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UMANESIMO RINASCIMENTALE

 

UMANESIMO RINASCIMENTALE

I termini U. e Rinascimento indicano due aspetti del complesso e ricco movimento culturale, iniziato nella seconda metà del sec. XIV e sviluppatosi, prima in Italia e poi in tutta l’Europa, nei due secoli seguenti. In esso sono presenti e reciprocamente si influenzano aspetti letterari, artistici, filosofici, religiosi, sociali e politici, che ne denotano la ricchezza e la complessità. È stata oggetto di studio e di diverse valutazioni la relazione tra i due termini del binomio U.-Rinascimento, come pure il collegamento del Rinascimento con la precedente epoca medievale. Ci atteniamo alla più condivisa considerazione unitaria dei due aspetti e alla visione più di continuità che di contrapposizione, pur nella diversificazione, tra​​ ​​ Medioevo e Rinascimento.

1.​​ U. e classicità. Il termine U. indica in modo particolare l’accresciuta​​ considerazione dell’uomo​​ che si ha in questo periodo, favorita dal poliedrico sviluppo culturale e sociale del Rinascimento e caratterizzata da una ricerca della sua realizzazione terrena, staccandosi da quell’orientamento teologico-escatologico che aveva significato la cultura medievale. Ciò, tuttavia, se spiega l’affermarsi di un certo naturalismo, si attua, senza negare, ma piuttosto inverando diversamente (particolarmente in alcuni suoi esponenti) la dimensione religiosa portata dal cristianesimo. U. indica pure la​​ componente letteraria​​ della cultura rinascimentale, caratterizzata soprattutto da un ritorno alla ricerca e allo studio dei classici, perfezionato e reso più critico dall’affermarsi della filologia (di cui tipico rappresentante è Lorenzo Valla). Anche in questo aspetto si nota una differenza dalla cultura medievale, non tanto per lo studio dei Classici, quanto per lo spirito con cui si attua questo studio, prodotto dalla mentalità rinascimentale, e cioè dalla ricerca di un ideale umano, che aveva avuto nella classicità la sua più splendida celebrazione.

2.​​ Criteri e programmi. Abbiamo così toccato il quadro nel quale si colloca anche il problema educativo, che riveste particolare importanza in una cultura centrata sull’uomo. Gli umanisti rinascimentali vi hanno dedicato speciale attenzione, sia nel suo aspetto teorico, che nelle realizzazioni pratiche. Le trattazioni teoriche sono in gran parte dedicate all’educazione del principe. Ciò denota, oltre al collegamento degli umanisti con i principi mecenati, il tipo elitario dell’ideale educativo perseguito. Ricordiamo in particolare il​​ De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae​​ di Pier Paolo Vergerio (1370-1444) dedicato a Ubertino da Carrara; il​​ De studiis et litteris​​ di Leonardo Bruni (1370 / 74-1444) dedicato a Battista (Isabella) Malatesta di Montefeltro; il​​ De liberorum educatione​​ di Enea Silvio Piccolomini (poi Pio II, 1405-1464) dedicato a Ladislao di Ungheria e di Boemia. Meno elitaria e più sensibile alla funzione educativa della famiglia è l’opera di Maffeo Vegio (1406-1458)​​ De educatione liberorum clarisque eorum moribus.​​ Sostanzialmente comuni sono i principi ispiratori. Essi si richiamano all’idealità classica, che è determinante nel qualificare «umanistica» questa educazione, come una ripresa di quella​​ humanitas​​ che caratterizzò la cultura romana dopo l’incontro e la fusione con quella dell’antica​​ ​​ Grecia. Sui classici si basano sia i programmi di studio sia i criteri formativi. Particolare importanza avrà in ciò la scoperta (1414 ca.) di un manoscritto completo della​​ Institutio oratoria​​ di​​ ​​ Quintiliano. Il programma comprende principalmente lo studio delle lingue classiche e in genere lo studio e l’imitazione dei classici. Poeti, oratori, filosofi, storici romani, e in secondo tempo anche greci, sono i maestri dello stile e le fonti preferite del pensiero degli umanisti; il loro studio è presentato come la via per il raggiungimento dell’ideale umano. Su questa fondamentale base classica si tende ad una formazione enciclopedica, che riporta all’ideale retorico di​​ ​​ Isocrate e a quello dell’Orator​​ romano presentato da​​ ​​ Cicerone e da Quintiliano. Tra i criteri classici, rivissuti in spirito rinascimentale, vanno ricordati la formazione completa ed armonica, la cura e valorizzazione del corpo (educazione fisica), il rispetto del fanciullo, il senso dell’onore e della lealtà, il desiderio della gloria, lo spirito di emulazione.

3.​​ U. e Cristianesimo. Il richiamo e l’ispirazione al modello classico suscita delle riserve e opposizioni da parte di spiriti preoccupati della fedeltà alla tradizione etico-religiosa della formazione cristiana. Esempio tipico ne è il domenicano Giovanni Dominici (1356 / 57-1419) nella sua​​ Lucula noctis​​ e nella​​ Regola del governo di cura familiare. Ma, contro tali preoccupazioni, va rilevato che è comune negli Umanisti scrittori di pedagogia l’attenzione alla sintesi cristiana e al primato della formazione morale. Ciò è particolarmente curato nel​​ De liberis recte instituendis​​ di Jacopo Sadoleto (1477-1547) e nel citato​​ De educatione liberorum​​ di Maffeo Vegio. Leonardo Bruni richiama la visione dei Padri presentando una traduzione latina del discorso di​​ ​​ Basilio Magno ai giovani sulla lettura dei classici. Lo stesso s. Bernardino da Siena (1380-1444), nelle sue​​ prediche volgari, valorizza lo studio dei classici nella sintesi di una seria formazione cristiana.

4.​​ Oltre l’U. letterario. Abbiamo messo in risalto quanto nella pedagogia umanistica deriva dal collegamento con la classicità ed è predominante in molti umanisti, pur con quelle nuove accentuazioni che sono prodotte dallo spirito rinascimentale. Ci sono all’interno dell’U. delle linee in cui lo spirito del Rinascimento e la pluralità dei suoi interessi culturali portano a un certo distacco dalle​​ lettere​​ e dai​​ classici, pur senza rinunciarvi, e a una più grande sensibilità e apertura per la concretezza della vita e dei problemi sociali. Lo troviamo per es. in Matteo Palmieri (1406-1475) e nel suo​​ Della vita civile. Lo troviamo in forma più suggestiva in Leon Battista Alberti (1404-1472), una delle figure più ricche e poliedriche del Rinascimento, che soprattutto nelle sue opere​​ Della Familia​​ e​​ De​​ Iciarchia​​ tratteggia e propone all’opera educativa del padre l’ideale dell’«uomo artefice», costruttore della propria vita e della propria fortuna, indipendentemente da privilegiate situazioni economiche e sociali. Nella sua formazione valorizza particolarmente l’«esercizio» esteso a tutti i settori della vita («ogni esercizio che sia senza infamia»), sostenuto da illuminata intelligenza e da fermo volere, e in un’impostazione spartana dell’educazione In questa stessa linea è da rilevare la valorizzazione, da parte di alcuni umanisti, delle​​ lingue​​ volgari o vernacole: ricordiamo in particolare gli stessi Palmieri e Alberti e lo spagnolo Luis​​ ​​ Vives (1492-1540).

5.​​ U. ed educazione femminile. Una nota a parte merita il tema dell’educazione della donna nell’U. Esso è poco trattato dagli scrittori di pedagogia, anche se la figura femminile è molto curata, soprattutto nell’ambito delle corti italiane. Trattazioni particolari si hanno nel già citato​​ De studiis et litteris​​ di Leonardo Bruni, dedicato a una donna (Battista Malatesta); in​​ Il Cortegiano​​ di Baldassar Castiglione (1478-1529), nel quadro della vita di corte. La trattazione più ampia è offerta da Vives nel suo​​ De institutione foeminae christianae. Alla formazione morale e religiosa si aggiunge quella letteraria, con criteri di maggiore riguardo che nell’educazione maschile, in attenzione alla specifica delicatezza, dignità e missione della donna. Si ha così un programma di educazione femminile aperta alla cultura, che supera quello della vita familiare domestica, predominante in altri autori, come s. Bernardino da Siena e lo stesso Alberti.

6.​​ Le scuole. Centri propulsori dell’educazione umanistica sono le scuole curate dagli umanisti. Il loro rifiorire è legato al valore dei maestri, che sanno creare un ambiente di fervore per lo studio dei classici, di applicazione e di ricerca. Le migliori realizzazioni si sono avute nella scuola di​​ ​​ Guarino Guarini, presso la corte degli Estensi di Ferrara, e nella scuola di​​ ​​ Vittorino da Feltre, la «Ca’ giocosa», presso la corte dei Gonzaga a Mantova. Particolarmente in quest’ultima si è potuto cogliere l’efficacia dell’educazione umanistica, come formazione culturale, come integrale formazione umana e cristiana, e come preparazione ai molteplici impegni della vita pubblica, sia civile che ecclesiastica. Anche la validità delle scuole segue, però, il rifiorire della cultura umanistica e la sua decadenza nel formalismo letterario. Contro questa decadenza e per una ripresa della scuola nei suoi aspetti didattici e pedagogici scrive Vives nel suo​​ De tradendis disciplinis. Particolare impulso all’organizzazione anche della scuola umanistica è data dai​​ ​​ Gesuiti con la​​ ​​ Ratio studiorum, che avrà un influsso determinante sugli​​ studia humanitatis​​ dei secoli seguenti.

