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VEDISMO

 

VEDISMO

Secondo la dottrina comune dell’​​ ​​ Induismo, i Veda sono libri sacri che contengono delle verità eterne rivelate da Dio e percepite nelle esperienze mistiche dei saggi (rishi) antichi. I Veda sono quattro:​​ Rigveda,​​ Yajurveda,​​ Samaveda​​ e​​ Atharvaveda​​ ed erano trasmessi prima oralmente e poi trascritti tra il 1500 e il 300 a.C. La religione e cultura fondate sui Veda vengono chiamate V.

1. Quando si parla dell’educazione nel V., ci si riferisce soprattutto all’ultima tappa dei Veda, alle​​ Upanishad​​ (upa​​ = vicino,​​ ni​​ = devotamente, e​​ sad​​ = seduto: devotamente seduto vicino al maestro o​​ Vedanta, che significa la fine e il fine dei Veda). Il fine dei Veda, quindi, consiste nell’ascoltare, comprendere, realizzare la dottrina insegnata da un​​ guru. L’Upanishad​​ si riferisce invece al contenuto della dottrina insegnata in tali sedute. La dottrina vedantica consiste nel​​ Brahman​​ (la causa e il principio ultimo o il fondamento dell’universo) che è​​ l’Atman​​ (il «Sé» o «anima», la realtà più profonda dell’uomo): il​​ Brahman​​ e​​ Atman​​ sono la stessa realtà. Questa dottrina non consiste solo nella presa di coscienza teorica che​​ Brahman​​ è​​ Atman​​ o​​ Atman​​ è​​ Brahman, ma nella realizzazione di questa verità:​​ tat tvam asi​​ (quello sei tu) (Chand.​​ Up., III, xiv, 1-4).

2. Lo scopo dell’educazione vedica è lo stesso di quello della​​ Vedanta:​​ l’autorealizzazione o unione dell’Atman​​ con​​ Brahman​​ (Dio). Lo studio delle altre materie o scienze, come​​ Yotisha​​ (astrologia),​​ Vyakarna​​ (grammatica),​​ Chandas​​ (prosodia),​​ Ajurveda​​ (medicina),​​ Gandharvaveda​​ (musica),​​ Dhanurveda​​ (arte della guerra), tutte contenute sia nei​​ Vedanga​​ (studi post-vedici considerati scienze ausiliarie dei Veda) o negli​​ Upaveda​​ (trattati supplementari dei Veda), è secondario e ha lo stesso scopo religioso. Secondo i Veda, le diverse fasi della vita indù sono accompagnate dai vari riti sacri, chiamati​​ Samskara​​ (sacramenti). Gli autori di Veda parlano di almeno sedici​​ Samskara, tra cui alcuni appartengono allo stadio dell’educazione.

3. L’iniziazione dello studio comincia con il rito sacro,​​ Vidyarambha​​ (l’inizio dello studio), chiamato anche​​ Akshararambha​​ (l’inizio dello studio dell’alfabeto), quando il fanciullo ha circa cinque anni. Il periodo di studio vedico o​​ brahmacarya​​ comincia con il rito di​​ Vedarambha​​ (inizio dello studio dei Veda) a cui sono ammessi solo coloro che hanno ricevuto l’upanayana​​ (il sacramento dell’iniziazione), condizione necessaria per iniziare lo studio vedico. Nell’antichità sia i ragazzi che le ragazze di tutte le caste furono ammessi all’upanayana​​ e allo studio dei Veda; più tardi però solo ragazzi appartenenti alle tre caste superiori furono ammessi a questo rito e allo studio dei Veda. Il periodo di​​ brahmacarya​​ (che è anche il primo stadio della vita o​​ asrama) comincia quando il​​ brahmacarin​​ (lo studente) lascia la sua casa e vive nella casa del​​ guru, sottomettendosi completamente al suo maestro durante tutto il periodo della sua formazione umana e religiosa che dura più o meno dodici anni. Il​​ Manava​​ Dharma​​ Sastra​​ (libro sacro delle leggi) contiene precise e dettagliate regole di condotta e vita per il​​ brahmacarin​​ (cfr.​​ Manu, II, 36-249; XI, 122-123); ad es. il modo di vestirsi, radersi i capelli, praticare quattro voti religiosi di castità, povertà, austerità e studi sacri, compiere i lavori domestici, mendicare il proprio cibo, pregare due volte al giorno, obbedire al maestro in ogni cosa e praticare varie discipline corporali. Gli studi sacri consistono principalmente nell’imparare a memoria i Veda in lingua sanscrita. Questa però è solo la prima tappa; la seconda consiste nel comprendere il significato, perché lo scopo ultimo è conoscere per realizzare la Verità suprema che salva. Tutte le altre discipline (​​ yoga​​ o​​ tapas) sono mezzi per arrivare a questa realizzazione.

4. Le caratteristiche principali del sistema educativo (chiamato​​ guru-sishya​​ o​​ gurukula) sono le seguenti: a) la casa del guru diventa la scuola domiciliare degli studenti; b) il​​ guru​​ è un individuo realizzato ed è riconosciuto come tale dagli altri; c) egli non ha solo il ruolo di insegnante ma anche di padre; d) è sempre presente e dà attenzione individuale agli studenti; e) il numero degli studenti per questa ragione è limitato; f) l’ammissione di uno studente dipende dal suo sviluppo morale, a parte il sacramento dell’upanayana; g) la disciplina del​​ brahmacarya​​ è imposta agli studenti; h) è obbligo morale degli studenti rispettare e onorare sempre il maestro, come se fosse loro padre. Il periodo di studio si conclude con il sacramento del​​ Samavartana​​ (rito di addio al​​ guru​​ e ritorno alla casa propria).

Bibliografia

Cultural heritage of India, 4 voll., Calcutta, The Ramakrishna Mission, 1953; Max Müller F.,​​ The Upanishads, 2 voll., Delhi, SBE I, 1965; Mookerji K. R.,​​ Ancient Indian education, Delhi, Motilal Banarsidass, 1989.

S. Thuruthiyil




VERIFICA

 

VERIFICA

Operazione di controllo per mezzo della quale si procede all’accertamento di determinati fatti, situazioni o risultati nelle loro modalità e nel loro valore in relazione a un obiettivo o ad una ipotesi (etim. lat.:​​ verum​​ = vero,​​ facere​​ = fare).

1.​​ Il significato.​​ Si procede alla v. (ingl.​​ verification, fr.​​ vérification, ted.​​ verifikation, sp.​​ verificación) ogni volta che si effettua una ricerca o si svolge un’attività educativa: si verifica un’ipotesi sperimentale o il conseguimento di determinati obiettivi educativi. In entrambi i casi si procede a una v. iniziale per poter descrivere la situazione di partenza del gruppo sperimentale o dei soggetti in formazione, relativamente agli obiettivi della ricerca o dell’attività educativa; poi ad una serie di verifiche intermedie per tenere sotto controllo l’andamento del processo raccogliendo man mano i risultati dei singoli interventi che rientrano nel piano di ricerca o nella progettazione educativa; infine ad una v. complessiva di tutte le attività svolte.

