «Tutti sono d’accordo nel pensare che “vivere bene” e “riuscire bene” equivalga all’“essere felici”» (EN I 2,1095 a 14-20). In questo contesto speculativo si radica l’etica umanistica aristotelica, che non identifica la bontà dell’agire morale nell’obbedienza a una legge, umana o trascendente, ma nella realizzazione di ciò che è il fine dell’uomo, il suo bene, in quanto singolo, portatore della forma «umanità». L’etica aristotelica non è morale della «norma», della «legge», del «dovere», ma della «felicità» e della «virtù».
4. Essa è perciò etica eminentemente pedagogica. In concreto, per l’uomo, che è biologia, sensibilità e intelletto, tendenza (appetito) e conoscenza, capacità di azione e di contemplazione, la vita ideale dovrebbe riunire in sintesi gerarchica le tre fondamentali esigenze della sua natura: il piacere, l’operosità etico-politica, la contemplazione (EN I 15,1095 b 16-18; I 9,1099 a 24-25; VII 14, 1153 b 17-18 e 1154 a 16-18). Non, però, in forma puramente puntuale e frammentaria. Perché la compiutezza, la felicità, sia la qualità della vita, la bontà dell’uomo non risiede nella sola bontà dei singoli atti: le attività specifiche devono procedere da capacità consolidate, le virtù, abiti operativi delle varie differenziate facoltà dell’anima, appetitiva, volitiva, conoscitiva: «una sola rondine non fa primavera né un sol giorno; così neppure un solo giorno né un breve tratto di tempo fa l’uomo felice e beato» (EN I 6,1098 a 19-20). «La virtù dell’uomo sarà un abito che fa buono l’uomo e capace di portare a compimento la sua opera propria» (EN II 5,1106 a 22-24). Di esse la più alta in assoluto è la virtù dell’intelletto teoretico-contemplativo, la sapienza (sophía). La più elevata nell’ordine intellettivo-pratico, invece, è la prudenza (phrónesis), l’abito delle decisioni razionali commisurate al «giusto momento», il «kairós», virtù guida del retto agire etico-politico (EN II 3, 1104 b 24-26; 6, 1106 b 36-1107 a 2). Essa è la misura intellettuale pratica (l’orthós lógos) dell’esercizio delle virtù etiche, che garantiscono la rettitudine degli appetiti, razionale il convivere mediante la giustizia, razionale il concupiscibile la temperanza, razionale mediante la fortezza l’irascibile: «non è possibile essere propriamente buono senza la prudenza né prudente senza virtù morale [...] non ci sarebbe decisione retta né senza la prudenza né senza la virtù, poiché questa ci fa attingere il fine e quella i mezzi al fine» (EN VI 13,1144 30 e 1145 a 5). Distinte tra loro le virtù, è anche distinto il rispettivo processo pedagogico di acquisizione e di crescita: «Essendo la virtù di due specie, l’una dianoetica, e l’altra etica, la virtù dianoetica per massima parte si genera e accresce mediante l’insegnamento (didaskalía) e, perciò, ha bisogno di esperienza e di tempo; invece la virtù etica (ethos) è frutto dell’abitudine (ethos), per cui da questa ha preso il nome, leggermente modificato» (EN II 1,1103 a 14-17).
5. Indissolubile è per A. il legame tra vita morale e vita politica. L’uomo, per natura animale sociale, può realizzare il suo fine soltanto in una comunità «amicale»: nella famiglia, nel villaggio e, pienamente, nella città-stato, la pólis. Tale legame caratterizza anche il programma pedagogico, che sintetizza ascendenze platoniche, storia greca (il «prudente» Pericle è il suo modello di uomo politico e «educatore») e marcate personali elaborazioni realistiche. Uomo buono equivale a buon cittadino, le virtù dell’uomo buono sono anche le virtù del buon cittadino. La costituzione è diretta a far buoni i cittadini anche se non tutti necessariamente lo diventano; la città, comunque, sussiste in forza di uomini buoni. Per questo è compito della città di legiferare sull’educazione, per una formazione uniforme dei cittadini alla ricerca del bene comune, che è la «scholé» (l’otium) e la «pace» (Pol. VII 14,1334 a). Ciò non significa che la città abbia il monopolio dell’educazione, che nella prima infanzia in particolare deve essere ufficio della famiglia. L’educazione è fondata su tre elementi: le disposizioni naturali, l’abitudine acquisita con l’esercizio, la ragione mediante l’insegnamento. «Per essere buoni si deve essere educati convenientemente e prendere buone abitudini, continuando poi a trascorrere la vita in occupazioni oneste» (EN X 9, 1180 a 14-16); «gli abiti derivano dalle attività che sono simili ad essi. Perciò bisogna che le attività che noi esercitiamo siano dotate di una certa qualità, poiché gli abiti morali corrispondono alle differenti qualità di queste attività. Non è, dunque, di poca importanza che fin da giovani si sia abituati in un modo oppure in un altro; è, al contrario, supremamente importante o, piuttosto, è tutto lì» (EN I 2,1103 b 23-25). Secondo la gerarchia delle parti dell’anima l’educazione si svolge per gradi successivi: precede la cura del corpo, segue quella degli appetiti per culminare nella formazione della ragione e del pensiero che sono il fine della natura (Pol. VII 15,1333 b 6-28).
