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ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA

 

ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA

Ambito della riflessione pedagogica riguardante i tratti umani e la concezione dell’uomo, che soggiace o fa da quadro di riferimento alla ricerca e alla riflessione pedagogica e che, in vario modo e misura, illumina e motiva l’​​ ​​ azione educativa (v. anche​​ ​​ uomo).

1.​​ L’a. come forma caratteristica del pensiero contemporaneo.​​ Al di là delle sue tradizionali forme disciplinari (filosofica, fisica, culturale, sociale, medica, pedagogica...), l’a. è venuta ad avere un posto centrale nella cultura occidentale del nostro secolo, al punto da far parlare di una «svolta antropologica». Ma è innegabile che essa è risultato di un processo e di una ricerca culturale, plurisecolare ed epocale, che ha caratterizzato fin dall’inizio l’epoca moderna. Sul terreno dell’a., la riflessione e la ricerca degli ultimi decenni sembra aver superato la frattura tra teologia, filosofia e scienze umane, arrivata al suo punto più alto alla fine del secolo scorso e nella prima metà del nostro secolo. Tra tali ambiti di studio sembra ultimamente esserci un tacito patto di alleanza, allargata alle scienze naturali ed ecologiche, alle scienze logiche e matematiche, alla ricerca tecnologica ed informatica (soprattutto quella riguardante lo studio e la ricerca sull’​​ ​​ intelligenza artificiale). La necessità di una «nuova sintesi», ben oltre quella tra biologia e sociologia auspicata e tentata da E. O. Wilson e collaboratori, si coniuga con una forte e sentita «preoccupazione per l’uomo» (Guardini). Le grandi religioni (ma a loro modo anche molte nuove forme di religiosità), la politica internazionale, il sistema della comunicazione sociale sembrano vincere la loro tradizionale separatezza e il reciproco sospetto proprio attorno alla difesa, alla tutela e alla promozione dei diritti umani. Questi impegni pratici e percorsi teorici hanno evidenziato: «il posto dell’uomo nel cosmo», unico tra gli esseri viventi «che sa dire di no» perché capace di trascendenza (Scheler); l’«analitica esistenziale» della condizione umana e del suo «essere nel tempo con gli altri» (Heidegger); il suo operare che lo rende capace di «liberarsi dallo svantaggio» e dalle «manchevolezze della sua esistenza» (Gehlen) perché incamminato lungo «la via della cultura e della civiltà» (Cassirer) o perché capace di azione economica trasformatrice e di «lotta politica» (Marx); la sua «eccentricità» (Plessner) e il suo «essere diverso», perché persona (​​ personalismo); e tuttavia la sua vicinanza alla condotta animale (che fa pensare a​​ ​​ Lorenz, all’«altra faccia dello specchio» e a Morris, alla «scimmia nuda»); la sua ingegnosità tecnologica, che porta quasi ad annullare i limiti tra «naturale» e «artificiale», tra «reale» e «virtuale». Ma hanno pure portato alla luce: la vastità del «mondo della vita» (Husserl); la profonda e contraddittoria forza impulsiva e aggressiva, inconscia e conscia (psicoanalisi e etologia); l’assurdità e il non senso dell’esistenza (esistenzialismo); l’alienazione e la dominazione propria di molti rapporti interpersonali e sociali (marxismo e neo-marxismo); le tante forme di necessità e casualità con cui ha a che fare (Monod); la rigidità e la pesantezza delle strutture in cui si trova avviluppato (strutturalismo); la vena di nichilismo che pervade l’attuale condizione storica (Nietzsche e il neo-nichilismo); il rischio di perdita dell’identità e del senso della vita e dell’agire nell’accrescersi della complessità vitale del mondo globalizzato, delle dinamiche multiculturali, dell’espandersi del «virtuale», e delle profonde possibilità di intervento sull’uomo che le innovazioni tecnologiche permettono (intelligenze artificiali, robot, cyborg, clonazione, ecc.), tali da far parlare di «post-umano» (Fukuyama).