2.​​ V. e valutazione. In ambito scolastico il termine v. viene usato spesso come sinonimo di valutazione. Partendo dal presupposto che ogni atto valutativo comprende, in ordine cronologico: 1) una stimolazione valida e costante del soggetto per l’aspetto da valutare, 2) una rilevazione la più precisa possibile delle risposte fornite dal soggetto, 3) un confronto delle risposte rilevate con dei criteri prestabiliti al fine di pervenire a un giudizio sulla loro positività o meno (è la valutazione in senso stretto), 4) una espressione e comunicazione del giudizio, all’interno di questo quadro di riferimento il termine v. assume un significato più ristretto del termine valutazione in quanto non implica necessariamente la comunicazione del giudizio sui risultati. Inoltre si usa più facilmente il termine v. per riferirsi al controllo dell’effetto di un singolo atto di un intervento formativo mentre si preferisce usare il termine valutazione quando si prende in considerazione l’effetto globale di un intero processo formativo, che è composto da un insieme di interventi. Una serie di prove di v. consentono di effettuare una valutazione globalmente valida.

3.​​ V. della progettazione educativa. Si parla di v. anche a proposito della progettazione educativo-didattica, nel senso che periodicamente gli insegnanti dovrebbero controllare non solo i risultati conseguiti dagli alunni ma anche la congruità degli obiettivi formulati rispetto alle potenzialità degli alunni, la propria capacità di svolgere le attività didattiche programmate e l’utilità dei sussidi didattici impiegati.

4.​​ V. delle ipotesi. L’uso più frequente del termine si ha a proposito delle indagini sperimentali in cui si verificano le ipotesi di ricerca mediante l’osservazione sistematica o l’ esperimento. Esiste una stretta connessione tra la valutazione dei risultati di una ricerca e la v. delle ipotesi sperimentali perché un’ipotesi risulta verificata quando i risultati ottenuti al termine dell’attività educativa corrispondono a quelli attesi. Ciò comporta che le ipotesi vengano formulate operativamente. Formulare operativamente un’ipotesi significa esplicitare, prima dell’inizio dell’azione del fattore da mettere sotto controllo, sia nel caso che esso già esista nella situazione educativa sia nel caso in cui vi venga introdotto intenzionalmente, quali conseguenze si prevede di rilevare nei soggetti coinvolti nella ricerca al termine dell’azione del fattore sperimentale, se l’ipotesi è vera. Affinché un’ipotesi si possa verificare per via sperimentale essa deve essere formulata in modo tale che sia concepibile almeno un fatto che al termine dell’osservazione sistematica o dell’esperimento sia in grado di smentire ovvero dimostrare falsa l’asserzione ipotetica. Quando si vuole risolvere per via sperimentale un problema educativo si formulano delle ipotesi, che si mettono alla prova: da ogni ipotesi si traggono delle conseguenze, rilevanti per il problema studiato, che ci si attende di osservare empiricamente al termine della ricerca; si esplicita il modo attraverso cui è possibile controllare la presenza o meno dei fatti previsti; si fa poi agire il fattore sperimentale. Se le conseguenze previste nel momento della formulazione della singola ipotesi si danno poi effettivamente nei fatti, si dice che quella ipotesi è stata verificata; se invece i fatti alla fine negano anche una sola delle conseguenze previste si dice che l’ipotesi non è stata verificata. I passaggi logici che si compiono per la v. di un’ipotesi sono tre: se l’ipotesi x è vera al termine dell’attività educativa si osserveranno i fatti y in misura abbastanza rilevante da raggiungere il limite di significatività previamente stabilito; il piano di osservazione o di esperimento scelto consente di rilevare la presenza o l’assenza finale dei fatti y; a seconda della presenza o dell’assenza dei fatti y al termine dell’attività educativa l’ipotesi x risulta verificata o non verificata.

5. Gli strumenti di v.​​ La scelta degli strumenti per effettuare le v. apre un dibattito che riguarda sia l’attività educativa sia la ricerca sull’educazione; esso gira principalmente intorno al rapporto tra il «qualitativo» e il «quantitativo» nell’educazione. I primi strumenti costruiti per la v. scientifica dei risultati educativi tendevano a misurare gli aspetti quantitativi dei fenomeni, esploravano prevalentemente l’area cognitiva, coglievano i risultati piuttosto che i processi mediante i quali si giunge ad essi: che cosa sa l’alunno, quanto sa, quanti errori commette, quante risposte esatte fornisce e in quanto tempo. Progressivamente l’attenzione dei ricercatori si è spostata sui processi mentali che portano a determinati risultati (perché l’alunno risponde in un certo modo) e sugli aspetti non cognitivi della personalità: motivazioni, interessi atteggiamenti, emozioni; inoltre non si pretende più di misurare ma ci si accontenta di descrivere le situazioni. Da tempo ci si interroga sulle interazioni tra gli osservatori e gli osservati, tra i misuratori e i misurati; si sono evidenziati i significati diversi che il ricercatore, l’educatore e l’educando attribuiscono allo stesso fatto educativo osservato. In ultima analisi, pur continuando ad effettuare delle v. sui fatti educativi (né d’altro lato vi si potrebbe rinunciare per la natura stessa di tali fatti), se ne sono colti meglio i limiti e si è messa da parte la pretesa di ridurre l’uomo a ciò che lo strumento di v. è in grado di misurare. Insieme agli strumenti tradizionali per la v. dell’apprendimento, come l’interrogazione orale, la composizione scritta, i questionari, le prove oggettive e le prove diagnostiche, oggi vengono utilizzati dei nuovi strumenti di v.: quali, la riflessione parlata, per esplorare il procedimento attraverso cui un alunno giunge a un certo risultato, o le guide per l’osservazione sistematica di abilità intellettuali come la capacità critica, la creatività o la capacità di risolvere i problemi. Altri classici strumenti di v. sia degli aspetti cognitivi che di quelli non cognitivi del processo educativo sono i reattivi psicologici; si può definire un reattivo come una situazione (insieme di stimoli) rappresentativa di una certa area di comportamento, standardizzata (stessi stimoli-stesse risposte), dove dei soggetti sono chiamati a rispondere; in base alle diverse risposte dei soggetti alla situazione-stimolo è possibile misurare le differenze tra i soggetti in relazione all’area di comportamento esaminata. All’inizio degli anni settanta del ventesimo secolo si sono diffusi tra coloro che fanno ricerca educativa sul campo altre modalità di v. mutuate dall’ambito psico-sociologico e socio-antropologico, quali l’osservazione partecipante, il colloquio non direttivo, i racconti di storie di vita, il gioco dei ruoli, la tecnica degli incidenti critici, l’analisi di contenuto. Si tratta di strumenti descrittivi che non hanno la pretesa di misurare la portata e l’intensità dei fenomeni educativi bensì di descriverli nella loro complessità cogliendone le diverse sfaccettature. Chi fa ricerca educativa, per la v. delle ipotesi, deve saper utilizzare sia gli strumenti quantitativi che quelli qualitativi, se intende valutare adeguatamente i risultati ottenuti. Infatti, mentre le v. quantitative consentono di cogliere la dimensione dei fenomeni educativi, quelle qualitative danno loro vita e concretezza perché rivestono il corpo dei dati quantitativi rilevati con i dettagli e le sfumature che caratterizzano le persone e le situazioni. Le differenti informazioni che i due tipi di strumenti consentono di raccogliere sullo stesso fenomeno studiato costituiscono un arricchimento dei risultati della ricerca.

