1

analisi degli OBIETTIVI

 

OBIETTIVI: analisi degli

Dal lat.​​ objacere​​ (essere posto davanti), il termine o. è stato introdotto nel linguaggio pedagogico in polemica con «finalità»​​ ​​ identificata con la retorica e la vaghezza secondo le quali si definivano tradizionalmente le intenzionalità educative​​ –​​ ed ha costituito la parola-chiave di un modello didattico​​ –​​ la «pedagogia per o.», appunto – che si è imposto all’attenzione in Europa nella particolare congiuntura degli anni ’70. Senza entrare nel merito delle contingenze culturali che ne avevano ispirato l’origine (gli USA degli anni ’50 con Tyler) né delle «vie nazionali», che in Italia e negli altri Paesi europei l’hanno denotato in modi differenziati, l’opzione a favore degli o. si giustifica essenzialmente come istanza diffusa: a) per​​ «princìpi di legittimazione»,​​ capaci di promuovere la​​ convergenza unitaria​​ delle attese rivolte alla scuola; b) per​​ «principi di organizzazione»​​ in grado di assicurare l’opportuna​​ razionalità strumentale​​ all’azione d’insegnare. Nell’insieme, si tratta di acquisire i requisiti della scientificità al lavoro educativo.

1. In questo contesto, l’analisi degli o. consiste in una complessa e sofisticata procedura di progettazione dell’insegnamento che si caratterizza per​​ l’enfasi sui risultati attesi​​ sui quali far leva per​​ rendere prevedibili e controllabili le operazioni di aula e di scuola.​​ Prescindendo dalle numerose varianti che si conoscono, la programmazione per o. si compie attraverso due passaggi connessi: a) la​​ legittimazione​​ e b) la​​ operazionalizzazione. Il primo​​ si costruisce come​​ processo di deduzione:​​ nel quadro delle finalità assegnate dalla società all’istituzione scolastica, si tratta di identificare​​ il cambiamento dell’alunno​​ in quanto corrispettivo – in situazione – connotato da​​ necessità​​ (=​​ quel cambiamento,​​ e nessun altro che quello)​​ e​​ sufficienza​​ (=​​ quel cambiamento,​​ e solo quello).​​ Dal punto di vista tecnico, è il riferimento al​​ tempo di realizzazione​​ – medio e breve termine – che consente di tradurre la «finalità» in «o.» pertinenti. La deduzione consente inoltre di coprire altre dimensioni del progetto pedagogico-scolastico:​​ all’interno,​​ orientare sul piano etico e attivare a livello socio-emotivo il consenso degli insegnanti;​​ all’esterno,​​ accreditare le intenzionalità formative della scuola presso il pubblico, in particolare le famiglie, invitati a condividere ed a sostenere l’impegno degli insegnanti.​​ Il secondo passaggio​​ è più articolato perché investe​​ il​​ campo decisionale​​ dell’azione didattica, ovvero il calcolo delle condizioni d’esercizio utile a ridurre l’incertezza delle scelte da compiere in molteplici direzioni e in tempo reale. Il dispositivo contempla: a)​​ La valutazione anticipata,​​ ovvero (I)​​ la formulazione rigorosa del cambiamento atteso,​​ tale da indicare le azioni dell’alunno in un contesto dato, e i criteri in base al quale potranno essere riconosciute dall’insegnante, e (II)​​ la classificazione delle prestazioni dell’alunno,​​ in modo da indicare i criteri in base ai quali potranno essere apprezzate dall’insegnante (a questo proposito si adottano​​ tassonomie,​​ più o meno standardizzate – per rendere comparabili i giudizi – e differenziate a seconda degli ambiti curricolari mirati). b)​​ Il​​ disegno della conduzione,​​ ovvero (III)​​ la selezione dei contenuti,​​ (IV) la determinazione della​​ sequenza metodologica,​​ dei raggruppamenti degli alunni, delle tecniche e dei materiali, (V) il computo dei​​ tempi​​ necessari e degli​​ spazi arredati​​ utilizzabili. c)​​ Il controllo di fattibilità,​​ ovvero (VI) l’accertamento dei​​ prerequisiti​​ presso gli alunni ed, eventualmente (VII) interventi resi opportuni per mettere gli alunni in condizione di seguire proficuamente l’attività didattica predisposta.

2. Il successo della «pedagogia per o.» presso l’amministrazione scolastica e gli insegnanti è apparso vasto e immediato, presumibilmente perché ha consentito di razionalizzare le pratiche didattiche e di promuovere efficacemente l’immagine professionale. Frequenti, tuttavia, e numerose sono le obiezioni mosse a questa strategia di programmazione: – innanzitutto la laboriosità della procedura, che richiede competenze elevate, non facilmente reperibili presso gli insegnanti, e la macchinosità, che richiede tempi e impegni di coordinamento proibitivi; – la difficoltà di anticipare la valutazione, rappresentandosi nella fase di progettazione gli esiti di un’attività formativa non ancora esperita e comunque frutto dell’interazione, non sempre né facilmente prevedibile, con gli studenti; – il riduzionismo imposto dall’uso dei verbi d’azione per rendere «visibili» i cambiamenti voluti presso gli alunni quando riguardano conoscenze e competenze cognitive profonde; – gli ostacoli opposti dalla struttura reticolare delle discipline di studio ad essere ordinate in strumenti lineari come le tassonomie; – l’inopportunità di percorsi precostituiti per un’azione come l’insegnamento, che si costruisce integrando gli studenti e adattandosi flessibilmente ai loro comportamenti.

3. A seguito della discussione critica (avviata, lealmente, all’interno del movimento medesimo), ma anche a fronte di reazioni polemiche quando non preconcette, oggi della Pedagogia per O. restano fuori gli estremi, come la «operazionalizzazione», la limitazione degli o. all’interno del «dominio» motorio, pratico e cognitivo di rango inferiore (ad esclusione, quindi, dell’ambito più pregnante sul piano educativo, come sociale-emotivo-affettivo e, a scuola, del livello cognitivo più avanzato), il ricorso per approssimazione di massima alle tassonomie (soprattutto a riguardo della loro «linearità»), il rifiuto netto di indicatori «metrici» e quantitativi all’atto della valutazione, l’ammissione di frammentarietà (e numerosità) degli o. Buttata via l’acqua sporca (soltanto?), resta una sorta di «canone» della programmazione – lo schema​​ O.-Metodi-Contenuti-Valutazione​​ – il​​ nucleo di un’idea d’insegnamento concepito come attività razionale, una sorta di «sentire comune» consolidato, ormai divenuto patrimonio generale. Oggi è la​​ «Pedagogia delle Competenze»​​ che si presenta come una evoluzione non difensiva della​​ Pedagogia per O.​​ e ripropone lo stesso orientamento di fondo, adattato ad una congiuntura culturale ben diversa dagli anni della sua affermazione istituzionale.

Bibliografia

Meyer H. L.,​​ Introduzione alla metodologia del curriculum, Roma, Armando, 1977; De Landsheere G. e V.,​​ Definire gli o. dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1977; Birzea C.,​​ Gli o. educativi nella programmazione, Torino, Loescher, 1979; Filograsso N.,​​ Gli o. dell’educazione. Fondamenti epistemologici, Venezia, Marsilio, 1979; Gage N. L.,​​ The paradigms wars and their aftermath: A ‘historical’ sketch of research on teaching since 1989, in «Educational Researcher» (1989) 7, 4-10; Boselli G.,​​ Postprogrammazione, Firenze, La Nuova Italia, 1991; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica, Torino, SEI,​​ 21994; Crispiani P. - N. Serio (Edd.),​​ Manifesto sulla progettazione. Testo e commento al Manifesto di Chiaravalle, Roma, Armando, l996; Damiano E.,​​ Didattica ed epistemologia. Indagine sui fondamenti di alcuni modelli d’insegnamento, in «Pedagogia e Vita» (2004) 4, 75-106.

E. Damiano




ANALISI TRANSAZIONALE

 

ANALISI TRANSAZIONALE

L’a.t. è una teoria della​​ ​​ personalità e una psicoterapia sistematica ai fini della crescita e del cambiamento della persona (Stewart e Joines, 1990), elaborata dallo psichiatra americano E. Berne verso la fine degli anni ’50.

1.​​ Complessità del modello.​​ L’a.t. oltre che una teoria di personalità, un modello psicoterapeutico per interventi individuali, di gruppo, di coppia e familiare e una specifica teoria della psicopatologia, è anche una teoria della​​ ​​ comunicazione e dello​​ ​​ sviluppo infantile. Come teoria della comunicazione può fornire un metodo di a. dei sistemi e delle organizzazioni. Come teoria dello sviluppo infantile permette di spiegare come schemi di vita attuali abbiano origine, in parte, dall’infanzia e continuino a modificarsi lungo tutto il corso della vita. L’a.t. è ampiamente usata nei contesti educativi per il counseling e nei processi interpersonali per aiutare gli insegnanti e gli studenti a rimanere in chiara comunicazione.

