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VOCAZIONE

 

VOCAZIONE

Il concetto di v. (vocation) è una nozione fondamentale che è stata sempre presente nella coscienza dell’uomo, in modo particolare nella rivelazione trasmessaci dalla​​ ​​ Bibbia. In questi ultimi anni è stato particolarmente approfondito sia nel campo specifico dell’orientamento, per l’aumentato bisogno di informazioni, consigli ed educazione in merito alla scelta di un lavoro nell’ampia gamma delle offerte, sia in quello religioso, grazie, in particolare, al Concilio Vaticano II e ad una vigorosa presa di coscienza della crisi numerica dei candidati alla vita presbiterale e consacrata. Rimane tuttavia notevole il lavoro di ricerca e di studio richiesto dal fenomeno della v. di «speciale consacrazione». Anche se si nota una maggior attenzione ai valori della​​ ​​ persona, tuttavia, non si è ancora sufficientemente chiarito l’apporto interdisciplinare tra teologia e​​ ​​ scienze dell’educazione e non si è prestata sufficiente attenzione agli aspetti attitudinali, pedagogici e metodologici della scelta e accompagnamento vocazionali.

1.​​ Significato di v. Nell’uso corrente per v. s’intende l’inclinazione che una persona manifesta verso uno stato di vita, una professione o una carriera. Questa accezione, comune e popolare, tuttavia è in qualche modo elementare e vaga; non rispecchia infatti abbastanza quello che è in realtà la v. al livello umano e cristiano. Per v.,​​ a livello umano, s’intende il servizio incondizionato a​​ ​​ valori riconosciuti come tali e sentiti come appellanti per la persona. La v. è la via all’identità propria di una persona che impegna in forma libera e responsabile la propria vita per promuovere la storia dell’uomo. Essa è sempre una risposta originale ad un appello percepito come forte e impellente. Non si tratta unicamente di un’inclinazione o di un’attrattiva naturale ma di un’iniziativa personale, libera e intenzionale della persona che organizza e unifica la propria vita in funzione di un valore. Le inclinazioni naturali non sono la spinta specifica di una v., perché potrebbero addirittura essere un elemento disturbante. La v. è, invece, una realtà profondamente «personale», inserita in una struttura di inclinazioni ed abilità, ma che si trova a funzionare solo nel campo dello spirito, della libertà e della responsabilità. La v., in questo senso, è la misura esistenziale e storica di una persona concreta, perché è solo lo spirito, la dimensione spirituale, che costruisce la storia. Si può, quindi, dire che la v., a livello umano, è il nome dell’identità personale più profondamente ricercata. La v. è pure il fine della persona e, quindi, interessa la​​ ​​ pedagogia. Ciò significa che la persona è strutturata dalla sua v. Essa nasce come un progetto che deve essere realizzato, con l’aiuto dell’​​ ​​ educazione, dalle decisioni centralizzate e unificate della​​ ​​ libertà. Per v.,​​ a livello cristiano, s’intende la chiamata di Dio all’uomo per operare a favore della storia della salvezza. Questa v. non esclude quella a livello umano: la presuppone per arricchirla, ad un piano superiore, di una nuova dimensione. Perciò essa non va considerata solo in modo teocentrico, né solo in modo antropocentrico, ma secondo le due visuali. L’approccio teologico definisce piuttosto il contenuto della v., quello antropologico la modalità della risposta. A questo livello la v. presenta, secondo la Bibbia, le seguenti caratteristiche: è iniziativa d’elezione di Dio, in vista della salvezza del mondo (Ger 1,5; Gal 1,15); è un atto d’amore creativo, personale ed unico, in cui Dio chiama l’uomo «per nome» (Is 43,1) secondo il progetto pensato per lui; implica fondamentalmente un atto di​​ ​​ fede, ossia la capacità nella persona di trascendersi fino al punto di scoprire l’iniziativa di Dio e di ascoltarne la chiamata; richiede un’amicizia religiosa con Dio e fiduciosa in Lui che accetta di collaborare al piano di Dio entro la comunità ecclesiale (aspetto interpersonale-comunitario) con atteggiamento audace, vissuto nell’umiltà, senza altre intenzioni, desideri od aspettative se non quella di consegnare la propria vita a Dio. Nella fede cristiana troviamo questa profonda originalità: la v. è l’impegno interpersonale di Dio e dell’uomo al servizio dell’uomo e della salvezza del mondo.

2.​​ Dimensione pedagogica e teologica della v. cristiana.​​ Nella persona umana, la capacità di scoprire l’iniziativa di Dio e di seguire la sua chiamata è un’attività spirituale mossa dalla fede. La fede è un atteggiamento personale che percepisce e accetta nella storia l’attività salvifica di Dio: è dono di Dio e accettazione dell’uomo; è invito di Dio e decisione libera e docile dell’uomo; è responsabilità e iniziativa di Dio e corresponsabilità o co-iniziativa dell’uomo che si trascende, fino al punto di aprirsi a Dio, intenderne i segni, conoscerlo ed amarlo. La v. è inoltre strettamente collegata con le attività della coscienza e della libertà e in armonia con le doti naturali e le inclinazioni dell’uomo, sebbene si collochi ad un livello superiore. Essa implica sempre una decisione personale libera, promossa dalla fede. La tradizione biblica mette in risalto in Abramo specialmente la sua fede (Rm 4,14-22). La v. nasce come progetto preciso che richiede per essere realizzato un cammino di accompagnamento e di discernimento attraverso cui progressivamente sono unificate le decisioni della libertà per una disponibilità incondizionata e illimitata a Dio e a quelli che nella fede sono chiamati «fratelli» e «sorelle». Questa disponibilità alla «chiamata» di Dio è la condizione della vera fecondità di grazia della v., in qualsiasi «stato» ecclesiale si presenti e in qualsiasi forma si manifesti. In ogni caso si tratta sempre del dono di sé a Dio per i fratelli e per il mondo, sia che la v. si verifichi nella contemplazione di un convento oppure nell’azione apostolica di un prete o di un religioso, o come fermento nel mondo in un istituto secolare o nella vita laicale. Qualunque possa essere il modo della chiamata, è necessario che il soggetto armonizzi tutte le doti della natura e le qualità personali in una co-iniziativa, che s’impegna liberamente in modo totale. In questo senso la libertà nella v. congloba, in sintesi organica, tutta la personalità. Così la v. non è una buona volontà disincarnata, o una decisione isolata, che tocca semplicemente un settore della vita, quella religiosa, ma l’espressione «personale» di tutta l’identità vocazionale concreta del soggetto. Un compito notevole è la decisione vocazionale. Essa impone un delicato lavoro pedagogico di​​ ​​ discernimento vocazionale perché la decisione sia espressione d’un coinvolgimento totale di tutta la persona. È maturazione intelligente delle doti e inclinazioni naturali, in particolare dell’area affettivo-sessuale, delle competenze e delle abilità acquisite e della loro integrazione nel progetto vocazionale. È anche comprensione delle inevitabili contrapposizioni e tensioni giovanili nel cammino vocazionale. Per questo la decisione personale è sempre un atto di audacia che implica un impegno realizzato in un iter di accompagnamento spirituale. Nella v., soprattutto cristiana, tutto si basa sulla docilità alla chiamata, piuttosto che sulle qualità personali dell’uomo. Anzi, la scoperta della propria povertà, come nel caso dell’anzianità di Abramo o della sterilità di Sara, irrobustisce l’impegno del sentirsi chiamati a collaborare con Dio. La v. infatti implica sempre la fiducia nella fedeltà e nel potere di Dio che chiama.