6. Sia l’Etica a Nicomaco che la Politica offrono copiose indicazioni sulla crescita nei vari settori. Vi sono comprese le condizioni per il benessere fisico: igiene, ginnastica e sport; e la cultura necessaria a un’autentica «scholé» od otium: la grammatica o le lettere, la ginnastica con le attività sportive, la musica inclusiva del canto e della poesia, il disegno (Pol. VIII 3, 1337 b). Attente analisi sono dedicate alle virtù etiche: il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magnificenza, la magnanimità, l’onorabilità, la pacatezza, l’amabilità, la veracità, la gaiezza, il pudore, la giustizia, l’equità (EN III 5-V 10, 1115 a 4-1138 b 17), la continenza (EN VII 1-10, 1145 a 15-1154 b 34). Di approfondita considerazione sono oggetto, infine, le più alte virtù intellettuali: la prudenza individuale e politica (EN VI 1-13, 1138 b 18-13-1145 a 14) e la sapienza (EN X 6-10, 1176 a 30-1181 b 23). È un ideale aristocratico di formazione di uomini «liberi», in grado di «operare rettamente e fruire nobilmente della scholé» (Pol. VIII 3,1337 b 32); ne sono esclusi quelli che non godono dei diritti del «cittadino» (anzitutto gli schiavi) e i nullatenenti; tra i cittadini, poi, di fatto non ne può avvantaggiarsi con pienezza la maggioranza («i molti») addetta a onerosi lavori manuali e deputata ad assicurare la sussistenza a sé e ai veramente «liberi»; tra questi, poi, un’esigua minoranza potrà dedicarsi alla massima espressione della «scholé», le attività del pensiero, la «filosofia», la vita contemplativa.
7. Quanto all’educazione fisica e culturale A. traccia un programma – rimasto incompiuto – che dovrebbe essere seguito da tutti, in famiglia nei primi sette anni (Pol. VII 17, 1336 a 3-1137 a 7) e in comune nei due settenni successivi (Pol. VIII 1-7, 1137 a 11-1342 b 34). Data l’importanza di buone disposizioni naturali sono decisive per A. le attenzioni prestate alla sanità dei matrimoni (Pol. VII 16, 1334 b 29-1336 a 2). Per la prima infanzia il filosofo attira l’attenzione sull’alimentazione, l’abitudine al freddo, il movimento e il gioco, gli effetti benefici del pianto e delle grida (Pol. VII 17, 1336 a 3-29), la preservazione da tutto ciò che è indecente e cattivo (Pol. VII 17, 1336 a 30-b 35). Per i due settenni successivi lo stagirita ripropone il programma della tradizione greca, arricchito dal disegno entrato recentemente nella cultura ellenistica: grammatica, ginnastica, musica, disegno (Pol. VIII 2, 1337 b 24-28). Nel libro VIII della Politica, incompiuto, trovano posto soltanto la ginnastica e la musica, trattate però con marcata sottolineatura etico-pedagogica. A. non traccia un programma di educazione femminile, ma l’elevata visione che ha del matrimonio e della famiglia e del ruolo che la donna svolge nelle dinamiche dell’amicizia coniugale e parentale suppone in essa qualità umane ed etiche di alto profilo non puramente casuali (cfr. EN VIII, 10-12, 1160 b 22 - 1162 a 33).
8. Dalle opere di A., si possono ricavare molteplici notazioni che confermano l’immagine di una concezione educativa esigente sia riguardo alla fanciullezza, vista soprattutto nelle sue carenze, sia a proposito dell’adolescenza sottoposta a una disciplina volta a contenerne le esuberanze e ad avviarla a una maturità adulta, eticamente e politicamente responsabile. La Retorica e la Generazione degli animali aggiungono osservazioni sulle caratteristiche psicologiche dei giovani (Ret. II 12, 1389 a 1-b 12) e sullo sviluppo biologico nella fase della pubertà di ragazzi e ragazze (De gen. an. VII 1, 581 a 12-b 21), che avranno ampia risonanza nei millenni successivi.
Bibl.: Aubenque P., La prudence chez Aristote, Paris, PUF, 1963; Braido P., Paideia aristotelica, Roma, LAS, 1967; Braun E. (Ed.), A.s und die Paideia, Paderborn, Schöningh, 1974; Lloyd G. E. R., A.: Sviluppo e struttura del suo pensiero, Bologna, Il Mulino, 1985; Berti E., Le ragioni di A., Roma / Bari, Laterza, 1989; Verbeke G., Moral education in Aristotle, Washington, D. C., The Catholic University of America Press, 1990; Naval Durán M. C., Educación, retórica y poética. Tratado de la educación en Aristóteles, Pamplona, EUNSA, 1992; Lombard J., Aristote. Politique et éducation, Paris, L’Harmattan, 1994; Curren R. R., Aristotle on the necessity of public education, Lanham, MD, Rowman & Littlefield, 2000.
P. Braido