2.​​ Concetti chiave dell’a.t.​​ Sono fondamentali nell’a.t. i concetti di​​ stati dell’Io.​​ Uno stato dell’Io è un insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni tra loro collegati così da formare un’unità osservabile. Ci sono tre stati dell’Io secondo l’a.t.: lo stato dell’Io Adulto, lo stato dell’Io Genitore e lo stato dell’Io Bambino. L’Adulto​​ è un insieme di modi di agire, pensare e sentire in relazione alla realtà che si svolge nel qui ed ora; il​​ Genitore​​ è un insieme di comportamenti, di pensieri e di emozioni che spesso sono una copia dei modi di porsi dei genitori, o altre persone che sono state figure genitoriali; il​​ Bambino​​ riflette modi di comportamento, di pensiero e di emozioni caratteristici di quando si era bambini. Quando le persone comunicano possono presentarsi a partire da qualsiasi dei tre stati dell’Io; l’a. delle sequenze di transazioni tra gli stati dell’Io delle persone costituisce l’a.t. in senso stretto. Nell’a. delle transazioni sono importanti le​​ carezze,​​ cioè qualsiasi atto di riconoscimento dell’altro o da parte dell’altro, e la​​ strutturazione del tempo,​​ cioè i diversi modi di impiegare il tempo nelle transazioni in gruppi o in coppie. Nell’infanzia ogni persona scrive una storia di vita per se stessa che l’a.t. chiama​​ copione.​​ Nella vita adulta molti aspetti del copione vengono seguiti fedelmente senza che la persona ne abbia consapevolezza. L’a. del copione​​ serve per capire come le persone possano talora, senza saperlo, crearsi dei problemi e come possano procedere per risolverli. Il bambino crea il copione come strategia efficace di sopravvivenza. Nel creare il copione talora distorce la realtà con​​ ridefinizioni,​​ altre volte non tiene conto di fatti importanti con la​​ svalutazione​​ di essi. Per mantenere il copione nella sua forma infantile, talora gli adulti entrano in relazione in modo da comportarsi come bambini e invitano gli altri ad assumere il ruolo di Genitore e Adulto anziché attivare il proprio Genitore e il proprio Adulto; quando questo avviene si dice che la persona si mette in un rapporto​​ simbiotico.​​ Da bambini le persone talora imparano a non esprimere alcune emozioni non approvate e a sostituirle con altre. Quando nella vita adulta invece di esprimere le emozioni autentiche si fa lo scambio delle emozioni come si faceva da bambini, le emozioni sostitutive sono chiamate​​ emozioni parassite.​​ Se le persone che comunicano, invece di esprimere le emozioni autentiche si relazionano attraverso emozioni parassite, esse mettono in atto dei​​ giochi psicologici.​​ Compito importante degli adulti è quello di aggiornare il copione per affrontare la vita secondo le esigenze del presente piuttosto che secondo le strategie create da bambini e inefficaci per il presente. Il cambiamento del copione infantile per adottare quello funzionale per la vita adulta permette di raggiungere l’autonomia.​​ Gli interventi dell’a.t. hanno lo scopo di facilitare l’arricchimento dell’autonomia.

3.​​ La filosofia dell’a.t.​​ I seguenti sono alcuni assunti di base dell’a.t.:​​ ognuno va bene come persona,​​ ognuno è capace di pensare,​​ ognuno decide il proprio destino e le decisioni prese possono essere cambiate.​​ Da questi assunti seguono due metodi di intervento specifici dell’a.t.: il​​ metodo contrattuale​​ e la​​ comunicazione aperta.​​ Il metodo contrattuale implica che in qualsiasi cambiamento previsto​​ viene assunta la responsabilità congiunta​​ tra l’analista e la persona interessata e ciò porta ad accettare la parità tra l’analista e la persona che si presenta per affrontare dei problemi. La comunicazione aperta implica che l’analista​​ fornisce chiare spiegazioni​​ rispetto a quello che accade nella relazione e nel lavoro congiunto.

4.​​ Organizzazione.​​ L’a.t. è organizzata a livello internazionale attraverso l’ITAA, International Transactional Analysis Association, a livello europeo attraverso l’EATA, European Association for Transactional Analysis, in Italia attraverso la SIAT, Società Italiana di a.t. In Italia esistono anche gruppi di analisti transazionali che non aderiscono alla SIAT.

Bibliografia

Berne E.,​​ A che gioco giochiamo?,​​ Milano, Bompiani, 1967; Scilligo P. - M. S. Barreca,​​ Gestalt e a.t., vol. I,​​ Roma, LAS, 1981; Scilligo P.,​​ Gestalt e a.t.,​​ vol. II, Ibid., 1983; Berne E.,​​ Principi di terapia di gruppo,​​ Roma, Astrolabio, 1986; Scilligo P. - S. Bianchini (Edd.),​​ I premi Eric Berne,​​ Roma, IFREP, 1990; Stewart I. - V. Joines,​​ L’a.t.: guida alla psicologia dei rapporti umani,​​ Milano, Garzanti, 1990; Zalcman M.,​​ A. dei giochi e a. del ricatto: visione d’insieme,​​ critica e ulteriori sviluppi,​​ in «Polarità» (1990) 8, 351-379; Mastromarino R. (Ed.),​​ A.t. La terapia della ridecisione: dalla teoria alla pratica e dalla pratica alla teoria, Roma, LAS, 2006.

P. Scilligo




ANARCHISMO ED EDUCAZIONE

 

ANARCHISMO ED EDUCAZIONE

Si intende per a. la teoria e pratica politico-sociale che tende a rifiutare ogni tipo di gerarchia e di organizzazione della​​ ​​ società.

1. Per anarchici e marxisti l’educazione fu una preoccupazione di capitale importanza. Nel Congresso dell’Internazionale dei Lavoratori, tenuto a Bruxelles nel 1868, si discusse della necessità di una «educazione integrale», il cui più strenuo difensore fu Paul Robin. Antico alunno della Scuola Normale Superiore di Parigi, conobbe Bakunin e Marx e partecipò alle loro dispute per capeggiare il movimento operaio internazionale. Robin rese popolare il concetto di «educazione integrale», difeso da tutti i leader operai del sec. XIX, attraverso il suo scritto​​ De l’enseignement intégral​​ (1869). Inizialmente Marx e Bakunin condividevano l’idea che prima era necessario fare la rivoluzione e poi bisognava rieducare il popolo, ma dal 1880 gli anarchici capeggiati da Kropotkin mutarono l’ordine delle priorità e si convinsero che nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile senza un previo cambiamento di mentalità dei suoi protagonisti. Prima di fare la rivoluzione, bisognava cominciare dalla scuola; tuttavia né la scuola di Stato né la scuola di Chiesa avrebbero collaborato al cambiamento delle mentalità, per cui gli anarchici cominciarono a fondare delle scuole proprie dalle quali provenivano i futuri rivoluzionari. In tal modo, nella terza parte del sec. XIX, sorsero numerose scuole private a carattere laico, la cui differenza fondamentale rispetto alle scuole statali e a quelle degli ordini religiosi, era il fatto che non vi si insegnava religione. Le leggi consentivano questo tipo di scuola a certe condizioni e ve ne furono di varia portata; tra esse vi furono scuole a spiccato carattere anarchico.

2. La prima scuola anarchica che ebbe una certa notorietà fu l’Institution Prevost​​ di Cempuis, vicino a Parigi. Si trattava di un orfanotrofio privato, controllato dal governo francese. Per dodici anni Robin diresse il centro, trasmettendo alcuni principi anarchici e introducendo alcuni metodi pedagogici innovativi, come per es. la lezione all’aperto, l’importanza dell’igiene, dell’educazione fisica e del lavoro nei piccoli laboratori dell’Istituzione (fattoria, orto, panetteria, sartoria, stampa, ecc.). L’obiettivo era che tutti gli alunni di questo centro misto avessero la possibilità di conoscere i diversi lavori che avrebbero probabilmente svolto alla fine della permanenza nell’internato, la qual cosa consentiva loro di avere un’esperienza diretta prima di doversi dedicare ad essi senza conoscerne le caratteristiche. Robin apparve troppo rivoluzionario alle autorità francesi laiche responsabili dell’educazione Accusato di insegnare il malthusianesimo e di essere antipatriota, fu deposto nell’agosto 1894.

3. Un’altra scuola anarchica famosa fu quella creata a Barcellona (1901) da Francisco Ferrer i Guardia (1859-1910). Ferrer ebbe l’appoggio di numerosi nuclei anarchici, massoni e liberali in genere, insoddisfatti dell’educazione pubblica e delle​​ ​​ congregazioni religiose insegnanti. Il suo nome e quello della​​ Escuela moderna​​ da lui fondata costituirono una svolta più per motivi ideologici e politici che per le innovazioni pedagogiche. Questa scuola ebbe appena cinque anni di vita. Fu chiusa nel 1906 ed il suo direttore fu imprigionato con l’accusa di complicità con il bibliotecario della scuola nell’attentato che, in occasione delle nozze di Alfonso XIII, causò vari morti a Madrid. Nel 1909 fu processato, accusato di aver partecipato ai disordini della «Settimana Tragica» ed in seguito fucilato. L’eco di questa tragica fine fu magnificata dalla​​ ​​ massoneria e dall’a. internazionale e fu utilizzata ancora una volta per fomentare il discredito della Chiesa e dei governi conservatori spagnoli responsabili dell’esecuzione.

Bibliografia

Tomasi T.,​​ Ideologia libertaria e formazione umana,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1973;​​ Delgado B.,​​ La escuela moderna de Ferrer i Guardia,​​ Barcelona, CEAC, 1979; Rodas I. - A. De la Calle,​​ Anarquismo y comunismo: ayer y hoy, Barcelona, Curso, 2005.

B. Delgado




ANIMAZIONE

 

ANIMAZIONE

In senso generale l’a. può essere intesa come uno stile, un approccio o un modo di rendere un servizio alle persone e alle comunità, cui corrisponde sul piano delle figure professionali un profilo specifico: l’animatore.

1. Il significato del termine a.​​ I termini «animare», «a. » e «animatore» indicano l’energia e l’attività che dà, espande, arricchisce la vita ed ispira un individuo o dei gruppi, sia dall’interno che dall’esterno. L’a., quindi, è essenzialmente un processo riferito alla vita e all’amore per la vita; promuove l’esistenza, l’armonia, la crescita e la coesione; abbraccia una vasta gamma di comportamenti umani e infonde energia, vitalità e spirito. Il termine, pertanto, è fondamentalmente collegato con la creatività, la gioia e l’ispirazione. L’a. diviene un’azione proficua solo in quelle esperienze dove c’è libertà e assenza di costrizione. L’a. sfida la vita stessa, così come sfida le personali capacità degli individui a liberarsi da ogni sorta di miseria che in qualche modo ostacola e svilisce la vita. Quindi la vita stessa diviene il luogo dove spargere i semi della speranza per il futuro.