Bibliografia

Calonghi L.,​​ Valutare, Novara, De Agostini, 1983; Di Nuovo S.,​​ La sperimentazione in psicologia applicata.​​ Problemi di metodologia e analisi dei dati, Milano, Angeli, 1991; Boncori L.,​​ Teoria e tecnica dei test, Roma, Boringhieri, 2000; Coggi C. - A. Notti (Edd.),​​ Docimologia, Lecce, Pensa, 2002; La Marca A.,​​ Autovalutazione e e-learning all’università, Palermo, Palombo, 2004; Trinchero R.,​​ I metodi della ricerca educativa, Bari, Laterza, 2004.

G. Zanniello




VICO Giambattista

 

VICO Giambattista

n. a Napoli il 23 giugno 1668 - m. ivi il 23 gennaio 1744, filosofo italiano.

1.​​ Vita. V. ricevette dal padre, un modesto libraio, la prima educazione; proseguì, poi, gli studi presso i​​ ​​ Gesuiti, coltivando con particolare interesse la storia e la filosofia e leggendo con passione le opere di​​ ​​ Platone, Aristotele, Agostino, Cartesio, Grozio e Malebranche. Per alcuni anni fu precettore dei figli del marchese Rocca nel castello di Valtolla, dove poté utilizzare la ricca biblioteca. Nel 1699 vinse il concorso per la cattedra di eloquenza presso l’Università di Napoli e inutilmente, in seguito, aspirò alla cattedra di giurisprudenza, che sarebbe stata più consona ai suoi studi e che avrebbe migliorato la sua condizione economica. Condusse una vita oscura, fra le ristrettezze finanziarie e l’ambiente familiare poco adatto allo studio. Nel 1725 pubblicò l’opera fondamentale:​​ Principi d’una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, che continuò a rivedere fino alla morte.

2.​​ Il pensiero. «Con G. V. si entra veramente anche nel campo dell’educazione e della pedagogia in un ordine nuovo di idee per l’attenzione prestata al problema della storia, della storicità; una riflessione che non riguarda soltanto la filosofia della storia, ma che entra nel merito delle modalità, dei tempi, della dinamica dei processi formativi del bambino, della persona, dei gruppi sociali, della cultura, dell’umanità. Il confronto avviene in modo diretto, esplicito con il razionalismo, con l’illuminismo, con le scienze naturali e sperimentali, con l’insieme della rivoluzione scientifica da Bacone a Galilei a Cartesio […]. E se per i razionalisti, gli illuministi la ragione, la razionalità, l’intelligenza erano gli strumenti e i garanti del progresso, V. era molto più disincantato, individuava i limiti della ragione, della razionalità e insisteva sul ruolo civilizzante della fantasia, dell’immaginazione, della creatività, considerate da Cartesio le pazze di casa» (Fornaca, 1996, 120-121). Mentre​​ ​​ Cartesio aveva identificato il vero con il certo (verum est certum), l’intuizione fondamentale del V. in campo filosofico è espressa nella formula:​​ verum est factum, per cui riduceva enormemente l’orizzonte entro cui la ragione può avanzare pretese veritative. Sulla base di questo criterio V. opera la sua classificazione delle scienze, dividendole in​​ teologia, in cui la verità è rivelata e non fatta da noi, ma è cosa certa grazie alla rivelazione;​​ matematica, la quale realizza l’unità del vero e del fatto, perché si tratta di una costruzione della nostra mente; infine​​ fisica, in cui il vero si scinde nuovamente dal fatto, perché l’uomo non è creatore della natura. Un altro campo di ricerca in cui si può dare l’unità del vero col fatto è la storia, la quale, però, ha a che fare con fatti particolari e non universali e pertanto diviene problematica la dimostrazione della sua scientificità. Stabilire la scientificità della storia, secondo il principio​​ verum est factum, è quanto ha cercato di fare V. nella sua​​ Scienza nuova. Egli credette di conseguire questo obiettivo applicando alla storia la teoria platonica di un mondo ideale. Platone se ne era servito per elaborare una scienza della fisica, cioè del mondo materiale. V. la adopera per elaborare una scienza del mondo umano: il mondo delle vicende umane diviene pertanto l’attuazione di un piano ideale eterno. Gli elementi fondamentali della ricostruzione vichiana della storia sono: Dio con la sua provvidenza e l’uomo con la sua intraprendenza; l’unità storica, che è il «corso»; e la legge storica del «ricorso». Ogni corso storico è costituito da tre età o epoche: degli dei, degli eroi e degli uomini o, più semplicemente, dal percorso che conduce dall’infanzia, attraverso l’adolescenza, all’età adulta. Ogni epoca va interpretata secondo la mentalità che le è propria. La legge universale che regola la storia è quella della ritmica ripetizione delle tre epoche, una ripetizione, tuttavia, che non sopprime la libertà, non è ostacolo al progresso della civiltà, ma che è voluta da Dio, il quale accompagna costantemente con la sua provvidenza ogni vicenda umana.