7.​​ U. europeo. Un aspetto rilevato con qualche meraviglia dagli studiosi è il fatto che questo tipo di cultura e di educazione, più congeniale alle popolazioni neolatine, dopo essersi affermato in Italia, si sia ripresentato sostanzialmente con le stesse caratteristiche, pur con diverse accentuazioni, in tutte le nazioni europee, dando una certa unità culturale e pedagogica all’Europa dei secoli XV e XVI. Ricordiamo così i grandi umanisti: in Germania Rodolfo Agricola (1443-1485), J. Reuchlin (1455-1522); nei Paesi Bassi Alessandro Hegius e soprattutto​​ ​​ Erasmo da Rotterdam; in Francia G. Bude (1468-1540); in Spagna Antonio Nebrija (1441-1522) e soprattutto, per la sua incidenza pedagogica, Vives. Un rilievo particolare diamo a Filippo Melantone (1497-1560) per la parte che ha avuto non solo nell’affermazione della cultura umanistica in Germania, ma soprattutto nel collegamento del movimento protestante luterano con la cultura.

Bibliografia

Gerini G. B.,​​ Gli scrittori pedagogici italiani del XVI secolo, Torino, Paravia, 1897; Woodward W. H.,​​ La pedagogia del Rinascimento,​​ 1400-1600, Firenze, Vallecchi, 1923; Garin E. (Ed.),​​ Il pensiero pedagogico dell’U., Firenze, Sansoni-Giuntine, 1958; Battaglia F. (Ed.),​​ Il​​ pensiero pedagogico del Rinascimento, Ibid., 1960; Bertin G. M.,​​ La pedagogia umanistica europea nei secoli XV e XVI, Milano, Marzorati, 1961; Garin E. (Ed.),​​ L’uomo del Rinascimento, Bari, Laterza, 1988; Ganne E.-M.,​​ Tommaso Moro. L’uomo completo del Rinascimento, Milano, S. Paolo, 2004.

M. Simoncelli




UMORISMO

 

UMORISMO

La voce u. suggerisce più accezioni. Ne connotiamo il significato prima in un raffronto tra voci differenti e poi in una delineazione del termine.

1. L’u. si differenzia dalla satira e dalla comicità. Questa viene caratterizzata più dal bizzarro, dalla parodia, dal burlesco e buffonesco; la satira invece dall’ironia, dal sarcasmo, dalla beffa e dal grottesco. All’u. si attribuisce l’arguzia, il garbo, la sottigliezza, il buonumore. È il gusto arguto, lepido e tollerante di rilevare e raffigurare l’aspetto ameno e risibile di persone e avvenimenti, per una loro bonaria disamina. L’u. non si concede facilmente a classificazioni rigide. Piuttosto si coglie il senso dell’u. (variabili fattoriali di R. B. Cattell) di chi sa osservare la realtà nei suoi aspetti più faceti e sa esprimerla nei motti di spirito, come di chi sa reagire con il sorriso o la risata, dando così espressione alla sua valenza interpersonale e sociale. L’u. suppone compresenti e in reciprocità i differenti protagonisti, che posseggono la disposizione a cogliere contraddizioni e curiosità della vita umana, per saperne sorridere con tolleranza e distacco. Si presuppone in questo perspicacia nell’osservare le situazioni, spirito critico nel leggerne i risvolti, intuito nell’evidenziare collusioni tra reale e ideale. E se ogni sua interpretazione pone l’accento sul pensiero come momento indispensabile, non può esserne misconosciuto il carattere di socialità nella ricerca di comunicazione virtuosa. Fare dell’u. significa coinvolgere nel sorriso, stabilire un legame sociale nel gruppo, gestire un potere sociale: si sorride con qualcuno, ma anche di qualcuno o qualcosa. E pur coscienti dell’influsso che si esercita sul clima d’ambiente, l’u. non è una sorta di ammaestramento morale, bensì consapevolezza che il suo messaggio ha efficacia in un adeguato contesto sociale.

2. Interpretiamo il fenomeno u. sotto il profilo cognitivista e psicanalitico. Nell’ottica cognitivista, il messaggio umoristico presenta sempre dissonanze che sbilanciano logica e linguaggio: sono l’imprevista inversione di senso, la grande distanza tra premesse e conseguenze, la distonia tra il senso delle parole e i termini usati. Da questo emerge con evidenza uno scarto inatteso tra probabile e inverosimile, esaltazione e irrisione, percezione e aspettativa. Si tratta in fondo di un messaggio paradossale, consegnato come usuale e scontato, o di linguaggio eterodosso nell’uso di parole e del loro senso (tecniche verbali) o nei ragionamenti sofistici o assurdi (tecniche concettuali), presentato però come ragionevole e piano, pur prevalendo il gusto divergente e il pensiero laterale. Alla base dell’u. starebbe dunque un processo di organizzazione attiva dell’esperienza, i cui prodotti derivano da variazioni percettive e concettuali. Sue operazioni privilegiate sono la provocazione inattesa, per cui si cerca la valenza di un’idea (apprezzamento) e non il valore della verità (coerenza); e la risoluzione dell’incongruenza come regola cognitiva che permette di spiegare i singolari collegamenti. Nella lettura psicanalitica, l’u. viene interpretato come risparmio di energia emotiva e catarsi del represso. La tensione aggressiva, derivante dal crescente bisogno di controllo, darebbe vita alle battute di spirito, per cui l’u. sarebbe un processo di aggressività che tende alla catarsi (​​ Freud), o un atto di protezione o di difesa dalla realtà che scarica la tensione nell’u.​​ (J. C. Flugel).​​ Una recente interpretazione sostiene che l’u. si fonderebbe in sostanza sui paradossi della​​ ​​ comunicazione, specie non verbale, per cui sarebbe il dinamismo dell’inconscio a dar vita a manifestazioni inedite o singolari, che suscitano u.

3. Nella prospettiva educativa, il fenomeno u. non può essere riletto che assumendolo nella sua qualità pluridimensionale: vale a dire valorizzando insieme gli elementi contenutistici e funzionali, come quelli relazionali e di contesto. Senza dubbio però la valenza pedagogica dell’u. risiede in specie nel tipo di comunicazione e relazione che viene istituito, e in quel senso di​​ ​​ saggezza che riconcilia con se stessi, sintonizza piacevolmente con gli altri e umanizza insuccessi e responsabilità. Così nel suo stile contribuisce a educare al senso della realtà e della buona relazione con sé, con gli altri, con le cose e con Dio stesso, e risponde a una sfida educativa odierna che sollecita a costruire un rapporto vero e sensato, pieno di umanità.

Bibliografia

Grol-yahn M.,​​ Saper ridere, Milano, Longanesi, 1981; Fry W. F.,​​ Una dolce follia. L’u. e i suoi paradossi, Milano, Cortina, 2001; Bernardi M.,​​ Educazione e libertà, Milano, Fabbri, 2002.

G. B. Bosco




UNAMUNO Miguel de

 

UNAMUNO Miguel de

n. a Bilbao nel 1864 - m. a Salamanca nel 1936, filosofo e scrittore spagnolo.

1. Professore e rettore dell’Università di Salamanca, produsse un’abbondante opera letteraria in più campi: coltivò la poesia, il teatro, la novellistica, la saggistica, il giornalismo. Tra i suoi saggi si distinguono:​​ En torno al casticismo​​ (1895),​​ Vida de don Quijote y Sancho​​ (1905),​​ Del sentimiento trágico de la vida de los hombres y en los pueblos​​ (1913),​​ La agonía del cristianismo​​ (1931) e molte altre brevi novelle e opere teatrali. Dal punto di vista pedagogico è interessante la sua critica alla​​ ​​ pedagogia positivista del sec. XIX. Questa fece credere a molti che fosse sufficiente un’educazione «scientifica» per poter produrre geni e risolvere tutti i gravi problemi sociali fino allora irrisolti. Le coppie dovevano unirsi, non per amore, ma per seguire le leggi della biologia, disprezzando il sentimento personale come qualcosa d’irrazionale. Solo così sarebbe stato possibile migliorare la razza umana. Bastava una pedagogia scientifica per produrre contemporaneamente uomini felici e realizzati in campo sociale e personale. U. criticò queste false speranze nella sua novella​​ Amor y pedagogía, in cui ritiene, al contrario, che l’uomo non è un coniglietto d’India con cui si possono condurre esperimenti, bensì un essere libero nel quale l’amore, l’insoddisfazione e l’aspirazione per un infinito irraggiungibile sono caratteristiche della natura umana.

2. Il pensiero pedagogico di U. coincide con quello di​​ ​​ Giner in molti aspetti. Egli difende con forza l’uomo concreto, libero ed originale di fronte ai regimi autoritari, alla massificazione e alla spersonalizzazione, come del resto facevano le correnti politiche del suo tempo. La missione della pedagogia sarà una specie di «biberon psicologico», un «allattamento artificiale» dello spirito, che ha nell’amore il suo migliore alleato. La pedagogia non sostituisce la natura, ma l’appoggia; la sua missione è rendere gli uomini completi, cittadini liberi e coscienti. Apollodoro, protagonista e vittima della pedagogia scientifica di​​ Amor y pedagogía, è un pupazzo senza volontà, incapace di affrontare il proprio destino. La pedagogia gli ha impedito di essere uomo, la cosa più importante per un essere umano. Salvare l’uomo, liberarlo dalla schiavitù della macchina e della scienza, dell’arte e delle ideologie, dei partiti politici e di tutto quello che possa disumanizzarlo o sminuire la sua pienezza e integrità è la tesi difesa da U. in questa novella e in tutti i suoi scritti. Il fine dell’uomo è realizzarsi, giungere ad essere uomo completo, conoscendo i propri limiti e possibilità, dandosi agli altri fino ad essere unico e insostituibile, originale e irripetibile. «Concentrati per darti meglio agli altri tutto intero e indiviso». «Do quello che ho», dice il generoso. «Do quello che sono», dice l’eroe. «Do me stesso», dice il santo: sono frasi che riassumono abbastanza bene il pensiero del discusso U.