2. Le diverse forme dell’a.​​ Esistono diversi modelli di a., che indichiamo brevemente, per soffermarci, poi, sul modello olistico dell’a. a)​​ A. creativo-espressiva:​​ è forse il modello generalmente più diffuso. È legato allo scenario della rappresentazione teatrale, che offre mezzi d’auto-espressione all’interno della comunità spesso utilizzati per aiutare i fanciulli e le persone con particolari problemi di apprendimento. b)​​ A. socio-culturale: ha dei legami con i processi educativi degli adulti e della comunità. Mira a promuovere lo sviluppo di talenti ed abilità delle persone e dei gruppi per abilitarli a una migliore partecipazione alle realtà sociali e politiche in cui vivono e ad una loro migliore gestione. c)​​ A. culturale: si riferisce maggiormente ad un approccio educativo e didattico applicabile ad attività scolastiche del doposcuola e specialmente a gruppi giovanili. Si tratta, in fondo, di una teoria educativa basata su un sottointeso paradigma filosofico / antropologico, con un metodo ben fondato e con risorse specifiche. Si qualifica per la dimensione culturale dell’identità individuale e le sue espressioni sociali e storiche. d)​​ A. del tempo libero:​​ si rivolge a forme ricreative o espressive. È un tipo d’a. nel quale il tempo libero delle persone è impiegato per liberare la loro auto-espressione e a per acquistare o riacquistare la loro creatività. e)​​ A. come dinamica di gruppo:​​ è riferita all’applicazione di tecniche e metodi che promuovono la comunicazione interpersonale e la messa in atto di attività di gruppo. f)​​ A. come modello olistico​​ per l’educazione si fonda sulla prospettiva di stili diversi e conseguenti ruoli da assumere per promuovere la pienezza di vita per tutti.

3. Comprensione del modello olistico dell’a.​​ Accentuando il significato delle parole «animare», «a.» e «animatore» come una qualità di vita, un modo dell’agire più che una specifica azione, possiamo comprendere l’a. come un insieme di​​ stili​​ per​​ ridestare (dare),​​ liberare (purificare),​​ rafforzare (sostenere),​​ progettare la vita;​​ ciascun stile è un​​ processo​​ e un​​ metodo​​ per​​ l’arricchimento della vita, che concorre a favorire un processo di​​ trasformazione della vita,​​ inteso come​​ un avanzare verso la pienezza di vita per tutti. E questo allo scopo di provocare dall’interno delle persone, la loro partecipazione alla vita della comunità. Per​​ a. che ridesta​​ o​​ dà la vita,​​ intendiamo uno stile di​​ pensare e di riferirsi alle persone​​ e ai dinamici processi interni connessi con la loro maturazione umana e spirituale. L’a. come liberazione​​ o​​ purificazione della vita​​ abilita individui e gruppi a rimuovere tutte le forme d’annullamento della vita e a decidere di essere sempre a favore di essa. L’a. come rafforzamento​​ o​​ sostegno della vita, indica​​ l’essere in relazione per accompagnare​​ persone e gruppi, con suggerimenti e motivazioni, in un cammino di maturazione affinché essi stessi possano scegliere gli stimoli più adatti. Per​​ a. come progettazione della vita​​ s’intende uno stile educativo che seleziona risorse ed opportunità educative articolandole in relazioni libere, autentiche ed evolutive, per incoraggiare gli individui a discernere e ad identificare la loro​​ visione personale​​ in conformità con l’invito di Dio e ad abilitarli a procedere​​ verso una visione condivisa​​ capace di promuovere nella comunità la pienezza di vita per tutti. L’a. come arricchimento di vita​​ è un​​ processo e un metodo​​ che accetta la visione della realtà sempre mutevole e che considera Dio come la sorgente di questa crescita e apertura creativa allo sviluppo. In definitiva, l’a. è un movimento che trasforma la vita;​​ ciò comporta una​​ strategia unificante​​ che include tempi, luoghi, vari aspetti ed azioni e anche un processo convergente ed unificato, in cui la vita e l’amore per la vita sono gli elementi centrali. La meta di questo processo di trasformazione è la​​ pienezza di vita per tutti.

4.​​ I valori dell’a.​​ L’a. nelle sue diverse modalità, possiede propri valori, che possono essere sia ideali, sia concreti. A. indica l’insieme di azioni-riflessioni mediante le quali l’individuo o il gruppo intraprende liberamente il cammino verso la pienezza di vita per tutti e quindi è «animato». Tali azioni-riflessioni, a loro volta, abilitano gli individui o i gruppi a trasmettere la vita ad altri e così diventano animatori. L’a. è intenzionalmente centrata sulle persone, sulla loro coscienza e sulle loro capacità. Riconoscendo la libertà interiore e l’autonomia dell’individuo, l’a. offre l’opportunità per liberarle da tutto ciò che ostacola il cammino verso la pienezza di vita. L’a. ridesta gradualmente le loro capacità interiori, aprendo nuovi orizzonti, chiamandoli ad una riflessione critica su se stessi, su quelli che li circondano, sulla storia e sul mondo in cui vivono, promuovendo così un itinerario verso la pienezza di vita per tutti. Questo procedimento ha bisogno di essere manifestato attraverso la solidarietà, l’armonia e l’unità all’interno della società stessa e verso la natura, con il dialogo il quale promuove, inoltre, uno stile educativo che non manipola le persone, non fa un lavaggio di cervello, né impone alcuna cosa con la forza. Come metodo educativo, l’a. non minaccia le persone con condanne o rappresaglie, né promuove la partecipazione solo per una ricompensa o un favore. Si limita, invece, ad offrire risorse ed opportunità e ad organizzarle in una relazione libera, autentica, che conduce allo sviluppo, al sostegno e all’accompagnamento delle persone nella loro crescita verso la pienezza di vita per tutti, attraverso il processo di​​ self-empowerment​​ (auto-responsabilità). Nello stesso tempo, l’a. riconosce che questo cammino è intrapreso in un ambiente specifico, dentro una storia particolare con tutti i suoi aspetti positivi e negativi. In questo modo, la memoria del passato e la speranza di un futuro migliore assumono un significato fondamentale nel processo d’a. La consapevolezza dei propri limiti, il bisogno d’impegno e lo sviluppo della speranza e dell’ottimismo costituiscono uno dei segni più evidenti per la memoria e la speranza di un futuro migliore. Queste dimensioni sono promosse non solo in vista di una sopravvivenza ma, soprattutto, per mettersi in cammino verso la realizzazione degli ideali dell’amore autentico. Questi ideali rendono gli individui capaci di percepire gli altri come persone dotate di specifiche qualità e non come una minaccia e un peso; di conseguenza, essi sono una sfida per cercare l’armonia e l’unità. Questa memoria e speranza nel futuro richiedono dagli individui un rinnovamento continuo, implicando l’uso appropriato e giusto delle risorse messe a disposizione dell’umanità.

5. L’a. - uno specifico processo educativo. L’a. mostra i processi della personalizzazione e della coscientizzazione che hanno luogo all’interno delle persone, dei gruppi e delle comunità e sottolinea le motivazioni che sottostanno alle varie scelte, e ne promuove sia la capacità critica, sia la partecipazione attiva ai processi di crescita, abilitandoli a diventare protagonisti responsabili. Inoltre, li rende consapevoli della realtà delle loro potenzialità inespresse, represse o soppresse, rafforzando in tal modo il tessuto sociale. L’educazione, invece, è generalmente intesa come una specifica attività umana associata a ruoli e figure precise entro una particolare relazione interpersonale che coltiva, cura e forma individui della generazione che sta crescendo. L’educazione comprende una serie si discipline miranti a fornire e ad accrescere informazioni ed abilità, allo scopo di sviluppare sia gli individui sia la società. L’a. e l’educazione, quindi, sono due realtà specifiche e complesse, che hanno degli elementi in comune quali la vita, la cultura, la persona, la libertà, la responsabilità, l’accrescimento delle potenzialità degli individui, ecc. Nel suo nucleo centrale, l’a. non differisce radicalmente dal processo educativo, ma considera se stessa come distinta dal modo abituale e predominante dell’educare. Differisce, in pratica, nel suo modo di comprendere le persone e anche nel modo di identificare la collocazione dei processi educativi che, nel caso dell’educazione, sono stati convenzionalmente associati con istituzioni accademiche. Queste hanno aiutato l’a. ad elaborare concetti teorici, metodi e tecniche diverse, capaci di verificare l’efficacia dei risultati che si possono ottenere con le esperienze d’a. L’a. ci aiuta a percepire che è possibile educare in ogni contesto, in ogni fase della vita e in ogni situazione, purché esistano certe condizioni di libertà. L’a., in altre parole, non deve essere solamente considerata come un aspetto del processo educativo, ma anche come una dimensione sottostante, che rafforza ed accresce i confini dei campi tradizionali dell’educazione.

