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ANSIA

 

ANSIA

L’a. è una delle emozioni più diffuse e delle capacità più invalidanti per quanto riguarda sia l’apprendimento scolastico che la qualità della vita. Nello specifico l’a. influenza pesantemente diverse aree dell’organismo e della struttura mentale.

1. Per quanto riguarda l’universo fisiologico, un livello elevato d’a. è in grado di produrre alterazioni vistose di alcuni tra i parametri maggiormente studiati in laboratorio, quali ad es. il battito cardiaco, la qualità del respiro, la sudorazione (misurata mediante la cosiddetta risposta elettrodermica), le onde cerebrali ecc. Nel lungo periodo l’a. è in grado di favorire l’instaurarsi di quelle forme di disturbo che vanno sotto il nome di malattie psicosomatiche, quali ad es. ulcera peptica e duodenale, cardiopatie di vario genere, dermatiti ecc.

2. Per quanto riguarda, invece, il mondo delle azioni, il soggetto in preda all’a. tende a fuggire dalla situazione ansiogena in modo concreto oppure simbolico. La fuga sarà concreta quando la persona si allontanerà effettivamente dalla situazione negativa; simbolica, quando, non potendo sottrarsi concretamente ad essa, orienterà i propri pensieri verso una situazione diversa da quella alla quale è esposta. L’esempio più tipico è dato dall’allievo, il quale, intimorito dall’insegnante, cerca di abbassare il grado della sua sofferenza, pensando a situazioni od eventi più piacevoli. Sulla cosiddetta risposta di fuga, si fonda, poi, quella d’evitamento, che consiste nel sottrarsi preventivamente alla situazione ansiogena, ricorrendo a stratagemmi di diversa natura. Esempio tipico è l’allievo, il quale, trovandosi inappagato all’interno del contesto classe, finge una e mille malattie pur di evitare il contatto con una situazione da lui ritenuta negativa.

3. Venendo, infine, al mondo cognitivo, l’a. influenza negativamente tutti i principali processi cognitivi, dall’attenzione alla​​ ​​ memoria, dalla​​ ​​ creatività al pensiero ed al ragionamento. È questa fondamentalmente la ragione per cui è del tutto sconsigliabile creare nell’allievo il binomio «a. e studio». Il convincimento di molti genitori ed insegnanti è che spingere l’allievo od il proprio figlio a studiare ed a prepararsi alle prove d’esame attraverso minacce, ricatti ecc. che tendono solo a produrre a., sia lo strumento migliore per ottenere i risultati voluti. In realtà si tratta di comportamenti decisamente pericolosi in quanto, causando a., minano nell’allievo l’utilizzazione appropriata delle sue capacità cognitive, con ovvie ripercussioni negative per quanto riguarda la qualità dell’apprendimento e la resa nelle prove d’esame.

4. Se questi sono gli effetti dell’a., quali le cause? La maggioranza degli psicologi tende ad attribuire scarsa importanza ai fattori genetici. Al massimo, come sostiene Seligman si può parlare di una tenue predisposizione all’a., che può essere tranquillamente contrastata da un ambiente caratterizzato da una buona qualità di vita. In realtà gran parte delle nostre a. sono legate alle esperienze da noi vissute in modo diretto od indiretto. Diretta è l’esperienza che ci ha in qualche modo colpito, in quanto da noi subita. Un esempio è una visita medica particolarmente fastidiosa o addirittura dolorosa. Indiretta, al contrario, è l’esperienza che abbiamo visto vissuta da altri. Un esempio tra tanti è l’aver constatato che un compagno di classe, interrogato dall’insegnante, viene da questi criticato e poi canzonato dai suoi compagni di classe. È questa un’esperienza non direttamente vissuta, ma che ha spesso un forte impatto su chi l’osserva da spettatore. Accanto a questa categoria di esperienze, vi è poi una serie d’idee irrazionali che sono state acquisite lungo il processo di socializzazione, prevalentemente grazie al forte impatto educativo prodotto dai genitori. Alcune di queste idee, sapientemente analizzate e trattate da Ellis e dalla sua scuola, hanno a che fare con l’esigenza di brillare in tutte le situazioni nelle quali il soggetto si trova (mito del perfezionismo), di voler essere stimato ed amato da tutti (mito del narcisismo), ecc.

5. Infine ultimo fattore ansiogeno è il grado di autostima che la persona ha raggiunto. Qualora esso sia basso, è probabile che la persona eviti il contatto con situazioni potenzialmente ansiogene, in quanto da lui vissute come una minaccia in grado di produrre ripercussioni ulteriormente negative per la sua autostima. L’esempio tipico è lo studente, il quale teme l’esame in quanto non ha fiducia nelle proprie capacità. È molto probabile che sia proprio questa scarsa autostima ad attivare il meccanismo dell’a., la quale, a sua volta, renderà problematico l’apprendimento, aumentando in tale modo le probabilità d’insuccesso. Il risultato di quest’insieme di fasi è un ulteriore abbassamento nel grado di autostima e la creazione di un circolo vizioso. Al momento attuale la moderna psicoterapia cognitivo-comportamentale offre numerose modalità d’intervento sull’a., con particolare riferimento a quella per gli esami e per la scuola. La robustezza scientifica di tali strategie rende tali forme d’a. facilmente superabili.

Bibliografia

Meazzini P.,​​ Paura d’esame,​​ in «Psicologia e Scuola» 41 (1988) 48-54; Gagliardini I. - P. Meazzini,​​ A. e valutazione,​​ Roma, Bulzoni, 1992; Meazzini P. - A. Galeazzi,​​ A.,​​ Ibid., 1994; Sheehan E.,​​ A.,​​ fobie e attacchi di panico, Milano, Mondadori, 1997; Dayhoff S. A.,​​ Come vincere l’a.​​ sociale: superare le difficoltà di relazione con gli altri e il senso di insicurezza, Trento, Erickson, 2000.

P. Meazzini




ANTINOMIE PEDAGOGICHE

 

ANTINOMIE PEDAGOGICHE

Contrapposizioni che di fatto o di diritto si giudicano presenti nel​​ ​​ rapporto educativo e nella realtà educativa in genere.

1. Il termine a. (dal gr.​​ anti​​ = contro, e​​ nómos​​ = legge) in senso letterale dice un contrasto tra leggi, tra affermazioni di principio. In logica sta ad indicare affermazioni reciprocamente incompatibili. L’esperienza educativa mostra chiaramente la presenza di tensioni e contrasti nel modo di attuare e di intendere l’educazione nei suoi fini, contenuti e riferimenti contestuali (e si parla per questo di a.p. «materiali») o nei metodi e stili educativi (e si parla per questo di a.p. «formali»).

2. Le a.p. si manifestano in particolare nel rapporto educativo. Da questo punto di vista esso è interpretabile ad es. secondo la dimensione del «controllo», nelle polarità di dominanza-sottomissione, autorità-libertà; o secondo la dimensione «emozionale», nelle polarità di rifiuto-accettazione, di disistima-stima, di distacco-vicinanza, di antipatia-simpatia; o ancora secondo la categoria «possibilità di educazione» nelle polarità di passività-attività, di autoeducazione-eteroeducazione, direttività-nondirettività, educazione negativa-educazione positiva, di permissivismo-costrizione. Ma molte a.p. si colgono a livello di​​ ​​ educazione in generale, ad es. tra trasmissione e creatività, conformazione e personalizzazione, tra fini e mezzi, tra​​ ​​ domanda educativa e risposta o​​ ​​ proposta educativa, tra specializzazione e formazione generale, tra cultura letterario-umanistica e cultura scientifico-tecnica, tra educazione contenutistica («materiale») e educazione critica abilitativa («formale»), tra educazione funzionale e educazione intenzionale, tra istruzione e educazione, tra scuola e lavoro, tra scuola privata e scuola pubblica, tra scuola statale e scuola non-statale.

3. Da sempre nell’educazione vengono a rifluire le grandi a. antropologiche e etiche tra individuo e società, tra persona e istituzione, tra privato e pubblico, tra moralità e legalità; tra genitori e figli, tra adulti e giovani, tra tradizione e innovazione; tra l’io e il proprio sé; tra essere e coscienza; tra essere e agire, tra essere e avere, tra gratuità e utilità, tra spontaneità e razionalità, tra oggettività e soggettività, tra essenza e esistenza, tra natura e cultura, tra libertà e necessità, tra autonomia e eteronomia, tra materia e spirito, tra corpo e anima, tra corpo e mente, tra immanenza e trascendenza, tra interiorità ed esteriorità, tra temporalità e eternità, tra maschio e femmina, tra uomo e mondo, tra uomo e Dio.

4. Nella quotidianità della formazione, oggi, si risente delle grandi tensioni e contrapposizioni presenti nel più vasto contesto culturale e nei mondi vitali attuali: quelle tra globale e locale, tra universale e particolare, tra identità e differenza, tra cultura e multicultura, tra conoscenza e emozione, tra tecnologia e spontaneità della vita, tra autonomia e progetto, tra lavoro e tempo libero, ecc. Ciò porta, a livello scolastico a contrapporre, ad es., scuola delle conoscenze (e dei saperi) a scuola della socializzazione, scuola delle competenze (cioè delle capacità ad operare in maniera «esperta») a scuola della formazione; scuola della qualità e del successo scolastico e scuola dell’equità e delle opportunità educative per tutti; scuola delle tecnologie e scuola delle relazioni; scuola-azienda / impresa e scuola-comunità. Peraltro, le a.p. mettono in luce il carattere processuale, dinamico e relazionale della formazione e dell’educazione, sempre attuate nel tempo, inserite nella vicenda e nella storia personale e comunitaria, nei rapporti sociali di produzione e nella rete delle relazioni interpersonali e della comunicazione sociale. Ed evidenziano chiaramente la responsabilità educativa e pedagogica, personale e sociale, chiamata a cercare sbocchi positivi ai problemi che le a.p. manifestano.

Bibliografia

Maresca M.,​​ Le a. dell’educazione,​​ Roma, Bocca, 1916; Bertin G. M.,​​ Educazione alla ragione,​​ Roma, Armando, 1975; Hannoun H.,​​ Les conflits de l’éducation,​​ Paris, ESF, 1975; Peretti M.,​​ Autorità e libertà nell’educazione contemporanea,​​ Brescia, La Scuola, 1975; Franta H.,​​ Interazione educativa,​​ Roma, LAS, 1977; Caroni V. - V. Iori,​​ Asimmetria nel rapporto educativo,​​ Roma, Armando, 1989; Gigli A.,​​ Conflitti e contesti educativi. Dai problemi alle possibilità, Bergamo, Junior, 2004.

C. Nanni




ANTONIANO Silvio

 

ANTONIANO Silvio

n. nel 1540 a Castelli (Pescara) - m. nel 1603 a Roma, umanista e pedagogista italiano.