Bibliografia

Turin Y.,​​ M.d.U.​​ universitaire, Paris, SEU-PEN, 1962;​​ Delgado B.,​​ U. educador, Madrid, Magisterio Español,​​ 1973; Foresta G.,​​ U., Milano, Accademia, 1976; Leonardi L.,​​ Attualità di U., Padova, Liviana, 1976;​​ La Rubia Prado F.,​​ Una encrucijada española: ensayos sobre M. de U. y José Ortega y Gasset, Madrid, Biblioteca Nueva, 2005.

B. Delgado




UNITÀ DIDATTICA

 

UNITÀ DIDATTICA

Intervento didattico strutturato nei suoi obiettivi, contenuti, metodi e forme di​​ ​​ valutazione che si svolge in un periodo di tempo limitato. Si tratta in genere di un’ipotesi di esperienza di apprendimento, che può considerarsi sufficientemente articolata e completa nella sua strutturazione interna da poter essere facilmente tradotta nell’azione educativa scolastica.

1.​​ Origini del concetto. Il concetto di u.d. ha avuto la sua fortuna a partire dal cosiddetto Piano Winnetka, sviluppato negli Stati Uniti nel 1919. Elementi caratterizzanti l’organizzazione didattica del piano erano: a) la definizione degli obiettivi da raggiungere nell’apprendimento in termini di padronanza di conoscenze; b) l’articolazione del percorso in u. per ciascuna delle quali erano individuati non solo le conoscenze da acquisire ma anche i livelli di padronanza ritenuti indispensabili; c) la verifica, prima di passare all’u. successiva, che la gran maggioranza degli allievi, se non tutti, avevano raggiunto i livelli di padronanza individuati; d) interventi correttivi o integrativi, qualora fossero emerse incertezze, lacune o debolezze consistenti.

2.​​ Sviluppi successivi. B. Bloom nel 1968 rielaborò le idee del Piano Winnetka e dei pedagogisti degli anni venti e trenta, tenendo conto dei suggerimenti di Carroll circa la necessità di una differenziazione dei percorsi di apprendimento assegnando a ciascuno il tempo necessario per acquisire le nuove conoscenze. Cuore di questa impostazione era l’individuazione di obiettivi specifici determinabili da livelli di padronanza predeterminati e la predisposizione di una successione di u.d. al termine delle quali si verificava la padronanza raggiunta. Se non si era raggiunto un livello sufficiente di competenza occorreva, prima di passare alla fase seguente, intervenire al fine di colmare le lacune o le debolezze riscontrate. È l’impianto metodologico caratterizzante il cosiddetto​​ ​​ mastery learning o metodo d’apprendimento per la padronanza.

3.​​ Articolazioni di una u.d. Le fasi fondamentali nelle quali si struttura un’u.d. possono essere così specificate: a)​​ Fase iniziale o di innesco. Deve essere messo in moto il processo di apprendimento, cioè si devono attivare le energie personali, dirigerle verso un compito sufficientemente chiaro e definito e operare un valido collegamento tra gli elementi fondamentali dell’u.d. e la struttura conoscitiva e operativa già posseduta dall’allievo. b)​​ Fase centrale o dialogica. Si deve provocare un’incorporazione attiva del materiale didattico: fornendo con progressività ed efficacia gli elementi del contenuto di apprendimento; controllando tale incorporazione quanto alla sua validità, completezza e applicabilità; sostenendo l’attenzione e lo stato di motivazione all’apprendimento. c)​​ Fase conclusiva. Ha un triplice scopo: informare circa il raggiungimento o meno della incorporazione significativa del materiale di apprendimento (evidenziando eventuali lacune o errori); aiutare a consolidare tale incorporazione sia dal punto di vista della ritenzione sia da quello della completezza e correttezza; favorire l’utilizzazione del materiale appreso in contesti diversi da quelli già incontrati (​​ transfer dell’apprendimento).

Bibliografia

Washburne C. W.,​​ Le scuole di Winnetka, Firenze, La Nuova Italia, 1952; Id.,​​ Winnetka: storia e significato di un esperimento pedagogico, Ibid., 1960; Block J. H. (Ed.),​​ Mastery learning: procedimenti scientifici di educazione individualizzata, Torino, Loescher, 1972; Block J. H. - L. W. Anderson,​​ Mastery learning in classe, Ibid., 1978; Bloom B. S.,​​ Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, Roma, Armando, 1979; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica, Torino, SEI,​​ 21994; Tenuta U.,​​ Individualizzazione. Autonomia e flessibilità dell’azione educativa e didattica, Brescia, La Scuola, 1998.

M. Pellerey




UNIVERSITÀ

 

UNIVERSITÀ

La sua origine risale al XII sec. nella forma della corporazione,​​ universitas, degli studenti a Bologna o dei docenti a Parigi (​​ Medioevo,​​ ​​ Scolastica). Le attuali u. si caratterizzano per una serie di tratti comuni: status formale di u.; diritto di conferire titoli; livello di ricerca in generale superiore alle altre istituzioni di​​ ​​ istruzione superiore; corsi di 1°, 2° e 3° ciclo; organizzazione pluridisciplinare e pluridipartimentale; subordinazione dell’accesso al conseguimento almeno del diploma della secondaria superiore.

1.​​ L’u. nei Paesi sviluppati. Benché già negli anni ’70 del sec. scorso si sia raggiunto il traguardo dell’u. di massa, tuttavia l’ammissione​​ continua ad essere un problema anche se meno acuto che per il passato. In proposito nei vari Paesi esistono tre tipi di politiche: alcuni adottano il «numerus clausus» che prevede certi tetti nell’accesso, altri seguono un modello aperto per cui tutti i diplomati della secondaria superiore possono iscriversi, altri ancora utilizzano forme miste secondo le specializzazioni ed è la formula più seguita. In connessione con questa situazione, negli anni ’60 e ’70 si è assistito allo sviluppo di un settore non universitario di istruz. superiore, che nel tempo è cresciuto in misura sempre più consistente. La ricerca dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso ha dato a un numero maggiore di giovani capaci dei ceti più bassi la possibilità di proseguire gli studi all’u. ed è anche alla base della crescita spettacolare della partecipazione delle donne. È pure aumentato il numero degli allievi a tempo parziale e si è registrata un’espansione quantitativa degli adulti; le u. sembrano aver assunto ormai stabilmente la funzione dell’educazione permanente e degli adulti, accanto a quelle tradizionali della formazione iniziale delle classi dirigenti e della ricerca. Passando ai​​ curricoli, recentemente si è assistito a un maggior sviluppo di corsi professionalizzanti. Nella grande maggioranza dei Paesi gli studi di dottorato sono di competenza esclusiva delle u. A partire dagli anni ’70 del sec. scorso è incominciata una graduale crescita degli iscritti ai corsi di tipo «masters» che stanno registrando attualmente una forte espansione: infatti essi offrono una preparazione professionale superiore e, a seconda dei Paesi, possono anche aprire la via al dottorato. Recentemente all’insegnamento tradizionale si stanno affiancando – o lo stanno sostituendo – strategie didattiche innovative quali: la centralità del lavoro apprenditivo dello studente; l’introduzione generalizzata delle attività formative, oltre alla lezione frontale; l’attenzione alle possibili ricadute operative; la ricerca di una valutazione formativa continua e integrata; l’intenzionalità pedagogica di un rapporto studente-docente più personalizzato; la necessità di più spazi, attrezzature, in particolare informatiche e telematiche, servizi, personale intermedio per il lavoro dello studente. Nel campo della ricerca sono diminuite le sovvenzioni statali e le autorità hanno sollecitato il settore privato a intervenire. Più in generale è cresciuto il legame dell’u. con i contesti territoriali. In linea di massima i laureati godono di opportunità di lavoro più elevate dei giovani che possiedono titoli di studi inferiori, benché non siano preservati dalla disoccupazione; al tempo stesso essi tendono talora a essere occupati in lavori che un tempo erano svolti dai diplomati della secondaria superiore. Un problema fondamentale in questo campo consiste nell’adeguare i curricoli alle domande del mercato di lavoro. Il tema della qualità ha assunto negli anni ’90 un posto centrale, mentre la decade ’60 era dominata dalla preoccupazione dell’espansione quantitativa e gli anni ’70-’80 dalla prospettiva dell’eguaglianza e della partecipazione. Per l’effetto dell’avvento della società della conoscenza e delle esigenze di consolidamento dell’u. di massa, la determinazione degli obiettivi e delle funzioni è in parte sfuggita al controllo degli organismi rappresentativi del corpo docente per passare alle autorità pubbliche. Da ultimo va ricordato che sul piano dell’innovazione ha assunto recentemente un significato emblematico il​​ ​​ Processo di Bologna​​ che i Paesi dell’​​ ​​ Europa stanno realizzando dal 1999 al fine di arrivare a riforme convergenti dell’u.