6. A. dalla prospettiva degli stili diversificati. La domanda principale e fondamentale che gli operatori si pongono non riguarda il luogo dove fare l’a., ma la realtà particolare in cui si trovano le persone. L’a. è, di conseguenza, efficace solo se s’impegna seriamente a prendere in considerazione quella realtà attraverso cui le persone tentano di trovare la pienezza di vita. L’a., pertanto, richiede operatori che conoscono le situazioni e i bisogni delle persone e abbiano la capacità di identificare le cause fondamentali che provocano situazioni indesiderabili. Per stile si può intendere la maniera preferita di pensare, il modo originale di esprimersi e la forma particolare di agire, caratteristiche proprie di ogni persona. Lo stile non è un’abilità, ma piuttosto la modalità preferita per usare l’abilità che si possiede. Quando il profilo dell’a. si armonizza con la situazione delle persone, allora essa diventa feconda. Il profilo di uno stile d’a. è caratterizzato essenzialmente da due componenti: quello delle relazioni e quello dei compiti. La componente delle relazioni si specifica per una particolare sollecitudine verso le persone; quello dei compiti, invece, evidenzia l’impegno per la missione, cioè per la finalità e gli obiettivi. La prospettiva dello stile dell’a. è un forte richiamo, per gli operatori, a tenere unite la componente delle relazioni, quella dei compiti e quella delle situazioni. La visione degli stili (ridestare,​​ liberare,​​ rafforzare e progettare la vita) fornisce agli operatori una specie di ampia mappa concettuale, che è utile per comprendere sempre meglio la complessità dell’a. Le componenti principali degli stili che si riferiscono alle​​ relazioni​​ e ai​​ compiti, rimandano a due fattori fondamentali per ciascuno, compresenti nel processo dell’a. La prospettiva degli stili basata sulle​​ relazioni​​ e, quindi, sulla​​ sollecitudine per le persone, confida nelle loro risorse interiori per farle procedere verso una pienezza di vita per tutti attraverso i due processi seguenti. Il primo,​​ sostenere e apprezzare le risorse interiori delle persone​​ comporta che ognuna possieda delle risorse che necessitano di essere scoperte, sviluppate ed impiegate per la crescita e la maturazione e ciò è possibile attraverso l’a. Il secondo,​​ far procedere le persone verso la pienezza di vita​​ costituisce la finalità o l’obiettivo fondamentale d’ogni processo d’a., che permette di realizzare le loro aspettative di vita e il raggiungimento di un appagamento attraverso ragionevoli e giuste relazioni con se stessi, con gli altri, con il mondo e con Dio. La prospettiva degli stili a livello di​​ compito, cioè di​​ missione, richiede di sostenere le persone nella loro crescita, nei loro cambiamenti e nella promozione e partecipazione ampia e piena ai valori centrali della vita. Questa prospettiva si esplica attraverso altri due processi: il​​ rafforzamento delle persone nei mutamenti​​ attraverso il contatto con gli animatori e la​​ partecipazione ai valori centrali e fondamentali​​ della vita.

7. I processi coinvolti nella prospettiva degli stili dell’a. e ruoli corrispondenti. I processi coinvolti negli stili dell’a. divengono evidenti quando la sollecitudine per le persone e la preoccupazione per la missione s’intrecciano. Uno sguardo analitico dei processi dell’a. evidenzia stili distinti, ma collegati tra loro, che si possono esprimere con i verbi:​​ portare dentro​​ l’ambito dell’a.,​​ liberare​​ o purificare,​​ rafforzare​​ o sostenere e​​ progettare​​ la vita. Tali processi manifestano quattro stili fondamentali di a.:​​ ridestare / dare​​ la vita attraverso il​​ ruolo della narrazione;​​ liberare / purificare​​ la vita mediante il ruolo della valutazione;​​ rafforzare / sostenere​​ la vita attraverso il ruolo dell’allenamento;​​ progettare​​ la vita con il ruolo del leader.​​ Questi quattro stili d’a. sussistono in un equilibrio dinamico ed interagiscono tra loro. L’a., mentre abilita le persone ad usare stili diversi, le incoraggia anche ad esaminarne i limiti, per realizzare sempre più un’a. olistica, che presuppone un forte lavoro d’équipe. Mantenere questi quattro stili in un equilibrio dinamico e promuovere l’interazione tra loro, stimola un altro processo, quindi un altro stile, che in qualche modo migliora e valorizza la vita in ogni situazione e che può essere chiamato​​ arricchimento della vita. A quest’ultimo stile corrisponde il​​ ruolo del servizio​​ alle persone, che è il vertice dello stile dell’a., per abilitarle a divenire agenti-soggetti in relazione, per progredire verso la pienezza di vita per tutti.

8.​​ In conclusione, questi stili diversi e i ruoli corrispondenti ci aiutano a definire i compiti specifici dell’animatore, facendo vedere, nello stesso tempo, la natura olistica dell’a. Ognuno degli stili descritti è valido e nessuno di essi prevale su un altro, in quanto ciascuno esplicita particolari funzioni e sarebbe errato dire che uno stile dà migliori possibilità di un altro. Una formula che dovrebbe guidare gli animatori competenti può essere sintetizzata in questo modo: «stili diversi per persone diverse» e / o «stili diversi per situazioni diverse».

Bibliografia

Besnard P.,​​ Animation socioculturel. Fonctions,​​ formation,​​ profession, Paris, ESF, 1981;​​ Maurizio R. - D. Rei (Edd.),​​ Professioni nel sociale, Torino, Gruppo Abele, 1992; Sternberg R.,​​ Thinking styles, Cambridge, Cambridge University Press, 1997; Pollo M.,​​ A. culturale - teoria e metodo, Roma, LAS, 2002; Vallabaraj J.,​​ Animating the young, Bangalore, Kristu Jyoti Publications, 2005; Id.,​​ A. e pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2008.

J. Vallabaraj




ANIMAZIONE SOCIOCULTURALE

 

ANIMAZIONE SOCIOCULTURALE

L’a.s. può essere definita come un’azione sociale di promozione umana e di coscientizzazione personale e comunitaria. L’a.s.​​ fa capo, da una parte, alle esperienze di educazione degli​​ ​​ adulti promosse fin dagli anni Cinquanta del sec. scorso e, dall’altra, al modello francese dell’a.s. Questa viene pensata come intervento nel territorio, al fine di favorire i processi di crescita della capacità dei gruppi di partecipare alla realtà sociale e politica in cui vivono, e di gestirla. Questo filone è rappresentato, sia storicamente che attualmente, dalla rivista «A. Sociale» fondata da G. A. Ellena nel 1971 ed ora affidata alla gestione del Gruppo Abele di Torino. In questa direzione si sono mosse altre realtà significative quali l’ARIPS e l’ASSCOM, in stretto rapporto con le esperienze di psicologia di comunità.

1.​​ La dimensione educativa.​​ L’a.s., pur non volendosi confondere con altri stili di a. più marcatamente educativi, può avere una notevole valenza educativa. Infatti​​ le funzioni​​ dell’a.s., finalizzata al cambiamento attraverso la partecipazione, sono essenzialmente due: a) la​​ presa di coscienza, che riguarda realtà quali le potenzialità inespresse, rimosse o represse delle persone singole, dei gruppi e delle comunità; i dinamismi interni del nostro «agire»; le mentalità diffuse, sommerse, latenti; le situazioni problematiche; il divario ricorrente tra «reale» ed «ideale». A questo scopo anche il​​ metodo​​ adottato deve essere preciso. Occorrono interventi organici, ben finalizzati, ispirati ad una prevalente preoccupazione preventiva, specie in alcune aree (partecipazione, espressività e creatività, emarginazione, devianza). Tutto ciò al fine di​​ creare una nuova cultura​​ nel rapporto pubblico-privato, professionale-volontario; nel relazionarsi e collaborare con persone e con gruppi di diversa estrazione, formazione, ispirazione, ma operanti su obiettivi comuni; nella concezione del tempo libero, con finalità non solo ludiche ma anche di impegno sociale; b) il​​ potenziamento del tessuto connettivo sociale,​​ che​​ si attua con iniziative di socializzazione, gruppi e lavoro di gruppo, scambi turistici, itinerari ecologici, convegni e seminari, feste popolari, mostre itineranti, a. dei ragazzi nei condomini, raccolte finalizzate di oggetti; stimolando la «gente» a risolvere in proprio i problemi quotidiani, a superare le diffidenze verso il pubblico, a sostenere dall’esterno le comunità di accoglienza, ad essere presenti nelle situazioni di emergenza; lacerando l’incomunicabilità tra le generazioni, tra gli operatori e la «gente», tra i turisti e i locali; con il reperimento in gruppo delle risorse disponibili ed il loro funzionale raccordo con i​​ ​​ bisogni locali; con la realizzazione di microstrutture pilota agili, che rispondano con successive approssimazioni all’inventario incrociato di bisogni, aspettative, interessi, carenze, rapporti; con alcuni punti istituzionali di riferimento:​​ ​​ famiglia, scuola, lavoro, tempo libero, associazionismo, ecc., facilitando in questo modo il coordinamento e la destinazione razionale delle risorse; con la creazione di microstrutture di servizio (per esempio un ufficio stampa) per le attività di più gruppi (specie di giovani) operanti sullo stesso territorio con obiettivi analoghi; con tecniche collaudate di organizzazione e di programmazione, finalizzate all’individuazione di concreti criteri di efficienza ai fini di una periodica verifica degli interventi promossi e realizzati; con la valorizzazione dei giovani come protagonisti della propria «condizione giovanile», dell’interazione scuola-associazione-territorio in ordine ad un uso alternativo, ossia impegnato, del tempo libero; favorendo, soprattutto nei giovani, la riacquisizione personale ed in gruppo del senso di identità, del gusto del vivere, del senso di​​ ​​ appartenenza, attraverso l’esercizio della collaborazione, della cooperazione e del lavoro.

2.​​ La formazione degli animatori.​​ La dimensione educativa dell’a.s. nei termini indicati appare ancora più evidente se verifichiamo​​ i​​ punti di riferimento di una linea formativa​​ che consenta il passaggio dalla realtà concreta e feriale dell’a. al suo profilo ideale attraverso la «formazione degli animatori». Di essa sono punti di riferimento​​ ​​ valori come la centralità delle persone umane concrete, il rispetto e la promozione della libertà delle coscienze, la solidarietà, la ricerca della buona qualità della vita, il pluralismo sociale quale garanzia di libertà per persone, gruppi, comunità, il lavoro, la pace e lo sviluppo, il rispetto e la difesa dell’equilibrio ecologico, una cultura ed un’educazione critica ed aperta. Il senso e il gusto della libertà delle persone, dei gruppi e delle comunità costituiscono il fine e l’atteggiamento fondamentale dell’animatore. Sapersi determinare, decidere insieme, innovare ne sembrano le espressioni personali più cospicue. Più specificamente fanno parte della competenza umana e professionale dell’animatore la lealtà, la responsabilità, il rispetto e la fedeltà; la coscienza della complessità ed organicità del reale, ma anche l’acuto senso per il locale, il particolare, il personale, per le dinamiche di​​ ​​ gruppo o per i comportamenti collettivi; il senso della storicità e insieme delle urgenze e priorità che si impongono; la capacità del dialogo e del confronto; la semplicità degli stili di vita; il senso della provvisorietà; il distacco, la flessibilità e il coraggio di agire anche rischiando e pagando di persona. Pertanto sembra collegabile con l’animatore un modello di​​ ​​ personalità interiormente unificata, aperta all’universalità dei valori, capace di infondere speranza e di far maturare prospettive aiutando a leggere la realtà e a cogliere possibilità di azione a prima vista «inedite». Rientra nella sua competenza uno stile di intervento modulato sul «vedere-giudicare-agire», sulla capacità di vivere in situazione coniugando prassi-teoria-prassi, insieme, in gruppo, in comunità, sull’intelligente revisione di vita, ma anche sul saper mediare e innovare, non emarginando, ricuperando ritardi, anticipando il futuro. A sua volta sarà necessario saper integrare i ruoli professionali tecnici in un agire funzionale alle persone e alle necessità dei gruppi e delle comunità. In questa prospettiva è evidente la priorità data alle «competenze umane», rispetto alle abilità tecniche e ai mezzi a disposizione (che pure hanno la loro importanza «strumentale»).