2.​​ Aspetti disciplinari della a.p.​​ Suggestioni sulla vita umana e sull’essere uomo in sé e per sé, o in quanto società politicamente organizzata o ancora in quanto essere relazionato con Dio e con una comunità religiosa, sono alla base della pratica educativa e della riflessione pedagogica tradizionale antica e moderna. In tal senso rimane fondamentale l’apporto della ricerca filosofica e teologica. Tuttavia, è tra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra, soprattutto in ambienti di cultura tedesca, che l’a.p. si è andata delineando nella sua specificità. Più che di un ambito disciplinare univoco, si tratta per lo più di contributi di vario tipo e di diverso approccio: a prevalenza filosofica, psicologica, sociologica, antropologico-culturale, biologico-neurologica; come risultato di ricerca storica o di ricerca positivo-sperimentale. Pure notevoli sono le differenze di scuola o d’indirizzo, anche nel solo ambito psico-sociologico (comportamentistico, funzionalistico, strutturalistico, cognitivistico, fenomenologico, ermeneutico, emancipativo). E tuttavia, negli ultimi tempi sembra rilevabile una larga convergenza che va ben oltre la comunanza dell’oggetto d’indagine: il farsi umano, nelle sue molteplici dimensioni e modalità processuali, nel suo sviluppo evolutivo o nel suo quadro terminale di personalità adulta, matura, anziana. La via più comune di ricerca è ancora quella che tende a mettere in luce anzitutto le particolarità d’ingresso nella vita dell’essere umano, soprattutto in rapporto con gli altri esseri viventi, grazie agli apporti della genetica, della biologia, dell’etologia, dell’​​ ​​ a. culturale e sociale. In tal senso si mettono in luce la «precocità», l’«inettitudine», l’«immaturità» e per altro verso le radicali capacità di apertura relazionale, di apprendimento, di intelligenza, di simbolizzazione, di linguaggio, di plasticità e di adattamento all’ambiente. Ma, in rapporto alla coscienza pedagogica contemporanea, che ha dilatato i tempi ed i modi dell’educazione con i concetti di​​ ​​ educazione permanente, di società educante e di educazione integrale, particolare attenzione viene oggi riservata anche alla tarda giovinezza, agli adulti, agli anziani (e, pertanto, andando ben oltre la cosiddetta​​ ​​ pedologia). Il senso del limite e dell’impegno umano, la migliore conoscenza del potenziale umano e delle risorse umane, hanno stimolato a comprendere meglio l’umanità di coloro che in vario modo sono diversamente abili o variamente svantaggiati; ed hanno fatto allargare lo sguardo pedagogico a categorie di persone o aree umane poco considerate in passato (giovani, donne, malati, sottoproletariato urbano e rurale, emarginati, immigrati, minoranze etniche, linguistiche, religiose...). A loro volta, le modalità epocali, complesse, differenziate e in profondo mutamento, hanno spinto a ripensare le categorie antropologiche di base del rapporto e dell’intervento educativo: la libertà, l’alterità, la reciprocità; la soggettività, la razionalità, la prassi e la progettualità umane (​​ senso).