2.​​ L’evoluzione recente in Italia. Dopo la creazione dello Stato unitario il sistema universitario è stato organizzato prima dalla L. Casati (1859) e poi dalla riforma​​ ​​ Gentile (1923); nonostante il liberalismo moderato della prima e alcuni aspetti progressisti della seconda, il​​ centralismo​​ è stato sempre forte. La Costituzione repubblicana ha sancito il diritto delle u. di darsi ordinamenti autonomi; tuttavia, l’adeguamento a questa svolta, come alle istanze emergenti dalla società, è stato molto lento e la contestazione giovanile ha rappresentato la manifestazione più vistosa di un diffuso disagio per tali ritardi. Negli anni ’80 è stata avviata l’opera di​​ modernizzazione. Con la L. n. 382 / 80 la funzione docente è articolata nelle due categorie degli ordinari e degli associati anche secondo modalità di impegno effettivo e viene avviata la sperimentazione del​​ ​​ dipartimento per cui la facoltà cessa di essere la struttura fondamentale dell’u. e si crea una distinzione netta fra l’organizzazione della ricerca (dipartimenti e istituti) e dell’insegnamento (corsi di laurea e facoltà). La L. n. 168 / 89 che istituisce il Ministero dell’u. e della ricerca scientifica cambia il ruolo determinante svolto fino a quel momento dallo Stato nei confronti delle u. in quanto per la prima volta è attribuita a ciascuno di essi la facoltà e l’obbligo di formulare autonomamente i propri statuti e regolamenti. Per effetto della L. di riforma degli ordinamenti didattici universitari n. 341 / 1990 i titoli rilasciati dalle u. diventano quattro perché alla laurea tradizionale, alle specializzazioni e al dottorato di ricerca si viene ad aggiungere il diploma universitario che mira a formare delle professionalità intermedie. Con questa L. vengono anche avviate modifiche sostanziali sul piano metodologico: tra l’altro, ogni studente potrà contare su un professore, il tutore, che lo aiuterà non solo nell’orientamento iniziale, ma durante tutto il percorso formativo. Nonostante ciò, l’u. continua a soffrire di gravi disfunzioni che possono essere identificate nell’elevata percentuale di studenti fuori corso, negli alti tassi di abbandono degli studi prima del conseguimento del titolo e nel numero di laureati estremamente basso in relazione agli iscritti. A questi problemi intende dare risposta il decreto ministeriale n. 509 / 99. Infatti, esso si propone le seguenti mete: diminuire i tempi per il conseguimento dei titoli, riducendo la consistenza degli abbandoni e abbassando l’età media di accesso del laureato al mondo del lavoro; integrare conoscenze culturali e competenze professionali mediante tra l’altro il riordino delle classi dei corsi di laurea, l’introduzione di esperienze pratiche e il ricorso ad un’offerta formativa interdisciplinare; delineare un iter formativo distribuito su più livelli, in particolare quelli di laurea e di laurea specialistica e i master, mirato tra l’altro a promuovere l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita; facilitare la mobilità orizzontale e verticale degli studenti sia sul piano nazionale che su quello internazionale (come in particolare con i programmi​​ ​​ Erasmus), attraverso l’introduzione del sistema dei crediti; adeguare l’offerta formativa alle esigenze del contesto socio-economico e culturale. Con la​​ recente riforma​​ l’u. italiana si è resa più flessibile, prevedendo la laurea dopo tre anni e la laurea magistrale in seguito ad un ulteriore ciclo di due anni. Inoltre, il rinnovamento contempla lo spostamento del baricentro del processo di insegnamento-apprendimento verso lo studente e l’apprendimento; nella medesima direzione va anche l’attribuzione di nuove funzioni al personale insegnante, in particolare nell’orientamento e nel tutorato. A ciò si aggiunge la tendenza verso una maggiore autonomia delle u. Nello stesso tempo, la riforma si è scontrata con l’autoreferenzialità del mondo universitario; l’autonomia non ha camminato sufficientemente; anche le innovazioni in tema di valutazione sono state parziali. Nonostante le problematiche appena richiamate, la riforma sta incominciando a dare i primi risultati positivi, anche se il panorama continua a presentare molteplici ombre.

Bibliografia

Delors J. et al.,​​ L’éducation.​​ Un trésor est caché dedans, Paris, Editions Unesco / Editions Odile Jacob,​​ 1996; Associazione Treelle,​​ U. italiana,​​ u. europea, Quaderno 3 (2003) 8-182; Elevati C. - F. Lanzoni,​​ 3+2=La nuova u., Milano, Alpha Test, 2004; Malizia G. (Ed.),​​ Pedagogia e didattica universitaria dopo la riforma, in «Orientamenti Pedagogici» 51 (2004) 749-956; Balloni A. et al. (Edd.),​​ La riforma universitaria nella società globale, Milano, Angeli, 2005; Censis,​​ 40° Rapporto sulla situazione sociale del paese 2006, Ibid., 2006.

G. Malizia




UOMO immagine / modelli

 

UOMO: immagine / modelli

All’u. e a ciò che è tipico dell’u., l’«umano», oggi si tende a riferirsi, al di là delle differenze culturali ed ideologiche (​​ diritti umani), come in passato allo Spirito, all’Idea, al Progresso, alla Scienza, alla Società, all’Ideologia.

1. Agli inizi del sec. XX, L.​​ ​​ Laberthonnière scriveva: «L’idea che ci si fa dell’educazione e del compito dell’educatore dipende evidentemente dall’idea che ci si fa dell’u. e del suo destino» (Laberthonnière, 1958, 3). La vita e la crescita umana sono individuate, per tanti versi irripetibili e singolari, all’interno di comunità e di processi storici datati. Peraltro esse si aprono a forme partecipate di comune umanità (esprimibile ad es. in termini di corporeità, razionalità, libertà, spiritualità, amore, comunione, soggettività storica, intersoggettività, socialità, apertura alla trascendenza). Tali aspetti indicherebbero il perimetro delle possibilità soggettive e relazionali ed insieme gli aspetti universali dell’individuo, da portare a congruo livello nei processi di sviluppo attraverso l’educazione

2. Ma il significato di u. e di umano dipende molto dalle idee (cioè dai concetti, dalle immagini, dalle rappresentazione mentali, dalle visioni, dalle prospettive) che si hanno a riguardo, individualmente e socialmente. Con esse indichiamo ciò che crediamo l’u. sia e debba essere, ma insieme anche ciò che vogliamo che sia. Spesso sono più a livello implicito che esplicito. Molte volte sono cariche di pregiudizi etnocentrici. In molta letteratura antropologica (relativa allo studio sull’u.) l’umanità è ancora misurata sull’u. maschio, bianco, adulto, moderno e civilizzato, sano, ricco e di successo. L’età moderna ha accentuato la centralità e le capacità di trasformazione dell’u. nel cosmo e nella storia, grazie alla sua razionalità scientifico-tecnica e all’azione economico-politica. Oggi queste prospettive sono piuttosto in crisi. Si parla per questo di «fine della modernità» e di​​ ​​ «post-modernità». Ma non c’è troppo consenso in proposito.

3. Peraltro il dibattito attuale sottolinea, a suo modo, la complessità, contraddittorietà, unità, storicità e trascendenza, che l’u. e l’umano manifestano; e di cui possono essere espressione i diversi tentativi di determinazione per aspetti complementari (io / me; essere / coscienza; oggettività / soggettività; essenza / esistenza; u. / universo; individuo / società; libertà / necessità; materia / spirito; temporalità / eternità; anima / corpo, problema / mistero, immanenza / trascendenza, ecc.). Ne segue la legittimità del pluralismo delle affermazioni antropologiche (specie per ciò che riguarda i «modelli» d’u., vale a dire le costruzioni teoriche, organizzate attorno ad un’idea-chiave o ad un valore centrale o secondo una specifica prospettiva sull’u.); come pure il limite del​​ ​​ riduzionismo antropologico. Ciò è particolarmente vero in sede educativa, dove ad una concezione riduttiva dell’u. è facile che faccia da corrispettivo una concezione ristretta della formazione e dell’educazione.

4. All’interno del pluralismo delle immagini e dei modelli d’u., si pongono quelle prospettive antropologiche, esse stesse pluralistiche, che danno particolare risalto alla dimensione spirituale e religiosa. Pur nella diversità delle indicazioni, esse sottolineano per un verso il senso del limite e della fragilità umana (la «canna pensante» di B. Pascal), ma per altro verso evidenziano una profonda aspirazione ad «essere di più» (Mounier), e, in chiave cristiana, ad una vita vissuta sotto l’azione vivificante e trasformante dello Spirito di Dio. Esso è sentito presente ed operante nel mondo e visto come principio ed energia vitale che spinge a vivere «secondo Dio», come esseri in relazione personalissima con Dio, ma anche come comunità di credenti e come popolo sacerdotale e profetico, chiamato a rendere visibile nel mondo l’amore creante e redentore di Dio; a ricreare il proprio io secondo lo Spirito di Dio (s. Tomm. d’Aq.,​​ De virtutibus, q. 1, a. 10); a ricercare «prima di tutto» il Regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6, 25-33), nell’«attesa di cieli nuovi e terra nuova in cui abiterà definitivamente la giustizia» (2 Pt 3,13). In tale prospettiva, la stessa vita morale, prima che una adeguazione a norme o principi o alla ricerca comportamentale del «dovere per il dovere», viene ad essere in primo luogo un vivere profondamente la relazione con Dio e nella luce di essa ricercare il giusto rapporto con gli altri, con le cose, con il mondo, con il tempo, adeguando il proprio amore all’essere di ciascuna realtà. Nella consapevolezza di essere partner di un’«alleanza con Dio» e cristianamente di essere «figli nel Figlio», l’impegno, la celebrazione, la​​ ​​ liturgia, la preghiera, l’invocazione, l’ascesi, le «opere di misericordia» (come si esprime la tradizione caritativa cristiana) diventano le forme con cui l’u. spirituale esprime la sua esistenza. Essa è fortemente segnata dalla «sacramentalità», vale a dire dalla costante coniugazione di visibilità e di mistero, di concretezza e di idealità, di impegno e di invocazione, di inserzione storica e di apertura all’eterno. Un certo divario rispetto alla stessa storia cristiana, manifesta subito il carattere ideal-utopico ma anche decisamente critico, di tali prospettive rispetto a pratiche e modelli concreti di vita, di cultura, di civiltà: a cominciare da quella occidentale moderna e contemporanea, laica e ecclesiale-cristiana.