3.​​ La prospettiva culturale.​​ Alla base di questo modo di intendere l’a. e l’animatore sta una concezione ampia di​​ ​​ cultura che tiene conto sia della cultura alta che di quella popolare. Come è del resto anche nell’approccio inglese dei​​ Cultural studies,​​ si ha davanti un concetto di cultura intesa come pratica sociale, come processo globale, come memoria collettiva di popolo, nelle sue molteplici differenziazioni interne (tradizionalmente piuttosto emarginate dalla cultura ufficiale). Ma insieme si pensa ad una cultura che è attenta alle pratiche sociali legate al cinema, alla televisione, alla radio, alla stampa, allo sport, alla musica, alle mode, ecc.; ad una cultura sensibile agli interrogativi che si vivono nelle concrete situazioni di vita e nei diversi contesti geo-sociali. Più specificamente si ha presente una cultura-educazione allargata alla strada (animazione di strada), al quartiere, alla città; per ripartire da quello che i ragazzi e le ragazze, le persone adulte e gli anziani hanno da dire sia pure nei loro specifici linguaggi, nelle loro conversazioni quotidiane segnate dalla​​ ​​ comunicazione di massa, ma anche nelle loro svariate espressioni di bisogni, memorie, desideri, aspirazioni effimere e profonde.

Bibliografia

López de Ceballos P. - M. Salas Larrazabal,​​ Formación de los animadores y dinámicas de la animación,​​ Madrid, Editorial Popular,​​ 1988; Ellena G. A. (Ed.),​​ Manuale di a.s.,​​ Torino, Gruppo Abele, 1988; Maurizio R. - D. Rei (Edd.),​​ Professioni nel sociale,​​ Ibid., 1992; Regoliosi L.,​​ La strada come luogo educativo: orientamenti pedagogici sul lavoro di strada, Milano, Unicopli, 2000; Capello G.,​​ I media per l’a., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Gambini P.,​​ L’a. di strada: incontrare i giovani là dove sono, Ibid., 2002; De Rossi M.,​​ A. e trasformazione:​​ identità,​​ metodi,​​ contesti e competenze dell’agire sociale, Padova, CLEUP, 2004; Dotti M.,​​ La tela del ragno: educare allo sviluppo attraverso la partecipazione. Manuale pratico per l’a. sociale, Bologna, EMI, 2005.

G. A. Ellena - G. Vettorato




ANORESSIA MENTALE

 

ANORESSIA MENTALE

Il termine a.m. pare sia stato proposto per la prima volta da C. Huchard nel 1883 per indicare un disturbo dell’alimentazione che affligge soprattutto le donne (95% circa dei casi) in un’età molto giovane (fra i 13 e i 25 anni circa) ed è caratterizzato, soprattutto, da avversione all’aumento di peso per motivazioni inconsce o semicoscienti.

1. Diversamente da quanto sembrerebbe indicare il termine a. che etimologicamente vuol dire​​ mancanza di appetito,​​ questo non viene in realtà compromesso; l’anoressica intenzionalmente mangia poco, si alimenta con una dieta sproporzionatamente ipocalorica, usa lassativi o diuretici, o con frequenza vomita l’alimento ingerito. Vengono segnalate dagli studiosi di questo argomento delle forme minori e di più comune riscontro che si verificano solitamente in adolescenti fra i 13 e i 15 anni e che si risolvono nel giro di alcuni mesi; forme intermedie in cui gli episodi anoressici sono inframmezzati da recupero transitorio di peso o in seguito a crisi bulimiche o in seguito ad ospedalizzazione; forme gravi in cui il deperimento organico può portare a conseguenze pericolose, o immediate o postume. Nell’anoressica si ha quasi costantemente alterazione delle funzioni endocrine e sospensioni dei cicli mestruali; un atteggiamento ambiguo verso il proprio corpo il cui schema e il cui significato vengono alterati e strumentalizzati.

2. L’a. è stata interpretata in vari modi: la si è intesa come facente parte di un quadro isterico con cui, peraltro, ha molte somiglianze. È stata confusa col morbo di Simmonds dal quale però differisce sostanzialmente perché non c’è lesione ipofisaria. Ha degli aspetti compulsivi ma non si può identificare con un disturbo ossessivo-compulsivo. Oggi si tende ad attribuirle un’autonomia nosografica. Quanto alla eziologia, alla patogenesi e alla psicodinamica le interpretazioni variano da scuola a scuola; c’è sufficiente accordo sul dato che 1’​​ ​​ ambiente, sia familiare (con le difficoltà di comprensione reciproca fra i componenti e gli sconfinamenti di ruoli, soprattutto materni) sia sociale (con le proposte di interessi a cui mirare), influisce in modo determinante sull’insorgere dell’a. Così pure la percezione che l’anoressica ha del proprio corpo, il significato che gli attribuisce e la strumentalizzazione che ne fa, sono fondamentali per capire questo disturbo.

Bibliografia

Palazzoli-Selvini M.,​​ L’a.m.,​​ Milano, Feltrinelli, 1973; Ganzerli P. - R. Sasso,​​ La «rappresentazione anoressica». Contributo delle tecniche psicodiagnostiche allo studio dell’a.m.,​​ Roma, Bulzoni, 1979; Bracconnier A. - D. Marcelli,​​ Psicopatologia dell’adolescente,​​ Milano, Masson, 1991; Apfeldorfer G.,​​ Mangio dunque sono,​​ Venezia, Marsilio, 1993; Montecchi F.,​​ A.m. dell’adolescenza,​​ Milano, Angeli, 1994; Barbetta P.,​​ A.​​ e isteria: una prospettiva clinico-culturale, Milano, Cortina, 2005.

V. Polizzi




ANSIA

 

ANSIA

L’a. è una delle emozioni più diffuse e delle capacità più invalidanti per quanto riguarda sia l’apprendimento scolastico che la qualità della vita. Nello specifico l’a. influenza pesantemente diverse aree dell’organismo e della struttura mentale.

1. Per quanto riguarda l’universo fisiologico, un livello elevato d’a. è in grado di produrre alterazioni vistose di alcuni tra i parametri maggiormente studiati in laboratorio, quali ad es. il battito cardiaco, la qualità del respiro, la sudorazione (misurata mediante la cosiddetta risposta elettrodermica), le onde cerebrali ecc. Nel lungo periodo l’a. è in grado di favorire l’instaurarsi di quelle forme di disturbo che vanno sotto il nome di malattie psicosomatiche, quali ad es. ulcera peptica e duodenale, cardiopatie di vario genere, dermatiti ecc.

2. Per quanto riguarda, invece, il mondo delle azioni, il soggetto in preda all’a. tende a fuggire dalla situazione ansiogena in modo concreto oppure simbolico. La fuga sarà concreta quando la persona si allontanerà effettivamente dalla situazione negativa; simbolica, quando, non potendo sottrarsi concretamente ad essa, orienterà i propri pensieri verso una situazione diversa da quella alla quale è esposta. L’esempio più tipico è dato dall’allievo, il quale, intimorito dall’insegnante, cerca di abbassare il grado della sua sofferenza, pensando a situazioni od eventi più piacevoli. Sulla cosiddetta risposta di fuga, si fonda, poi, quella d’evitamento, che consiste nel sottrarsi preventivamente alla situazione ansiogena, ricorrendo a stratagemmi di diversa natura. Esempio tipico è l’allievo, il quale, trovandosi inappagato all’interno del contesto classe, finge una e mille malattie pur di evitare il contatto con una situazione da lui ritenuta negativa.

3. Venendo, infine, al mondo cognitivo, l’a. influenza negativamente tutti i principali processi cognitivi, dall’attenzione alla​​ ​​ memoria, dalla​​ ​​ creatività al pensiero ed al ragionamento. È questa fondamentalmente la ragione per cui è del tutto sconsigliabile creare nell’allievo il binomio «a. e studio». Il convincimento di molti genitori ed insegnanti è che spingere l’allievo od il proprio figlio a studiare ed a prepararsi alle prove d’esame attraverso minacce, ricatti ecc. che tendono solo a produrre a., sia lo strumento migliore per ottenere i risultati voluti. In realtà si tratta di comportamenti decisamente pericolosi in quanto, causando a., minano nell’allievo l’utilizzazione appropriata delle sue capacità cognitive, con ovvie ripercussioni negative per quanto riguarda la qualità dell’apprendimento e la resa nelle prove d’esame.