3.​​ La pedagogia vichiana. V., precettore in casa Rocca, non dedicò alla riflessione pedagogica alcuno scritto particolare, ma la sua posizione filosofica appare fortemente caratterizzata in senso educativo, sia per i richiami antropologici che essa implica sia per il corso di studi e la riforma culturale che essa più o meno apertamente sostiene. Inoltre, abbastanza costanti sono i riferimenti a problemi pedagogici contenuti nelle varie opere del filosofo napoletano e in particolare nell’Autobiografia, nella dissertazione​​ Sul metodo degli studi del nostro tempo​​ e nella​​ Scienza nuova. Il pensiero di V. acquista un preciso significato pedagogico considerandolo almeno in questi aspetti: nella sua opposizione al razionalismo cartesiano; nella rivalutazione del senso e della fantasia; nella valorizzazione dell’azione, connessa al​​ verum ipsum factum; nella centralità della storia; nel valore dell’insegnamento umanistico-letterario. Tra le celebri «Orazioni inaugurali» del suo corso accademico si colloca l’orazione​​ De nostri temporis studiorum ratione​​ (Il metodo degli studi del nostro tempo, 1709). In questa dissertazione V. critica l’applicazione della metodologia cartesiana nel metodo degli studi. Il suo pensiero ha un preciso intento pedagogico: mettere in evidenza il limite di una educazione guidata unicamente dal rigore della astratta ragione. Contro la metodologia cartesiana, V., con intento psico-pedagogico, si preoccupa di riportare il metodo degli studi alla natura, cioè alle caratteristiche della fanciullezza e della giovinezza: il senso comune, la fantasia (la ragione nella vecchiaia), la memoria, per cui non bisogna infiacchire gli ingegni rivolti alla poesia, all’oratoria, alla pittura o alla giurisprudenza. Con la​​ Scienza nuova, di fronte alla riduzione cartesiana della realtà a pensiero o coscienza, al​​ cogito ergo sum, V. rivendica il mondo dell’uomo e della sua storia. L’implicazione pedagogica più importante delle tre età di cui parla V., è quella connessa con l’idea che lo sviluppo individuale ripeta lo sviluppo storico, per cui ogni fanciullo, crescendo, passa attraverso le tre età «ideali ed eterne», degli dei, degli eroi e degli uomini. Infatti, la prima fase di crescita dell’umanità, la fase del senso, corrisponde all’età della prima infanzia, quando il bambino è, appunto,​​ in-fante, cioè incapace di esprimersi con un linguaggio parlato: l’apprendimento, infatti, deve essere indirizzato verso la lingua. Il parallelismo emerge ancora di più nella seconda fase, dove la​​ fantasia, «tanto più robusta quanto più debole il raziocinio», accomuna il fanciullo all’uomo primitivo, che interpretava il mondo attraverso immagini poetiche. In questa età sono raccomandabili per V. letture di poeti e di oratori che soddisfano il bisogno di conoscenza «fantastica» e, per introdurre l’uso della ragione, anche la geometria, che sviluppa la «ragione intuitiva» e la capacità di «smaterializzare la mente». La terza fase di sviluppo dell’individuo coincide con «l’età degli uomini», nella quale la ragione prevale sulla fantasia senza però soffocarla, dando nuovi strumenti per capire la realtà e per regolare la propria condotta. Gli studi di questa età, quelli superiori, dovrebbero indirizzarsi alle «discipline di natura razionale», ossia alle diverse forme di filosofia che è la forma ideale per coordinare la molteplicità dello scibile e per conoscere se stessi. Gli studi filosofici per V. comprendevano anche la «Scienza Morale, formatrice dell’uomo» e la «Scienza Civile, formatrice del cittadino».

4.​​ Valutazione. Storicamente V. si colloca nel periodo della crisi dei fondamenti della nuova scienza fisico-matematica e della messa in discussione della validità dei processi conoscitivi, mostrando con vigore, attraverso tutta la sua opera, che non si esce dalle difficoltà se non con una nuova riflessione sull’uomo e sulle sue opere, così come viene proposta nella​​ Scienza nuova​​ e in ciò risiede anche la sua importanza dal punto di vista pedagogico. Di contro, poi, all’astrattismo razionale di Cartesio, è merito del V. l’aver ricordato che l’infanzia è caratterizzata dalla fantasia e dal fare e l’aver riproposto l’importanza della storia e della poesia nei percorsi didattici.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Opere filosofiche, Firenze, La Nuova Italia, 1971;​​ Il metodo degli studi del nostro tempo, a cura di Biagio Loré, Scandicci (FI), La Nuova Italia 1993. b)​​ Studi: Flores​​ d’arcais G., «G.B.V.», in​​ Nuove questioni di pedagogia, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 77-108; Jacobelli A. M.,​​ G.B.V.: per una «scienza della storia», Roma, Armando, 1985; Garin E.,​​ Dal Rinascimento all’Illuminismo.​​ Studi e ricerche, Firenze, Le Lettere, 1993, 73-106 e 197-217; Verene M. B.,​​ V.: a bibliography of works in English from 1884 to 1994, Bowling Green (Ohio), Ph.​​ Documentation Center, 1994; Scuderi G.,​​ Storicismo e pedagogia,​​ V.,​​ Cuoco,​​ Croce,​​ Gramsci, Roma, Armando, 1995; Fornaca R.,​​ Storia della pedagogia, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1996; Badaloni N.,​​ Introduzione a G.B.V., Bari, Laterza, 2005; Bordogna A.,​​ Gli idoli del foro. Retorica e mito nel pensiero di G.V., Roma, Aracne, 2007.

F. Casella




VIGLIETTI Mario

 

VIGLIETTI Mario

n. a Torino nel 1921 - m. ivi nel 2007. Salesiano, sacerdote, fondatore del COSPES - Centro di Orientamento Scolastico, Professionale e Sociale.​​ 

1.​​ Principi ispiratori.​​ Al 1948, a Torino risale – voluto da V. – il primo Congresso Nazionale di Orientamento Professionale, già inteso come modalità educativa permanente, cammino di​​ ​​ accompagnamento, inizio del processo di rinnovamento che avrebbe portato la scuola a preparare il giovane alla responsabilità delle sue future scelte. V. per curiosità nativa e per studio ebbe una cura particolare per la formazione tecnico-professionale: perciò mise a punto batterie di test appositi, di cui dava referti minuziosi e valorizzati dai colloqui di restituzione. L’​​ ​​ orientamento e la​​ ​​ valutazione dell’alunno o delle sue abilità attitudinali, erano per lui l’«interpretazione» del rendimento attraverso la conoscenza diretta del singolo e delle sue condizioni di vita e di motivazione all’impegno scolastico e di scelta (immediata o futura), per meglio promuoverne lo sviluppo e la maturazione umana, culturale e professionale. L’orientamento per V. è il nome dell’educazione aperta alla cultura dell’innovazione e del cambiamento, alla qualità della formazione, alla significatività dell’apprendimento e pertanto dell’offerta formativa. Sua meta è il processo teso alla fase psico-dinamica centrata sulla persona nell’ottica evolutiva del cambiamento, titolare di quello che «si sente e vuole fare» (tendenze, bisogni, inclinazioni, interessi, valori e motivazioni) e sensibile ai cambiamenti del mondo del lavoro.​​ 

2.​​ A.D.V.P.​​ Ideato nel 1970 da D. Pelletier, G. Noiseux e C. Bujold, dell’Università LAVAL, di Québec (Canada), il metodo della​​ Activation et Développement Vocationel Professionnel​​ interessò subito V. che lo vide parte integrante della formazione in ogni curricolo scolastico. Domina la concezione dell’orientamento centrato sull’acquisizione delle competenze del soggetto ad orientarsi, man mano che impara a conoscersi, ad identificare i propri bisogni fondamentali e a definire scopi e valori che mobilitano tutto il suo essere. Il metodo si ispira alla​​ teoria dello sviluppo evolutivo della scelta professionale​​ di D. E. Super – secondo cui il soggetto organizza il suo​​ progetto personale​​ di vita e di lavoro in relazione all’immagine che va maturando di se stesso nei vari stadi del suo sviluppo –, e tende a far sperimentare all’allievo e a fargli vivere,​​ operativamente,​​ le esigenze di acquisire le​​ abilità,​​ gli​​ atteggiamenti​​ e gli​​ strumenti​​ necessari a valorizzare e a percorrere vantaggiosamente, ciascuna tappa (o stadi) del processo evolutivo di scelta in cui è personalmente coinvolto.