5. Per parte sua l’approccio pedagogico mette in particolare rilievo il divenire del mondo e dell’u., l’emergenza della libertà pur tra determinismi e accidentalità o casualità; come pure la radicale capacità di costruttività dell’u. nell’interazione con l’ambiente e nei confronti della sua stessa esistenza, che secondo una pedagogia religiosamente e cristianamente ispirata, si apre anche ad una vasta relazionalità con Dio che risignifica la stessa vita personale e quella associata. In tal senso si può parlare di una​​ ​​ antropologia pedagogica, cioè di un modo specifico di pensare l’u. a partire dalla fondamentalità dello sviluppo e della formazione umana, insieme dato e compito, fatto naturale ed evento storico entro quadri spazio-temporali, di insostituibile individualità e di apertura universalistica. A questo scopo non è probabilmente sufficiente riferirsi e utilizzare solo approcci di tipo scientifico e teoretico, ma anche altri di tipo biografico-storico; ed allo stesso tempo occorrerà tener conto anche delle indicazioni che si possono ricavare dall’esperienza comune e diretta, dalla tradizione socio-culturale: proprio ed in quanto sono per tanti versi più vicine all’u. «vivente», a cui si rivolge l’educazione. In effetti, dal punto di vista pedagogico il referente ultimo è l’«u. reale» (l’u. come effettivamente, storicamente e contestualmente è), anzi normalmente il ragazzo reale, non in primo luogo l’idea di u. e neppure la natura umana o l’u. in generale: queste diventano piuttosto l’orizzonte di senso e l’istanza critica entro cui si dovrà muovere l’azione educativa. In questa linea sembra che sia possibile affermare che l’approccio pedagogico, mentre privilegia la dimensione evolutiva e relazionale dell’esistenza, spinge anche a porsi in una prospettiva dinamica ed impegnativa della vita umana. È su questa base che, a partire dalle situazioni storico-concrete, sarà possibile mostrare la «necessità morale» di interventi educativi per una promozione, formazione e qualificazione umanamente degna, nella diversità delle differenze individuali, delle diverse età della vita e delle molteplici situazioni vitali, specie oggi in un mondo multiculturale e globalizzato.

Bibliografia

Laberthonnière L.,​​ Teoria dell’educazione, Brescia, La Scuola. 1958 (orig.: 1901); Cassirer E.,​​ Saggio sull’u., Roma, Armando, 1972; Gevaert J.,​​ Il problema dell’u., Leumann (TO), Elle Di Ci, 1978; Gehlen A.,​​ L’u., Milano, Feltrinelli, 1990; Nanni C.,​​ II mistero dell’u., Bologna, Dehoniane, 1988; Id.,​​ Antropologia pedagogica, Roma, LAS, 2002; A; Petagine A.,​​ Profili dell’umano, Milano, Angeli, 2006; Cassese A.,​​ I diritti umani oggi, Roma / Bari, Laterza, 2007.

C. Nanni




UTOPIA

 

UTOPIA

Dal gr.​​ ou​​ (non) e​​ tópos​​ (luogo); letteralmente «non luogo», «luogo che non esiste». Così Tommaso Moro (1480-1535) intitolò la sua opera, che descriveva uno stato ideale dove vigeva una perfetta uguaglianza economico-giuridica.

1. Il pensiero utopico costituisce un filone che esprime la radicale nostalgia umana per situazioni vitali desiderate o per speranze di forme di vita considerate rispondenti alle aspettative umane profonde, disattese dagli assetti sociali esistenti. In tal senso gli scritti utopici si presentano come suggestioni o progetti ideali per un futuro «a misura umana». L’attuale clima di «tramonto delle ideologie» e delle grandi narrazioni relative al senso globale della vita, fa parlare anche di «fine dell’u.». Del resto già nel corso della storia si sono avute forme di «anti-u.» (o «distopia») in nome di una razionalità aderente ai fatti e contro fughe in vagheggiamenti irreali. Peraltro è noto come K. Mannheim (nel suo saggio del 1929,​​ Ideologia e u.) distingueva u. da​​ ​​ ideologia. Rispetto a questa l’u. è tipica delle classi in ascesa, è presa di coscienza, denuncia di ingiustizia e anticipazione di una nuova società. In ogni caso l’u. spesso manifesta in forma radicale e semplificata problemi reali o ipotesi anticipatrici da assoggettare a controllo scientifico; e per altro verso esprime «il di più» e «l’oltre» che la scienza stessa suggerisce.

2. Nella letteratura utopica l’educazione gioca sempre un ruolo primario anche se per lo più ridotta a formazione del cittadino o peggio a conformazione ai modelli utopici di vita proposti. In tal senso, A. Huxley, nel suo​​ Il mondo nuovo, assimilava le indicazioni educative degli utopisti al condizionamento dei comportamentisti più rigidi. Tuttavia è interessante notare che nei saggi utopici l’ ​​ educazione è vista per lo più come fatto globale, non solo scolastico, opera della comunità intera in tutte le sue componenti ed espressioni di vita (abitazioni, relazioni sociali, vita quotidiana, lavoro, studio, sport, gioco, discussioni) e concomitante a tutta la vita, non solo nella giovinezza. In tal senso i saggi utopistici anticipano concetti tipici della pedagogia contemporanea (​​ educazione permanente, educazione formale, non formale e informale, società educante, l’educazione «al femminile»).

3. Tra le u., converrà ricordare quelle più direttamente pedagogiche: prima tra tutte l’Emile​​ di​​ ​​ Rousseau (il cui radicale spontaneismo naturalistico non è però senza una pianificazione globale della formazione) e sul fronte opposto l’anti-u. di​​ Walden Two​​ di​​ ​​ Skinner (in cui il futuro dell’umanità è affidato ad un ferreo condizionamento del comportamento).

Bibliografia

Colombo A. (Ed.),​​ U. e distopia, Milano, Angeli, 1987; Kumar K.,​​ U. and anti-u. in modern times, Oxford, Blackwell, 1991; Fest J.,​​ Il sogno distrutto: la fine dell’età delle u., Milano, Garzanti, 1992; Habermas J.,​​ Dopo l’u., Venezia, Marsilio, 1992; Di Sante C.,​​ La rinascita dell’u.,​​ Roma,​​ Edizioni Lavoro,​​ 2000; Servier J.,​​ Storia dell’u., Roma, Edizioni Mediterranee, 2002; Comparato V.,​​ U., Bologna, Il Mulino, 2005;​​ Iglesias M. del C.,​​ Razón, sentimiento y utopía, Barcelona, Galaxia​​ Gutenberg, 2006.

C. Nanni




VALORI

 

VALORI

Il discorso dei v. è tra quelli più comunemente assegnati ad una​​ ​​ filosofia dell’educazione o ad una meta-teoria di essa (​​ pedagogia), nel loro riflettere sul quadro di riferimento ideale dell’agire educativo in genere e sul senso dell’istruzione pubblica in particolare. Nel contesto attuale, segnato dal pluralismo, dall’innovazione, dalla secolarizzazione, dalla crisi, dal​​ ​​ relativismo, dalla perdita di​​ ​​ senso e di oscuramento dei sistemi di significato, dalla ripresa di posizioni fondamentalistiche, c’è una rinnovata attenzione al discorso dei v. e dell’educazione ad essi.

1.​​ Il v. e i v.​​ Il termine v. proviene dal mondo economico, dove sta ad indicare il prezzo dovuto all’uso, al potere di scambio, al lavoro, alle materie prime, ecc. (cfr. il termine gr.​​ axía​​ = prezzo, costo). In senso derivato viene riferito all’ambito della morale (l’etica, il bene, il fine ultimo dell’azione). Ma il termine è diventato di uso comune, nel corso del XX sec., con la cosiddetta «filosofia dei v.» ad opera di autori come H. Rickert, F. Nietzsche,​​ ​​ Weber, M. Scheler, N. Hartmann. Con esso si viene per solito ad intendere: a) la qualità di una persona o cosa in quanto oggetto di apprezzamento («aver v.»); b) persona o cosa o categoria astratta che è degna di apprezzamento («essere un v.»); c) una dignità ed eccellenza che si pone come una sorta di ideale assoluto. In quest’ultimo significato, v. viene ad essere non solo principio di giudizio, ma anche fonte di emozione e principio di azione. Allo stesso tempo richiama un’idea, suscita un impegno, spinge ad agire (cfr. l’aggettivo gr.​​ áxios, degno, stimabile: da cui il termine «assiologia», e «assiologico» detto per tutto ciò che concerne lo studio relativo al mondo dei v.). Al plurale sta per ideali, per idee-forza, che si propongono come umanamente degni in sé ed umanizzanti nella loro attuazione.