3.​​ L’iniziativa di Dio e la persona.​​ La v. cristiana, appunto perché interpersonale, ha due aspetti chiaramente differenziati: l’iniziativa di Dio e l’accettazione dell’uomo. Si tratta di due aspetti di un’unica realtà vincolati con le attività della coscienza e della libertà. L’iniziativa di Dio si colloca anzitutto nel campo delle caratteristiche e delle doti naturali. Non è la manifestazione illogica di una volontà arcana che s’impone come un imperativo bizzarro, nonostante la personalità e i desideri concreti dell’uomo chiamato. La v. di Abramo, ad es., nonostante la sua anzianità e la sterilità di Sara, è nella linea delle proprie inclinazioni naturali: avere dei figli, possedere terre e dar inizio a una discendenza poderosa. Questi desideri saranno realizzati dalla v. in una maniera inaspettata e portati ben oltre le possibilità naturali. Nella chiamata alla v., Dio si rivolge all’uomo, all’interno di uno scambio dialogico, per invitarlo a partecipare al suo piano d’amore. L’accettazione dell’uomo implica sempre una decisione personale libera, suscitata e sospinta dalla fede. La v., perché personale, segue le linee fondamentali dello sviluppo della personalità umana e cristiana. Essa è in continuo sviluppo verso la progressiva scoperta e comprensione del proprio mistero. I vari educatori dovranno far attenzione alle esigenze di questa continua tensione. È sempre difficile equilibrare la considerazione della v. tra visione della grazia e visione pedagogica. Se si sottolinea eccessivamente la dimensione della grazia si annulla la responsabilità dell’uomo. Se si considera unicamente la dimensione antropologica, si corre il rischio di minimizzare l’apporto della grazia. Per questo a tutt’oggi si sono date tre impostazioni di pensiero e di metodologia attorno al discorso v.: la scuola spiritualista che privilegia l’azione unica di Dio a scapito della realtà della persona; la scuola psicologista, che concentra l’attenzione vocazionale solo sui dinamismi naturali della persona; la scuola antropologico-cristiana che vede il discorso vocazionale in uno splendido equilibrio di natura e grazia nella chiamata e nella risposta.

4.​​ La v. e le v.​​ L’originalità della v. non consiste solo nel fatto che Dio prende l’iniziativa nella storia dell’uomo, ma anche nel fatto che Dio interviene definitivamente, non in un individuo, ma in una comunità di persone, ossia nella Chiesa. La v. cristiana, nel suo senso fondamentale e comune, è comunitaria ed ha quindi una valenza globale. Dio chiama l’uomo attraverso la Chiesa, e l’uomo risponde a Cristo attraverso la Chiesa. Così la Chiesa è la v. cristiana del mondo, il nucleo e la logica dinamica di ogni v. Nella Chiesa ci sono parecchie v. Come dice s. Paolo, ad ognuno è stato dato un «carisma» (dono) particolare, secondo la libertà di Dio e la capacità di ognuno: non per sé, ma per l’utilità comune, per realizzare la Chiesa «corpo mistico», «edificio spirituale», «popolo sacerdotale, profetico e regale» e per operare nella verità e giustizia, per la salvezza del mondo e la piena comunione con Dio. Educare alla v. significa promuovere alla vita comunitaria aperta al mondo e a Dio.

5. In questi ultimi anni si è iniziato a riflettere sulle linee portanti per una storia della pastorale e pedagogia vocazionale nella Chiesa. Si considera punto iniziale della Pastorale Vocazionale l’enciclica di Pio XI:​​ Ad cattolici sacerdotii​​ del 1935, che, si può dire, ha dato l’apporto fondamentale a tutta la pastorale e pedagogia vocazionale successiva con l’impulso straordinario del Vaticano II.

Bibliografia

Masseroni E.,​​ V. e vocazioni, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1985; Cencini A.,​​ Vocazioni. Dalla nostalgia alla profezia. L’animazione vocazionale alla prova del rinnovamento, Bologna, Dehoniane, 1989; Magni V.,​​ Pastorale delle v. Storia,​​ dottrina,​​ esperienze,​​ prospettive, Roma, Rogate, 1993; Cencini A.,​​ Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Emmaus, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1994; Citrini T., «V.», in​​ Dizionario di pastorale vocazionale, Roma, Rogate, 2002; Llanos M. O.,​​ Servire le v. nella Chiesa, Roma, LAS, 2005.

V. Gambino




VOLONTÀ

 

VOLONTÀ

Tendenza dell’uomo a ricercare il proprio e l’altrui bene. In senso più specifico, qualità della​​ ​​ persona umana che si manifesta particolarmente nella capacità di perseverare negli impegni presi anche di fronte a difficoltà, imprevisti, frustrazioni.

1.​​ Interesse per gli studi sulla v.​​ La v. era considerata dalla filosofia e dalla psicologia una delle facoltà principali dell’uomo, insieme a intelligenza e sentimento. In ambito psicologico dopo un intenso studio all’inizio del secolo, soprattutto a opera della psicologia della Scuola di Würzburg (N. Ach) e di Berlino (​​ Lewin), si è progressivamente perso interesse per i processi volitivi. Anche in campo pedagogico si è assistito a una diminuita presenza di quella che veniva denominata «educazione della v.». Negli ultimi anni, tuttavia, si è avuta una certa ripresa d’interesse per lo studio dei processi volitivi soprattutto per merito della scuola tedesca avviata da H. Heckhausen. Altre correnti psicologiche hanno mostrato un rinnovato interesse per la v. intesa come facoltà umana, anche se il tutto è stato riletto in maniera più profonda e integrata.

2.​​ Natura della v.​​ Si possono delineare almeno tre teorie fondamentali concernenti la volizione: la teoria che la considera come facoltà o «capacità di volere» (​​ Locke); la teoria che la vede nel suo manifestarsi come un atto decisionale che coinvolge emozione e cognizione; la teoria che la esamina nel contesto di un complesso processo che integra un momento predecisionale in cui si elabora l’intenzione di agire e uno post-decisionale in cui si controlla l’esecuzione dell’azione conseguente alla decisione presa. Nel seguito ci soffermeremo soprattutto su quest’ultima posizione, derivandone alcune indicazioni di ordine educativo.