3.​​ COSPES.​​ Nato da un’intuizione di V., risorsa di cui assicurare la continuità e l’efficacia secondo i diversi contesti locali e le richieste formative in continua evoluzione, è un’Associazione Nazionale con sede a Roma. Formato da docenti universitari, psicologi, psicoterapeuti, psicopedagogisti, operatori di orientamento, il COSPES promuove studi e ricerche nell’ambito dell’orientamento e dell’età evolutiva. Esso svolge attività di orientamento e di consulenza in ambito educativo e socioculturale, a servizio di gruppi giovanili, insegnanti, educatori, famiglie, animatori, istituzioni.

Bibliografia

a)​​ Fonti: principali opere di V.:​​ Psicologia e psicotecnica, Roma, Paoline, 1969;​​ Inventario d’interessi professionali MV 70 forma verbale e forma non verbale,​​ Firenze, O. S., 1985;​​ Orientamento: una modalità educativa permanente, Torino, SEI,1989;​​ Educazione alla scelta. Una guida operativo-pratica, Ibid., 1995. b)​​ Studi:​​ Super​​ d. e.,​​ Théorie du développement professionnel: individus, situations et processus,​​ in «Binop» (1969) n. 4, 221-240; Pelletier​​ d. & C. Bujold,​​ Pour une approche éducative en orientation. La collection Education des Choix: Guide de l’animateur, Issy-les-Moulineaux, E.A.P., 1988.​​ 

P. Grillo




VIOLENZA

 

VIOLENZA

La v. è in genere descritta come un tratto costitutivo della natura umana; dal punto di vista sociologico essa è fatta derivare dai conflitti; dal punto di vista psicologico è descritta come espressione della​​ ​​ aggressività.

1. È dunque considerata come momento reattivo degli individui di fronte a minacce esterne o​​ ​​ frustrazioni interne, tanto da impegnare l’interpretazione della aggressività interpersonale e della v. sociale (le guerre) come eventi riequilibratori dei conflitti. Ambedue le letture sono deboli sul piano teorico. L’aggressività concepita come tendenza, presente nel comportamento e nella fantasia, finalizzata alla etero ed auto-distruzione (per affermazione del sé) nel percorso frustrazione-aggressività-v. è messa in discussione da​​ ​​ Lewin, R. Lippit e R. K. White (1939) che demistificano la positività dell’effetto catartico conseguente allo scarico della tensione. Le ricerche etologiche mostrano poi che l’aggressività, per come è usualmente intesa dall’uomo, nel mondo animale non esiste. Lorenz (1976) libera la tendenza all’azione antagonista dai contenuti di aggressività distruttiva (per come sono psicologicamente vissuti dall’uomo) vedendoli come finalizzati alla conservazione della vita e del territorio.

2. Il​​ ​​ conflitto sociale è analizzato come il fulcro attorno a cui gravitano gli eserciti, la v. istituzionale ed i processi di guerra come strumento di difesa. Non risolto esso genera v. espressa con distruttività in ragione della potenza delle macchine belliche. Il criterio che alimenta l’espansione degli eserciti e delle guerre è paradossalmente quello della pace: la guerra infatti viene celebrata come strumento per la realizzazione della pace giusta, negando l’evidenza delle divisioni sociali e delle tensioni internazionali che sono sempre conseguenza dei conflitti. Quasi mai un conflitto genera pace con soddisfazione: la pace che si instaura, secondo R. Aron (1970), è in genere o pace fondata sul terrore e sull’impotenza o pace fondata sulla potenza (pace d’equilibrio, pace egemonica, pace imperiale).

3. Nella discussione sulla v. acquista un significato di rilievo l’analisi della v. esercitata dalle bande giovanili. Negli stili di vita violenti si riscontra il fallimento di un processo di educazione come liberazione dalla v. per la realizzazione di personalità capaci di​​ ​​ autorealizzazione soggettiva mediante disciplina, dialogo e confronto. Ciò che accade nelle bande giovanili ricorda che il compito dell’educatore è quello di insegnare a non far crescere l’aggressività, che continua erroneamente ad essere considerata forza positiva da scaricare, quasi l’essere umano fosse paragonabile ad un accumulatore privo di coscienza di sé e di capacità di modificare ed equilibrare i propri sentimenti.

Bibliografia

Lewin K. - R. Lippit - R. K. White,​​ Patterns of aggressive behavior in experimentally created «Social Climates», in «Journal of Social Psychology» 1939, 10, 271-299; Aron R.,​​ Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Comunità, 1970; Lorenz K.,​​ L’aggressività, Milano, Il Saggiatore, 1976; Ferrarotti F.,​​ Alle radici della v., Milano, Rizzoli, 1979; Severino E.,​​ Techne. Le radici della v.,​​ Ibid., 1979; Caprara G. V. - P. Renzi,​​ L’aggressività umana,​​ Roma, Bulzoni, 1985; Salvini A.,​​ V. negli stadi, Firenze, Giunti-Barbera, 1986; Rebughini P.,​​ La v., Roma, Carocci, 2000; D’Ors A,​​ La v. e l’ordine, Lungro di Cosenza, Marco Editore, 2003; Boyle K.,​​ Media and violence: gendering the debates, Thousand Oaks, Sage, 2005; Flores M.,​​ Tutta la v. di un secolo, Milano, Feltrinelli, 2005.

V. Masini - G. Vettorato




VIRTÙ

 

VIRTÙ

La v. è una disposizione od orientamento stabile del carattere che rende facilmente accessibile e in certo modo connaturale una qualche particolare forma di comportamento morale positivo (​​ etica).

1. Il concetto di v. è stato elaborato dalla filosofia greca e da questa è poi passato nella riflessione morale cristiana, dove ha svolto a lungo una funzione di quadro ermeneutico del fatto morale e di principio ordinativo della sua esposizione. Il pensiero morale di s.​​ ​​ Tommaso è tutto fondato sul ruolo centrale di questo concetto: la vita morale vi è concepita e descritta come un complesso ma articolato ed unitario «organismo» di v.