2.​​ Per una concezione pedagogica del v.​​ Il v. può essere considerato da quattro versanti (o polarità): a) in sé e per sé, come eccellenza astratta (ad es., amicizia, amore, bellezza, utilità, verità, giustizia); b) come realtà valida (i cosiddetti «beni», ad es. un’opera d’arte, un atto di giustizia, un’affermazione vera); c) come preferenza soggettiva (aspirazioni, bisogni, desideri soggettivi per qualcosa che si considera buono, bello, grande, vero); d) come determinazione storico-culturale di v. (i cosiddetti sistemi di significato o quadri di v. propri di un gruppo, di un popolo o di una determinata epoca storica). Le diverse classificazioni dei v. costituiscono un tentativo di chiarire il panorama vasto e non facilmente generalizzabile del mondo dei v., proprio perché si accentua o l’uno o l’altro versante o polarità o perché nel momento dell’attuazione vengono a conflitto l’uno con l’altro. In rapporto all’educazione può essere interessante considerare la questione in una prospettiva relazionale-dinamica. Secondo questo modo di vedere, il luogo del v. è il rapporto interattivo e storico tra un soggetto ed altri soggetti; tra persone e cose; tra individualità ed ambiente; tra passato, presente e futuro; tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; tra naturale e culturale; tra fattuale e possibile; tra attuale e futuribile; tra immanente e trascendente. Si viene a parlare propriamente di v. quando questa relazione innanzitutto è avvertita e più o meno coscientemente è accolta e giudicata «significativa», cioè denotativa di qualcosa che si fa apprezzare perché corrisponde alle esigenze ed alle possibilità di «un di più di umanità» per tutte le parti che entrano nella relazione. All’alba del v. ci sarebbe, infatti, la sensazione, vissuta o cosciente, che nell’apertura agli altri, nel mondo e nella storia, e magari all’Altro (presente e trascendente il mondo e la storia) sia dato intravedere la possibilità di realizzare un di più di umanità, per sé e per tutti, e una riqualificazione del mondo e della storia stessa. Dal punto di vista dei soggetti il v. indicherebbe la possibilità di qualificare umanamente e dare un​​ ​​ senso alla propria esistenza. Parimenti, nella luce del v., si mostrerebbe il ruolo attivo, ricostruttivo e creativo che il soggetto ha nella vita dell’universo, e d’altra parte il ruolo che il mondo storico, fisico e sociale, ha nei confronti del soggetto in ordine al realizzarsi di qualcosa che va oltre il loro attuale incontrarsi e stimolarsi. In tal modo c’è nell’affermazione del v. un aspetto che è sia trans-soggettivo sia trans-oggettivo, pur qualificando l’uno e l’altro e la relazione storica stessa. Con ciò si spiega lo scarto tra fatto e v.; ma anche il fatto che l’esperienza di v. si pone più nell’ordine della scoperta che dell’invenzione. Di per sé, nel giudizio di v. non c’è iscritta l’attuazione concreta. C’è però un appello di realizzazione, sotto il segno della reciprocità e responsabilità relazionale. Così è in particolare in ambito educativo. Perché si realizzi la crescita personale e comunitaria, e la buona qualità della vita personale, che sono i v. supremi dell’educazione, si richiede una «decisione per» ed un impegno da parte di tutti coloro che sono all’interno del processo formativo. Ma prima ancora occorre darsi da fare perché si diano la «piattaforma della comunicazione educativa», i supporti e le strategie medianti e facilitanti il gioco dinamico del​​ ​​ rapporto educativo, lavorando sui mezzi in vista di ciò che si pone come fine.

3.​​ Il v. della formazione. Secondo alcuni la​​ ​​ formazione, l’​​ educazione, l’​​ ​​ insegnamento, l’​​ ​​ addestramento sarebbero intrinsecamente un v., in quanto volti a sviluppare e promuovere uno stato desiderabile in coloro che sono in formazione. L’​​ ​​ apprendimento non è un fatto meccanico. La​​ ​​ comunicazione per essere efficace richiede che sia colta come significativa, vale a dire rispondente ad esigenze di sviluppo intellettuale, culturale e globalmente personale. Nell’insegnamento l’informazione è sorretta dalla motivazione e fa appello alla libertà dell’alunno perché, cogliendo la validità dell’informazione, comprenda che vale la pena d’impegnarsi ad interiorizzarla e a farla propria. La formazione culturale e professionale acquista il suo significato nel contesto di un’integrale umanizzazione personale e non si riduce ad un apprendimento specialistico o ad un addestramento puramente tecnico ed abilitativo. Infatti l’esperienza della formazione mostra in sé non solo la richiesta d’informazioni utili o l’acquisizione di abilità consolidate o di competenze di ruolo, ma anche l’istanza di sostegno alla crescita personale in libertà, responsabilità e solidarietà, l’attesa di relazioni significative, l’aspettativa di un vivace inserimento nel mondo sociale e professionale, nella prospettiva di una cura permanente di sé e del mondo in cui si vive. In tal senso l’educazione nella sua globalità si esprime come un’iniziazione a conoscenze, abilità, atteggiamenti, forme di vita che si considerano intrinsecamente valide e protese verso livelli superiori di completezza umana. Ma non tutti sono d’accordo su tale intrinseca validità dell’educazione. Non solo essa può essere strumentalizzata, ma può anche mortificare irrimediabilmente la spontaneità e la creatività personale. Inoltre la trasmissione di contenuti di v. potrebbe non sottrarsi a forme di ideologizzazione sottomissiva ed alienante. Per tal motivo nella tradizione pedagogica ad un’educazione «materiale» (vale a dire un’educazione focalizzata su quelli che erano considerati i contenuti di verità e di v. del patrimonio sociale di cultura) si contrapponeva un’educazione «formale» (vale a dire un’educazione focalizzata sulla formazione delle capacità, degli atteggiamenti, delle abilità, del senso critico). Ma forse, queste contrapposizioni manifestano più che altro le difficoltà concrete ed intrinseche all’educazione, e mettono in luce le diverse concezioni di​​ ​​ uomo e di​​ ​​ libertà, che si hanno di fronte nell’educare. In tutti i casi resta il v. promozionale e umanizzante della formazione.

4.​​ La scuola e i v.​​ Una tale problematica valoriale si riflette in modo specifico in ambito scolastico. Le questioni sono fondamentalmente di due tipi: la prima, se la scuola debba educare ai v.; la seconda, quali ne debbano essere le forme curricolari, le strategie di insegnamento e di apprendimento. C’è chi considera l’introduzione dei v. nella scuola una turbativa dell’apprendimento ed una forma di indottrinamento e perciò chiede che siano tenuti lontani da essa in nome della libertà degli alunni, della laicità della scuola, della rigorosità ed efficacia dell’apprendimento, del pluralismo sociale. La scuola dovrebbe limitarsi ad una solida istruzione, vale a dire ad una formazione intellettuale basata sulla trasmissione e l’acquisizione competente degli aspetti più universali del conoscere e della cultura. Per converso altri evidenziano il fatto che la neutralità educativa della scuola è illusoria. I v. sono presenti almeno a livello di «curricolo nascosto». La cultura scolastica è già di per sé una selezione del patrimonio sociale di cultura secondo criteri di validità, pertinenza, adeguatezza e significatività formativa. Le compromissioni che si riscontrano nei programmi e nelle iniziative legislative sulla scuola sono, a loro modo, conseguenze delle diverse immagini d’uomo, dei progetti-società e delle concezioni di umanità e di civiltà che i legislatori hanno in mente. In tal senso si può dire che sullo sfondo delle discussioni e delle decisioni di politica scolastica c’è sempre, almeno implicitamente, una referenza valoriale, seppure diversificata. Allo stesso modo si afferma che non si può schivare la responsabilità educativa della docenza e della scuola come istituzione sociale: nel bene e nel male. L’​​ ​​ indottrinamento sarà evitato se l’insegnamento sarà realmente tale, cioè offerta chiara, motivata e critica di quel tanto di informazioni e strategie d’apprendimento che permettano non solo di apprendere, ma anche di continuare a ricercare e ad istruirsi da sé in libertà. Inoltre si ribadisce che i pericoli non vengono solo dalla «dottrina», ma anche dall’assenza d’insegnamento, che lascia la gente in balia dei propri pregiudizi o di un falso sapere; oppure viene da un insegnamento troppo rapido o troppo specializzato, che abbandona la formazione dello spirito per limitarsi a selezionare e a fabbricare degli «attrezzi» umani, abili in prestazioni meccaniche e tecniche, ma poveri di quella competenza umana che permette di partecipare a pieno diritto e con tutti i titoli alla vita comunitaria. Più specificamente in questi ultimi anni alla scuola si è chiesto di fare opera di iniziazione soprattutto a quelli che sono detti «i nuovi v.»: lo sviluppo, l’ecologia, i diritti umani, la mondialità, l’internazionalità, la cooperazione, la solidarietà, la pace, la salute, ecc. In particolare si è posta come finalità peculiare della scuola l’educazione alla convivenza civile democratica, al fine di porre le basi conoscitive, emotive e comportamentali di una «morale pubblica» in un quadro di pluralismo, di complessità e di cambio socio-culturale. Anche in molte altre nazioni occidentali a regime liberale democratico, in alternativa o indipendentemente dall’insegnamento scolastico della religione, sono proposte forme di educazione morale e / o di educazione ai v., sotto forma di disciplina autonoma o di moduli didattici disciplinari e interdisciplinari, magari sostenute da attività formative extra-curricolari. In ambienti anglosassoni si sono pure sviluppate metodologie che hanno avuto un certo seguito. Tra esse giova ricordare la metodologia del​​ Set-of-Values, corrispondente ad un’educazione sociale attraverso l’insegnamento, lo stile dell’insegnamento, l’organizzazione e il clima scolastico di quei v. comunitariamente condivisi e considerati essenziali alla vita sociale (come il primato e la protezione della vita umana, la difesa della sopravvivenza umana, il rispetto della diversità culturale, la tutela dell’ambiente, la giustizia, la libertà, l’uguaglianza). Una seconda è quella denominata​​ Value analysis, che si serve del ragionamento, della riflessione e della discussione di gruppo per evidenziare le implicazioni possibili di differenti scelte pratiche. Entrambe diventano problematiche quando si voglia arrivare a consensi generalizzati e ad indicazioni di v. o di norme in qualche modo universali. In questa linea qualche decennio fa ebbe una certa diffusione, negli ambienti di lingua inglese, la cosiddetta​​ Value clarification, che non pretende questo orientamento normativo, ma solo abituare gli alunni ad esplicitare i criteri personali di giudizio che stanno alla base delle scelte personali. Ma il​​ ​​ relativismo valoriale e morale non viene superato; per tal motivo altri si sono rifatti alla teoria dello sviluppo morale di​​ ​​ Kohlberg per aiutare gli alunni a passare da giudizi morali eteronomi e particolaristici ad altri autonomi ed universalistici. Ma anch’essa non sembra essere esente da questioni più generali che vengono a riflettersi in questa sede: la concezione della libertà e della vita associata, il relativismo culturale e l’universalismo morale, l’ipoteticità e la normatività del conoscere in genere e di quello scientifico in particolare. A livello operativo può essere interessante il riferimento ai principi e ai v. che si ispirano e / o sono espressi nelle Costituzioni nazionali, nelle Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo e del fanciullo, in quanto permettono la condivisone ideale e la convergenza pratica nel pluralismo delle giustificazioni teoriche, delle concezioni filosofiche, dei credo ideologici o religiosi particolari o di gruppo (e conseguentemente nel dialogo / dibattito attorno ad essi).