3.​​ La volizione come competenza strategica. La v. d’agire in un certo modo deriva dall’interazione tra desideri, motivi e valori che caratterizzano una persona e la percezione che questa ha di una situazione concreta, che la interpella perché considerata inadeguata o carente da qualche punto di vista. Di qui nasce l’intenzione di agire per trasformare tale situazione in una considerata migliore. È la fase definita da H. Heckhausen (1992) come predecisionale o motivazionale. A questa segue la fase postdecisionale o volitiva. In essa si deve impostare l’azione decisa, condurla a compimento, valutarne i risultati ottenuti. Per far questo, secondo J. Kuhl (1984), occorre sviluppare una capacità di gestione e controllo di vari processi di natura cognitiva, motivazionale, emozionale e pratica che concorrono a rendere possibile un corso dell’azione valido ed efficace. In particolare risultano importanti strategie di attenzione selettiva e di elaborazione delle informazioni coerenti con l’obiettivo da raggiungere; di controllo delle emozioni negative e di valorizzazione delle emozioni positive che possono insorgere nel corso dell’azione; di rievocazione e difesa da motivazioni concorrenti delle ragioni che hanno portato alla decisione assunta; di gestione funzionale dell’ambiente e del tempo. Tutto ciò è stato collegato (Corno & Kanfer, 1993) al tratto della personalità che può essere descritto come «coscienziosità». Dalle ricerche emerge che i soggetti che manifestano tratti della personalità associati a un forte senso dell’impegno assunto nel perseguire uno scopo e del conseguente obbligo soggettivamente vissuto e ad una energica capacità di perseveranza negli impegni riescono meglio non solo nello studio, ma soprattutto nella loro attività professionale.

4.​​ L’educazione della v.​​ Dal punto di vista assunto appare abbastanza evidente la necessità di promuovere attraverso un’azione educativa appropriata le competenze strategiche necessarie a saper controllare il proprio agire, una volta preso un impegno preciso. D’altra parte risulta anche chiara la forza motivante e di sostegno dell’azione, nonostante le difficoltà, gli insuccessi parziali e le frustrazioni possibili, dell’intensità del desiderio di realizzare una situazione nella quale​​ ​​ valori e motivi profondamente vissuti trovino una loro concretizzazione più forte e pregnante. Ne deriva l’importanza non solo di una valida ed efficace educazione ai valori, ma anche dello sviluppo della capacità di leggere e interpretare le situazioni reali alla loro luce per prospettarne di più valide e significative.

Bibliografia

Kuhl J., «Motivational aspects of achievement motivation and learned helplessness: toward a comprehensive theory of action control», in B. A. Maher - W. B. Maher (Edd.),​​ Progress in experimental personality research, vol. 13, New York, Academic Press, 1984, 99-171;​​ L’educazione della v., Brescia, La Scuola, 1986; Ricoeur P.,​​ Filosofia della v., Genova, Marietti, 1990; Heckhausen H.,​​ Motivation and action, Berlin, Springer, 1992; Pellerey M.,​​ Volli,​​ sempre volli,​​ fortissimamente volli, in «Orientamenti Pedagogici» 40 (1993) 1005-1017; Corno L. - R. Kanfer,​​ The role of volition in learning and performance, in «Review of Research in Education» 17 (1993) 301-341; Pellerey M.,​​ Educare, Roma, LAS, 1999; Id.,​​ Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey




VOLONTARIATO

 

VOLONTARIATO

Con questo termine si indicano oggi, specie dopo l’emanazione della «L. quadro» sul v. dell’11-08-1991 n. 266 (GU n. 196 / 1991), le organizzazioni di v. operanti in Italia, in una molteplicità di campi di intervento, delle quali «La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione [...] come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento di attività di carattere sociale, civile, culturale» (art. 1.2).

l.​​ Il v. nella legislazione e nella comunità civile.​​ Tale «L. quadro» non regolamenta tutto il v. in considerazione del fatto che uno Stato democratico non può legiferare sulle libere scelte dei cittadini, quando esse non violano i diritti costituzionali né le sue disposizioni penali. Questa legge, infatti, si limita a «stabilire i principi cui le Regioni e le Province autonome devono attenersi nel disciplinare i rapporti fra le istituzioni pubbliche e le organizzazioni di v., nonché i criteri cui debbono uniformarsi le amministrazioni statali e gli enti locali» (art. 1.2). Tale approccio è stato superato con la modifica del titolo V. della Costituzione, art. 118 ultimo comma (L. Cost. n. 3 / 2001) che legittima l’iniziativa di cittadini singoli e associati che si mobilitano per realizzare attività di interesse generale sulla base del principio di «sussidiarietà». In tal modo svolgono anch’essi una funzione «pubblica» e le istituzioni sono tenute a favorire tale azione prosociale dei cittadini singoli e organizzati rispettandone l’autonomia. Ciò rafforza il rapporto di reciprocità, ovvero la «sussidiarietà circolare» tra v. ed ente pubblico. La L. 266 esplicita che per attività di v. deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo, gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà» (art. 2.1). Dunque, lo Stato non prende in considerazione il v. del singolo, ma degli organismi in cui si inserisce. Con maggiore realismo, oggi, sarebbe più opportuno parlare del fenomeno sociale dei «volontariati», tanto diversi sono i soggetti, le forme, le strutture, i metodi, gli obiettivi e le motivazioni dell’azione gratuita che opera in molteplici campi, impegnata nella lotta alla povertà, all’emarginazione, al disagio esistenziale, all’esclusione sociale. Ma anche e sempre più nei nuovi campi della partecipazione civica (protezione civile, educazione permanente, tutela e valorizzazione dei beni culturali e del patrimonio ambientale e naturale) che si fanno carico dei «beni comuni» e permettono una migliore qualità della vita dei cittadini.

2.​​ Le caratteristiche del v. moderno.​​ Si indica con l’aggettivo «moderno», il v. sviluppatosi in Italia dopo il 1975, a seguito di una profonda revisione di carattere sociale e culturale condotta al suo interno, che ha consentito di rivisitarne il ruolo storico rispetto alla comunità civile. Si nota pertanto il passaggio da un v. di carattere sostanzialmente riparatorio, destinato ad un generoso contenimento delle sofferenze dei ceti deboli, non tutelati nei loro diritti di cittadinanza e, talvolta, neppure in quelli umani, ad un v. che assume, invece, nelle sue realizzazioni più mature, un carattere liberatorio. Ciò avviene concretamente quando i gruppi di azione gratuita, oltre a dare testimonianza dei propri valori di cittadinanza solidale e del proprio servizio per garantire aiuti tempestivi e qualificati ai cittadini in difficoltà​​ ​​ come già avveniva nel passato​​ ​​ uniscono a questa dimensione di altruismo, la dimensione politica di impegno nella rimozione delle cause della sofferenza, dell’ingiustizia, delle violazioni dei principi costituzionali, del degrado ambientale o dei beni comuni. Privilegia altresì la prevenzione del rischio, del disagio e del degrado e promuove l’autoprogettualità dei soggetti in stato di bisogno. In questo senso, dal punto di vista civico, le radici del v. e della sua cultura della​​ ​​ solidarietà, si trovano nel secondo articolo della Costituzione italiana. La sua dimensione politica trova piena legittimazione nel terzo articolo della stessa Costituzione, laddove si afferma: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 e. 2). Quando il v. rinuncia alla dimensione politica diventa solo assistenza, beneficenza, perbenismo, opere di carità; tutti atteggiamenti eticamente positivi ma che v. non sono, nel senso pieno e moderno del termine. Questa dimensione politica, che cioè si fa carico delle relazioni umane e sociali sul territorio e punta al miglioramento concreto della loro qualità in interazione costante ed esigente con le istituzioni pubbliche, ha radici non solo civili, ma di fedi per coloro che si dichiarano credenti nelle varie Chiese e Religioni. Per il v. cattolico la fonte di riferimento è il Messaggio sociale della Chiesa, con particolare attenzione di approfondimento per quello sviluppatosi dal Concilio Vaticano II ad oggi. Il volontario moderno non è dunque un eroe, una figura carismatica ed eccezionale, ma un cittadino che vive solidalmente e attivamente la Costituzione. Egli applica questo stile di relazioni nell’arco di tutta la giornata, nel suo impegno personale, familiare, professionale, sociale e destina in modo particolare una parte del suo tempo, della sua preparazione, dei suoi mezzi, contribuendo all’operatività e alla qualificazione culturale di una libera organizzazione – da lui prescelta – che opera contro l’esclusione sociale o per lo sviluppo della sua comunità. È, dunque, un testimone di civismo ed altruismo. Deriva le sue motivazioni dal patrimonio etico laico o da quello delle fedi, in entrambi i casi «credente» nel servizio verso l’uomo.