3.​​ L’educabilità.​​ Comune è anche l’obiettivo e l’interesse che guida questi modi di ricerca pedagogica: attraverso la raccolta d’indizi presenti nel fenomeno umano si cerca di delineare i «compiti» dello sviluppo e i tratti qualificanti l’esistenza umana nelle diverse età, situazioni e modalità di vita. Il risultato a cui si tende è l’accrescimento delle conoscenze riferibili in vario grado alle caratteristiche evolutive, esistenziali ed essenziali degli esseri umani, che permettano di considerarli​​ ​​ soggetti (termine più preciso di «destinatari») di attività educative. Per tal motivo si dice che l’a.p. ha come suo fine ultimo aiutare a comprendere più e meglio l’«educabilità» umana. Con questa categoria, s’intende globalmente riferirsi a quegli ambiti e a quegli aspetti dell’esistenza soggettiva, relazionale e sociale, che richiedono o perlomeno appellano ad un’azione individuale e / o comunitaria di sostegno o d’aiuto, affinché arrivino ad un loro sviluppo, per quanto è possibile «formato», vale a dire ottimale, o quanto meno adeguato alle esigenze dell’ambiente e dei tempi. In questi termini «educabilità» significa ciò che in vario grado, nei soggetti, nei gruppi, nelle comunità può essere aperto all’azione educativa. Per altro verso, e conseguentemente, con la categoria dell’«educabilità» si viene ad indicare, per così dire, il campo d’azione dell’educazione. In tal modo si viene a evidenziare, come – secondo la formula cara all’esistenzialismo, ma ormai comune alla coscienza culturale contemporanea – l’essere umano, nel corso della sua esistenza storica, costruisce e definisce se stesso. E ciò, sulla base delle potenzialità soggettive ed oggettive che gli si presentano, nell’interazione con l’ambiente, grazie all’aiuto degli altri, per cui è messo (e man mano si mette) a parte del patrimonio sociale della cultura; e sempre più, crescendo, compartecipa con l’apporto delle sue decisioni ed azioni alla trasformazione e qualificazione umana di se stesso e del mondo. In tale volume di processi, al medesimo tempo naturali ed umani, individuali e collettivi, è pure iscritta la possibilità di involuzioni, di cadute in forme regressive, di fissazioni funzionali, di dominazioni esterne, di alienazioni di se stessi. Peraltro la pedagogia contemporanea tende sempre più a dar risalto alla fondamentale storicità e individualità sia del bagaglio di potenzialità formative, individuali e contestuali, sia della formazione di esse: ad evitare qualsiasi forma di omologazione e standardizzazione massificante e, all’opposto, a dare spazio alla varietà e alla ricchezza delle differenze e particolarità individuali o di gruppo.

4.​​ Necessità dell’educazione?​​ La categoria dell’educabilità mette in risalto un modo specifico e globale di vedere l’uomo. L’a.p. si rivela come una modalità di essere della a.​​ tout court,​​ in quanto fa pensare all’uomo in termini di​​ animal educandum:​​ indicando – come la classica definizione aristotelica dell’uomo​​ animal rationale –​​ ciò che caratterizza specificamente l’uomo rispetto agli altri esseri viventi. Tale definizione sarebbe perlomeno da porre accanto alle caratterizzazioni che via via nell’età moderna sono state date dell’uomo:​​ homo educandus​​ accanto a​​ homo faber,​​ loquens,​​ symbolicus,​​ historicus,​​ religiosus,​​ ludens,​​ ecc. Secondo alcuni pedagogisti dell’area tedesca (M. Langeveld in particolare), l’uomo, quale «essere da educare» costituirebbe l’oggetto proprio dell’a.p. ed offrirebbe ad essa il fondamento per la sua autonomia di disciplina scientifica. Per gli stessi autori, la definizione dell’uomo​​ animal educandum​​ sarebbe da prendere non solo nel senso più ovvio di «soggetto d’educazione», ma nel senso forte di essere che è «di necessità» da educare. L’educazione sarebbe assolutamente necessaria e non semplicemente un fattore utilissimo di formazione e qualificazione umana (in termini tecnici: di «necessità metafisica» e non semplicemente di «necessità morale»). Indubbiamente ciò che risulta necessario assolutamente è la partecipazione ad una comunità umana. Senza l’aiuto degli altri e la convivenza nell’«utero sociale» non si diventa e non si è umani, come a loro modo mettono in evidenza le vicende di bambini inselvatichiti o isolati socialmente. Rispetto alla «possibilità», che la categoria dell’«educabilità» esprime, la terminologia​​ educandum,​​ aggiunge nella sua forma grammaticale, l’istanza di impegno etico, la dimensione morale e di responsabilità che l’educazione comporta. L’«educabilità» trova il suo corrispettivo nel diritto soggettivo alla formazione, all’istruzione e all’educazione e nel dovere e compito, sociale e soggettivo, di dare adeguata attuazione a tale diritto. Ma è evidente che se si facesse riferimento all’educazione intenzionale e alla scolarizzazione sistematica, questa necessità non sarebbe più assoluta, perché molto si potrebbe apprendere per partecipazione diretta, per immersione nella vita e nelle pratiche sociali (quella familiare o del clan in particolare), per imitazione degli altri in genere e del gruppo o dei gruppi di appartenenza in particolare. In questo senso stretto di educazione, essa sarebbe necessaria tutt’al più per determinate persone chiamate a compiti, ruoli o «mestieri» specifici. Il problema tuttavia si pone oggi in modo nuovo: al livello di complessità sociale e vitale in cui storicamente ci troviamo a vivere, forse diventa necessario (e non semplicemente utile o aggiuntivo) per tutti un intervento sociale, specifico e sistematico, atto a favorire una crescita umana adeguata al livello di vita attuale e tale da essere umanamente degna di essere vissuta. I termini della questione risulterebbero pure più articolati se l’educazione venisse riferita non solo alla formazione dei singoli, ma all’insieme della vita sociale con le sue istanze storiche di liberazione e promozione integrale, per tutti e per ciascuno, per i popoli e per l’umanità intera presente e futura.