Bibliografia

Peters R. S.,​​ Etica e educazione, Roma, Silva e Ciarrapico, 1973; Sloan D. (Ed.),​​ Education and values, New York, Teachers Coll.​​ Press, 1980; Morin L. - A. Adan (Edd.),​​ L’école et les valeurs, Quebec, Fleury, 1981; Massa R.,​​ Educare o istruire?, Milano, Unicopli, 1987; Cummings W. - Y. Tomod (Edd.),​​ Values education, London, Pergamon Press, 1988; Galli N. (Ed.),​​ Quali v. nella scuola di Stato, Brescia, La Scuola, 1989; Santelli Beccegato L. (Ed.),​​ Bisogno di v., Ibid., 1991; Dalle Fratte G. (Ed.),​​ Fine e v., Roma, Armando, 1992;​​ Houssaye J.,​​ Les valeurs à l’école. L’éducation aux temps de la sécularisation, Paris,​​ PUF, 1992; Reboul O.,​​ I v. dell’educazione, Milano, Ancora, 1995; Boudon R.,​​ Declino della morale? Declino dei v.?, Bologna, Il Mulino, 2003; Mapelli B.,​​ Nuove virtù, Milano, Guerini, 2004; Andreoli V.,​​ Principia. La caduta delle certezze, Milano, Rizzoli, 2007.

C. Nanni




VALORI PROFESSIONALI

 

VALORI PROFESSIONALI

I v.p. sono un’applicazione dei​​ ​​ v. generali alla professione.

1. Ogni persona sente la necessità di dare un senso alla propria esistenza e raggiunge tale finalità realizzando alcuni v. Anche l’attività lavorativa impegna le persone in un lungo periodo della vita e offre loro la possibilità di realizzare alcuni v., che sono propriamente i v.p. I v. sono motivanti per definizione e si manifestano nella realizzazione di un bene. Il v. quindi è un elevato obiettivo che il soggetto si prefigge e che diventa per lui un ideale. Il numero e la denominazione dei v.p. sono fluttuanti; a titolo esemplificativo possono essere raggruppati nelle seguenti categorie: a) affermazione sociale (appartenenza, prestigio e soddisfazione personale); b) modalità (retribuzione, sicurezza e qualifica); c) espressione di sé (creatività, rischio, perfezionamento e autorealizzazione).

2. I v. sono​​ intrinseci​​ ed​​ estrinseci​​ in rapporto ad un’area professionale o ad una specifica attività lavorativa; tale è la creatività per l’area artistica e la retribuzione per tutte le occupazioni. Il v. intrinseco indica l’autentica motivazione e contribuisce alla stabilità occupazionale. Anche la distinzione tra v.​​ finali​​ (creatività e perfezionamento) e v.​​ strumentali​​ (sicurezza e qualificazione) può essere utile per comprendere le vere motivazioni del soggetto. I v. maturano nella giovinezza e possono essere rilevati con alcuni questionari tra i quali uno bene elaborato va sotto il titolo «Scala dei v. p.» di Trentini, Bellotto e Bolla (1999). La scala è formata da 63 item dai quali si ottengono 21 v. tra i quali Avanzamento, Altruismo, Autonomia, Prestigio, Rischio ed altri. Questi danno origine a 5 orientamenti (materialistico, al sé, agli altri, all’indipendenza, alla sfida) e a 6 tipi (creativo, tranquillo, rampante, duro, autonomo, sociale). I tre tipi di informazioni complementari si prestano ad un articolato e proficuo colloquio tra l’operatore e l’utente dell’orientamento. Come gli​​ ​​ interessi professionali anche i v. contribuiscono alla scelta scolastica e professionale, alla soddisfazione nel lavoro e alla stabilità della scelta occupazionale (Dawis, 1991).

Bibliografia

Dawis R. V., «Vocational interests, values, and preferences», in M. D. Dunnette - L. M. Eough (Edd.),​​ Handbook of industrial and organizational psychology, vol. 2, Palo Alto, Consulting Psychologists Press,​​ 21991; Trentini G. - M. Bellotto - M. C. Bolla,​​ Scala dei v.p., Firenze, OS, 1999.

K. Poláček




VALUTAZIONE

 

VALUTAZIONE

La v. è un processo attraverso il quale si attribuisce un valore ad un prodotto, a un’azione, ad una competenza, ad una prestazione, ad un sistema complesso… Consta di più fasi: inizia con la definizione dell’oggetto da valutare, prosegue con l’identificazione di un modello di riferimento, per passare poi alla rilevazione delle caratteristiche del prodotto in esame, che vengono confrontate con quelle attese, per poter esprimere un giudizio sul grado di adeguatezza delle stesse ed assumere quindi delle decisioni. La v. può avere una funzione​​ formativa,​​ diagnostica,​​ predittiva,​​ sommativa,​​ certificativa​​ o​​ selettiva. In ambito scolastico la v. può riguardare il profitto o altre caratteristiche degli allievi (attitudini, condotte, capacità relazionali…).

1.​​ Storia degli studi sulla v. A partire dalla fine dell’Ottocento è emersa la presenza di incongruenze di vario genere nelle v. scolastiche (​​ docimologia). Studi sistematici, ricerche internazionali di ampio respiro, hanno messo rispettivamente in luce la scarsa attendibilità dei correttori, tra loro e con se stessi. Il rimedio a cui si è ricorsi è stata la standardizzazione degli strumenti valutativi, cioè la creazione di test di profitto, di​​ ​​ scale per la v. dei prodotti scolastici, di prove diagnostiche. Tale risposta è stata elaborata dagli studiosi del​​ Measurement​​ assumendo come modello le prove per misurare l’intelligenza e le attitudini. R. Tyler ha sostenuto in seguito la necessità di introdurre un approccio più articolato alla v. dei prodotti scolastici (Evaluation) che si propone di chiarire anzitutto gli obiettivi che s’intendono raggiungere, di estendere la rilevazione ad aspetti importanti della personalità e dell’ambiente di appartenenza, di variare i criteri di confronto. Se anche prima si ricorreva a prove diagnostiche e, sull’esito di queste, a un’opera di recupero (remedial teaching), con Tyler la v. diventa sempre più un mezzo ordinario per il monitoraggio delle strategie didattiche ed educative adottate e per il loro miglioramento. Si parla dunque progressivamente con più insistenza di​​ v. formativa, nel senso di regolativa dei processi di insegnamento-apprendimento. Con questa accezione viene proposta nel​​ mastery learning, che utilizza la verifica sistematica per regolare il progredire degli studenti in unità didattiche successive. In seguito, con gli apporti della psicoanalisi (Sandler), della psicologia sociale e della personalità (​​ Franta) si comincia a parlare di v. formativa, in riferimento all’azione che la stessa esercita su caratteristiche emotivo-affettive degli studenti. I docenti esprimono infatti in continuazione v. sui loro alunni durante il rapporto scolastico, non solo con atti formali, ma anche con cenni, richiami, con incoraggiamenti, con segni di disinteresse, mostrando di apprezzare o meno i loro sforzi, ecc. Questa sequenza quotidiana incide non solo sulla motivazione, ma anche sul concetto di sé che si sta formando in ognuno di loro, sulla fiducia in sé, sul progetto di sé. Vari autori (Bandura per es.) hanno cercato di studiare i meccanismi e gli esiti di questi processi che hanno un peso rilevante nella strutturazione della​​ ​​ personalità degli alunni. In questa linea si è constatato inoltre che la v. non è solo regolazione dell’​​ ​​ apprendimento, inteso come crescita culturale e sviluppo delle abilità cognitive, ma deve estendersi a tutti gli aspetti essenziali del processo educativo, al quadro di valori che si dovrebbe andar formando e alle strutture che assicurano solidità e equilibrio alla personalità. Le attuali istanze degli studi sulla v., specie di ispirazione americana, vanno nella direzione della​​ v. autentica, introdotta a metà degli anni ’80 del ’900 da studiosi come Wiggins. Si tratta di una v. che ricorre in ambienti di apprendimento significativi e si riferisce ad esperienze di apprendimento reale. È stata proposta in USA in contrapposizione all’uso massificante e indiscriminato dei test standardizzati di profitto che avevano impoverito le abilità, specie verbali, degli studenti. Si serve di strumenti di v. complessi, come il​​ ​​ portfolio, in grado di evidenziare i processi e l’acquisizione di vere e proprie​​ ​​ competenze, che possono essere descritte analiticamente (rubriche di v.).