3.​​ La consistenza,​​ la qualità del fenomeno e i problemi attuali.​​ Con la crescita del fenomeno sono cresciuti anche i soggetti che lo osservano (compreso l’ISTAT dal 1995 con rilevazioni periodiche sulle organizzazioni iscritte ai registri pubblici del v.). Tra questi la Fondazione Italiana per il V. che ha creato nel 1993 una Banca dati, la prima in Italia a realizzare rilevazioni sistematiche e periodiche su tutto il territorio nazionale monitorando nel tempo circa 13 mila unità e identificando un universo di circa 30.000 organizzazioni in grado di mobilitare in modo continuativo circa 1 milione di cittadini (dati 2006). La crescita del fenomeno è costante nel tempo anche se si ravvisano fenomeni di assottigliamento delle unità per la riduzione del numero medio di componenti attivi, per la tendenziale «istituzionalizzazione» delle unità che gestiscono servizi per conto del Pubblico e quindi per la professionalizzazione che rende matura la transizione di una parte delle organizzazioni, quelle più mature (15% circa) verso l’impresa sociale, recentemente riconosciuta come altra veste giuridica oltre alla cooperativa sociale. Vi sono anche fenomeni che dimostrano un certo appannamento del principio di gratuità (concessione ai volontari di rimborsi spesa forfetari, prevalenza della componente remunerata, acquisizione di corrispettivi od induzione di «offerte» dagli utenti), che ha reso necessaria nell’anno internazionale dei volontari, il 2001, l’elaborazione della Carta dei Valori del V. – promossa dalla Fondazione Italiana per il V. e dal Gruppo Abele – vero e proprio manifesto culturale che richiama l’identità specifica e i connotati valoriali del v. Ciò significa distinguersi anche dalle altre forze del terzo settore di cui il v. è stato in larga parte generatore o promotore; in primis dall’​​ ​​ associazionismo tradizionale e da quello della promozione sociale (L. 383 / 2000) che costituisce una libera aggregazione di cittadini «pro-sé», nel perseguimento degli obiettivi comuni prescelti, mentre l’azione gratuita organizzata, nasce «pro-alios» non per servirsi, ma per servire. E tanto più rispetto alle unità associative dove prevale o è decisivo il personale remunerato, pur se permeato di spirito di v. È assente, in questo caso, l’elemento della gratuità, del disinteresse, che sono fondamentali alla concezione dell’azione volontaria.

4.​​ La formazione al e del v.​​ Come afferma la​​ Carta dei Valori del V.​​ oggi l’azione gratuita organizzata pretende dai suoi membri, a tutela stessa del cittadino, una irrinunciabile formazione, cioè una preparazione di base, anche se non specialistica e professionale, che gli consenta di adempiere in modo qualificato ai servizi cui si dedica. Il processo formativo deve comunque prevedere quattro tempi di attuazione: una prima fase informativa, al termine della quale il cittadino​​ ​​ resosi disponibile​​ ​​ conosciuta l’identità del v., accetta o meno il suo personale coinvolgimento e lo decide; una seconda fase è destinata alla formazione di base, per l’approfondimento dei contenuti, dei metodi, dei servizi offerti dal v., dei suoi campi di azione, delle sue scelte in materia di politiche sociali; una terza fase serve ad acquisire gli elementi indispensabili della propria qualificazione operativa; una quarta fase, di carattere permanente, di continuo aggiornamento e verifica, è finalizzata al controllo degli obiettivi raggiunti dalla programmazione, per discutere criticamente l’evoluzione del settore in termini educativi, sociali, economici, politici. Proprio per aiutare il v. a qualificarsi e a svilupparsi la L. 266 istituiva anche i Centri di Servizio per il V., vale a dire associazioni di associazioni di v., attivati a partire dal 1997 e oggi funzionanti in tutte le regioni (77 sedi regionali o provinciali o subprovinciali). Essi sono dotati di risorse autonome garantite da una parte dei proventi delle fondazioni ex-bancarie e assegnati dai Comitati di Gestione regionali del Fondo speciali del v. che hanno anche il compito di controllarne il buon uso.

Bibliografia

Cesareo V. - G. Rossi,​​ V. e Mezzogiorno,​​ Aspetti e problemi, 2 voll., Bologna, EDB, 1986; Tavazza L. (Ed.),​​ Promozione e formazione del v., 2 voll., Ibid., 1987; Ardigò A. et al. (Edd.),​​ La ricerca sociale. Conoscere il v.:​​ bilanci e prospettive della ricerca sociologica, Milano, Angeli, 1990; Lipari N. et al.,​​ V. e partiti politici, Acropoli, Editrice dell’Alento, 1990; Capaldo P. - L. Tavazza et al.,​​ Non eroi ma cittadini, Roma, Fondazione It. per il V., 1993;​​ Annuario del v. sociale italiano, Ibid., 1994; Ascoli U. - C. Ranci,​​ La solidarietà organizzata, Roma, Fondazione It. per il V., 1997; Tavazza L.,​​ Il V. nella transizione. Le prospettive e le sfide fondamentali, Ibid., 1998; Frisanco R. - C. Ranci,​​ Le dimensioni della solidarietà, Ibid., 1999; Frisanco R., «Il V. anima e pratica», in A. Hinna (Ed.),​​ Gestire e organizzare nel terzo settore. Soggetti,​​ strategie,​​ strumenti,​​ Roma, Carocci Faber, 2005; Pellegrini G. (Ed.),​​ Azione volontaria e formazione, Ibid., 2005; Istat,​​ Le organizzazioni di v. in Italia. Anno 2003, Roma, ISTAT Informazioni, n. 27, 2006.