4. Se questi sono gli effetti dell’a., quali le cause? La maggioranza degli psicologi tende ad attribuire scarsa importanza ai fattori genetici. Al massimo, come sostiene Seligman si può parlare di una tenue predisposizione all’a., che può essere tranquillamente contrastata da un ambiente caratterizzato da una buona qualità di vita. In realtà gran parte delle nostre a. sono legate alle esperienze da noi vissute in modo diretto od indiretto. Diretta è l’esperienza che ci ha in qualche modo colpito, in quanto da noi subita. Un esempio è una visita medica particolarmente fastidiosa o addirittura dolorosa. Indiretta, al contrario, è l’esperienza che abbiamo visto vissuta da altri. Un esempio tra tanti è l’aver constatato che un compagno di classe, interrogato dall’insegnante, viene da questi criticato e poi canzonato dai suoi compagni di classe. È questa un’esperienza non direttamente vissuta, ma che ha spesso un forte impatto su chi l’osserva da spettatore. Accanto a questa categoria di esperienze, vi è poi una serie d’idee irrazionali che sono state acquisite lungo il processo di socializzazione, prevalentemente grazie al forte impatto educativo prodotto dai genitori. Alcune di queste idee, sapientemente analizzate e trattate da Ellis e dalla sua scuola, hanno a che fare con l’esigenza di brillare in tutte le situazioni nelle quali il soggetto si trova (mito del perfezionismo), di voler essere stimato ed amato da tutti (mito del narcisismo), ecc.

5. Infine ultimo fattore ansiogeno è il grado di autostima che la persona ha raggiunto. Qualora esso sia basso, è probabile che la persona eviti il contatto con situazioni potenzialmente ansiogene, in quanto da lui vissute come una minaccia in grado di produrre ripercussioni ulteriormente negative per la sua autostima. L’esempio tipico è lo studente, il quale teme l’esame in quanto non ha fiducia nelle proprie capacità. È molto probabile che sia proprio questa scarsa autostima ad attivare il meccanismo dell’a., la quale, a sua volta, renderà problematico l’apprendimento, aumentando in tale modo le probabilità d’insuccesso. Il risultato di quest’insieme di fasi è un ulteriore abbassamento nel grado di autostima e la creazione di un circolo vizioso. Al momento attuale la moderna psicoterapia cognitivo-comportamentale offre numerose modalità d’intervento sull’a., con particolare riferimento a quella per gli esami e per la scuola. La robustezza scientifica di tali strategie rende tali forme d’a. facilmente superabili.

Bibliografia

Meazzini P.,​​ Paura d’esame,​​ in «Psicologia e Scuola» 41 (1988) 48-54; Gagliardini I. - P. Meazzini,​​ A. e valutazione,​​ Roma, Bulzoni, 1992; Meazzini P. - A. Galeazzi,​​ A.,​​ Ibid., 1994; Sheehan E.,​​ A.,​​ fobie e attacchi di panico, Milano, Mondadori, 1997; Dayhoff S. A.,​​ Come vincere l’a.​​ sociale: superare le difficoltà di relazione con gli altri e il senso di insicurezza, Trento, Erickson, 2000.

P. Meazzini




ANTINOMIE PEDAGOGICHE

 

ANTINOMIE PEDAGOGICHE

Contrapposizioni che di fatto o di diritto si giudicano presenti nel​​ ​​ rapporto educativo e nella realtà educativa in genere.

1. Il termine a. (dal gr.​​ anti​​ = contro, e​​ nómos​​ = legge) in senso letterale dice un contrasto tra leggi, tra affermazioni di principio. In logica sta ad indicare affermazioni reciprocamente incompatibili. L’esperienza educativa mostra chiaramente la presenza di tensioni e contrasti nel modo di attuare e di intendere l’educazione nei suoi fini, contenuti e riferimenti contestuali (e si parla per questo di a.p. «materiali») o nei metodi e stili educativi (e si parla per questo di a.p. «formali»).

2. Le a.p. si manifestano in particolare nel rapporto educativo. Da questo punto di vista esso è interpretabile ad es. secondo la dimensione del «controllo», nelle polarità di dominanza-sottomissione, autorità-libertà; o secondo la dimensione «emozionale», nelle polarità di rifiuto-accettazione, di disistima-stima, di distacco-vicinanza, di antipatia-simpatia; o ancora secondo la categoria «possibilità di educazione» nelle polarità di passività-attività, di autoeducazione-eteroeducazione, direttività-nondirettività, educazione negativa-educazione positiva, di permissivismo-costrizione. Ma molte a.p. si colgono a livello di​​ ​​ educazione in generale, ad es. tra trasmissione e creatività, conformazione e personalizzazione, tra fini e mezzi, tra​​ ​​ domanda educativa e risposta o​​ ​​ proposta educativa, tra specializzazione e formazione generale, tra cultura letterario-umanistica e cultura scientifico-tecnica, tra educazione contenutistica («materiale») e educazione critica abilitativa («formale»), tra educazione funzionale e educazione intenzionale, tra istruzione e educazione, tra scuola e lavoro, tra scuola privata e scuola pubblica, tra scuola statale e scuola non-statale.

3. Da sempre nell’educazione vengono a rifluire le grandi a. antropologiche e etiche tra individuo e società, tra persona e istituzione, tra privato e pubblico, tra moralità e legalità; tra genitori e figli, tra adulti e giovani, tra tradizione e innovazione; tra l’io e il proprio sé; tra essere e coscienza; tra essere e agire, tra essere e avere, tra gratuità e utilità, tra spontaneità e razionalità, tra oggettività e soggettività, tra essenza e esistenza, tra natura e cultura, tra libertà e necessità, tra autonomia e eteronomia, tra materia e spirito, tra corpo e anima, tra corpo e mente, tra immanenza e trascendenza, tra interiorità ed esteriorità, tra temporalità e eternità, tra maschio e femmina, tra uomo e mondo, tra uomo e Dio.

4. Nella quotidianità della formazione, oggi, si risente delle grandi tensioni e contrapposizioni presenti nel più vasto contesto culturale e nei mondi vitali attuali: quelle tra globale e locale, tra universale e particolare, tra identità e differenza, tra cultura e multicultura, tra conoscenza e emozione, tra tecnologia e spontaneità della vita, tra autonomia e progetto, tra lavoro e tempo libero, ecc. Ciò porta, a livello scolastico a contrapporre, ad es., scuola delle conoscenze (e dei saperi) a scuola della socializzazione, scuola delle competenze (cioè delle capacità ad operare in maniera «esperta») a scuola della formazione; scuola della qualità e del successo scolastico e scuola dell’equità e delle opportunità educative per tutti; scuola delle tecnologie e scuola delle relazioni; scuola-azienda / impresa e scuola-comunità. Peraltro, le a.p. mettono in luce il carattere processuale, dinamico e relazionale della formazione e dell’educazione, sempre attuate nel tempo, inserite nella vicenda e nella storia personale e comunitaria, nei rapporti sociali di produzione e nella rete delle relazioni interpersonali e della comunicazione sociale. Ed evidenziano chiaramente la responsabilità educativa e pedagogica, personale e sociale, chiamata a cercare sbocchi positivi ai problemi che le a.p. manifestano.

Bibliografia

Maresca M.,​​ Le a. dell’educazione,​​ Roma, Bocca, 1916; Bertin G. M.,​​ Educazione alla ragione,​​ Roma, Armando, 1975; Hannoun H.,​​ Les conflits de l’éducation,​​ Paris, ESF, 1975; Peretti M.,​​ Autorità e libertà nell’educazione contemporanea,​​ Brescia, La Scuola, 1975; Franta H.,​​ Interazione educativa,​​ Roma, LAS, 1977; Caroni V. - V. Iori,​​ Asimmetria nel rapporto educativo,​​ Roma, Armando, 1989; Gigli A.,​​ Conflitti e contesti educativi. Dai problemi alle possibilità, Bergamo, Junior, 2004.

C. Nanni




ANTONIANO Silvio

 

ANTONIANO Silvio

n. nel 1540 a Castelli (Pescara) - m. nel 1603 a Roma, umanista e pedagogista italiano.

1. Un bambino prodigio, «il Poetino», sedicenne è titolare a Ferrara di una cattedra di Lettere Umane. Dal 1559 a Roma, segretario di Carlo​​ ​​ Borromeo, discepolo spirituale di Filippo Neri, si evolve dall’interesse per i classici a una spiccata sensibilità religiosa, con lo studio della filosofia e della teologia. È ordinato sacerdote nel 1568, lavora nella Curia, in particolare come segretario del Collegio cardinalizio (1568-1592); latinista raffinato compone i più importanti documenti del pontificato di Clemente VIII, che lo eleva al cardinalato (1599); è protettore in particolare delle Scuole Pie del​​ ​​ Calasanzio. Dal 1580 l’A. si impegna nella composizione dell’opera principale​​ Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli,​​ Scritti da M. Silvio A. ad instanza Di Monsig. Illustriss. Cardinale di S. Prassede,​​ Arcivescovo di Milano​​ [C. Borromeo]. In Verona, MDLXXXIIII. Appresso Sebastiano delle Donne, et Girolamo Stringari, Compagni. L’arbitraria variazione del titolo introdotta in edizioni successive (Dell’educazione cristiana e politica dei figliuoli)​​ ha contribuito a falsare il significato del lavoro e la sua valutazione, quasi l’A. avesse inteso offrire un trattato completo di pedagogia. In realtà egli volle soprattutto sottolineare la dimensione religiosa cristiana dell’educazione, «ordinata, et diretta alla somma, et perfetta felicità celeste», sia pure tenendo presente il più ampio riferimento all’educando «come huomo, et animal sociabile», «come cittadino, et parte di republica terrena» (I 4 e 40). Egli tratta dell’educazione da impartire nell’ambito di una famiglia sorta dal sacramento del matrimonio (lib. I); di tale educazione l’istruzione catechistica e la formazione religiosa cattolica (condotta sulla linea del​​ Catechismus ad parochos)​​ sono l’anima e il nucleo essenziale (lib. II); in questo quadro si collocano le linee di una pedagogia singolarmente sensibile alle inclinazioni e ai problemi posti dallo sviluppo fisico, intellettuale, morale dell’infanzia e dell’adolescenza (lib. III). Le soluzioni rispecchiano un sostanziale ed equilibrato «umanesimo cristiano», vicino alle esigenze delle classi medie e popolari, urbane e rurali, più che al mondo dei nobili.