2.​​ Problemi fondamentali. Negli studi sulla v., a volte, ci si è preoccupati di seguire mode piuttosto che affrontare problemi di sostanza. Le ricerche sulla v. possono essere invece feconde per le riflessioni di carattere etico, politico, pedagogico e didattico che ne susseguono. Richiameremo alcune questioni senza preoccupazioni di tipo cronologico. a) A proposito dei traguardi da raggiungere con l’apprendimento, si ritiene oggi che questi non vadano descritti come cumulo di nozioni, ma piuttosto in termini di modifiche delle condotte e dei significati delle stesse, in coerenza con la concezione d’una scuola che educa, che fa progredire culturalmente, che non si preoccupa solo delle informazioni ma anche dell’acquisizione di atteggiamenti, di interessi, di abitudini, di metodo. b) Alcuni studiosi seguendo più o meno letteralmente le istanze del comportamentismo, altri le richieste per una scienza formalmente corretta, si sono sforzati di precisare gli​​ ​​ obiettivi attraverso definizioni operative, cercando cioè di enumerare quello che l’alunno sa fare in relazione alla programmazione predisposta. Altri più recentemente hanno tradotto i traguardi da raggiungere in termini di competenze. L’esplicitazione di tali mete aiuta ad uscire dal vago, migliora l’affidabilità delle rilevazioni e delle comunicazioni. c) Lo studio degli svantaggiati e dell’emarginazione ha attirato l’attenzione sul curricolo implicito nelle v. di molti insegnanti e sul disaccordo tra gli obiettivi dichiarati e quelli effettivi. Ci può essere incoerenza tra le intenzioni e le prassi adottate anche a proposito della v. d) A seguito delle preoccupazioni di equità si è molto studiato l’eventuale peso negativo esercitato dalla v. nella​​ ​​ selezione e nell’emarginazione che può aver luogo in una scuola che privilegia il verbale, che può essere discriminante nelle scelte programmatiche e metodologiche. e) Nella v. si può adottare come termine di confronto sia il punto di partenza di ciascun soggetto (e constatare così i progressi compiuti), sia il profitto medio degli altri componenti di un gruppo con caratteristiche omogenee e confrontabili, sia gli​​ ​​ standard d’un livello scolastico, d’una professione, d’un settore culturale. La scelta d’un criterio, a preferenza di altri, poggia su ragioni teoriche ed ha conseguenze pratiche ben diverse. Usando prove tipificate si fa sovente ricorso a «norme», cioè a risultati paradigmatici raccolti sul gruppo a cui il soggetto appartiene o con cui è confrontabile; questo viene attuato anche prescindendo dall’utilità che una tale v. può avere ai fini delle scelte d’orientamento o per giudicare il grado di sviluppo delle attitudini. La v. fatta assumendo come riferimento il grado di padronanza di un’area culturale o un profilo di abilità comporta vari problemi per la costruzione di prove idonee e la scelta di metodi soddisfacenti per definire i criteri. Il problema s’è allargato quando si sono voluti definire gli standard minimi anche per un livello scolastico. La v. delle competenze pone inoltre il problema della validazione delle acquisizioni derivanti da contesti non formali.

3.​​ V. dell’apprendimento degli studenti e i suoi strumenti. Per non pochi, tra docenti e famiglie, i risultati scolastici sono da considerare in relazione prevalente, se non quasi esclusiva, con le attitudini (disposizioni naturali) e l’impegno dell’alunno. Oggi però, grazie anche agli stimoli provenienti da vari ambiti di studio (sociologia dell’educazione, pedagogia speciale, psicologia cognitiva) si è andato esplicitando il nesso tra programmazione, azione didattica e v. Quest’ultima ha ampliato così gli oggetti di rilevazione, cioè si è impegnata nella raccolta attendibile dei fatti concernenti l’apprendimento e in genere lo​​ ​​ sviluppo dell’alunno, per dar modo a chi è impegnato nella guida della crescita di avere elementi per intervenire opportunamente. Si è cercato così di valutare il peso dei vari fattori intervenienti e concomitanti e non solo degli esiti dell’alunno (v. sistemica). Sono cambiati i ritmi della v.: si parte da una rilevazione iniziale o conoscenza dell’alunno,​​ in ingresso, per censire lacune e risorse e individualizzare il piano di studio; si insiste su una​​ v. continua, per riaggiustare la programmazione e gli interventi lungo l’anno scolastico; ad essa segue una​​ v. complessiva​​ staticamente costatativa, cioè fatta per rendersi conto degli esiti. Questa concezione regolativa della v. propone, in modo molto diverso, il problema del recupero o del sostegno. Chi si preoccupa della misura del​​ ​​ profitto cerca d’individuare i punti essenziali dell’apprendimento ed effettua confronti tra studenti, tra classi, tra scuole e sistemi scolastici. I confronti esigono molta attenzione sul piano metodologico per essere corretti e possono dare origine a pseudomotivazioni, cioè alla ricerca del successo per se stesso. Non vanno però esclusi in modo preconcetto, perché possono servire per evitare illusioni nei docenti come negli alunni. Il confronto può esser fatto a scopo di cooperazione e usato come stimolo per la creatività e l’arricchimento. Può servire a scopi migliorativi, se valorizza le buone pratiche nell’autovalutazione d’istituto o gli esiti di eccellenza, se offre risultati medi come avviene nelle indagini promosse dagli Istituti Nazionali per la V. dei risultati scolastici. L’uso degli strumenti tecnici per la v., anche quando è legittimo, può richiedere una preparazione adeguata. È però alla portata della professionalità del docente, oltre che proficuo, riprendere una serie d’indicazioni della​​ ​​ psicometria per migliorare le proprie v. Per es., il concetto di validità, cioè la coerenza che ci dev’essere tra obiettivi da valutare e i relativi strumenti, deve diventare preoccupazione abituale di chi valuta. Così pure i diversi modi operativi per verificarla. Lo stesso dicasi per l’«affidabilità», che deve essere garantita dalla stabilità con cui un docente apprezza la prestazione di un medesimo studente in tempi diversi o dall’accordo con cui più docenti giudicano lo stesso compito. Andranno a tal fine controllati gli effetti distorcenti indicati in letteratura, come l’ordine con cui si correggono i compiti, gli aspetti formali delle prestazioni, gli effetti di ancoraggio, di alone (ovvero la pervasività di un unico aspetto che condiziona l’intero giudizio), le proiezioni… Questi originano interferenze nella v., per l’intrusione delle interazioni emotive nei giudizi, per il peso di circostanze esteriori negli esiti delle prove ecc. Per garantire validità e affidabilità sono state messe a punto procedure per standardizzare i processi valutativi ed evitare gli effetti distorcenti. Sono stati regolati i diversi passaggi di costruzione degli strumenti: a partire dalla selezione degli scopi degli stessi; fino al campionamento della materia da indagare; alle norme per la redazione dei quesiti e la loro disposizione nella prova; alle forme di controllo della corrispondenza tra obiettivi e item; alla scelta dei criteri di correzione e di attribuzione dei punteggi; alle norme di somministrazione; al controllo delle caratteristiche metriche che consentono di verificare se la difficoltà è adeguata e se la capacità selettiva è tale da evidenziare chi è preparato (capacità di discriminazione); ai procedimenti di formulazione dei giudizi e alla costituzione di profili. Gli studi evidenziano, infatti, la necessità di un’adeguata revisione degli strumenti tradizionali della v. (interrogazione, saggi, problemi) e di un uso attento e rigoroso di quelli nuovi (mappe concettuali, scale, discussione in gruppo). Uno strumento che aiuta gli insegnanti a utilizzare il tipo d’indicazioni prima citate sono le «guide per la v.». Possono esser preparate da esperti per l’uso quotidiano dei docenti o costruite da questi ultimi in base a opportune indicazioni e a un congruo esercizio. La «guida di v.» enuclea le dimensioni d’un costrutto attitudinale (per es., della​​ ​​ creatività, del pensiero critico) o culturale; determina gli indicatori o descrittori reperibili nelle prestazioni scolastiche; dà indicazioni sul modo d’arrivare a una sintesi; si correda dei consigli per l’uso didattico delle conclusioni raggiunte. Esiste anche una letteratura considerevole sulla conduzione rigorosa del​​ ​​ colloquio, le cui tecniche sono state affinate prevalentemente dalla ricerca psicologica e sociale. Le acquisizioni della ricerca dovrebbero rappresentare utili stimoli per il miglioramento degli strumenti di v. abituale dei docenti, elevando la consapevolezza metacognitiva che deve accompagnare sempre più consciamente la prassi corrente. L’attenzione ai mezzi non deve far dimenticare però che essa sarebbe insufficiente se i docenti e quanti guidano il processo educativo non si sforzassero di perfezionare la loro motivazione. Una v. formativa comporta per i docenti un impegno considerevole e una sottrazione di tempo alla didattica.

4.​​ V. dell’azione didattica e della qualità d’istituto.​​ La v. può riguardare anche gli insegnanti e in particolare la loro azione didattica. Quest’ultimo tipo di v. è stata oggetto di discussioni che hanno favorito la transizione da modelli che si centravano sulla persona del docente, a modelli analitici, che si focalizzavano su microaspetti relazionali e comunicativi, fino a quelli più recenti, che spostano il focus sulle prassi didattiche, contestualizzandole all’interno della situazione concreta in cui si manifestano. Tali v. diventano un elemento per apprezzare più in generale la qualità dell’intero istituto (autovalutazione d’istituto), che va pensata inserita a sua volta in relazione alla qualità del sistema formativo.

Bibliografia

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L. Calonghi - C. Coggi