5.​​ Il limite dell’educazione.​​ Quest’attenzione alla situazione contemporanea ha il suo radicamento «ontologico» nell’essenziale storicità e culturalità della vicenda umana, sempre ed intrinsecamente connotata dall’essere nel mondo con gli altri nella storia (al cui interno si pone, come prassi specifica, l’azione sociale di formazione). D’altra parte la tendenza a relativizzare la necessità dell’educazione ha pure il suo significato. In primo luogo essa sta a difendere la personalità del soggetto contro eccessive intromissioni esterne. In secondo luogo tende a dar risalto alle priorità del soggetto nei processi formativi, soprattutto quando, con il crescere dell’età si consolida sempre più l’attitudine dell’auto-direzione, quando cioè si diventa in qualche modo ed in diversa misura capaci d’intervenire su se stessi e sul proprio destino. In terzo luogo può essere considerata come un’istanza critica nei confronti di ogni tendenza a credere nell’onnipotenza dell’educazione. Non si vuole in alcun modo sminuire l’importanza, anzi l’urgenza e la responsabilità individuale e sociale di contribuire alla promozione umana attraverso l’educazione; ma certo occorre vigilanza critica rispetto ai facili, ingenui ed acritici affidamenti all’educazione, fin quasi a dimenticarne la fondamentale limitatezza, ambivalenza, facilità ad essere strumentalizzata (​​ educazione). L’esperienza educativa del passato e quella attuale possono essere abbastanza chiarificatrici al riguardo. La persona non è chiusa entro le strutture dei sistemi educativi ed entro il raggio d’azione dei suoi molteplici educatori. Anche se senza il contributo di altre persone non si arriva ad essere pienamente umani, è pur vero che l’educazione, nonostante le sue pretese, non sempre risulta in concreto positiva per l’avanzamento umano. Inoltre non tutto nell’essere è educabile. A sua volta l’enfasi sul bisogno di educazione, quando non è espressione di un eccessivo utopismo pedagogico o supporto ideologico di certi messianismi politici, è certamente un indice di quella vena d’illuminismo antropocentrico che pervade l’età moderna e che si affida – non sempre criticamente – alle capacità razionali di trasformazione umana ed ambientale. Dei limiti e delle possibili deviazioni di tale capacità la cultura contemporanea è stata fatta accorta soprattutto dagli esiti profondamente ambigui della tecnologia contemporanea e dal rischio, fattosi sempre più concreto, del tracollo ecologico o di una conflagrazione bellica nucleare, ben più rovinosa delle già gravi guerre mondiali (e le infinite guerre dei poveri) del sec. scorso.