1. Un bambino prodigio, «il Poetino», sedicenne è titolare a Ferrara di una cattedra di Lettere Umane. Dal 1559 a Roma, segretario di Carlo​​ ​​ Borromeo, discepolo spirituale di Filippo Neri, si evolve dall’interesse per i classici a una spiccata sensibilità religiosa, con lo studio della filosofia e della teologia. È ordinato sacerdote nel 1568, lavora nella Curia, in particolare come segretario del Collegio cardinalizio (1568-1592); latinista raffinato compone i più importanti documenti del pontificato di Clemente VIII, che lo eleva al cardinalato (1599); è protettore in particolare delle Scuole Pie del​​ ​​ Calasanzio. Dal 1580 l’A. si impegna nella composizione dell’opera principale​​ Tre libri dell’educatione christiana dei figliuoli,​​ Scritti da M. Silvio A. ad instanza Di Monsig. Illustriss. Cardinale di S. Prassede,​​ Arcivescovo di Milano​​ [C. Borromeo]. In Verona, MDLXXXIIII. Appresso Sebastiano delle Donne, et Girolamo Stringari, Compagni. L’arbitraria variazione del titolo introdotta in edizioni successive (Dell’educazione cristiana e politica dei figliuoli)​​ ha contribuito a falsare il significato del lavoro e la sua valutazione, quasi l’A. avesse inteso offrire un trattato completo di pedagogia. In realtà egli volle soprattutto sottolineare la dimensione religiosa cristiana dell’educazione, «ordinata, et diretta alla somma, et perfetta felicità celeste», sia pure tenendo presente il più ampio riferimento all’educando «come huomo, et animal sociabile», «come cittadino, et parte di republica terrena» (I 4 e 40). Egli tratta dell’educazione da impartire nell’ambito di una famiglia sorta dal sacramento del matrimonio (lib. I); di tale educazione l’istruzione catechistica e la formazione religiosa cattolica (condotta sulla linea del​​ Catechismus ad parochos)​​ sono l’anima e il nucleo essenziale (lib. II); in questo quadro si collocano le linee di una pedagogia singolarmente sensibile alle inclinazioni e ai problemi posti dallo sviluppo fisico, intellettuale, morale dell’infanzia e dell’adolescenza (lib. III). Le soluzioni rispecchiano un sostanziale ed equilibrato «umanesimo cristiano», vicino alle esigenze delle classi medie e popolari, urbane e rurali, più che al mondo dei nobili.

2. In realtà, sebbene «lo scopo principalissimo del libro» sia dichiaratamente di «trattare dell’educazione in quanto cristiana», l’Autore rende ben presente che per la sua compiutezza vi è necessariamente inclusa anche la dimensione «umana» e «civile». Lo stesso gestore di istituzioni educative ecclesiastiche – scrive – mentre «procura di far un buon christiano, con l’autorità e mezzi spirituali, secondo il fin suo, procura insieme in conseguenza necessaria di far un buon Cittadino, che è quello che si pretende dal politico» (I 43). Nella medesima ottica, dovere dei padri è di «bene allevare sia civilmente che cristianamente i figli» (II 124), avviandoli anche all’esercizio di una delle tante attività necessarie per mantenere in vita la Città: artigianali, agricole, meccaniche, commerciali, letterarie, artistiche, didattiche, mediche, militari, ecclesiastiche, auliche (III 62-86). Anche nel momento della metodologia pedagogica pratica, l’indiscutibile autorità del​​ paterfamilias​​ è prudentemente controbilanciata da sincera «umanità» e da carità evangelica. Ricorrono con frequenza i termini «ragionevole», «ragionevolmente», muovere «la ragione et l’intendimento»; è raccomandata la «mediocrità» o moderazione in modo che il fanciullo non diventi precocemente adulto, anzi conservi «del fanciullesco in qualche cosa»; e il padre «ritenga una dolce severità, si che sia amato et temuto, di timor però filiale, et non servile et di schiavo» (III 7; II 29).

3. Sembra, quindi, riduttivo considerare l’A. semplicemente come il «pedagogista della controriforma» (G. B. Gerini, L. Credaro, E. Troilo, E. Codignola, R. G. Tentori, A. Scacchi, S. Moravia). Insieme a elementi di austerità disciplinare, nella sua sintesi pedagogica tendono a fondersi almeno tre altre tradizioni: patristico-medievale (vicina ai libri «de educatione nobilium»), classico-umanistica (nutrita del pensiero etico-politico e retorico-poetico di​​ ​​ Aristotele) e rinascimentale-riformista, disponibile a Roma alle istanze della spiritualità filippina e alle lontane severe esigenze del Borromeo.

Bibliografia

Vidari G.,​​ L’educazione in Italia dall’Umanesimo al Risorgimento, Roma, Optima, 1930, 99-102; Prodi P., «A.S.», in​​ Dizionario biografico degli italiani, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,1961, 511-515; Zanzarri R.,​​ S.A.​​ Note e osservazioni, in «Storia dell’educazione» 2 (1978) 43-60; Id., «A.S.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia Pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 716-723; Rosa S.,​​ Pedagogia della riforma cattolica. M.S.A. e l’educazione dei «figliuoli», S. Atto di Teramo, Edigrafital, 2004.

P. Braido




ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE

 

ANTROPOLOGIA E EDUCAZIONE

Il rapporto tra a. e​​ ​​ educazione può essere visto in una duplice articolazione: da una parte l’a. come contributo di una scienza all’analisi delle problematiche e dei temi dell’educazione, in una prospettiva multidisciplinare; dall’altra, al contrario, l’educazione come un particolare fenomeno della​​ ​​ cultura e specifico campo nell’ambito degli studi antropologici.

1.​​ Definizione.​​ Entrambe le prospettive sono proficue, soprattutto se si parte da una loro definizione ampia e cioè: l’a. come studio della distanza culturale, con particolare riferimento alle società extra-europee; l’educazione come attività sociale deliberata e sistematica del trasmettere ed acquisire valori e conoscenze, ideologie e tecniche, competenze ed abilità, che fanno parte del patrimonio della cultura in cui gli individui si trovano a vivere. In particolare l’educazione così definita non si esaurisce nelle teorie e pratiche messe in atto con i sistemi formali scolastici ma, volendo comprendere sia il contesto culturale occidentale che quello delle culture etnografiche, va verso il concetto di «inculturazione», comprendendo aspetti formali e non formali di una serie di processi che si esprimono nella relazione individuo-cultura più in generale. Questi processi sono numerosi e riguardano: l’apprendimento dello standard richiesto per divenire​​ ​​ adulto in una società data, la trasmissione della cultura tra le successive generazioni, la dinamica sociale della cultura, la formazione di società multietniche. Così, ancora, luogo di svolgimento dell’educazione non è solo quello dell’istituzione​​ ​​ scuola, ma è coperto anche da una serie di agenzie che concorrono al​​ ​​ processo educativo dell’individuo, a partire dalla sua​​ ​​ famiglia di origine: il​​ ​​ gruppo dei coetanei, la strada e il vicinato, la​​ ​​ chiesa, il partito, il sindacato, le associazioni del​​ ​​ tempo libero, e soprattutto i mezzi di​​ ​​ comunicazione di massa, con particolare riferimento alle società occidentali. In altre parole, secondo questa accezione ampia del rapporto a. e educazione, i termini della relazione costituiscono ciascuno un «processo» e non un «fatto», per quanto complesso, in cui il processo culturale ed il processo educativo interagiscono costantemente. È in questa prospettiva che alcuni studiosi parlano di a. educativa o a. dell’educazione.

2.​​ Prospettive antropologiche.​​ Nella storia del pensiero scientifico degli studi etno-antropologici il rapporto a. e educazione si trova sviluppato in entrambe le direzioni sopra delineate. La prima prospettiva trova affermazione negli USA a partire dagli inizi di questo sec. con F. Boas, E. Sapir, R. Benedict,​​ ​​ Mead ed altri, ed acquisisce negli anni successivi un rinnovato impulso sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. La seconda prospettiva vede la figura di B. Malinowski che, impegnato negli anni ’30 del secolo scorso nella fondazione di una teoria scientifica della cultura, in opposizione alle teorie evoluzioniste e diffusioniste in a., pone le istituzioni, in quanto appunto istituzioni sociali, come tratto differenziante la società umana dalla vita animale. Queste istituzioni – economia, politica, famiglia, educazione, magia / religione / scienza (con termine oggi più adeguato parleremmo di sistema simbolico o di sistema di credenze) – formano la cultura e sono la risposta sul piano organizzativo dell’uomo ai​​ ​​ bisogni naturali primari e comuni a più specie (sopravvivenza dell’individuo, del gruppo, della specie). Ancora, queste istituzioni sono identificabili come tratti universali dell’uomo e si configurano come «sistemi», cioè complesso di elementi interdipendenti tali, cioè, che al variare di uno di essi variano anche gli altri, in una logica organicistica. In particolare, poi, l’educazione svolge la funzione di rinnovare, formare, addestrare, istruire con i contenuti culturali l’elemento umano delle diverse generazioni, realizzando così il processo di continuità della cultura stessa quale apparato per la soddisfazione dei bisogni.