2. In realtà, sebbene «lo scopo principalissimo del libro» sia dichiaratamente di «trattare dell’educazione in quanto cristiana», l’Autore rende ben presente che per la sua compiutezza vi è necessariamente inclusa anche la dimensione «umana» e «civile». Lo stesso gestore di istituzioni educative ecclesiastiche – scrive – mentre «procura di far un buon christiano, con l’autorità e mezzi spirituali, secondo il fin suo, procura insieme in conseguenza necessaria di far un buon Cittadino, che è quello che si pretende dal politico» (I 43). Nella medesima ottica, dovere dei padri è di «bene allevare sia civilmente che cristianamente i figli» (II 124), avviandoli anche all’esercizio di una delle tante attività necessarie per mantenere in vita la Città: artigianali, agricole, meccaniche, commerciali, letterarie, artistiche, didattiche, mediche, militari, ecclesiastiche, auliche (III 62-86). Anche nel momento della metodologia pedagogica pratica, l’indiscutibile autorità del​​ paterfamilias​​ è prudentemente controbilanciata da sincera «umanità» e da carità evangelica. Ricorrono con frequenza i termini «ragionevole», «ragionevolmente», muovere «la ragione et l’intendimento»; è raccomandata la «mediocrità» o moderazione in modo che il fanciullo non diventi precocemente adulto, anzi conservi «del fanciullesco in qualche cosa»; e il padre «ritenga una dolce severità, si che sia amato et temuto, di timor però filiale, et non servile et di schiavo» (III 7; II 29).

3. Sembra, quindi, riduttivo considerare l’A. semplicemente come il «pedagogista della controriforma» (G. B. Gerini, L. Credaro, E. Troilo, E. Codignola, R. G. Tentori, A. Scacchi, S. Moravia). Insieme a elementi di austerità disciplinare, nella sua sintesi pedagogica tendono a fondersi almeno tre altre tradizioni: patristico-medievale (vicina ai libri «de educatione nobilium»), classico-umanistica (nutrita del pensiero etico-politico e retorico-poetico di​​ ​​ Aristotele) e rinascimentale-riformista, disponibile a Roma alle istanze della spiritualità filippina e alle lontane severe esigenze del Borromeo.

Bibliografia

Vidari G.,​​ L’educazione in Italia dall’Umanesimo al Risorgimento, Roma, Optima, 1930, 99-102; Prodi P., «A.S.», in​​ Dizionario biografico degli italiani, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,1961, 511-515; Zanzarri R.,​​ S.A.​​ Note e osservazioni, in «Storia dell’educazione» 2 (1978) 43-60; Id., «A.S.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia Pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 716-723; Rosa S.,​​ Pedagogia della riforma cattolica. M.S.A. e l’educazione dei «figliuoli», S. Atto di Teramo, Edigrafital, 2004.

P. Braido




ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE

 

ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE

Il rapporto tra a. e​​ ​​ educazione può essere visto in una duplice articolazione: da una parte l’a. come contributo di una scienza all’analisi delle problematiche e dei temi dell’educazione, in una prospettiva multidisciplinare; dall’altra, al contrario, l’educazione come un particolare fenomeno della​​ ​​ cultura e specifico campo nell’ambito degli studi antropologici.

1.​​ Definizione.​​ Entrambe le prospettive sono proficue, soprattutto se si parte da una loro definizione ampia e cioè: l’a. come studio della distanza culturale, con particolare riferimento alle società extra-europee; l’educazione come attività sociale deliberata e sistematica del trasmettere ed acquisire valori e conoscenze, ideologie e tecniche, competenze ed abilità, che fanno parte del patrimonio della cultura in cui gli individui si trovano a vivere. In particolare l’educazione così definita non si esaurisce nelle teorie e pratiche messe in atto con i sistemi formali scolastici ma, volendo comprendere sia il contesto culturale occidentale che quello delle culture etnografiche, va verso il concetto di «inculturazione», comprendendo aspetti formali e non formali di una serie di processi che si esprimono nella relazione individuo-cultura più in generale. Questi processi sono numerosi e riguardano: l’apprendimento dello standard richiesto per divenire​​ ​​ adulto in una società data, la trasmissione della cultura tra le successive generazioni, la dinamica sociale della cultura, la formazione di società multietniche. Così, ancora, luogo di svolgimento dell’educazione non è solo quello dell’istituzione​​ ​​ scuola, ma è coperto anche da una serie di agenzie che concorrono al​​ ​​ processo educativo dell’individuo, a partire dalla sua​​ ​​ famiglia di origine: il​​ ​​ gruppo dei coetanei, la strada e il vicinato, la​​ ​​ chiesa, il partito, il sindacato, le associazioni del​​ ​​ tempo libero, e soprattutto i mezzi di​​ ​​ comunicazione di massa, con particolare riferimento alle società occidentali. In altre parole, secondo questa accezione ampia del rapporto a. e educazione, i termini della relazione costituiscono ciascuno un «processo» e non un «fatto», per quanto complesso, in cui il processo culturale ed il processo educativo interagiscono costantemente. È in questa prospettiva che alcuni studiosi parlano di a. educativa o a. dell’educazione.

2.​​ Prospettive antropologiche.​​ Nella storia del pensiero scientifico degli studi etno-antropologici il rapporto a. e educazione si trova sviluppato in entrambe le direzioni sopra delineate. La prima prospettiva trova affermazione negli USA a partire dagli inizi di questo sec. con F. Boas, E. Sapir, R. Benedict,​​ ​​ Mead ed altri, ed acquisisce negli anni successivi un rinnovato impulso sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. La seconda prospettiva vede la figura di B. Malinowski che, impegnato negli anni ’30 del secolo scorso nella fondazione di una teoria scientifica della cultura, in opposizione alle teorie evoluzioniste e diffusioniste in a., pone le istituzioni, in quanto appunto istituzioni sociali, come tratto differenziante la società umana dalla vita animale. Queste istituzioni – economia, politica, famiglia, educazione, magia / religione / scienza (con termine oggi più adeguato parleremmo di sistema simbolico o di sistema di credenze) – formano la cultura e sono la risposta sul piano organizzativo dell’uomo ai​​ ​​ bisogni naturali primari e comuni a più specie (sopravvivenza dell’individuo, del gruppo, della specie). Ancora, queste istituzioni sono identificabili come tratti universali dell’uomo e si configurano come «sistemi», cioè complesso di elementi interdipendenti tali, cioè, che al variare di uno di essi variano anche gli altri, in una logica organicistica. In particolare, poi, l’educazione svolge la funzione di rinnovare, formare, addestrare, istruire con i contenuti culturali l’elemento umano delle diverse generazioni, realizzando così il processo di continuità della cultura stessa quale apparato per la soddisfazione dei bisogni.