2. Nell’epoca moderna, la teologia e la filosofia morale hanno abbandonato questo paradigma, sostituendolo con un’impostazione di carattere prevalentemente normativo, fondata sull’idea di una libertà senza storia e senza radici, alle prese con una decisione puntuale e tra un bene e un male astratti e atemporali. Recentemente un manipolo di studiosi (facenti capo ad A. McIntyre) sta cercando di restituire nuova vita all’impostazione aretologica classica. Non mancano inoltre autori (S. Hauerwas, E. Simpson) che tentano di trasporre in campo pedagogico questo revival. Essi imperniano le loro teorie sull’importanza e l’educabilità del carattere e delle v. che lo costituiscono e sul ruolo di una «comunità del carattere» nella sua formazione.

3. L’impostazione aretologica della morale permette di superare la concezione statica e atomistica del pensiero morale «moderno» e ci aiuta a capire il carattere evolutivo ed organico dell’esperienza morale. Il concetto di v. esprime bene l’idea di una crescita progressiva, attraverso la quale, facendo il bene, il soggetto plasma la sua personalità morale, rendendo sempre più stabile e connaturato il suo orientamento al bene. Essa coinvolge tutti gli spessori del vissuto umano e presuppone un’educazione globale. La pluralità dei tratti e delle disposizioni che costituiscono una personalità morale si integra in un tutto vivente. Il paradigma delle v. richiama infine il carattere originale ed unico della fisionomia morale di ogni persona. L’educazione può trovare nell’organismo delle v. non soltanto un modello, universale ma remoto, di riferimento ideale, ma anche la consapevolezza che l’educazione agisce sempre su un concreto carattere morale, dotato di qualità o disposizioni positive, ma anche di limiti, imperfezioni e condizionamenti negativi altrettanto particolari, combinati in un equilibrio assolutamente unico.

Bibliografia

Hauerwas S.,​​ Character and the Christian life: a study in theological ethics, San Antonio, Trinity University Press, 1975; Dent N. J. H.,​​ The moral psychology of the virtues, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; McIntyre A.,​​ Dopo la v.: saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988; Abbà G.,​​ Felicità,​​ vita buona e v.: saggio di filosofia morale, Roma, LAS, 1989.

G. Gatti




VITA

 

VITA

Etimologicamente il termine deriva dal lat.​​ vis​​ (forza, vigore, potenza, energia). Nell’accezione comune, allora, la v. può essere descritta come forza attiva propria degli esseri animali e vegetali. La v. umana poi non è soltanto un organismo biologico ma anche una biografia esistenziale di una​​ ​​ persona.

1.​​ La v. come valore.​​ In senso analogico il sinonimo del «vivere» è quello dell’esistere​​ e al dover nascere alla v. va sempre correlato il «poter vivere o esistere». Va subito precisato però che c’è un duplice modo di concepire e vivere l’esistenza. Questa duplicità è sottesa dall’ambivalenza etimologica del termine stesso:​​ ex-esistere.​​ Infatti il significato della v. cambia a seconda della significatività che assume il prefisso​​ ex:​​ esso se applicato al termine «esistere» può essere interpretato come essere​​ fuori​​ o essere​​ verso.​​ Nel primo caso l’esistenza è oggettivata, emarginata. Essa si confonde con le cose. Esistere significa «essere-fuori», o «essere-altrove», o «essere-gettato» (ob-jectum), per cui l’esistenza in sé perde di senso, appare senza valore, senza possibilità e prospettive. Si pensi in proposito al dibattito suscitato dall’esistenzialismo in genere e da quello di Heidegger in particolare. Nel secondo caso l’esistenza è «verso-qualcosa» o «verso-qualcuno»: esistere, perciò, è «essere-per» o «essere-con», come il pensiero contemporaneo ha messo in luce. L’esistenza acquista così il senso, il valore e la finalità della​​ relazione, della​​ ​​ alterità. La relazione con l’altro diviene così la sua possibilità di autorealizzazione e la​​ ​​ libertà è assunta come compito e impegno. In questa ottica, allora, quando si parla dell’uomo-vivente si allude non solo alla qualità della v., ma alla​​ sacralità della v., perché l’uomo è persona ed è l’unico essere in cui la v. diventa capace di «riflessione» su di sé, di autodeterminazione; egli è l’unico vivente che ha la capacità di cogliere e scoprire il senso della sua esistenza e delle cose. La v. umana si presenta così come il valore massimo nel creato e trascende ogni altro bene temporale. Essa ha valore di fine e non di mezzo e si presenta come il punto assoluto di riferimento, a cui ogni altro valore mondano e storico deve riferirsi. Non esiste perciò un «diritto» contro la v. umana, dal momento che la stessa v. è il fondamento del diritto. Questa fondamentale forza assiologica e deontologica è radicata su un principio universale, assiomatico e operativo nello stesso tempo: l’uomo quando nasce deve essere valutato come un​​ dono​​ «per» e «con» e non come un​​ prodotto​​ da manipolare o commercializzare: la v. non si fabbrica, non si brevetta.