3.​​ Cultura e personalità.​​ Nella cultura statunitense degli inizi del sec. il dibattito sull’educazione vede incontrarsi, al di là delle loro differenze interne, i due filoni di pensiero del pragmatismo e del neo-idealismo nella convinzione che il mondo possa migliorare ad opera della ragione umana e che l’educazione – intesa solo come istruzione scolastica – costituisca la forza propulsiva di questa ragione. L’educazione viene così considerata dal punto di vista dell’​​ ​​ educatore, piuttosto che dal punto di vista del bambino che sta imparando, e definita essenzialmente come processo attraverso cui il bambino deve diventare ciò che l’adulto vuole che lui diventi. Di contro l’a. statunitense degli anni ‘30, nel più generale spirito di contributo alla crescita civile della società contemporanea, intende partire proprio dall’analisi dei processi d’apprendimento del bambino, individuando nell’analisi di contesti etnografici gli strumenti teorici e metodologici per stabilire i meccanismi che sovrintendono al processo di apprendimento. La ricerca antropologica è in grado di determinare le variazioni di questi meccanismi conseguenti alle differenze di cultura. Inoltre, per questa strada comparativa, l’educazione viene individuata come processo molto più ampio e comprendente tutto l’apprendimento formalizzato e non formalizzato, che porta l’individuo ad acquisire la cultura, a formarsi una​​ ​​ personalità, a socializzarsi, ad imparare ad adattare se stesso a vivere come membro di una data società. Lo sviluppo di questo filone di studi antropologici va suddiviso in due periodi successivi: dopo un primo periodo caratterizzato dalle ricerche comparative della Mead, nuovo impulso alla riflessione teorica avviene sotto la spinta delle teorie psicoanalitiche freudiane, in particolare con R. Linton e A. Kardiner. Interesse prevalente nel primo periodo è la dimostrazione della plasticità bio-psicologica della specie umana, sufficiente a consentire il condizionamento culturale degli schemi di comportamento degli adolescenti secondo modalità in contrasto con lo stereotipo dell’​​ ​​ adolescenza nella cultura del ceto medio europeo e statunitense. Così la Mead, al termine di numerosi studi sul campo presso diverse società dell’area del Pacifico, conclude che la responsabilità della formazione di quello che solitamente chiamiamo «temperamento» è da attribuire non a determinanti biologiche ma a contenuti educativi che, in armonia con le istanze più generali della cultura, privilegiano un comportamento particolare tra i tanti possibili. Inoltre, questa formazione non riguarda solo la fase dell’adolescenza del soggetto in formazione, ma molti altri momenti dello sviluppo e della formazione della personalità dell’individuo, anche nella sua età adulta. Infine la Mead riprende e sviluppa un tema caro ai suoi maestri, Sapir e Benedict, sulla «coerenza delle culture genuine» e la «incoerenza delle culture spurie»: le prime sono quelle prive di contraddizioni che, invece, sono caratteristica prevalente delle seconde, nel loro complesso. Queste contraddizioni, come la loro assenza, sono da riportare al modello educativo presente in una data cultura; compito dell’a. è, allora, quello di ricostruire la rete di questi caratteri educativi a partire da come il modello culturale complessivo si realizza storicamente in una cultura specifica. Ma a ben vedere, dato che la cultura delle popolazioni a livello etnografico non può essere individuata in istituzioni formali, il modello culturale viene colto dall’antropologo solo attraverso l’informatore di cui egli si avvale nella ricerca e che assume quale portatore dei valori espressi dal modello in questione. Alcuni interrogativi a catena, rimasti insoluti per questa posizione teorica, e che avranno soluzione successivamente solo con gli antropologi neo-freudiani, sono: a) quale relazione intercorre tra la cultura di un gruppo e la personalità dei suoi membri; b) perché alcune caratteristiche psicologiche sono condivise dai membri di un gruppo e sono coerenti, congruenti, appropriate alla cultura del gruppo stesso; c) come si spiega il cambiamento della società; d) se ogni individuo ripete quanto ci si aspetta dalle norme previste culturalmente, come, perché e quando l’individuo crea norme nuove che non corrispondono a quelle che ha introiettate nell’infanzia e nell’adolescenza; oppure, da dove prende norme esterne difformi, da introiettare una seconda volta, dopo aver introiettato nella fase infantile le prime norme. Alcune ipotesi di lavoro elaborate dagli antropologi statunitensi di questo periodo, come risposte a tali interrogativi, sono: a) gli esseri umani raggiungono la condizione umana attraverso l’apprendimento ma, poiché questo apprendimento è posto all’interno di un ambiente sociale diverso per i differenti gruppi umani, ogni individuo che nasce in un gruppo è strutturato in un modo caratteristico, corrispondente alle norme che orientano il comportamento dei membri della sua società. Egli è un essere umano in quanto ha appreso, ma di una comunità particolare in quanto l’apprendimento varia da società a società; b) nella fase dell’inculturazione la cultura viene ricostruita dentro ogni individuo in modo da costituire la struttura della personalità: egli è psicologicamente pronto a fare ciò che deve fare secondo le norme coercitive del suo gruppo; c) queste norme esterne, che portano al cambiamento, possono derivare dal contatto del gruppo con altri gruppi esterni, organizzati secondo norme diverse, da rapporti di «acculturazione». Da qui una visione dei processi educativi alquanto difforme dalla sua iniziale visione idealizzata: l’apprendimento non avviene in modo naturale, senza problemi, per chi deve apprendere, ma in una situazione conflittuale che crea, all’interno dell’individuo, una continua tensione, un continuo dinamismo che si verifica durante la fase dell’inculturazione adattiva tra un​​ quid​​ che c’è già dentro l’individuo e ciò che la cultura vuole che lui introietti dall’esterno. Questa tensione si svolge durante tutta la vita ed emerge quando circostanze particolari l’agevolano, producendo cambiamento, cioè nuova cultura. Ma per la definizione di questo​​ quid​​ bisogna aspettare l’elaborazione freudiana della teoria psicologica dell’inconscio. Infatti, anni dopo è A. Kardiner, psicoanalista neo-freudiano, a proporre uno schema operativo di spiegazione dei rapporti tra cultura e personalità, con la collaborazione di R. Linton, antropologo della scuola boasiana. È l’inizio del secondo periodo di questo filone di studi antropologici sull’educazione, cui si è accennato sopra. La cultura preesiste all’individuo già al momento della sua nascita. Nei primi anni di vita il piccolo della specie umana ha bisogno di cure finché non raggiunge l’autosufficienza e, grazie a queste cure, riceve soddisfazione ad una serie di suoi impulsi e di suoi bisogni psicofisiologici. La​​ ​​ frustrazione per Kardiner – a differenza di Freud – non viene prodotta dalla repressione del principio del piacere, ma dal mancato soddisfacimento dei bisogni fondamentali, cioè dal principio della realtà. I risultati della repressione sono rinvenibili nelle relazioni sociali imperfette, carenti, malsicure: il bambino che subisce repressioni dovute a scarse cure proietta successivamente sul sociale questo senso di carenza o di rivalità generando, attraverso questa proiezione, il significato ideologico delle norme sociali. Un certo tipo di repressione produce un certo tipo di assetto sociale che è coerente per tutti i momenti della vita sociale, perché unificato da una comune ideologia. Questo ordine sociale viene trasmesso da una generazione all’altra attraverso un sistema di allevamento infantile congruente con il modello di ordine sociale. Il bambino, per vedere soddisfatti i suoi bisogni, deve adattarsi a questo modello facendolo proprio e formandosi così un fondamento, una «personalità di base». Tutto ciò che si è prodotto nello scontro tra la struttura della personalità del bambino ed il primo rapporto con la cultura per la soddisfazione dei suoi bisogni, verrà ricercato dall’individuo, diventato adulto, in alcune istituzioni della società, istituzioni essenzialmente di tipo ideologico. Kardiner chiama queste istituzioni «secondarie» e chiama «primarie» quelle che presiedono al soddisfacimento dei bisogni fondamentali del bambino. L’insieme dei sistemi adattivi (nei confronti delle istituzioni primarie) e proiettivi (nei confronti delle istituzioni secondarie) costituisce ciò che Kardiner chiama la «struttura della personalità di base», che si pone a metà strada tra le istituzioni che sovraintendono al sostentamento e le istituzioni che costituiscono il sistema ideologico di un gruppo. La coerenza tra cultura e personalità viene postulata tanto all’interno delle istituzioni culturali quanto all’interno degli individui membri del gruppo. Infine, da esplicitare, come sottolinea Tentori, la serie di postulati che sono alla base del passaggio teorico tra risultati dell’educazione e presupposti culturali della formazione, riguardo alla personalità di base: a) le prime esperienze dell’individuo esercitano un influsso duraturo sulla personalità, specie sullo sviluppo dei sistemi proiettivi; b) esperienze analoghe tendono a produrre configurazioni della personalità simili in individui che sono soggetti ad esse; c) le tecniche che i membri di ogni società impiegano nella cura e nell’allevamento dei fanciulli sono culturalmente modellate e tendono ad essere simili, benché mai identiche; d) le tecniche culturalmente modellate per la cura e l’allevamento dei soggetti differiscono da una società all’altra.

4.​​ Interculturalità e multiculturalità.​​ Un contributo significativo può oggi dare l’a. allo studio dei problemi d’acculturazione derivanti, nelle stesse società occidentali, dalla presenza di individui e gruppi provenienti da culture diverse rispetto al contesto d’ospitalità. I due termini interculturalità e multiculturalità, secondo prospettive diverse, stanno proprio ad indicare il complesso delle relazioni tra culture «altre» e distanti, venute in contatto diretto sul terreno delle società occidentali. La presenza di tali fenomeni culturali, in parte nuovi per alcuni Paesi europei, mette in luce dinamiche spesso di conflitto tra le parti e pone, comunque, problemi di prospettiva politico-educativa e di reciproca conoscenza delle parti in gioco. Fenomeni di etnocentrismo, razzismo, intolleranza si contrappongono qui, sulla base del rapporto di alterità e differenza culturale, ad altrettanti valori quali il relativismo, l’integrazione, la tolleranza. Alla pratica e diffusione di questi valori può oggi contribuire l’a., proprio come studio della distanza culturale, per le sue specifiche finalità conoscitive, mentre all’educazione spetta il compito di avviare riflessioni, strumenti d’intervento, quadri teorici ed esperienze di interculturalità e multiculturalità. In particolare, luogo privilegiato di analisi e formazione consapevole di queste prospettive socio-culturali è il contesto scolastico. In questo contesto, infatti, si esprimono i meccanismi anche inconsci del controllo sociale e di esclusione della parola, quale garanzia del potere e dell’organizzazione dei ruoli sociali e culturali. Ancora, tra le pareti scolastiche si giocano i diversi ruoli nel rapporto docente / discente che esprimono massimamente i codici della comunicazione tra persone di diverse culture. Infatti, il processo della conoscenza, che si articola attraverso i diversi livelli di comunicazione, comprensione e spiegazione, in questo contesto può diventare strumento dell’incontro tra libere espressioni di portatori di diversa cultura, se il docente controlla il suo stesso codice pedagogico messo in atto. Da un punto di vista, poi, dei linguaggi la classe diventa luogo di acculturazione reciproca nella prospettiva di un confronto e di un’interazione in cui entra in gioco tutta la gamma delle potenzialità espressive linguistiche, grafiche, gestuali, cinesiche, prossemiche dei discenti. Non si tratta soltanto di penetrare l’esperienza altrui con gli strumenti propri della «riduzione antropologica», sia pure mettendo in luce ed esplicitando le nostre pregiudiziali per cogliere i modi d’esperire dell’altro. Piuttosto, l’indagine «antropologica» si apre a partire dalla intersoggettività che fonda la relazione con l’altro, cioè dalla relazione tra soggetti. In questo senso, come nota G. Bateson, «ogni significato dell’informazione e della comunicazione dipende dalla differenza che dà senso all’unità», come dire, ancora, che «è nell’ascolto che si genera la comunicazione».

Bibliografia

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M. Squillacciotti




ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA

 

ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA

Ambito della riflessione pedagogica riguardante i tratti umani e la concezione dell’uomo, che soggiace o fa da quadro di riferimento alla ricerca e alla riflessione pedagogica e che, in vario modo e misura, illumina e motiva l’​​ ​​ azione educativa (v. anche​​ ​​ uomo).