L. Tavazza - R. Frisanco




VOTI / VOTAZIONE

 

VOTI / VOTAZIONE

I v. esprimono la​​ ​​ valutazione su un prodotto o sul livello globale di​​ ​​ competenza, per mezzo d’un simbolo numerico, d’una lettera o d’una qualifica.

1. Questo modo di esprimere le valutazioni scolastiche si è generalizzato soprattutto nel sec. XIX, ma ha origini molto più antiche. I tipi di​​ ​​ scale e di simboli usati nei diversi paesi sono variati nel tempo e variano attualmente. In Italia i v. sono stati aboliti nella scuola primaria e secondaria di I grado e sostituiti con «motivati giudizi» dalla L. 517 del 4.8.1977. Nella scuola secondaria superiore, all’università e in certi concorsi l’uso dei v. permane. Ogni esaminatore dispone d’una scala in decimi per la scuola secondaria durante l’anno scolastico e in centesimi per l’esame di stato, mentre per gli esami universitari i docenti possono disporre di una gamma in trentesimi per gli esami e in centodecimi per attribuire la valutazione finale. Si tratta di valori convenzionali anche per le soglie di sufficienza.

2. La​​ ​​ docimologia ha sottoposto a severa critica i v. e le v., negandone l’attendibilità per più d’una ragione. Anche il concetto di sufficienza non è stabile e non è sempre chiaro; altrettanto si può dire degli altri gradini e della pretesa di dar per scontato che si tratti di numeri cardinali. I v. sono il simbolo d’una valutazione che si riferisce ad aspetti molto vari della stessa prestazione e / o a più prestazioni (si pensi al v. dato a una composizione scritta, a un saggio, al termine d’un trimestre, d’un anno o d’un ciclo scolastico); sono però simboli molto generici, poveri d’informazione specie ai fini della diagnosi (ricupero e sviluppo) e della coerente programmazione. Le soluzioni cercate nella standardizzazione o tipificazione dei v., finalizzate a dare ad essi un significato statistico univoco, non consentono di superare il loro limite intrinseco di forma espressiva globale e poco trasparente.

Bibliografia

McIntosh D. M. - D. A. Walker - D. Mackay,​​ The scaling of teacher’s marks and estimates, Edinburgh, Oliver & Boyd, 1949; Calonghi L.,​​ Sussidi per la v. scolastica, Zürich, PAS-Verlag, 1961;​​ Hotyat F.,​​ Les examens, Paris, Bourrelier, 1962; Pieron H.,​​ Examens et docimologie, Paris, PUF, 1963; Noizet G. - J. P. Caverni,​​ Psychologie de l’évaluation scolaire, Ibid.,​​ 1978; Matthewman M. F. G.,​​ Examination results: processing analysis and presentation,​​ London, Routledge Falmer, 2000; Benvenuto G.,​​ Mettere i v. a scuola,​​ Roma, Carocci, 2003.

C. Coggi




VYGOTSKIJ Lev Semënovič

 

VYGOTSKIJ Lev Semënovič

n. a Orsha (Bielorussia) nel 1896 - m. a Mosca nel 1934, psicologo e pedagogista russo.

1. Di famiglia ebrea di ceto medio, svolse con grande successo i suoi primi studi a Gomel, una cittadina della Bielorussia, fino al 1913. Si trasferì all’università di Mosca per frequentare medicina, ma subito dopo si iscrisse alla facoltà di lettere dove si laureò nel 1917. Frequentò corsi in filosofia, psicologia, storia e lettere all’università del popolo di Shanyavskii. Dopo essersi laureato, fino al 1923 insegnò letteratura e psicologia in una scuola di Gomel. Nel 1924 ritornò a Mosca, dove lavorò presso gli istituti di Psicologia e di Difettologia, al dipartimento di educazione e alla seconda università. Lavorò anche a Leningrado. Morì prematuramente di tubercolosi.

2. Il pensiero di V. si muove dalla chiara assunzione della superiorità dell’uomo su ogni altro essere vivente. L’uomo trasforma l’ambiente adattandolo in maniera attiva a se stesso (adattamento attivo), svolge delle attività che attraverso la mediazione simbolica e psicologica cambiano la sua struttura mentale, consentendogli in questo modo di trascendere la sua eredità biologica. In questa prospettiva, secondo V., un ruolo chiave ha il linguaggio per la comprensione della complessità del comportamento umano. Le parole sono stimoli sociali che svelano l’uomo a se stesso e agli altri. Il linguaggio è una funzione interpsichica che mette una persona in interazione con l’altra ma è strettamente connessa alla funzione intellettiva. Grazie al dialogo interiore il linguaggio comunicativo diviene una funzione intrapsichica, che permette di regolare dall’interno i propri processi cognitivi e il proprio comportamento. Il linguaggio è strumento di comunicazione, ma anche il risultato di un sistema creatosi all’interno del soggetto dalla sintesi dei due componenti: natura e cultura, interno ed esterno.

3. Il processo di internalizzazione occupa un posto di rilievo nella teoria di V. e sottolinea l’importanza dell’interscambio collaborativo con gli altri. Diversamente dai sistemi meno evoluti in cui il pensiero è dominato dalla natura, nel sistema uomo le funzioni mentali superiori sono dominate dalla relazione linguaggio-contesto socioculturale. Il passaggio dalle funzioni «biologiche» a quelle «superiori», più complesse, è dato dall’incremento dei meccanismi di auto-regolazione interna. L’internalizzazione è il processo che permette una graduale formazione delle attività mentali attraverso il comportamento imitativo e accompagna l’individuo durante tutto l’arco della sua vita, non è meccanico, ma è guidato dal pensiero e dalla riflessione. L’individuo imita, personalizzando e organizzando ciò che vede entro un contesto più ampio e diverso da quello osservato. In questo modo l’imitazione diventa un elemento fondamentale nella sua vita che gli permette di realizzare quello sviluppo cognitivo utile al raggiungimento di più alti livelli di competenza. Procedendo nello sviluppo, i processi elementari vengono gradatamente trasformati e sostituiti internamente da capacità volontarie ed autonome. La dimostrazione di queste trasformazioni è la diminuzione del potere dell’ambiente sull’individuo.

4. La connessione delle funzioni mentali superiori con il contesto sociale emerge molto chiaramente nell’analisi del processo di sviluppo indicato come «zone di prossimo sviluppo». V. le definisce come la differenza fra quello che un bambino può fare da solo e quello che può fare in collaborazione con gli altri (1978, 86). La «zona» è lo spazio o il raggio in cui prende posto l’apprendimento. Le zone potenziali rappresentano una condizione necessaria per il raggiungimento dello sviluppo umano ottimale. Lo sviluppo può essere considerato come un processo di costruzione eseguito insieme agli altri, dominato e coordinato da entrambi i protagonisti dell’incontro: il bambino e i partner sociali, gli insegnanti e il gruppo dei pari. La famiglia e la scuola occupano un posto di rilievo nello sviluppo cognitivo del bambino. Si passa all’uso di specifiche strategie per migliorare il ricordo, dall’imparare a leggere e scrivere fino alla formulazione di processi logici e di collegamento di esperienze passate con quelle presenti. La famiglia inizialmente e la scuola in seguito, promuovono lo sviluppo di nuove potenzialità, fornendo in maniera responsabile le conoscenze strategiche e non strategiche che possono essere usate per ottimizzare l’uso delle competenze. Così i bambini avanzano nelle loro conoscenze e nel controllo delle loro attività mentali attraverso l’aiuto degli adulti e dei pari più competenti.