2.​​ La cultura della v.​​ Che significa avere una cultura della v.? La risposta a questo interrogativo è costituita da tre dimensioni tra loro concentriche, il cui centro è la persona umana. La prima dimensione è costituita dalla​​ inscindibile unicità della persona.​​ L’​​ ​​ uomo è un tutto unico e non può essere interpretato a compartimenti stagno. Infatti questo tipo di concezione dell’uomo, a comparti separati, ha generato dualismi impropri e bipolarità tra loro erroneamente contrapposte: istinto-volontà, materiale-spirituale, corpo-anima ecc. Ora, tale verticalizzazione rigida delle facoltà umane è rimessa fortemente in questione: infatti, anche se distinguibili, non vanno separate; tutte sono all’insegna del richiamo reciproco e vanno viste tra loro interdipendenti e interagenti nel contesto unitario della persona umana. L’uomo è un’unità inscindibile e la sua essenza è costituita dal​​ soma​​ (il corpo, la corporeità), dalla​​ psiche​​ (le emozioni, i sentimenti), dalla​​ nous​​ (la mente, la razionalità) e dal​​ sema​​ (i valori, i sistemi di significato). Tutti questi fattori, distinti sì ma non separabili perché tra loro interagenti, costituiscono l’essenza della persona, della v. umana. Nell’esercizio del corpo, per es., è tutta la persona che si visibilizza. La seconda dimensione che caratterizza la cultura della v. si ispira al rispetto assoluto della v. durante tutto l’arco cronologico dell’esistenza, dal concepimento alla morte naturale, sottraendola all’arbitrio di qualsiasi persona e di qualsiasi autorità. Ora la questione della v., della sua promozione e difesa, non è prerogativa dei soli cristiani – anche se dalla fede evangelica questo fatto riceve luce e forza straordinarie –; essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspiri alla verità e che sia attenta e pensosa per le sorti dell’umanità. In questa ottica va anche la «Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo» (1948). È stato giustamente detto che il diritto alla v. è la nuova «questione sociale», perciò la promozione e la difesa della v. vanno attuate in tutto l’arco dell’esistenza umana: la​​ v.​​ iniziata​​ (il problema dell’aborto, la violenza sui minori); la​​ v.​​ verificata​​ (il primato della salute, l’umanizzazione della medicina); la​​ v.​​ manipolata​​ (l’adulterazione genetica, le tecniche della fecondazione); la​​ v.​​ marginale​​ (le nuove povertà, la condizione dell’anziano); la​​ v.​​ terminale​​ (il problema dell’eutanasia, l’umanizzazione del morire e della​​ ​​ morte). La soluzione di tutte queste vicende umane attiene ad un’autentica cultura della v. e va affrontata nel segno di un inequivocabile principio: la v. di ogni uomo è sacra! (bioetica). La terza dimensione sorge da un problema di scottante attualità: la nuova coscienza ecologica che ripropone un​​ rinnovato rapporto tra l’uomo e la natura.​​ Nel creato l’uomo non è il fine dell’evoluzione biologica, ma la v. è il fine. Perciò il rispetto della natura dev’essere basato sulla centralità della v. e questo principio deve farci passare da un immotivato​​ vitalismo antropocentrico, secondo cui l’uomo veniva definito senza limiti (jus utendi atque abutendi!), il senso di tutte le cose, ad una ragionata​​ visione biocentrica​​ che reinserisce l’uomo nella contestualità della biosfera assegnandogli il compito di controllare i processi. In parole più concrete: ciò che deve stare al centro del rapporto operativo uomo-natura non è tanto l’uomo come soggetto di conoscenza e di dominio, ma è la v., nel cui contesto la vicenda umana è il punto-vertice (​​ ambiente,​​ ​​ educazione ambientale). Ai credenti in particolare, per non concorrere all’ecocidio è richiesto di mediare l’amore per il prossimo attraverso l’amore per tutte le creature. Si tratta di un nuovo atteggiamento etico, personalista e cosmocentrico nello stesso tempo: la premura per la garanzia delle condizioni della v. in tutto il creato è il primo amore che dobbiamo avere verso il prossimo.

3.​​ L’educazione alla v.​​ S. Ireneo ha detto che «la gloria di Dio è l’uomo pienamente vivente!». Ma perché la v. sia vissuta nella sua pienezza occorre che essa abbia un​​ ​​ senso. Ora, per capire che cosa significa avere o produrre «senso» nella v. lo si interpreta dagli «effetti» che il senso stesso provoca: esso, infatti, produce attese, speranze, aspirazioni; rende capaci di amore solidale; stimola impegno e capacità costruttiva; suscita fedeltà e senso del rischio; sostiene la tenacia e la perseveranza attraverso giorni e stagioni dell’esistenza umana. Quando manca un «senso» tutta la v. diventa insensata, tutte le cose perdono i loro contorni precisi, si arriva al non-senso dei rapporti umani e gli avvenimenti perdono ogni qualità, la libertà si paralizza e si traduce in pigra indifferenza, i progetti hanno la durata di un’ubriacante evasione, la v. si dissocia e si disperde in momenti sconclusionati e senza senso, si vive per delega, e più che vivere alla giornata, si «muore alla giornata». Perché la v. abbia senso occorre, allora, credere in «qualcosa» o in «qualcuno». Perciò il senso della v. nasce innanzitutto da una​​ fede​​ – non necessariamente intesa come fede religiosa –, da una fede cioè vista come atto mediante cui l’uomo si affida a «valori» e a «speranze», dei quali non è ancora in grado di mostrare il grado di realizzabilità o di attitudine a saziare la v., ma che sono in grado però di costituire «quel» qualcosa o «quel» qualcuno per cui la v. ha significato, è «sensata»; e in questa direzione ci si impegna.

Bibliografia

Frankl V.,​​ Alla ricerca di un significato della v., Milano, Mursia, 1990; Pearson C.,​​ L’eroe dentro di noi, Roma, Astrolabio, 1990; Fizzotti E. (Ed.),​​ «Chi ha un perché nella v.…», Roma, LAS, 1992; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Fromm E.,​​ L’amore per la v., Milano, Mondadori, 1993; Mancini R.,​​ Il dono del senso,​​ Assisi, Cittadella, 1999; Sanna I. (Ed.),​​ La sfida del post-umano, Roma, Studium, 2005.

C. Bucciarelli




VITTORINO DA FELTRE

 

VITTORINO DA FELTRE

n. a Feltre nel 1373 / 78 - m. a Mantova nel 1446, umanista e educatore italiano.

1. Inizia gli studi in ritardo a causa della situazione disagiata della famiglia, dovendo lavorare per mantenersi. È scolaro di Giovanni da Conversino, con il quale impara grammatica, dialettica, retorica e poesia. A Padova segue lezioni di filosofia, scienze fisiche e astronomia. Tra i suoi maestri più noti: Vergerio, Barzizza,​​ ​​ Guarino Guarini. Verso il 1419, V. fonda un convitto (contubernium) nella sua casa di Padova per studenti poveri dotati di ingegno. Dopo un breve periodo come professore di retorica allo Studio di Padova, accetta nel 1423 l’invito del marchese Gonzaga di recarsi a Mantova come precettore dei figli. Nella villa «Ca’ zoiosa», ribattezzata «Ca’ giocosa», organizza una scuola-convitto che dirige fino alla morte.

2. Non ci sono pervenuti scritti di V. tranne alcune lettere e un piccolo trattato​​ De ortographia. Le testimonianze degli scolari mettono in risalto i tratti della sua personalità di educatore: equilibrato e ricco di umanità, di aspetto grave ma non severo, di ingegno attivo e penetrante, efficace nel parlare e abile nel fare, di spiccata vocazione per l’insegnamento, uomo profondamente religioso. Nel programma della «Ca’ giocosa», accanto agli autori classici, erano studiate le discipline del «quadrivium» (aritmetica, geometria, musica, astronomia) e si dedicava attenzione alla danza, al gioco, al nuoto, al contatto con la natura, alle pratiche religiose. L’obiettivo di V. era di formare «giovani che potessero servire Dio nella Chiesa e nello Stato», qualsiasi impegno fossero chiamati a svolgere. Nella sua scuola l’idea umanistica tendeva «alla perfetta fusione tra la tradizione classica e l’esperienza cristiana» (Bertin, 1961, 316). È ritenuto l’educatore più rappresentativo dell’​​ ​​ Umanesimo italiano.

Bibliografia

Gambaro​​ A.,​​ V. da F.,​​ Torino, Stab. Tip. Vogliotti, 1946;​​ Bertin G. M.,​​ La pedagogia umanistica europea nei secoli XV e XVI,​​ Milano, Marzorati, 1961; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 2, Torino, SEI, 2004, 22-28.

J. M. Prellezo




VIVEKANANDA Swami (Narendranath Datta)

 

VIVEKANANDA Swami​​ (Narendranath Datta)

n. a Calcutta nel 1863 - m. ivi nel 1902, monaco ed educatore indiano.