1.​​ L’a. come forma caratteristica del pensiero contemporaneo.​​ Al di là delle sue tradizionali forme disciplinari (filosofica, fisica, culturale, sociale, medica, pedagogica...), l’a. è venuta ad avere un posto centrale nella cultura occidentale del nostro secolo, al punto da far parlare di una «svolta antropologica». Ma è innegabile che essa è risultato di un processo e di una ricerca culturale, plurisecolare ed epocale, che ha caratterizzato fin dall’inizio l’epoca moderna. Sul terreno dell’a., la riflessione e la ricerca degli ultimi decenni sembra aver superato la frattura tra teologia, filosofia e scienze umane, arrivata al suo punto più alto alla fine del secolo scorso e nella prima metà del nostro secolo. Tra tali ambiti di studio sembra ultimamente esserci un tacito patto di alleanza, allargata alle scienze naturali ed ecologiche, alle scienze logiche e matematiche, alla ricerca tecnologica ed informatica (soprattutto quella riguardante lo studio e la ricerca sull’​​ ​​ intelligenza artificiale). La necessità di una «nuova sintesi», ben oltre quella tra biologia e sociologia auspicata e tentata da E. O. Wilson e collaboratori, si coniuga con una forte e sentita «preoccupazione per l’uomo» (Guardini). Le grandi religioni (ma a loro modo anche molte nuove forme di religiosità), la politica internazionale, il sistema della comunicazione sociale sembrano vincere la loro tradizionale separatezza e il reciproco sospetto proprio attorno alla difesa, alla tutela e alla promozione dei diritti umani. Questi impegni pratici e percorsi teorici hanno evidenziato: «il posto dell’uomo nel cosmo», unico tra gli esseri viventi «che sa dire di no» perché capace di trascendenza (Scheler); l’«analitica esistenziale» della condizione umana e del suo «essere nel tempo con gli altri» (Heidegger); il suo operare che lo rende capace di «liberarsi dallo svantaggio» e dalle «manchevolezze della sua esistenza» (Gehlen) perché incamminato lungo «la via della cultura e della civiltà» (Cassirer) o perché capace di azione economica trasformatrice e di «lotta politica» (Marx); la sua «eccentricità» (Plessner) e il suo «essere diverso», perché persona (​​ personalismo); e tuttavia la sua vicinanza alla condotta animale (che fa pensare a​​ ​​ Lorenz, all’«altra faccia dello specchio» e a Morris, alla «scimmia nuda»); la sua ingegnosità tecnologica, che porta quasi ad annullare i limiti tra «naturale» e «artificiale», tra «reale» e «virtuale». Ma hanno pure portato alla luce: la vastità del «mondo della vita» (Husserl); la profonda e contraddittoria forza impulsiva e aggressiva, inconscia e conscia (psicoanalisi e etologia); l’assurdità e il non senso dell’esistenza (esistenzialismo); l’alienazione e la dominazione propria di molti rapporti interpersonali e sociali (marxismo e neo-marxismo); le tante forme di necessità e casualità con cui ha a che fare (Monod); la rigidità e la pesantezza delle strutture in cui si trova avviluppato (strutturalismo); la vena di nichilismo che pervade l’attuale condizione storica (Nietzsche e il neo-nichilismo); il rischio di perdita dell’identità e del senso della vita e dell’agire nell’accrescersi della complessità vitale del mondo globalizzato, delle dinamiche multiculturali, dell’espandersi del «virtuale», e delle profonde possibilità di intervento sull’uomo che le innovazioni tecnologiche permettono (intelligenze artificiali, robot, cyborg, clonazione, ecc.), tali da far parlare di «post-umano» (Fukuyama).

2.​​ Aspetti disciplinari della a.p.​​ Suggestioni sulla vita umana e sull’essere uomo in sé e per sé, o in quanto società politicamente organizzata o ancora in quanto essere relazionato con Dio e con una comunità religiosa, sono alla base della pratica educativa e della riflessione pedagogica tradizionale antica e moderna. In tal senso rimane fondamentale l’apporto della ricerca filosofica e teologica. Tuttavia, è tra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra, soprattutto in ambienti di cultura tedesca, che l’a.p. si è andata delineando nella sua specificità. Più che di un ambito disciplinare univoco, si tratta per lo più di contributi di vario tipo e di diverso approccio: a prevalenza filosofica, psicologica, sociologica, antropologico-culturale, biologico-neurologica; come risultato di ricerca storica o di ricerca positivo-sperimentale. Pure notevoli sono le differenze di scuola o d’indirizzo, anche nel solo ambito psico-sociologico (comportamentistico, funzionalistico, strutturalistico, cognitivistico, fenomenologico, ermeneutico, emancipativo). E tuttavia, negli ultimi tempi sembra rilevabile una larga convergenza che va ben oltre la comunanza dell’oggetto d’indagine: il farsi umano, nelle sue molteplici dimensioni e modalità processuali, nel suo sviluppo evolutivo o nel suo quadro terminale di personalità adulta, matura, anziana. La via più comune di ricerca è ancora quella che tende a mettere in luce anzitutto le particolarità d’ingresso nella vita dell’essere umano, soprattutto in rapporto con gli altri esseri viventi, grazie agli apporti della genetica, della biologia, dell’etologia, dell’​​ ​​ a. culturale e sociale. In tal senso si mettono in luce la «precocità», l’«inettitudine», l’«immaturità» e per altro verso le radicali capacità di apertura relazionale, di apprendimento, di intelligenza, di simbolizzazione, di linguaggio, di plasticità e di adattamento all’ambiente. Ma, in rapporto alla coscienza pedagogica contemporanea, che ha dilatato i tempi ed i modi dell’educazione con i concetti di​​ ​​ educazione permanente, di società educante e di educazione integrale, particolare attenzione viene oggi riservata anche alla tarda giovinezza, agli adulti, agli anziani (e, pertanto, andando ben oltre la cosiddetta​​ ​​ pedologia). Il senso del limite e dell’impegno umano, la migliore conoscenza del potenziale umano e delle risorse umane, hanno stimolato a comprendere meglio l’umanità di coloro che in vario modo sono diversamente abili o variamente svantaggiati; ed hanno fatto allargare lo sguardo pedagogico a categorie di persone o aree umane poco considerate in passato (giovani, donne, malati, sottoproletariato urbano e rurale, emarginati, immigrati, minoranze etniche, linguistiche, religiose...). A loro volta, le modalità epocali, complesse, differenziate e in profondo mutamento, hanno spinto a ripensare le categorie antropologiche di base del rapporto e dell’intervento educativo: la libertà, l’alterità, la reciprocità; la soggettività, la razionalità, la prassi e la progettualità umane (​​ senso).

3.​​ L’educabilità.​​ Comune è anche l’obiettivo e l’interesse che guida questi modi di ricerca pedagogica: attraverso la raccolta d’indizi presenti nel fenomeno umano si cerca di delineare i «compiti» dello sviluppo e i tratti qualificanti l’esistenza umana nelle diverse età, situazioni e modalità di vita. Il risultato a cui si tende è l’accrescimento delle conoscenze riferibili in vario grado alle caratteristiche evolutive, esistenziali ed essenziali degli esseri umani, che permettano di considerarli​​ ​​ soggetti (termine più preciso di «destinatari») di attività educative. Per tal motivo si dice che l’a.p. ha come suo fine ultimo aiutare a comprendere più e meglio l’«educabilità» umana. Con questa categoria, s’intende globalmente riferirsi a quegli ambiti e a quegli aspetti dell’esistenza soggettiva, relazionale e sociale, che richiedono o perlomeno appellano ad un’azione individuale e / o comunitaria di sostegno o d’aiuto, affinché arrivino ad un loro sviluppo, per quanto è possibile «formato», vale a dire ottimale, o quanto meno adeguato alle esigenze dell’ambiente e dei tempi. In questi termini «educabilità» significa ciò che in vario grado, nei soggetti, nei gruppi, nelle comunità può essere aperto all’azione educativa. Per altro verso, e conseguentemente, con la categoria dell’«educabilità» si viene ad indicare, per così dire, il campo d’azione dell’educazione. In tal modo si viene a evidenziare, come – secondo la formula cara all’esistenzialismo, ma ormai comune alla coscienza culturale contemporanea – l’essere umano, nel corso della sua esistenza storica, costruisce e definisce se stesso. E ciò, sulla base delle potenzialità soggettive ed oggettive che gli si presentano, nell’interazione con l’ambiente, grazie all’aiuto degli altri, per cui è messo (e man mano si mette) a parte del patrimonio sociale della cultura; e sempre più, crescendo, compartecipa con l’apporto delle sue decisioni ed azioni alla trasformazione e qualificazione umana di se stesso e del mondo. In tale volume di processi, al medesimo tempo naturali ed umani, individuali e collettivi, è pure iscritta la possibilità di involuzioni, di cadute in forme regressive, di fissazioni funzionali, di dominazioni esterne, di alienazioni di se stessi. Peraltro la pedagogia contemporanea tende sempre più a dar risalto alla fondamentale storicità e individualità sia del bagaglio di potenzialità formative, individuali e contestuali, sia della formazione di esse: ad evitare qualsiasi forma di omologazione e standardizzazione massificante e, all’opposto, a dare spazio alla varietà e alla ricchezza delle differenze e particolarità individuali o di gruppo.