6.​​ A.p. e pedagogia.​​ In alcuni ambienti pedagogici si usa distinguere l’a.p. dalla «teleologia pedagogica» (che studia i fini) e dalla «metodologia pedagogica» (che studia le strategie educative). Ad esse si potrebbe aggiungere la «tecnologia pedagogica» (per lo studio e la ricerca dei mezzi e degli strumenti operativi). Ma si è visto come spesso l’a.p. si allarga o perlomeno allude all’ordine dei fini e degli obiettivi educativi. Senza negare la legittimità di tali ambiti di studio, c’è certamente da evidenziare almeno la necessità di una corretta e valida​​ ​​ interdisciplinarità tra essi. All’interno poi dell’a.p. c’è da notare che il discorso dell’educabilità acquista tutta la sua pregnanza se si porta la ricerca non solo sui «fondamenti» strettamente antropologici, ma anche sulla concezione della realtà in generale e sui possibili orizzonti di valore che si discoprono all’azione umana. L’a.p. «necessita» di rapportarsi all’ontologia, alla ricerca metafisica, all’assiologia e, secondo i credenti, anche alla riflessione teologica e sapienziale.

Bibliografia

Maritain J.,​​ Umanesimo integrale, Torino, Borla, 1963; Mounier E.,​​ Il personalismo, Roma, AVE, 1964; Cassirer E.,​​ Saggio sull’uomo,​​ Roma, Armando, 1968; Mencarelli M.,​​ Potenziale educativo e creatività,​​ Brescia, La Scuola, 1973; Wilson E. O.,​​ Sociobiologia. La nuova sintesi,​​ Bologna, Zanichelli, 1979;​​ König E. - H. Ramsenthaler (Edd.),​​ Diskussion pädagogische Anthropologie,​​ München, Fink,​​ 1980; Volpi C.,​​ Paideia ’80. L’educabilità umana nell’era del post-moderno,​​ Napoli, Tecnodid, 1988; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci,​​ 81992; Buber M.,​​ Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1993; Acone G.,​​ A. dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1997; Scheler M.,​​ La posizione dell’uomo nel cosmo, Roma, Armando, 1999; Guardini R.,​​ Mondo e persona. Saggio di a. cristiana, Brescia, Morcelliana, 2000; Fukuyama F.,​​ L’uomo oltre l’uomo, Milano, Mondadori, 2002; Nosari S.,​​ L’educabilità, Brescia, La Scuola, 2002; Nanni C.,​​ A. p., Roma, LAS, 2002.

C. Nanni




ANZIANI

 

ANZIANI

La definizione di a. manca di un criterio oggettivo o condiviso. Per l’OMS si è a. a 60 anni, per l’ISTAT a 65. Altre definizioni correlano l’ingresso nella «terza età» con l’uscita dalla vita attiva; per altri ancora si è a. alla soglia di un rischio elevato di non autosufficienza (75 anni o «quarta età»). Fino alla relativizzazione totale di questa specifica condizione: «una persona è anziana quando si sente tale».

1. I momenti più indicati dagli a. stessi (Frisanco, 1988) come svolta verso la vecchiaia sono fatti coincidere con eventi patologici precisi o con la perdita della propria efficienza fisica (esiti invalidanti di malattie) e con la perdita degli affetti familiari: eventi luttuosi (morte del coniuge), il costituirsi dei figli come nucleo familiare autonomo. L’immagine dell’a. si caratterizza proprio per il senso di una perdita che si può estendere anche al ruolo professionale che innesca il processo di invecchiamento. Il soggetto, deprivato della propria posizione e funzione sociale, viene catapultato in una situazione diversa che probabilmente viene sentita come negativa, penalizzante, regressiva.

2. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è inarrestabile se si considera che dal censimento 1951 a quello del 2001 è più che raddoppiata l’incidenza della popolazione con 65 o più anni sul totale dei residenti in Italia: dall’8,2% al 18,7%, raggiungendo una popolazione di 10 milioni 700 mila persone. A elevare l’incidenza relativa della popolazione anziana concorre anche la diminuzione della natalità e della mortalità. Negli ultimi 10 anni la crescita più cospicua è stata quella degli ultrasettantacinquenni (+42%) o della «quarta età». L’attenzione con cui oggi si guarda a questa fascia di popolazione è giustificata da una serie di dati di rilevanza geriatrica: è documentato come i 75 anni facciano da spartiacque tra due età di rischio molto diverso rispetto alle malattie e alla non autosufficienza.

3. I​​ ​​ bisogni che segnano la condizione dell’a. possono essere molteplici e tra loro cumulabili: oltre alle povertà materiali (reddito, abitazione) vi è la carenza, inadeguatezza, improprietà delle risposte dei servizi (povertà istituzionali) e, soprattutto, i bisogni relazionali. In proposito le occasioni di stabilire rapporti appaiono generalmente limitate, circoscritte da una sorta di meccanismo di tipo socio-culturale per cui gli a. si incontrano e passano il loro tempo quasi esclusivamente con persone della propria età. Non molto diffusa è la fruizione di occasioni e servizi di tipo culturale, pur avendo proprio l’a., paradossalmente, più tempo per goderne e su questo incide la pregressa propensione o meno a fruirne, dato che le opportunità sembrano essere determinate dal livello di «risorse» (culturali, fisiche, economiche, familiari) che l’a. ha utilizzato nel corso della sua vita. In tal senso i più gratificati sono coloro che hanno condotto una vita più attiva; gli uomini rispetto alle donne; chi vive in casa rispetto a chi occupa un posto in strutture residenziali; chi ha maggiori possibilità economiche e più elevati livelli di autosufficienza (Frisanco, 1988). Una delle più grandi conquiste sociali di questi tempi, l’aumento della aspettativa di vita dell’uomo, tende ad essere presentata come un problema: lo attestano le cronache, le inchieste e anche i dibattiti di politica sociale e sanitaria. Infatti, le «immagini» sociali dell’a. sembrano connotarlo maggiormente in negativo come improduttivo, malato, inutile, superato (culturalmente) o risparmiatore, più che in positivo, per la migliore qualità media della vita o come risorsa, valore di testimonianza, nuovo consumatore. Così l’attenzione si focalizza prevalentemente sui costi ed i rischi della specifica condizione, mentre appare meno incisiva la valutazione delle risorse e delle potenzialità degli a.

4. Eppure l’universo degli a. non è una realtà omogenea, compatta; presenta al suo interno diverse condizioni che si riflettono sulla qualità della vita e sulla struttura dei bisogni: l’essere autosufficiente o non; di terza o quarta età;​​ ​​ uomo o​​ ​​ donna (se le donne vivono mediamente più a lungo, la loro vecchiaia è maggiormente segnata da un più elevato rischio di non autosufficienza e di confinamento domestico); di basso o medio / alto livello di status socioeconomico; di contesto urbano / metropolitano o non urbano / rurale; del centro-nord o del sud; di un’area più o meno dotata di una rete di servizi. La realtà dell’a. è caratterizzata da una variegata eterogeneità di situazioni e percorsi non riducili alla generalizzazione di una immagine pauperistica. È una realtà che per lo più si presenta vitale, con notevoli risorse ed opportunità e capace di giocare un ruolo specifico ed originale a livello relazionale e sociale. Come attestano recenti indagini è una condizione con tanti «più», in termini di anni da vivere, di salute, di risorse materiali (circa il 50% è abbiente), di istruzione (questa è la prima generazione di a. con titolo di studio superiore alla quinta elementare), di voglia di vivere e di fare in virtù di un atteggiamento positivo nei confronti della vita quotidiana. Gli a. sono diventati anche un target molto studiato dal marketing per la loro propensione al risparmio e all’investimento e sono altresì più in grado di autorganizzarsi e di partecipare, come si rileva dalla loro ampia presenza nell’associazionismo di promozione sociale e di tipo solidaristico.