1. La famiglia benestante gli permette di studiare senza problemi economici fino all’università. Le domande di senso sull’uomo lo conducono alla militanza politica e quelle su Dio all’incontro con Ramakrishna, dal quale non si separerà più e che farà conoscere all’Occidente (Congresso delle Religioni, Chicago 1893). Alla contemplazione di Ramakrishna, egli unisce l’impegno nella società e nella storia, cerca cioè di diffondere quanto l’umanità ha raggiunto attraverso lo sviluppo dell’uomo in genere e di Ramakrishna in particolare. La razionalità di V., attratta dalla mistica del maestro, è rafforzata dall’esperienza sia indiana che occidentale. Il Vedanta (​​ Vedismo) è il sistema filosofico-religioso dal quale egli riceve le risposte che cerca e che costituisce il suo riferimento costante nell’insegnamento ispirato ad una religione a carattere universale, più ideale che reale.

2. L’idea di educazione in V. trova fondamento nella religione ed in particolare nell’​​ ​​ Induismo. L’educazione è tutto quello in cui si manifesta la perfezione dell’uomo e l’uomo spirituale è la sede di ogni conoscenza. Propone il metodo della concentrazione attraverso cui l’energia mentale è convogliata sull’oggetto di conoscenza. Seguono la meditazione ed il distacco necessari per il passaggio al momento della valutazione. Lo yoga (unione dell’uomo a Dio) proprio della cultura indiana (Upanishad) torna in V. che riprende ed amplia il lavoro di sistemazione condotto da Patanjali. Nel 1885 V. fonda il primo monastero ispirato agli insegnamenti del maestro (Ramakrishna Math), nel 1887 viene istituito l’Ordine (per i monaci) e nel 1897 la Missione (per i laici) che assumerà progressivamente la forma di movimento la cui valenza pedagogica si manifesta tuttora a livello mondiale, sia nei contenuti teorici che nella creazione e nel mantenimento di centri, scuole,​​ college, servizi sociali.

Bibliografia

V.S.,​​ Yoga pratici. Karma-yoga,​​ Bhakti-yoga,​​ Raja-yoga, Roma, Ubaldini, 1963; Chistolini S.,​​ Ramakrishna,​​ V.,​​ Gandhi. Maestri senza scuola, Roma, La Goliardica, 1992; Filippani Ronconi P. - F. Scialpi - S. E. K. Sahdev,​​ Nel centenario dell’intervento di S.V. al Parlamento mondiale delle religioni (Chicago 1893): due conferenze, Roma, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, 1997.

S. Chistolini




VIVES Juan Luis

 

VIVES Juan Luis

n. a Valencia nel 1492 - m. a Bruges nel 1540, umanista spagnolo.

1. Nasce in una famiglia benestante di origine ebraica. Frequenta lo «Studio generale» della città natale e l’Università di Parigi (1509-1514). Insegna a Lovanio, dove instaura rapporti di amicizia con Erasmo. Invitato a trasferirsi in Inghilterra (1523-1528), diventa precettore della principessa Maria, figlia di Enrico VIII, e professore di lingue classiche a Oxford. Caduto in disgrazia, perché contrario al divorzio del re, V. si stabilisce a Bruges, dove si era sposato nel 1524. Durante il soggiorno inglese scrive le prime opere di carattere pedagogico:​​ De institutione foeminae christianae​​ (1523),​​ De ratione studii puerilis​​ (1523). Negli ultimi anni di vita, nonostante le difficoltà economiche e la precaria salute, svolge intensa attività intellettuale. Opere più importanti:​​ De subventione pauperum​​ (1526);​​ De tradendis disciplinis​​ (1531), trattato sull’insegnamento;​​ De anima et vita​​ (1538), studio sulla psicologia umana.

2. Per V. è chiara anzitutto la necessità di dare un fondamento psicologico all’azione educativa e didattica: «i maestri dovrebbero radunarsi quattro volte l’anno, per discutere e deliberare, con affetto paterno e severo giudizio, sull’indole e la natura di ciascun ragazzo, indirizzando ognuno al tipo di studio per il quale sembra avere maggiore attitudine» (De tradendis, II, 568). L’istanza psicologica si ritrova anche nelle considerazioni sull’importanza del «fattore uomo»: il maestro deve essere oggetto di una «prudente e coscienziosa scelta», persona di «cultura e padrone dell’arte d’insegnare, capace di adattarsi al livello di ogni alunno» (De tradendis, II, 588). Due termini,​​ pietas​​ e​​ eruditio, strettamente legati tra di loro, sintetizzano gli obiettivi fondamentali che V. addita alla scuola. Più dei suoi contemporanei, egli insiste sulla diffusione delle scuole, da ubicare in luoghi igienici e ameni, fuori delle città, per evitare distrazioni e pericoli per gli scolari. Il tema viviano che ha suscitato maggiore interesse è quello dell’educazione femminile. Pur collocato in un’ottica tradizionale, alcuni punti meritano attenzione: cultura classica, cura delle diverse dimensioni della formazione della fanciulla, esigenza di coniugare la teoria con gli aspetti pratici, propri della missione di madre di famiglia.

3. L’umanista spagnolo è ritenuto il «padre della psicologia moderna» (Sancipriano, 1963, 5). Speciale e unanime apprezzamento ha meritato il tentativo di fondare l’intervento educativo e l’insegnamento sull’osservazione psicologica. In Italia ha avuto grande diffusione il suo breve scritto​​ Colloquia​​ o​​ Exercitatio linguae latinae​​ (1539). Ne sono state individuate 20 edizioni lat. pubblicate in Italia e 14 edizioni in traduzione it. Ancora recentemente sono state ripubblicate due delle più importanti opere viviane:​​ De tradendis disciplinis​​ (Cassino, 1984),​​ De pacificatione​​ (Roma, 1990).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Obras completas; versión castellana, introducción y notas de L. Riber, Madrid, Aguilar, 1947, 2 voll.;​​ Los diálogos; estudio introd., edición crítica y comentario de M.​​ P. García, Barañáin (Navarra), EUNSA, 2005. b)​​ Studi:​​ Urmeneta F.,​​ La doctrina psicológica y pedagógica de L.V., Madrid, C.S.I.C., 1949; Sancipriano M.,​​ Introduzione​​ a​​ De anima et vita, Torino, Bottega d’Erasmo, 1963; Prellezo J. M.,​​ J.L.V. (1492-1992).​​ Le opere e il pensiero pedagogico in Italia, in «Orientamenti Pedagogici» 40 (1993) 69-91; Fontán A.,​​ Erasmo,​​ Moro,​​ V.: el humanismo cristiano europeo, Madrid, Nueva Revista, 2002.

J. M. Prellezo

VOCATION​​ ​​ Formazione dei formatori