4.​​ Necessità dell’educazione?​​ La categoria dell’educabilità mette in risalto un modo specifico e globale di vedere l’uomo. L’a.p. si rivela come una modalità di essere della a.​​ tout court,​​ in quanto fa pensare all’uomo in termini di​​ animal educandum:​​ indicando – come la classica definizione aristotelica dell’uomo​​ animal rationale –​​ ciò che caratterizza specificamente l’uomo rispetto agli altri esseri viventi. Tale definizione sarebbe perlomeno da porre accanto alle caratterizzazioni che via via nell’età moderna sono state date dell’uomo:​​ homo educandus​​ accanto a​​ homo faber,​​ loquens,​​ symbolicus,​​ historicus,​​ religiosus,​​ ludens,​​ ecc. Secondo alcuni pedagogisti dell’area tedesca (M. Langeveld in particolare), l’uomo, quale «essere da educare» costituirebbe l’oggetto proprio dell’a.p. ed offrirebbe ad essa il fondamento per la sua autonomia di disciplina scientifica. Per gli stessi autori, la definizione dell’uomo​​ animal educandum​​ sarebbe da prendere non solo nel senso più ovvio di «soggetto d’educazione», ma nel senso forte di essere che è «di necessità» da educare. L’educazione sarebbe assolutamente necessaria e non semplicemente un fattore utilissimo di formazione e qualificazione umana (in termini tecnici: di «necessità metafisica» e non semplicemente di «necessità morale»). Indubbiamente ciò che risulta necessario assolutamente è la partecipazione ad una comunità umana. Senza l’aiuto degli altri e la convivenza nell’«utero sociale» non si diventa e non si è umani, come a loro modo mettono in evidenza le vicende di bambini inselvatichiti o isolati socialmente. Rispetto alla «possibilità», che la categoria dell’«educabilità» esprime, la terminologia​​ educandum,​​ aggiunge nella sua forma grammaticale, l’istanza di impegno etico, la dimensione morale e di responsabilità che l’educazione comporta. L’«educabilità» trova il suo corrispettivo nel diritto soggettivo alla formazione, all’istruzione e all’educazione e nel dovere e compito, sociale e soggettivo, di dare adeguata attuazione a tale diritto. Ma è evidente che se si facesse riferimento all’educazione intenzionale e alla scolarizzazione sistematica, questa necessità non sarebbe più assoluta, perché molto si potrebbe apprendere per partecipazione diretta, per immersione nella vita e nelle pratiche sociali (quella familiare o del clan in particolare), per imitazione degli altri in genere e del gruppo o dei gruppi di appartenenza in particolare. In questo senso stretto di educazione, essa sarebbe necessaria tutt’al più per determinate persone chiamate a compiti, ruoli o «mestieri» specifici. Il problema tuttavia si pone oggi in modo nuovo: al livello di complessità sociale e vitale in cui storicamente ci troviamo a vivere, forse diventa necessario (e non semplicemente utile o aggiuntivo) per tutti un intervento sociale, specifico e sistematico, atto a favorire una crescita umana adeguata al livello di vita attuale e tale da essere umanamente degna di essere vissuta. I termini della questione risulterebbero pure più articolati se l’educazione venisse riferita non solo alla formazione dei singoli, ma all’insieme della vita sociale con le sue istanze storiche di liberazione e promozione integrale, per tutti e per ciascuno, per i popoli e per l’umanità intera presente e futura.

5.​​ Il limite dell’educazione.​​ Quest’attenzione alla situazione contemporanea ha il suo radicamento «ontologico» nell’essenziale storicità e culturalità della vicenda umana, sempre ed intrinsecamente connotata dall’essere nel mondo con gli altri nella storia (al cui interno si pone, come prassi specifica, l’azione sociale di formazione). D’altra parte la tendenza a relativizzare la necessità dell’educazione ha pure il suo significato. In primo luogo essa sta a difendere la personalità del soggetto contro eccessive intromissioni esterne. In secondo luogo tende a dar risalto alle priorità del soggetto nei processi formativi, soprattutto quando, con il crescere dell’età si consolida sempre più l’attitudine dell’auto-direzione, quando cioè si diventa in qualche modo ed in diversa misura capaci d’intervenire su se stessi e sul proprio destino. In terzo luogo può essere considerata come un’istanza critica nei confronti di ogni tendenza a credere nell’onnipotenza dell’educazione. Non si vuole in alcun modo sminuire l’importanza, anzi l’urgenza e la responsabilità individuale e sociale di contribuire alla promozione umana attraverso l’educazione; ma certo occorre vigilanza critica rispetto ai facili, ingenui ed acritici affidamenti all’educazione, fin quasi a dimenticarne la fondamentale limitatezza, ambivalenza, facilità ad essere strumentalizzata (​​ educazione). L’esperienza educativa del passato e quella attuale possono essere abbastanza chiarificatrici al riguardo. La persona non è chiusa entro le strutture dei sistemi educativi ed entro il raggio d’azione dei suoi molteplici educatori. Anche se senza il contributo di altre persone non si arriva ad essere pienamente umani, è pur vero che l’educazione, nonostante le sue pretese, non sempre risulta in concreto positiva per l’avanzamento umano. Inoltre non tutto nell’essere è educabile. A sua volta l’enfasi sul bisogno di educazione, quando non è espressione di un eccessivo utopismo pedagogico o supporto ideologico di certi messianismi politici, è certamente un indice di quella vena d’illuminismo antropocentrico che pervade l’età moderna e che si affida – non sempre criticamente – alle capacità razionali di trasformazione umana ed ambientale. Dei limiti e delle possibili deviazioni di tale capacità la cultura contemporanea è stata fatta accorta soprattutto dagli esiti profondamente ambigui della tecnologia contemporanea e dal rischio, fattosi sempre più concreto, del tracollo ecologico o di una conflagrazione bellica nucleare, ben più rovinosa delle già gravi guerre mondiali (e le infinite guerre dei poveri) del sec. scorso.

6.​​ A.p. e pedagogia.​​ In alcuni ambienti pedagogici si usa distinguere l’a.p. dalla «teleologia pedagogica» (che studia i fini) e dalla «metodologia pedagogica» (che studia le strategie educative). Ad esse si potrebbe aggiungere la «tecnologia pedagogica» (per lo studio e la ricerca dei mezzi e degli strumenti operativi). Ma si è visto come spesso l’a.p. si allarga o perlomeno allude all’ordine dei fini e degli obiettivi educativi. Senza negare la legittimità di tali ambiti di studio, c’è certamente da evidenziare almeno la necessità di una corretta e valida​​ ​​ interdisciplinarità tra essi. All’interno poi dell’a.p. c’è da notare che il discorso dell’educabilità acquista tutta la sua pregnanza se si porta la ricerca non solo sui «fondamenti» strettamente antropologici, ma anche sulla concezione della realtà in generale e sui possibili orizzonti di valore che si discoprono all’azione umana. L’a.p. «necessita» di rapportarsi all’ontologia, alla ricerca metafisica, all’assiologia e, secondo i credenti, anche alla riflessione teologica e sapienziale.

Bibliografia

Maritain J.,​​ Umanesimo integrale, Torino, Borla, 1963; Mounier E.,​​ Il personalismo, Roma, AVE, 1964; Cassirer E.,​​ Saggio sull’uomo,​​ Roma, Armando, 1968; Mencarelli M.,​​ Potenziale educativo e creatività,​​ Brescia, La Scuola, 1973; Wilson E. O.,​​ Sociobiologia. La nuova sintesi,​​ Bologna, Zanichelli, 1979;​​ König E. - H. Ramsenthaler (Edd.),​​ Diskussion pädagogische Anthropologie,​​ München, Fink,​​ 1980; Volpi C.,​​ Paideia ’80. L’educabilità umana nell’era del post-moderno,​​ Napoli, Tecnodid, 1988; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci,​​ 81992; Buber M.,​​ Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1993; Acone G.,​​ A. dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1997; Scheler M.,​​ La posizione dell’uomo nel cosmo, Roma, Armando, 1999; Guardini R.,​​ Mondo e persona. Saggio di a. cristiana, Brescia, Morcelliana, 2000; Fukuyama F.,​​ L’uomo oltre l’uomo, Milano, Mondadori, 2002; Nosari S.,​​ L’educabilità, Brescia, La Scuola, 2002; Nanni C.,​​ A. p., Roma, LAS, 2002.

C. Nanni




ANZIANI

 

ANZIANI

La definizione di a. manca di un criterio oggettivo o condiviso. Per l’OMS si è a. a 60 anni, per l’ISTAT a 65. Altre definizioni correlano l’ingresso nella «terza età» con l’uscita dalla vita attiva; per altri ancora si è a. alla soglia di un rischio elevato di non autosufficienza (75 anni o «quarta età»). Fino alla relativizzazione totale di questa specifica condizione: «una persona è anziana quando si sente tale».

1. I momenti più indicati dagli a. stessi (Frisanco, 1988) come svolta verso la vecchiaia sono fatti coincidere con eventi patologici precisi o con la perdita della propria efficienza fisica (esiti invalidanti di malattie) e con la perdita degli affetti familiari: eventi luttuosi (morte del coniuge), il costituirsi dei figli come nucleo familiare autonomo. L’immagine dell’a. si caratterizza proprio per il senso di una perdita che si può estendere anche al ruolo professionale che innesca il processo di invecchiamento. Il soggetto, deprivato della propria posizione e funzione sociale, viene catapultato in una situazione diversa che probabilmente viene sentita come negativa, penalizzante, regressiva.

2. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è inarrestabile se si considera che dal censimento 1951 a quello del 2001 è più che raddoppiata l’incidenza della popolazione con 65 o più anni sul totale dei residenti in Italia: dall’8,2% al 18,7%, raggiungendo una popolazione di 10 milioni 700 mila persone. A elevare l’incidenza relativa della popolazione anziana concorre anche la diminuzione della natalità e della mortalità. Negli ultimi 10 anni la crescita più cospicua è stata quella degli ultrasettantacinquenni (+42%) o della «quarta età». L’attenzione con cui oggi si guarda a questa fascia di popolazione è giustificata da una serie di dati di rilevanza geriatrica: è documentato come i 75 anni facciano da spartiacque tra due età di rischio molto diverso rispetto alle malattie e alla non autosufficienza.

3. I​​ ​​ bisogni che segnano la condizione dell’a. possono essere molteplici e tra loro cumulabili: oltre alle povertà materiali (reddito, abitazione) vi è la carenza, inadeguatezza, improprietà delle risposte dei servizi (povertà istituzionali) e, soprattutto, i bisogni relazionali. In proposito le occasioni di stabilire rapporti appaiono generalmente limitate, circoscritte da una sorta di meccanismo di tipo socio-culturale per cui gli a. si incontrano e passano il loro tempo quasi esclusivamente con persone della propria età. Non molto diffusa è la fruizione di occasioni e servizi di tipo culturale, pur avendo proprio l’a., paradossalmente, più tempo per goderne e su questo incide la pregressa propensione o meno a fruirne, dato che le opportunità sembrano essere determinate dal livello di «risorse» (culturali, fisiche, economiche, familiari) che l’a. ha utilizzato nel corso della sua vita. In tal senso i più gratificati sono coloro che hanno condotto una vita più attiva; gli uomini rispetto alle donne; chi vive in casa rispetto a chi occupa un posto in strutture residenziali; chi ha maggiori possibilità economiche e più elevati livelli di autosufficienza (Frisanco, 1988). Una delle più grandi conquiste sociali di questi tempi, l’aumento della aspettativa di vita dell’uomo, tende ad essere presentata come un problema: lo attestano le cronache, le inchieste e anche i dibattiti di politica sociale e sanitaria. Infatti, le «immagini» sociali dell’a. sembrano connotarlo maggiormente in negativo come improduttivo, malato, inutile, superato (culturalmente) o risparmiatore, più che in positivo, per la migliore qualità media della vita o come risorsa, valore di testimonianza, nuovo consumatore. Così l’attenzione si focalizza prevalentemente sui costi ed i rischi della specifica condizione, mentre appare meno incisiva la valutazione delle risorse e delle potenzialità degli a.