5. L’aiuto fornito dall’assistenza di un individuo più capace, permettendo al bambino di acquisire maggiori competenze, illustra il senso del processo di insegnamento-apprendimento: «risvegliare» i processi di sviluppo interni che aspettano solo di emergere. E questo accade non solo in momenti determinati, ma ogni volta che il bambino entra in interazione con persone facenti parte del suo ambiente o con i suoi pari. Se poi si pensa che il risveglio non è che l’inizio dell’apprendimento e che ad esso segue il processo di internalizzazione col quale quanto è appreso diventa proprio, portando il bambino al raggiungimento dello sviluppo autonomo, si può vedere come lo sviluppo di nuove potenzialità, nella prospettiva vygotskiana, appaia come un processo psicologico dinamico tendente verso più alti livelli di competenze in progressiva evoluzione.

Bibliografia

a)​​ Fonti: V.L.S.,​​ Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e altri scritti, Firenze, Giunti, 1960;​​ Pensiero e linguaggio, Firenze, Universitaria, 1966;​​ Psicologia e pedagogia, Roma, Editori Riuniti, 1969;​​ Mind in the society: the development of higher psychological processes, Cambridge, Harvard University Press, 1978. b)​​ Studi: Moll L. C.,​​ V.​​ and education: instructional implication and applications of sociohistorical psychology, Cambridge, University Press, 1990; Moll L. C. - K. F. Whitmore,​​ «V.​​ in classroom practice: moving from individual transmission to social transaction», in E. A. Forman - N. Minick - C. A. Stone (Edd.),​​ Context for learning: sociocultural dynamics in children’s development, New York, Oxford University Press, 1993, 19-42; Newman F. - L. V. Holzman,​​ Revolutionary scientist, New York, Routledge, 1993.

M. Comoglio




WALLON Henri

 

WALLON Henri

n. Parigi nel 1879 - m. ivi nel 1962, psicologo francese.

1. Laureatosi in filosofia all’École Normale Supérieure di Parigi (1902) e conseguito nel 1908 il dottorato in malattie del sistema nervoso, lavora a Parigi come assistente negli ospedali di Bicêtre e della Salpétrière. Durante la prima guerra mondiale si occupa di soldati affetti da nevrosi di guerra. Nel 1920 ottiene l’insegnamento di psicologia infantile all’Istituto di Psicologia della Sorbona e nel 1921, per intervenire all’interno delle strutture scolastiche e studiare i problemi concreti del bambino, fonda a Parigi un consultorio medico-pedagogico. Nel 1927 crea, presso la scuola di Boulogne-sur-Seine, il Laboratorio di Psicobiologia Infantile, in cui lavorerà come direttore fino al 1950. Nel 1928 è nominato professore di psicopedagogia all’Istituto nazionale di studi del lavoro e dell’orientamento professionale.

2. Dopo aver ottenuto nel 1937 la cattedra di psicologia e pedagogia al Collège de France porta a termine una serie di studi sul pensiero e la sensibilità del bambino seguendo la linea tracciata da Lévy-Bruhl e utilizzando un metodo di inchiesta individuale che presenta svariati punti di contatto con la metodologia clinica messa a punto da​​ ​​ Piaget. I risultati di questo lavoro di ricerca sono riflessi in una serie di volumi, pubblicati tra il 1940 e il 1949. Nel 1949 si ritira, per ragioni politiche, da tutte le cariche di insegnamento, continuando però a lavorare presso il laboratorio di psicologia infantile diretto dal suo allievo R. Zazzo. Fonda nel 1950 la rivista «Enfance», dedicata a temi di psicologia, pedagogia e neuropsichiatria infantile e nel 1951 la rivista «La Raison», dedicata alla psicopatologia e psichiatria in un’ottica pavloviana.

3. Socialista e poi, a partire dal 1942, comunista convinto si impegna nel lavoro politico e partecipa attivamente alla resistenza. Partendo dallo studio dei problemi dell’affettività e della formazione del carattere nel primo anno di vita W. tenta di costruire le tappe fondamentali dell’evoluzione infantile. Per lui nello sviluppo del bambino è possibile identificare una serie di stadi in cui «il dinamismo» psicomotorio e l’attività mentale ed emotiva appaiono strettamente legati e in cui viene attribuito particolare rilievo alle emozioni come determinanti dello sviluppo psichico. W., che nella sua teoria propone un’integrazione tra psicologia e marxismo, sostiene inoltre una concezione «dialettica» della psiche umana, intesa come prodotto dell’interazione dinamica, nel corso dello sviluppo infantile, di fattori biologici e sociali e sottolinea la stretta interdipendenza fra la vita di relazione e l’ambiente in cui questa si esplica e fra i diversi fattori che concorrono a costituire in ogni fase la personalità.

Bibliografia

a)​​ Fonti: opere principali di W. trad. in it.:​​ Les origines du caractère chez l’enfant​​ (1934), Roma, Editori Riuniti, 1974;​​ L’évolution psychologique de l’enfant​​ (1941), Torino, Bollati Boringhieri, 1980;​​ Les origines de la pensée chez l’enfant​​ (1945), Firenze, La Nuova Italia, 1974;​​ Antologia di testi, ed. it. a cura di Silvia Bonino, Firenze, Giunti-Barbera, 1980. b)​​ Studi: Zazzo R.,​​ Portrait d’H.W. (1879-1962), in «Journal de Psychologie Normale et Pathologique» 60 (1963) 386-400; Jalley E.,​​ W. lecteur de Freud et Piaget, Paris, Editions Sociales,​​ 1981; Kurcat L.,​​ A propos de l’héritage​​ di H.W., in «Studi di Psicologia dell’Educazione» 3 (1987) 70-80: Netchine-Gryn-berg G.,​​ The theories of H.W.: from act to thought, in «Human Development» 34 (1991) 363-379.

F. Ortu - N. Dazzi




WATSON John Broadus

 

WATSON John Broadus

n. a Greenville (Carolina del Sud) nel 1878 - m. a New York nel 1958, psicologo statunitense.