5. Il rapporto tra a. e​​ ​​ servizi appare tuttavia ancora problematico e non è ascrivibile tanto all’emarginazione sociale dei vecchi di oggi, trasferita nel campo del diritto alla salute o alla assistenza. È qualcosa di più profondo, che nasce da visioni parziali ed errate della biologia dell’invecchiamento. C’è chi ritiene la vecchiaia un processo immodificabile, determinato e del tutto involutivo. I servizi che nascono da questa visione sono di tipo contenitivo e assistenziale e forniscono un intervento anche illimitato nel tempo, ma il più possibile sempre uguale e al minor costo possibile, dal momento che non si attendono risultati. Non serve quindi valutare individualmente i bisogni e costruire i piani di intervento, poiché non vi sono obiettivi da raggiungere. All’opposto, vi è chi ritiene la vecchiaia una realtà inevitabile ma modificabile, che non comporta soltanto processi di involuzione, ma anche processi positivi, di compenso attivo alle perdite che l’età provoca nell’organismo. L’a., in questa prospettiva, può essere «guidato» ad una migliore realizzazione da comportamenti più salutari. Ciò porta a costruire servizi ad alto contenuto educativo, riabilitativo o addirittura preventivo, da cui ci si aspetta un importante guadagno in autosufficienza e salute che giustifica le risorse impiegate. È quindi necessario valutare e formulare obiettivi, piani di lavoro, verifiche in servizi dinamici, duttili, intensivi dove è prioritario e irrinunciabile un discorso di qualità. Si tratta di «inventare» un nuovo modo di affrontare questo fenomeno e di differenziare quanto più possibile le risposte in rapporto alle variegate strutture di bisogno dei diversi gruppi di a.

6. È ormai acclarato il triplice scopo dell’offerta di servizi per gli a.: 1) elevare la qualità della vita secondo l’obiettivo di «aggiungere vita agli anni» e mantenere il più a lungo possibile l’autosufficienza; 2) fronteggiare precocemente bisogni che altrimenti generano situazioni di povertà composite e patologie conclamate, che richiedono l’allontanamento dell’a. dal suo ambiente consueto di vita e un maggior costo per tutti; 3) facilitare l’accesso ai servizi spesso ostacolato da problemi di disinformazione circa le prestazioni e le opportunità esistenti, non solo per quanto concerne i servizi socio-sanitari, ma anche quelli pensionistici-previdenziali, culturali, del tempo libero, del turismo sociale ecc. In tal modo si ovvierà anche alla sostanziale non corrispondenza tra servizi fruiti e servizi di cui l’a. ha bisogno o che domanda. Inoltre si può ottenere valore aggiunto ai servizi attraverso la promozione e valorizzazione delle varie forme di​​ ​​ volontariato (anche di a. che aiutano altri a.) da inquadrare nell’ambito di un progetto locale. La sfida maggiore che si presenta oggi alle nostra società è la riduzione del divario esistente tra aspettativa di vita totale e aspettativa di vita attiva,​​ priva di disabilità.​​ Si tratta di attivare reti di solidarietà sul territorio che abbiano come riferimento gli a. in quanto «soggetti attivi protagonisti» – non «oggetto» di interventi di tipo assistenziale e riparatorio – e di far sperimentare loro processi esistenziali di significatività comunitaria in modo da contrastare la mancanza di ruolo e di relazione e quindi la «non autosufficienza sociale».

Bibliografia

Hanau C. (Ed.),​​ I nuovi vecchi. Un confronto internazionale,​​ Rimini, Maggioli, 1987; Frisanco R. (Ed.),​​ Quarta età e non autosufficienza,​​ Roma, TER, 1988; Facchini C.,​​ Invecchiare: un’occasione per crescere. Attività culturale e sociale e benessere. Rapporto 2002 Spi Cgil-Cadef, Milano, Angeli, 2003; Fondazione Leonardo (Ed.),​​ Quarto rapporto sugli a. in Italia 2004-2005, Ibid., 2006.

R. Frisanco