4. Eppure l’universo degli a. non è una realtà omogenea, compatta; presenta al suo interno diverse condizioni che si riflettono sulla qualità della vita e sulla struttura dei bisogni: l’essere autosufficiente o non; di terza o quarta età;​​ ​​ uomo o​​ ​​ donna (se le donne vivono mediamente più a lungo, la loro vecchiaia è maggiormente segnata da un più elevato rischio di non autosufficienza e di confinamento domestico); di basso o medio / alto livello di status socioeconomico; di contesto urbano / metropolitano o non urbano / rurale; del centro-nord o del sud; di un’area più o meno dotata di una rete di servizi. La realtà dell’a. è caratterizzata da una variegata eterogeneità di situazioni e percorsi non riducili alla generalizzazione di una immagine pauperistica. È una realtà che per lo più si presenta vitale, con notevoli risorse ed opportunità e capace di giocare un ruolo specifico ed originale a livello relazionale e sociale. Come attestano recenti indagini è una condizione con tanti «più», in termini di anni da vivere, di salute, di risorse materiali (circa il 50% è abbiente), di istruzione (questa è la prima generazione di a. con titolo di studio superiore alla quinta elementare), di voglia di vivere e di fare in virtù di un atteggiamento positivo nei confronti della vita quotidiana. Gli a. sono diventati anche un target molto studiato dal marketing per la loro propensione al risparmio e all’investimento e sono altresì più in grado di autorganizzarsi e di partecipare, come si rileva dalla loro ampia presenza nell’associazionismo di promozione sociale e di tipo solidaristico.

5. Il rapporto tra a. e​​ ​​ servizi appare tuttavia ancora problematico e non è ascrivibile tanto all’emarginazione sociale dei vecchi di oggi, trasferita nel campo del diritto alla salute o alla assistenza. È qualcosa di più profondo, che nasce da visioni parziali ed errate della biologia dell’invecchiamento. C’è chi ritiene la vecchiaia un processo immodificabile, determinato e del tutto involutivo. I servizi che nascono da questa visione sono di tipo contenitivo e assistenziale e forniscono un intervento anche illimitato nel tempo, ma il più possibile sempre uguale e al minor costo possibile, dal momento che non si attendono risultati. Non serve quindi valutare individualmente i bisogni e costruire i piani di intervento, poiché non vi sono obiettivi da raggiungere. All’opposto, vi è chi ritiene la vecchiaia una realtà inevitabile ma modificabile, che non comporta soltanto processi di involuzione, ma anche processi positivi, di compenso attivo alle perdite che l’età provoca nell’organismo. L’a., in questa prospettiva, può essere «guidato» ad una migliore realizzazione da comportamenti più salutari. Ciò porta a costruire servizi ad alto contenuto educativo, riabilitativo o addirittura preventivo, da cui ci si aspetta un importante guadagno in autosufficienza e salute che giustifica le risorse impiegate. È quindi necessario valutare e formulare obiettivi, piani di lavoro, verifiche in servizi dinamici, duttili, intensivi dove è prioritario e irrinunciabile un discorso di qualità. Si tratta di «inventare» un nuovo modo di affrontare questo fenomeno e di differenziare quanto più possibile le risposte in rapporto alle variegate strutture di bisogno dei diversi gruppi di a.

6. È ormai acclarato il triplice scopo dell’offerta di servizi per gli a.: 1) elevare la qualità della vita secondo l’obiettivo di «aggiungere vita agli anni» e mantenere il più a lungo possibile l’autosufficienza; 2) fronteggiare precocemente bisogni che altrimenti generano situazioni di povertà composite e patologie conclamate, che richiedono l’allontanamento dell’a. dal suo ambiente consueto di vita e un maggior costo per tutti; 3) facilitare l’accesso ai servizi spesso ostacolato da problemi di disinformazione circa le prestazioni e le opportunità esistenti, non solo per quanto concerne i servizi socio-sanitari, ma anche quelli pensionistici-previdenziali, culturali, del tempo libero, del turismo sociale ecc. In tal modo si ovvierà anche alla sostanziale non corrispondenza tra servizi fruiti e servizi di cui l’a. ha bisogno o che domanda. Inoltre si può ottenere valore aggiunto ai servizi attraverso la promozione e valorizzazione delle varie forme di​​ ​​ volontariato (anche di a. che aiutano altri a.) da inquadrare nell’ambito di un progetto locale. La sfida maggiore che si presenta oggi alle nostra società è la riduzione del divario esistente tra aspettativa di vita totale e aspettativa di vita attiva,​​ priva di disabilità.​​ Si tratta di attivare reti di solidarietà sul territorio che abbiano come riferimento gli a. in quanto «soggetti attivi protagonisti» – non «oggetto» di interventi di tipo assistenziale e riparatorio – e di far sperimentare loro processi esistenziali di significatività comunitaria in modo da contrastare la mancanza di ruolo e di relazione e quindi la «non autosufficienza sociale».

Bibliografia

Hanau C. (Ed.),​​ I nuovi vecchi. Un confronto internazionale,​​ Rimini, Maggioli, 1987; Frisanco R. (Ed.),​​ Quarta età e non autosufficienza,​​ Roma, TER, 1988; Facchini C.,​​ Invecchiare: un’occasione per crescere. Attività culturale e sociale e benessere. Rapporto 2002 Spi Cgil-Cadef, Milano, Angeli, 2003; Fondazione Leonardo (Ed.),​​ Quarto rapporto sugli a. in Italia 2004-2005, Ibid., 2006.

R. Frisanco




APORTI Ferrante

 

APORTI Ferrante

n. S. Martino all’Argine (Mantova) nel 1791 - m. a Torino nel 1858, educatore italiano.

1. Ordinato sacerdote nel 1815, dopo aver effettuato studi sulle Sacre Scritture e delle Lingue Orientali, presso il Theresianum di Vienna, al ritorno in patria, forse sollecitato anche dalla lettura dell’Infant Education​​ di Samuel Wilderspin nel 1829, aprì a Cremona una scuola infantile per bambini appartenenti a famiglie agiate. Alla fondazione del primo asilo fece seguito un intenso impegno per istituirne altri «allo scopo di raccogliere, custodire, alimentare ed educare» i bambini dai 3 ai 6 anni, aiutando i lavoratori nel mantenimento e nella formazione dei loro figli e quindi contribuendo all’instaurazione di una società fraterna fondata «su una più diffusa e solidale comprensione dei doveri dell’uomo, del cristiano e del cittadino».

2. Su questa base l’A. ha costruito il progetto educativo delle sue scuole il quale prevedeva l’insegnamento della nomenclatura, del leggere, dello scrivere, del far di conto, della Storia Sacra, e per le bambine dei lavori donneschi, del canto, e suggeriva l’adozione del metodo «dimostrativo» perché considerato il più idoneo per soddisfare e coltivare la naturale curiosità dei bambini, e il sussidio delle stampe. Agli insegnanti l’A. chiedeva di tener presente quanto esposto nel​​ Manuale​​ e nella​​ Guida, ma spesso la modesta preparazione culturale degli educatori, cui era affidato un numero eccessivo di alunni, ha favorito l’affermazione di un insegnamento ripetitivo, che faceva prevalentemente leva sulla memoria ed incapace di coltivare «integralmente» l’educabilità dei bambini.

Bibl.: Sancipriano M. - S. S. Macchietti (Edd.),​​ Scritti pedagogici e lettere, Brescia, La Scuola, 1976; Macchietti S. S.,​​ La scuola infantile tra politica e pedagogia dall’età aportiana ad oggi, Idid., 1985; Sideri C.,​​ F.A.: sacerdote italiano,​​ educatore. Biografia del fondatore delle scuole infantili in Italia sulla base di una nuova documentazione inedita, Milano, Angeli, 1999.

S. S. Macchietti




APPARTENENZA SOCIALE / RELIGIOSA

 

APPARTENENZA SOCIALE / RELIGIOSA

L’a.s. viene studiata in rapporto alla coesione sociale. Essa potrebbe essere assimilata a un sentimento, una preferenza, un interesse; nelle scienze sociali è praticamente sinonimo di​​ ​​ atteggiamento, che è un concetto al tempo stesso comprensivo e operazionalmente ben determinato e che significa una disposizione o una strutturazione del dinamismo personale che orienta positivamente o negativamente il​​ ​​ comportamento riguardo a un oggetto psico-sociologico. Pertanto l’a.s. può essere definita come una disposizione psico-sociologica e costituisce una strutturazione stabile dei processi percettivi, motivazionali ed emozionali attraverso cui uno si collega al proprio gruppo di inserimento.

1. L’a.s. consente al membro di percepirsi come facente parte di un gruppo, di identificarvisi, di parteciparvi e di trarne le motivazioni. Ancora di più: essa sta a indicare l’atteggiamento fondamentale verso il proprio gruppo; è strettamente connessa con il concetto di «rete sociale», che è come l’insieme dei legami di un individuo con altri referenti significativi (​​ famiglia, amici, vicini e altre realtà informali). Le funzioni di questi ultimi sono molteplici, tanto di natura culturale che strutturale e funzionale. Dal punto di vista culturale, essa conferisce il senso di​​ ​​ identità sociale attraverso l’appartenenza.

2. Per l’a.r. occorre un minimo di interazione dell’individuo con il gruppo religioso. Non si tratta solo di un minimo giuridico e teologico (per i cattolici battesimo e professione di fede), ma di un minimo psico-sociologico, difficilmente quantificabile ma necessario e non certo riducibile a contatti sporadici e occasionali. Si richiede, in altri termini, l’accettazione del sistema dei valori, delle​​ ​​ credenze e dei modelli del gruppo. Le ricerche sociologiche ci hanno mostrato che l’adesione ai valori religiosi è necessariamente differente nei diversi «tipi» di fedeli. In ciò influisce ovviamente la storia religiosa dei singoli, che condiziona la diversa disponibilità per un’adesione motivata e motivante. È necessaria anche un’assimilazione al gruppo religioso che giunge, nel caso ottimale, alla piena​​ ​​ identificazione, in quanto all’interno del gruppo l’individuo trova i valori che costituiranno la base del suo personale progetto di vita.

3. In rapporto al sentimento di a.r. l’esistenza di diversi gruppi di riferimento può interferire sia negativamente sia positivamente. Un caso tipico è legato alla genesi dell’a.r. Si pensi alle situazioni di ripetuto conflitto di a. cui è sottoposto il bambino, il fanciullo, l’adolescente, il giovane, quando si trovino inseriti nei vari gruppi familiari, scolastici, amicali che spesso presentano notevoli diversità nel grado di conformità ai sistemi normativi di credenze religiose. L’evoluzione del sentimento di a.r. sarà condizionata così dal gioco delle lealtà di gruppo e avrà successo quella che sembra soddisfare maggiormente il livello di aspirazioni dell’individuo. In definitiva si può affermare che il sentimento di a.r. è condizionato dal maggior o minor grado di integrazione e / o impegno del gruppo nella struttura sociale e dalla valutazione più o meno positiva che gli appartenenti danno di tale integrazione.