1. Dopo essersi diplomato alla Furnham University nel 1900, consegue a Chicago, sotto la supervisione di James R. Angeli e di Henry H. Donaldson nel 1903 il dottorato in Psicologia con la tesi​​ Animal education: the psychical development of the white rat. Si trasferisce nel 1904 a Baltimora, alla Johns Hopkins University dove prosegue la sperimentazione sugli animali. Nel 1908 è nominato professore di psicologia sperimentale e comparata alla Johns Hopkins University. Sempre più insoddisfatto dell’impianto teorico e sperimentale della psicologia strutturalista e funzionalista, pubblica nel 1913 un articolo (Psychology as the behaviorist views it) unanimemente considerato il manifesto del​​ ​​ comportamentismo. Dando una formulazione precisa e sistematica ad una prospettiva teorica e di ricerca che era andata maturando nei primi decenni del secolo tra gli psicologi statunitensi, in gran parte di orientamento funzionalista, W. definisce la psicologia «una branca sperimentale puramente oggettiva delle scienze naturali che identifica il suo obiettivo teorico nella previsione e il controllo del comportamento» e propone di sostituire lo studio degli eventi mentali con quello del comportamento, analizzabile in termini di connessioni o correlazioni tra stimoli visivi, auditivi, cinestesici da un lato e risposte cui tali stimoli danno luogo dall’altro. I punti essenziali dello scritto possono essere dunque identificati nel rifiuto della coscienza, nella delimitazione dell’indagine alla previsione e al controllo del comportamento e nella possibilità di unificare su queste basi il comportamento umano ed animale.

2. Negli scritti successivi, oltre ad una sistematizzazione della sua teoria (Behavior: An introduction to comparative psychology, 1914) W. individua nel riflesso condizionato, così come definito da Pavlov, l’unità di analisi per lo studio dell’abitudine o acquisizione di nuovi comportamenti (The place of conditioned reflex in psychology, 1916) e accentua il versante ambientalista della sua teoria (An attempted formulation of the scope of behavior psychology, 1917). Dopo essere stato nel 1915 presidente dell’American Psychological Association, nel 1920, travolto dallo scandalo suscitato dalla sua causa di divorzio, è costretto a dare le dimissioni dall’insegnamento universitario. Rivolge quindi la sua attività in campo pubblicitario e scrive, oltre a Behaviorism (1924), recensito con entusiasmo dalla stampa di grande diffusione e a​​ The ways of behaviorism​​ (1928), una serie di articoli di carattere divulgativo caratterizzati da un netto ambientalismo ed enfatizzanti le possibilità di modificare il comportamento umano. Scrive inoltre, in collaborazione con Rosalie Rayner, sua seconda moglie, un articolo,​​ Conditioned emotional reactions, che susciterà tutta una serie di critiche e di obiezioni, in cui sostiene la possibilità di condizionare nel bambino le risposte emotive e un libro​​ Psychological care of infant and child​​ (1928), che otterrà un notevole successo editoriale.

Bibliografia

a) Alcune opere in it. di W.:​​ Antologia degli scritti,​​ a cura di P. Meazzini, Bologna, Il Mulino, 1976. b) Su W.:​​ Naville P.,​​ La psychologie du comportement: le behaviorism de W., Paris, Gallimard,​​ 1943; Woodworth R. S.,​​ B.W.,​​ 1878-1958, in «American Journal of Psychology» 72 (1959) 301-310; Modesti U.,​​ Il problema dell’unità del sapere nel comportamentismo, Padova, CEDAM, 1967; Mackenzie B. R.,​​ Il comportamentismo e i limiti del metodo scientifico, Roma, Armando, 1980; Buckley K. W.,​​ Mechanical man.​​ J.B.W. and the beginnings of behaviorism, New York, Guilfort Publ., 1989.

F. Ortu - N. Dazzi




WEBER Max

 

WEBER Max

n. a Erfurt nel 1864 - m. a Monaco di Baviera nel 1920, sociologo ed economista politico tedesco.

1. È certamente con ragione considerato uno dei padri fondatori della sociologia per i suoi importanti studi sulla​​ ​​ società, la politica, l’economia, la religione e la scienza. Suo padre era avvocato. La madre era una donna colta e pia i cui interessi religiosi e umanitari non erano condivisi dal marito. Dopo il liceo, W. frequentò la facoltà di Giurisprudenza delle università di Heidelberg e di Berlino. Si laureò a​​ Göttingen​​ nel 1886 con una dissertazione intitolata​​ Un contributo alla storia delle organizzazioni commerciali medioevali.​​ Nell’autunno del 1894 divenne professore di ruolo di economia all’università di Friburgo; nel 1896 si trasferì all’università di Heidelberg. Nel 1903 divenne uno dei direttori dell’Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik​​ e poté intensificare la ricerca scientifica. Nel 1904 pubblicò i primi risultati: un saggio di metodologia, una discussione sulla politica agraria nella Germania orientale e il noto volume su​​ L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.​​ La sua attività scientifica continuò altrettanto intensa e varia per il resto della vita. Di W. è da ricordare anche:​​ Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus; Wirtschaft und Gesellschaft,​​ pubblicato postumo nel 1922.

2. Il tema centrale studiato da W. è il razionalismo proprio dell’Occidente di cui tocca le diverse sfere: scienza, diritto, arte, scuola, politica ed economia. Il​​ ​​ capitalismo moderno, fondato sull’organizzazione razionale del lavoro, è solo un aspetto della sua riflessione. W. vuole identificare la specificità del contributo dell’Occidente allo sviluppo storico. Egli procede a studi comparativi sulla base del metodo sociologico e giunge a caratterizzare la nostra​​ ​​ cultura come una forma particolare di razionalismo, che si ritrova in tutti gli aspetti dell’evoluzione storica e ha le sue radici nel mondo ebraico-cristiano da un lato e greco-romano dall’altro. Lo studio del primo ha appunto al centro quel fenomeno della libera profezia che spezza il cerchio del magico e pone agli uomini domande di carattere etico nel nome di un Dio trascendente, dando così l’avvio alla razionalizzazione della vita. La sociologia delle religioni è l’opera che più a lungo e costantemente ha occupato l’attenzione di W., che l’aveva intesa come opera ultima e più importante della sua vita di studioso. La razionalizzazione assume in W. molte interpretazioni. Talvolta egli parla di razionalizzazione dell’azione, talvolta di razionalizzazione della condotta di vita, altre volte di razionalizzazione di una visione del mondo, di un tipo di etica, di un’immagine religiosa del mondo. Egli non vede in questo processo soltanto un tratto caratteristico della cultura occidentale, ma piuttosto un aspetto effettivamente universale, diffuso in tutte le altre civiltà. L’Occidente costituisce solo il grado estremo a cui tale processo è giunto. W. non ha certo esaltato la razionalità moderna che resta tutta fondata sul calcolo opportunistico e sulla corsa al successo, al profitto, all’efficienza, al benessere ad ogni costo. Essa, secondo W., può imprigionare l’uomo nella «gabbia d’acciaio della dipendenza». In particolare, W. ha temuto che la razionalizzazione impersonale e la burocratizzazione di tutti gli ambiti della vita finissero con l’annullare i valori e distruggere i rapporti umani, facendo perdere di vista il senso stesso dell’esistenza.