3.​​ Cultura e personalità.​​ Nella cultura statunitense degli inizi del sec. il dibattito sull’educazione vede incontrarsi, al di là delle loro differenze interne, i due filoni di pensiero del pragmatismo e del neo-idealismo nella convinzione che il mondo possa migliorare ad opera della ragione umana e che l’educazione – intesa solo come istruzione scolastica – costituisca la forza propulsiva di questa ragione. L’educazione viene così considerata dal punto di vista dell’​​ ​​ educatore, piuttosto che dal punto di vista del bambino che sta imparando, e definita essenzialmente come processo attraverso cui il bambino deve diventare ciò che l’adulto vuole che lui diventi. Di contro l’a. statunitense degli anni ‘30, nel più generale spirito di contributo alla crescita civile della società contemporanea, intende partire proprio dall’analisi dei processi d’apprendimento del bambino, individuando nell’analisi di contesti etnografici gli strumenti teorici e metodologici per stabilire i meccanismi che sovrintendono al processo di apprendimento. La ricerca antropologica è in grado di determinare le variazioni di questi meccanismi conseguenti alle differenze di cultura. Inoltre, per questa strada comparativa, l’educazione viene individuata come processo molto più ampio e comprendente tutto l’apprendimento formalizzato e non formalizzato, che porta l’individuo ad acquisire la cultura, a formarsi una​​ ​​ personalità, a socializzarsi, ad imparare ad adattare se stesso a vivere come membro di una data società. Lo sviluppo di questo filone di studi antropologici va suddiviso in due periodi successivi: dopo un primo periodo caratterizzato dalle ricerche comparative della Mead, nuovo impulso alla riflessione teorica avviene sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. Interesse prevalente nel primo periodo è la dimostrazione della plasticità bio-psicologica della specie umana, sufficiente a consentire il condizionamento culturale degli schemi di comportamento degli adolescenti secondo modalità in contrasto con lo stereotipo dell’​​ ​​ adolescenza nella cultura del ceto medio europeo e statunitense. Così la Mead, al termine di numerosi studi sul campo presso diverse società dell’area del Pacifico, conclude che la responsabilità della formazione di quello che solitamente chiamiamo «temperamento» è da attribuire non a determinanti biologiche ma a contenuti educativi che, in armonia con le istanze più generali della cultura, privilegiano un comportamento particolare tra i tanti possibili. Inoltre, questa formazione non riguarda solo la fase dell’adolescenza del soggetto in formazione, ma molti altri momenti dello sviluppo e della formazione della personalità dell’individuo, anche nella sua età adulta. Infine la Mead riprende e sviluppa un tema caro ai suoi maestri, Sapir e Benedict, sulla «coerenza delle culture genuine» e la «incoerenza delle culture spurie»: le prime sono quelle prive di contraddizioni che, invece, sono caratteristica prevalente delle seconde, nel loro complesso. Queste contraddizioni, come la loro assenza, sono da riportare al modello educativo presente in una data cultura; compito dell’a. è, allora, quello di ricostruire la rete di questi caratteri educativi a partire da come il modello culturale complessivo si realizza storicamente in una cultura specifica. Ma a ben vedere, dato che la cultura delle popolazioni a livello etnografico non può essere individuata in istituzioni formali, il modello culturale viene colto dall’antropologo solo attraverso l’informatore di cui egli si avvale nella ricerca e che assume quale portatore dei valori espressi dal modello in questione. Alcuni interrogativi a catena, rimasti insoluti per questa posizione teorica, e che avranno soluzione successivamente solo con gli antropologi neo-freudiani, sono: a) quale relazione intercorre tra la cultura di un gruppo e la personalità dei suoi membri; b) perché alcune caratteristiche psicologiche sono condivise dai membri di un gruppo e sono coerenti, congruenti, appropriate alla cultura del gruppo stesso; c) come si spiega il cambiamento della società; d) se ogni individuo ripete quanto ci si aspetta dalle norme previste culturalmente, come, perché e quando l’individuo crea norme nuove che non corrispondono a quelle che ha introiettate nell’infanzia e nell’adolescenza; oppure, da dove prende norme esterne difformi, da introiettare una seconda volta, dopo aver introiettato nella fase infantile le prime norme. Alcune ipotesi di lavoro elaborate dagli antropologi statunitensi di questo periodo, come risposte a tali interrogativi, sono: a) gli esseri umani raggiungono la condizione umana attraverso l’apprendimento ma, poiché questo apprendimento è posto all’interno di un ambiente sociale diverso per i differenti gruppi umani, ogni individuo che nasce in un gruppo è strutturato in un modo caratteristico, corrispondente alle norme che orientano il comportamento dei membri della sua società. Egli è un essere umano in quanto ha appreso, ma di una comunità particolare in quanto l’apprendimento varia da società a società; b) nella fase dell’inculturazione la cultura viene ricostruita dentro ogni individuo in modo da costituire la struttura della personalità: egli è psicologicamente pronto a fare ciò che deve fare secondo le norme coercitive del suo gruppo; c) queste norme esterne, che portano al cambiamento, possono derivare dal contatto del gruppo con altri gruppi esterni, organizzati secondo norme diverse, da rapporti di «acculturazione». Da qui una visione dei processi educativi alquanto difforme dalla sua iniziale visione idealizzata: l’apprendimento non avviene in modo naturale, senza problemi, per chi deve apprendere, ma in una situazione conflittuale che crea, all’interno dell’individuo, una continua tensione, un continuo dinamismo che si verifica durante la fase dell’inculturazione adattiva tra un​​ quid​​ che c’è già dentro l’individuo e ciò che la cultura vuole che lui introietti dall’esterno. Questa tensione si svolge durante tutta la vita ed emerge quando circostanze particolari l’agevolano, producendo cambiamento, cioè nuova cultura. Ma per la definizione di questo​​ quid​​ bisogna aspettare l’elaborazione freudiana della teoria psicologica dell’inconscio. Infatti, anni dopo è A. Kardiner, psicoanalista neo-freudiano, a proporre uno schema operativo di spiegazione dei rapporti tra cultura e personalità, con la collaborazione di R. Linton, antropologo della scuola boasiana. È l’inizio del secondo periodo di questo filone di studi antropologici sull’educazione, cui si è accennato sopra. La cultura preesiste all’individuo già al momento della sua nascita. Nei primi anni di vita il piccolo della specie umana ha bisogno di cure finché non raggiunge l’autosufficienza e, grazie a queste cure, riceve soddisfazione ad una serie di suoi impulsi e di suoi bisogni psicofisiologici. La​​ ​​ frustrazione per Kardiner – a differenza di Freud – non viene prodotta dalla repressione del principio del piacere, ma dal mancato soddisfacimento dei bisogni fondamentali, cioè dal principio della realtà. I risultati della repressione sono rinvenibili nelle relazioni sociali imperfette, carenti, malsicure: il bambino che subisce repressioni dovute a scarse cure proietta successivamente sul sociale questo senso di carenza o di rivalità generando, attraverso questa proiezione, il significato ideologico delle norme sociali. Un certo tipo di repressione produce un certo tipo di assetto sociale che è coerente per tutti i momenti della vita sociale, perché unificato da una comune ideologia. Questo ordine sociale viene trasmesso da una generazione all’altra attraverso un sistema di allevamento infantile congruente con il modello di ordine sociale. Il bambino, per vedere soddisfatti i suoi bisogni, deve adattarsi a questo modello facendolo proprio e formandosi così un fondamento, una «personalità di base». Tutto ciò che si è prodotto nello scontro tra la struttura della personalità del bambino ed il primo rapporto con la cultura per la soddisfazione dei suoi bisogni, verrà ricercato dall’individuo, diventato adulto, in alcune istituzioni della società, istituzioni essenzialmente di tipo ideologico. Kardiner chiama queste istituzioni «secondarie» e chiama «primarie» quelle che presiedono al soddisfacimento dei bisogni fondamentali del bambino. L’insieme dei sistemi adattivi (nei confronti delle istituzioni primarie) e proiettivi (nei confronti delle istituzioni secondarie) costituisce ciò che Kardiner chiama la «struttura della personalità di base», che si pone a metà strada tra le istituzioni che sovraintendono al sostentamento e le istituzioni che costituiscono il sistema ideologico di un gruppo. La coerenza tra cultura e personalità viene postulata tanto all’interno delle istituzioni culturali quanto all’interno degli individui membri del gruppo. Infine, da esplicitare, come sottolinea Tentori, la serie di postulati che sono alla base del passaggio teorico tra risultati dell’educazione e presupposti culturali della formazione, riguardo alla personalità di base: a) le prime esperienze dell’individuo esercitano un influsso duraturo sulla personalità, specie sullo sviluppo dei sistemi proiettivi; b) esperienze analoghe tendono a produrre configurazioni della personalità simili in individui che sono soggetti ad esse; c) le tecniche che i membri di ogni società impiegano nella cura e nell’allevamento dei fanciulli sono culturalmente modellate e tendono ad essere simili, benché mai identiche; d) le tecniche culturalmente modellate per la cura e l’allevamento dei soggetti differiscono da una società all’altra.

4.​​ Interculturalità e multiculturalità.​​ Un contributo significativo può oggi dare l’a. allo studio dei problemi d’acculturazione derivanti, nelle stesse società occidentali, dalla presenza di individui e gruppi provenienti da culture diverse rispetto al contesto d’ospitalità. I due termini interculturalità e multiculturalità, secondo prospettive diverse, stanno proprio ad indicare il complesso delle relazioni tra culture «altre» e distanti, venute in contatto diretto sul terreno delle società occidentali. La presenza di tali fenomeni culturali, in parte nuovi per alcuni Paesi europei, mette in luce dinamiche spesso di conflitto tra le parti e pone, comunque, problemi di prospettiva politico-educativa e di reciproca conoscenza delle parti in gioco. Fenomeni di etnocentrismo, razzismo, intolleranza si contrappongono qui, sulla base del rapporto di alterità e differenza culturale, ad altrettanti valori quali il relativismo, l’integrazione, la tolleranza. Alla pratica e diffusione di questi valori può oggi contribuire l’a., proprio come studio della distanza culturale, per le sue specifiche finalità conoscitive, mentre all’educazione spetta il compito di avviare riflessioni, strumenti d’intervento, quadri teorici ed esperienze di interculturalità e multiculturalità. In particolare, luogo privilegiato di analisi e formazione consapevole di queste prospettive socio-culturali è il contesto scolastico. In questo contesto, infatti, si esprimono i meccanismi anche inconsci del controllo sociale e di esclusione della parola, quale garanzia del potere e dell’organizzazione dei ruoli sociali e culturali. Ancora, tra le pareti scolastiche si giocano i diversi ruoli nel rapporto docente / discente che esprimono massimamente i codici della comunicazione tra persone di diverse culture. Infatti, il processo della conoscenza, che si articola attraverso i diversi livelli di comunicazione, comprensione e spiegazione, in questo contesto può diventare strumento dell’incontro tra libere espressioni di portatori di diversa cultura, se il docente controlla il suo stesso codice pedagogico messo in atto. Da un punto di vista, poi, dei linguaggi la classe diventa luogo di acculturazione reciproca nella prospettiva di un confronto e di un’interazione in cui entra in gioco tutta la gamma delle potenzialità espressive linguistiche, grafiche, gestuali, cinesiche, prossemiche dei discenti. Non si tratta soltanto di penetrare l’esperienza altrui con gli strumenti propri della «riduzione antropologica», sia pure mettendo in luce ed esplicitando le nostre pregiudiziali per cogliere i modi d’esperire dell’altro. Piuttosto, l’indagine «antropologica» si apre a partire dalla intersoggettività che fonda la relazione con l’altro, cioè dalla relazione tra soggetti. In questo senso, come nota G. Bateson, «ogni significato dell’informazione e della comunicazione dipende dalla differenza che dà senso all’unità», come dire, ancora, che «è nell’ascolto che si genera la comunicazione».

Bibliografia

Mead M.,​​ Antiche tradizioni e tecniche nuove,​​ Torino, Ilte, 1959; Malinowski B.,​​ Teoria scientifica della cultura ed altri saggi,​​ Milano, Feltrinelli, 1962; Id.,​​ Lo studio dell’uomo,​​ Milano, Bompiani, 1964; Kardiner A.,​​ L’individuo e la società,​​ Ibid., 1968; Beals R. - H. Houer, «L’educazione e la formazione della personalità», in​​ Introduzione all’a. culturale,​​ Bologna, Il Mulino, 1970, 555-595; Mead M.,​​ A. una scienza umana,​​ Roma, Astrolabio / Ubaldini, 1970; Kardiner A.,​​ Le frontiere psicologiche della società,​​ Ibid., 1973; Linton R.,​​ Lo studio dell’uomo,​​ Ibid., 1973; Callari Galli M.,​​ A.​​ e educazione. L’a. culturale e i processi educativi,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1975; 1979; Tentori T.,​​ A. culturale. Percorsi della conoscenza della cultura,​​ Roma, Studium, 1990; Camilletti E. - A. Castelnuovo,​​ L’identità multicolore. I codici di comunicazione interculturale nella scuola dell’infanzia,​​ prefazione di M. Squillacciotti, Milano, Angeli, 1994; Liverta Sempio O. - A. Marchetti (Edd.),​​ Il pensiero dell’altro. Contesto,​​ conoscenza e teorie della mente, Ibid., 1995; Nanni C.,​​ A. pedagogica e scritture per l’oggi, Roma, LAS, 2002.

M. Squillacciotti