Bibliografia

Schachter S.,​​ The psychology of affiliation: experimental studies of the sources of gregariousness,​​ Stanford, Stanford University Press, 1959; Pollini G.,​​ A. e identità.​​ Analisi sociologica dei modelli di a.s.,​​ Milano, Angeli, 1987; Baragli C.,​​ Comunicazione di gruppo,​​ Ibid., 1988; Carrier H.,​​ Psico-sociologia dell’a.r.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1988; Canobbio G. et al., L’a. alla Chiesa,​​ Brescia, Morcelliana, 1991; Donati P. P.,​​ Teoria relazionale della società,​​ Milano, Angeli, 1991;​​ Serpieri R.,​​ Identità e a. nella società della globalizzazione, Ibid., 2004.

J. Bajzek




APPRENDIMENTO

 

APPRENDIMENTO

All’interno dei processi vitali personali, la specificità del processo di a. consiste nell’acquisizione di nuove​​ ​​ abilità o conoscenze mediante l’esperienza. Tuttavia la preponderanza del fattore esperienza non permette di dimenticare le condizioni della dotazione ereditaria, né gli apporti creativi della intelligenza: l’esperienza dà i suoi frutti nell’a. se il soggetto è sufficientemente maturo e si avvantaggia molto dal contributo della comprensione e dall’intuizione. Spesso può essere difficile decidere se una nuova capacità di condotta sia dovuta principalmente all’esperienza o a processi di comprensione intelligente. L’a. riguarda molti settori di abilità e di contenuti, ed è per sua natura intimamente legato ai vari processi educativi. Di fatto si imparano abilità motorie di differente complessità e precisione, si impara a percepire oggetti, persone, situazioni, si impara a leggere ed a comprendere, si imparano parole, concetti, sistemi di pensiero, si imparano linguaggi espressivi, si imparano reazioni emotive e stati affettivi duraturi, si imparano ansie e nevrosi, come si imparano gusti, preferenze, idiosincrasie, sistemi di valori, stili di vita, credenze, speranze e tecniche di difesa e di decisione. L’a. stesso, poi, può riferirsi a soggetti differenti: persone o animali, bambini, adolescenti o adulti, normali o con vari gradi e tipi di disabilità.

1.​​ I​​ tipi di a.​​ Tra i vari criteri possibili per tentare una tipologia dell’a., pare che il più adeguato sia quello che parte dai prodotti dell’a. stesso.

1.1.​​ A. di operazioni adattative.​​ Con questo processo il soggetto, uomo od animale, acquisisce, in seguito all’esperienza, nuove capacità di incontro efficiente con l’ambiente, con nuove modalità di operazione. È questo il campo tipico degli inizi della ricerca psicologica sull’a.: già nel 1905 I. P. Pavlov metteva in luce i «riflessi condizionati», cioè quei processi per cui uno stimolo, di per sé indifferente, può avviare la reazione dell’arco riflesso originale, a condizione di precedere regolarmente lo stimolo originale del riflesso. Questa scoperta fu ben accolta dai «comportamentisti», che però rilevarono che spesso non bastava apprendere un nuovo stimolo per una condotta riflessa già prefabbricata, ma occorreva imparare, in seguito all’esperienza, un nuovo modo di operare, per giungere alla soddisfazione di motivi attualmente urgenti. Nacque così in Thorndike prima e in molti altri ricercatori poi (tra di essi il più famoso è​​ ​​ Skinner) il progetto di ricercare come si apprendono nuove operazioni. Il termine appropriato sembrò essere quello di «condizionamento operante», perché veniva condizionata una operazione, oppure quello di «a. strumentale» perché si apprendeva un mezzo per soddisfare un bisogno. Questo tipo di a., legato alla motivazione, perdeva parte della sua caratteristica di automatismo, propria del riflesso condizionato, per entrare sotto l’influsso dell’intenzionalità. Sia il condizionamento classico, pavloviano, che quello operante hanno continui e notevoli effetti anche sull’uomo: mediante essi impariamo, in modo più o meno consapevole, gusti e avversioni, tecniche di accostamento e di prevenzione; come si dirà in seguito, anche l’uomo può apprendere opportune condotte per raggiungere premi ed evitare castighi.

1.2.​​ A. di informazioni.​​ Questo tipo di a. è oggetto di trattazioni specifiche (​​ informazione e​​ ​​ comunicazione), ed è pure studiato nell’ambito della​​ ​​ memoria; si rimanda perciò alle rispettive voci per indicazioni più estese. In particolare si può richiamare qui come l’a. riguardi i vari momenti del processo di informazione: si impara a percepire, cioè a riconoscere oggetti, persone, situazioni; si imparano informazioni singole, come pure sistemi semplici o complessi, a livello di esperienza concreta o di strutture cognitive astratte. Allo stesso modo si impara a conservare le informazioni, ad elaborarle, a ricuperarle e ad applicarle alle varie situazioni.

1.3.​​ A. di atteggiamenti.​​ L’atteggiamento è un tratto della personalità caratterizzato da una valutazione favorevole o contraria ad un certo oggetto (tipo di esperienza, persona, gruppo, idea, valore, ecc.). Anche questo tipo di a. è termine di considerazioni specifiche, da parte della​​ ​​ psicologia educativa, della psicologia sociale (a. sociale, di usi, valori, pregiudizi), e della psicologia clinica (a. di disposizioni emotive, sane o nevrotiche). Vi sono modi piuttosto passivi di apprendere un atteggiamento, come avviene nell’imitazione o per pressione sociale di un gruppo. L’a. di atteggiamenti per via di identificazione richiede una maggiore partecipazione del soggetto: questi percepisce il proprio bisogno di affermazione e di sviluppo, e si unisce emotivamente alla persona che vede vicina e riuscita, partecipando in tal modo all’esperienza del modello. Finalmente un atteggiamento può essere appreso in conseguenza di un mutamento interiore di quadri conoscitivi di valore, come influsso di nuovi motivi centrali, o in seguito ad esperienze particolarmente illuminanti. Al tema dell’a. di atteggiamenti appartiene anche la loro modifica, quando sono disadattanti; oltre che con i modi sopra accennati, questo risultato si raggiunge anche con gli interventi di trattamento dell’inconscio indicati dalle varie scuole di psicoterapia.

2.​​ Fattori dell’a.​​ L’a. ha varie condizioni che lo facilitano o lo inibiscono. Poiché vi sono tipi di a. molto diversi, occorre rifarsi ad ognuno di essi per rilevarne i fattori specifici. Se ne ricordano qui solo alcuni che riguardano il processo di a. in generale. Si vedrà in primo luogo un gruppo di fattori predisponenti, che vanno sotto il titolo di «disponibilità», quindi due altri fattori generali, quelli della motivazione e dell’esercizio o pratica.

2.1.​​ La disponibilità ad apprendere.​​ Già nel suo volume del 1913 Thorndike, applicando le nozioni di psicologia all’a. scolastico, parlava di​​ readiness​​ o disponibilità ad apprendere. Essa si può definire come la capacità e la volontà di apprendere. La capacità di apprendere a sua volta è determinata dalla maturazione e dal bagaglio di abilità e informazioni precedentemente acquisite, mentre la volontà di apprendere designa soprattutto le componenti emotive della situazione di a. a) La maturazione, o sviluppo determinato prevalentemente da fattori endogeni ereditari, ha una grande parte nel determinare la disponibilità ad apprendere. Certo, gli effetti della maturazione su una condotta non si possono misurare indipendentemente dagli apporti dell’ambiente e dell’esperienza. Tuttavia vi sono mutamenti di grande rilievo dovuti in gran parte a fattori endogeni. In particolare è rilevante lo sviluppo anatomico e funzionale del sistema nervoso, del sistema endocrino e dell’apparato muscolare. In psicologia evolutiva sono noti i vari stadi dello sviluppo cognitivo, ad es. secondo lo schema di Piaget, che suppongono fasi naturali di maturazione. b) Le abilità ed informazioni già possedute sono un altro prerequisito all’a. attuale. Sebbene questo sembri ovvio, e se ne tenga abitualmente conto nello svolgere passo passo un programma di insegnamento, tuttavia spesso non si è coscienti di ciò che di fatto si presuppone perché il soggetto possa comprendere informazioni, apprezzare beni educativi o apprendere tecniche di prestazioni professionali. Varie ricerche sono inoltre d’accordo nel segnalare che esistono momenti dello sviluppo particolarmente favorevoli all’a. di determinate abilità; se si lasciano passare a vuoto questi momenti critici, tale abilità non potrà più essere acquisita in seguito con quella perfezione, né essere alla base di ulteriori a. L’influsso dell’a. precedente è in particolare oggetto delle ricerche sul «transfer» o diffusività dell’a.; in specie si è rilevato che in un a. successivo vengono utilizzati sia materiali che tecniche precedentemente apprese. Si sono anche verificate le condizioni perché tale trasferimento avvenga: da simili verifiche può, ad es., emergere l’utilità di particolari curricoli o materie nel formare la mente. c) La disponibilità emotiva ad imparare si esprime sia nella motivazione che nelle disposizioni emotive che accompagnano l’a. Poiché la motivazione, come fattore di a., è stata ampiamente considerata dalle ricerche, ci limitiamo qui alla componente emotiva, essa pure, del resto, dipendente dalla motivazione.

2.2.​​ L’esito​​ dell’a. può dipendere da uno stato emotivo generale: soggetti ansiosi apprendono più facilmente, a pari condizioni, di soggetti non ansiosi quando percepiscono che il compito è alla loro portata, ma restano molto al di sotto delle loro capacità se vedono nel compito un rischio di fallimento. Atteggiamenti generali possono portare ad affrontare subito un impegno o a dilazionarlo, a rischiare esperienze nuove o ad essere conservatori, ad essere costanti oppure a lasciarsi abbattere da parziali insuccessi. Inoltre vi possono essere settori specifici di a. davanti ai quali il soggetto si sente emotivamente bloccato da atteggiamenti verso un dato ambiente educativo, verso persone significative, verso particolari materie o abilità da apprendere. Vi sono infine le disposizioni emotive del momento, dovute a particolari circostanze favorevoli od avverse, a benessere o disturbi fisiologici, a condizioni ambientali di clima, aerazione, pressione atmosferica, ecc. Anche la fatica, che cresce con il tempo di applicazione, diventa un fattore negativo di a. Le ricerche hanno messo in luce che esiste una grande variabilità nella disponibilità ad apprendere, e che perciò è più importante rilevare l’età nervosa, endocrina, mentale che non quella cronologica. Inoltre ogni soggetto ha la sua storia che ha creato in lui particolari disposizioni. Si impone perciò la necessità di rilevare, nei momenti opportuni, la disponibilità ad apprendere, sia con procedimenti intuitivi, sia con tecniche psicometriche appropriate.