Bibliografia

Schluchter W.,​​ Rationalismus der Weltbeherrschung: Studien zu M.W., Frankfurt, Suhrkamp, 1980;​​ Marshall G.,​​ In search of the spirit of capitalism.​​ An essay on M.W.’s Protestant ethic thesis, New York, Columbia University Press, 1982; Parkin F.,​​ M.W.,​​ London, Tavistock Publications,​​ 1982;​​ Bendix R.,​​ M.W. Un ritratto intellettuale,​​ Bologna, Zanichelli, 1984; Rossi P.,​​ M.W.: Oltre lo storicismo,​​ Milano, Il Saggiatore, 1988; Treiber H. (Ed.),​​ Per leggere M.W., Padova, CEDAM, 1993; Pacifico A.,​​ M.W. I fondamenti della sociologia politica, Negarine, Il Segno dei Gabrielli, 2002;​​ Behnegar N.,​​ Leo Strauss,​​ M.W.,​​ and the scientific of politics, Chicago, University of Chicago Press, 2003.

J. Bajzek




WECHSLER David

 

WECHSLER David

n. nel 1896 a Lespedl (Romania) - m. nel 1981 a New York, psicologo statunitense.

1. Da giovane laureato W. ha dovuto diagnosticare le abilità intellettive delle reclute, usando i​​ ​​ test allora disponibili. Egli si è reso conto che tali test coglievano bene i processi astratti, ma in pratica non rilevavano importanti fattori «non intellettivi» come tenacia, motivazione, aspirazioni, interessi e per questa ragione risultavano solo parzialmente utili. Queste constatazioni hanno spinto W. a elaborare la prima scala di intelligenza, denominata​​ Bellevue Intelligence Scale.​​ La struttura delle scale è stata influenzata dal modello teorico di intelligenza di​​ ​​ Spearman e successivamente dal modello fattoriale di L. L. Thurstone delle abilità primarie. W. ha unito le due istanze teoriche, considerando l’intelligenza un «costrutto unitario, ma articolato». Inoltre ha arricchito le prove, particolarmente quelle verbali, con contenuti non intellettivi. Ogni prova, in misura differente, contribuiva alla misurazione dell’abilità generale. Dall’insieme si otteneva il quoziente globale dell’intelligenza, detto di «deviazione» (una sua innovazione rispetto al quoziente per età). Dal livello e dalle differenze tra le singole prove del soggetto sorgevano delle utili ipotesi interpretative sulla sua situazione intellettiva, come anche dei suggerimenti sugli interventi terapeutici per i soggetti.

2. In base all’esperienza molto positiva W. ha elaborato varie scale di intelligenza di cui le più note e le più usate sono state:​​ Preschool and Primary Scale of Intelligence (WPPSI),​​ Intelligence Scale for Children (WISC)​​ e​​ Adult Intelligence Scale (WAIS),​​ che abbracciavano praticamente l’intero arco della vita umana. Le ultime due scale sono state rivedute, prima nell’originale e poi nell’adattamento italiano (WISC-R e WAIS-R) e recentemente la WISC-R è stata sostanzialmente rielaborata e pubblicata nella sua terza edizione (WISC-III) anche nell’adattamento italiano. W., con le sue scale, come anche con la sua monografia​​ The measurement of adult intelligence,​​ ha contribuito notevolmente al chiarimento del complesso costrutto dell’intelligenza. W. intendeva ottenere come unico scopo quello di «aiutare le persone a capire il mondo e rispondere alle sue sfide con le proprie risorse» (Matarazzo, 1981); ne risulta così chiaro il risvolto educativo. Rimase incompiuto un suo progetto di elaborazione di una scala per anziani (Intelligence Scale for the Elderly).​​ Il desiderio di W. è stato parzialmente realizzato nell’ambito italiano con l’opera di Orsini e Laicardi (2003) con il titolo «WAIS-R e terza età» in base alla quale è possibile misurare l’efficienza intellettiva dei soggetti di età tra 65 a 84 anni. Le informazioni ottenute da tale opera possono essere valutate ulteriormente con il contributo di Padovani (1999) sulla involuzione mentale, sui danni cerebrali e sui disturbi psichiatrici dei soggetti di tale età. Dalla combinazione delle prove della WAIS-R è possibile intravedere da quale patologia è affetto un paziente. Anche la scala WISC-III è accompagnata dal volume di Padovani (2006) per mezzo del quale è possibile accertare: ritardo mentale, disturbi dell’apprendimento, disturbi autistici, iperattività, disturbi d’ansia e disturbi emotivi in generale. Le scale di W. sono mezzi indispensabili per l’attività degli psicologi e con il contributo delle recenti opere citate anche per gli psichiatri.

Bibliografia

W.D.,​​ The measurement and appraisal of adult intelligence,​​ Baltimore, Williams and Wilkins, 1958; Matarazzo J. D.,​​ D.W.​​ (1896- 1981), in «American Psychologist» 36 (1981) 1542-1543; Padovani F.,​​ L’interpretazione psicologica della WAIS-R,​​ Firenze, O. S., 1999; Orsini A. - C. Laicardi,​​ WAIS-R e terza età. La natura dell’intelligenza nell’anziano: continuità e discontinuità,​​ Ibid., 2003; Padovani F.,​​ La WISC-III nella consultazione clinica,​​ Ibid., 2006.

K. Poláček

WELFARE STATE​​ ​​ Stato sociale




WELTANSCHAUUNG

 

WELTANSCHAUUNG

Termine ted., invalso in molte lingue, per indicare la visione del mondo e della vita.

1. Esso indica più specificatamente la rappresentazione mentale e il discorso che ogni popolo, cultura, epoca, gruppo ed individuo si fanno del mondo (cioè della totalità delle cose con cui storicamente ci si rapporta) e della vita (cioè della propria e comune esistenza), dando loro, via via, un determinato senso e valore, nel corso e nell’evolversi della vicenda storica personale e comunitaria. Presente già nella cultura tedesca ottocentesca, è stato tematizzato da W. Dilthey e K. Jaspers. Il primo lo ha collegato in particolare con lo «spirito del tempo», vale a dire con ciò che dal punto di vista culturale, artistico, filosofico, politico e religioso distingue un’epoca o un periodo da un altro. Il secondo, a sua volta, ha distinto nelle W. l’aspetto soggettivo, gli atteggiamenti, dall’aspetto contenutistico, le immagini.

2. La W. individuale e di gruppo ha una notevole rilevanza in educazione. Infatti non è senza significato per l’agire educativo l’atteggiamento spontaneo o riflesso che si ha nei confronti della realtà in generale o di fronte al tempo, al passato, al presente, al futuro (paura, conservazione, contestazione, impegno riformatore, pessimismo, ottimismo, assenza o presenza di prospettive, ecc.). Né saranno meno significative le immagini, le idee, i valori che agevolano o rendono difficile la lettura della realtà che sta alla base di qualunque impegno individuale, interpersonale o comunitario di educazione Altrettanto si può dire, in particolare, per ciò che riguarda una visione credente, agnostica o atea della vita.

Bibliografia

Dilthey W., «Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften», in​​ Gesammelte Schriften, vol. VII, Leipzig, Teubner,​​ 1914-1936; Jaspers K.,​​ Psicologia delle visioni del mondo, Roma, Astrolabio, 1950 (orig.: 1919).

C. Nanni