2.3.​​ La motivazione.​​ È ovvio che la​​ ​​ motivazione influisca sul processo e sull’esito dell’a., se si tengono presenti i quattro effetti della motivazione stessa, che sono quelli di iniziare, dirigere, sostenere l’attività e sensibilizzare selettivamente il soggetto. Per i vari tipi di a. la motivazione ha ruolo e contenuti differenti: ininfluente nel condizionamento classico, è la molla principale dell’a. strumentale, e si configura in modo specifico nell’a. di informazioni e di atteggiamenti. L’intensità ottimale della motivazione deve essere tale da sollecitare efficacemente il soggetto, senza tuttavia disturbare emotivamente il processo con una eccessiva urgenza. Dal punto di vista educativo pare particolarmente significativa la distinzione fra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca: la prima tende ad un risultato che è prodotto naturale dell’a., mentre la seconda tende ad una soddisfazione aggiunta dall’esterno, ad es. al riconoscimento sociale, a vantaggi economici, e simili. Quando il soggetto non è ancora maturo per apprezzare certi beni culturali, è prassi comune avviarlo verso di essi con incentivi estrinseci. Varie ricerche condotte in ambito scolastico dimostrano l’effetto della lode e del biasimo sull’a., e dimostrano pure che questi incentivi hanno differente risonanza in differenti personalità. In particolare si è verificato che il comunicare con chiarezza e tempestivamente i risultati dell’a. ne facilita il progresso, sia perché serve come lode o biasimo (motivazione estrinseca), sia perché informa su ciò che, nell’a., funziona o non funziona. Si è anche notato che, nell’a. scolastico, una motivazione estrinseca comporta principalmente una strategia riproduttiva: lo studente si limita a fissare il puro necessario per poter riprodurre il materiale, e la tecnica prevalente è quella della memorizzazione meccanica. Una motivazione intrinseca, al contrario, porta il soggetto ad approfondire la materia, a comprenderla e collegarla con altre informazioni, in una parola a fare un a. significativo. Infine è da rilevare che una educazione riuscita comporta che i valori siano ricercati per se stessi, e che perciò l’educando passi dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca. Talora un educatore può illudersi di aver raggiunto certi scopi basandosi su condotte esteriori dell’educando che possono essere governate da motivazioni del tutto estranee ai beni educativi che sembrano incarnare.

2.4.​​ L’esercizio.​​ Poiché nell’a. l’acquisizione di nuove abilità è dovuta principalmente all’esperienza, il fattore esercizio risulta essenziale. Questo fattore si misura nelle ripetizioni di un’operazione, o nel tempo dedicato alla pratica. Nel processo dell’a. si manifesta un continuo e progressivo miglioramento delle prestazioni, frutto dell’accumularsi dell’esperienza; questo lento e continuo progresso differenzia l’a. dalla condotta intelligente, in cui si passa direttamente dall’incapacità, dovuta alla mancanza di comprensione, alla piena abilità, come frutto dell’intuizione. La funzione della ripetizione è quella di fissare e consolidare le connessioni nervose e simboliche richieste e di eliminare i passi non necessari, in modo da rendere fluida e rapida la condotta appresa. Quando le attività da apprendere sono complesse, e cioè risultano dalla somma di varie abilità elementari, si può notare il fenomeno del​​ plateau:​​ dopo un iniziale miglioramento, per un certo periodo non si rilevano progressi pur continuando l’esercizio, fino a quando il perfetto a. delle componenti elementari non permette la loro organizzazione nell’attività globale. Come per la memorizzazione, anche in questo caso si pone il problema se sia più efficiente un esercizio ammassato (in sessioni prolungate) o distribuito (in più sessioni relativamente brevi); in genere valgono le stesse indicazioni che si danno per la memorizzazione: non fare sessioni troppo brevi per utilizzare bene il tempo di «riscaldamento» o di preparazione, e per poter affrontare in una sola sessione unità coerenti del compito e, allo stesso tempo, evitare sessioni troppo lunghe, nelle quali non vi sia modo di rielaborare interiormente ciò che si apprende e la fatica, accumulandosi, renda inefficiente l’esercizio. Infine ci si chiede se sia meglio affrontare il compito da apprendere in modo globale o per singole parti; la risposta deve tener conto della natura del compito (in alcuni casi non ha senso suddividere il compito da apprendere, in altri la complessità impone la suddivisione), e delle disposizioni del soggetto (una persona più intelligente può approfittare maggiormente del contesto globale).

3.​​ Implicanze educative.​​ Il vasto campo degli oggetti, dei processi e dei fattori dell’a. apre una estesa problematica educativa, che in buona parte viene trattata nelle voci apposite. Tutto il campo dell’a. scolastico rimanda alla psicologia educativa / scolastica e della comunicazione; allo stesso modo l’a. di atteggiamenti suppone lo studio dell’apporto emotivo e valoriale del contatto con l’ambiente sociale. Raccogliendo alcune indicazioni da quanto si è esposto, notiamo come lo studio dell’a. rivela che si può essere condizionati senza accorgersene e che in noi si possono creare connessioni inconsce e incontrollate, che ci aiutano o ci disturbano. A questo riguardo è anche da rilevare che, accanto all’a. intenzionale, o appositamente ricercato, vi è un a. «incidentale», cui possiamo essere sottoposti senza volerlo. In secondo luogo si ricorda l’urgenza di verificare la disponibilità ad apprendere, e a curarla dove fosse carente; qualora ciò fosse trascurato, l’offerta educativa potrebbe essere del tutto o in parte inutile. Ancora si ricorda l’importanza di favorire il passaggio dalla motivazione estrinseca a quella intrinseca, così che l’educando non si senta governato dall’esterno, ma operi per adesione personale a valori da lui percepiti come tali. Infine, richiamando il vecchio detto che si impara non per la scuola, ma per la vita, si farà particolare attenzione che quanto si offre come oggetto di a. possa servire come base per quell’a. che, durante tutta la vita, permette di affrontare con successo i vari compiti che essa presenta.

Bibliografia

Hilgard E. R. - G. H. Bower,​​ Le teorie dell’a.,​​ Milano, Angeli, 1970; Bloom B. S.,​​ Caratteristiche umane e a. scolastico,​​ Roma, Armando, 1979; Roncato S.,​​ A. e memoria,​​ Bologna. Il Mulino, 1982; Bertondini A.,​​ Biologia e a.,​​ Bologna, Esculapio, 1984; Boscolo P.,​​ Psicologia dell’a. scolastico. Gli aspetti cognitivi,​​ Torino, UTET, 1986; Cornoldi C.,​​ A. e memoria nell’uomo,​​ Ibid., 1986; Gagnè E. D.,​​ Psicologia cognitiva e a. scolastico,​​ Torino, SEI, 1989; Montuschi F.,​​ Competenza affettiva e a. Dalla alfabetizzazione affettiva alla pedagogia speciale,​​ Brescia, La Scuola, 1993; Ronco A.,​​ Introduzione alla psicologia,​​ vol. 2:​​ Conoscenza e a.,​​ Roma, LAS, 1994; Fiorin I.,​​ La relazione didattica:​​ insegnamento e a. nella scuola che cambia, Brescia, La Scuola, 2004.

A. Ronco




APPRENDIMENTO AUTODIRETTO

 

APPRENDIMENTO AUTODIRETTO

In ing.​​ Self-directed learning, in fr.​​ autoformation.​​ Dirigere se stessi nel proprio a. culturale e / o professionale può essere riletto secondo due prospettive complementari, integrando tra loro i concetti di autodeterminazione e di autoregolazione. Con il termine «autodeterminazione» si segnala la dimensione della scelta, del controllo di senso e di valore, della intenzionalità dell’azione: è il registro della motivazione, della decisione, del progetto, anche esistenziale. Con il termine «autoregolazione», che evoca monitoraggio, valutazione, pilotaggio di un sistema d’azione si insiste di più sul registro del controllo strumentale dell’azione. Al primo livello, nel dare senso, finalità, scopo all’azione ci si colloca sul piano del controllo di tipo «strategico», che mette in evidenza la componente motivazionale, di senso, di valore. Al secondo livello si richiede, invece, di sorvegliare la coerenza, la tenuta, l’orientamento dell’azione e regolarne il funzionamento o pilotarla; si tratta di un livello «tattico».

1. Nel caso dell’a. scolastico, le indagini finora svolte (Pellerey, 2006) hanno messo in luce le caratteristiche che distinguono gli studenti che sono in grado di autodirigere il proprio a. da quelli che non lo sono. 1) Essi hanno famigliarità e sanno utilizzare un insieme di strategie cognitive (memorizzazione, elaborazione, organizzazione), che li aiutano a considerare, trasformare, elaborare, organizzare e recuperare le informazioni. 2) Sono in grado di pianificare, controllare e dirigere i propri processi mentali al fine di conseguire obiettivi personalmente scelti. 3) Mostrano un insieme di convinzioni motivazionali ed emozioni favorevoli, come senso di autoefficacia scolastica, orientamento ad apprendere e non solo a conseguire buoni voti, sviluppo di emozioni positive nei riguardi dei compiti da affrontare (gioia, soddisfazione, entusiasmo, ecc.) e la capacità di controllarle e modificarle secondo le esigenze dei compiti e delle situazioni. 4) Sanno pianificare e controllare il tempo e lo sforzo coerentemente con gli impegni assunti, riuscendo a strutturare ambienti favorevoli all’a. e cercando nelle difficoltà l’aiuto degli insegnanti e / o dei propri compagni. 5) In base alle possibilità esistenti, mostrano grande impegno nel partecipare alla gestione degli impegni scolastici, del clima della classe e della sua organizzazione. 6) Sono capaci di mettere in atto una serie di strategie volitive, dirette ad evitare distrazioni interne ed esterne, a mantenere la concentrazione, lo sforzo e la motivazione, mentre portano a termine i loro compiti.

2. Come si può facilmente notare, le prime due indicazioni si riferiscono ad aspetti comportamentali di tipo metacognitivo, in quanto tengono conto di conoscenze, sensibilità, monitoraggio e governo di processi di natura cognitiva. La terza indicazione tocca aspetti di gestione della dimensione emozionale e motivazionale. La quarta e la sesta coprono competenze di natura volitiva, mentre la quinta evoca senso di partecipazione e responsabilità alla vita della comunità di a.

Bibliografia

Zimmerman B. J.,​​ A social cognitive view of self-regulated academic learning, in «Journal of Educational Psychology» 81 (1989) 329-339; Boekaerts M. - P. R. Pintrich - M. Zeidner (Edd.),​​ Handbook of self-regulation, San Diego, CA, Academic Press, 2000; Carré P. - A. Moisan,​​ La formation autodirigée.​​ Aspects psychologiques et pédagogiques, Paris, L’Harmattan, 2002;​​ Pellerey M.,​​ Dirigere il proprio a., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey