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TOMMASO D’AQUINO

 

TOMMASO D’AQUINO

n. a Roccasecca (Frosinone) nel 1224 / 25 ca. - m. a Fossanova (Latina) nel 1274, teologo domenicano.

1. Ultimo dei quattro maschi dei nove figli accertati di Landolfo,​​ miles​​ a Roccasecca, e di Teodora Rossi-Caracciolo, è oblato,​​ quinquennis, a Montecassino, ove resta tra il 1230 e il 1239 [1]. Allorché Federico II decide di appropriarsi dell’abbazia, in rappresaglia alla sua seconda scomunica ad opera di Gregorio IX, su consiglio del desautorato abate Stefano di Corbario e​​ de utriusque parentis consilio, passa adolescente a Napoli, presso la dipendenza cassinense di s. Domenico, per proseguire lo studio delle​​ Sette arti liberali, presso lo​​ Studium​​ locale. Nel 1244 chiede di essere accolto tra i Domenicani, da poco insediati in città. Non lo fermano renitenze familiari, e nell’autunno del 1245, al seguito del Maestro generale Giovanni il Teutonico, passa a Parigi. Fino al 1248 vi completa gli studi iniziati a Napoli. Tra il 1248 e il 1252 soggiorna a Colonia, a disposizione di Alberto Magno. Lascia l’uno e l’altra per Parigi ove, tra il 1252 e il 1256, compie gli studi di Teologia. La corporazione universitaria stenta ad assimilare la concorrenza feconda degli Ordini mendicanti; e però superate le opposizioni per l’intervento di papa Alessandro IV, nel febbraio del 1256, ottiene la​​ Licentia docendi.​​ La esercita fino allo scadere del triennio canonico, e nell’autunno del 1259 rientra a Napoli, ove resta fino al settembre del 1261, allorché nel capitolo provinciale di Orvieto è nominato predicatore generale, con l’incarico di seguire i capitoli della provincia. A tanto impegno si sovrappone l’incarico, da parte del capitolo anagnino di curare l’apertura di uno Studium:​​ quia videmus quod in ista provincia studium negligitur​​ [2]. Di siffatte ingiunzioni la Provincia romana ne registra reiterate e frustrate più d’una. Più che provvida misura, tale coinvolgimento del predicatore generale prende l’aria d’una condiscendente replica a pregresse rimostranze. Tra il settembre 1268 e il giugno 1272, T. torna a reggere, a Parigi, la cattedra di Teologia. I motivi di tale anomalo rientro non sono del tutto perspicui, anche se è noto che l’Università attraversa un periodo di contrastata effervescenza. Nel giugno 1272 è a Firenze ove l’annuale capitolo provinciale gli affida l’ennesima fondazione di uno​​ Studium, ove e come T. voglia. Di fatto egli sceglie Napoli. Nel dicembre 1273, la sua salute si fa precaria. Chiamato da Gregorio X all’imminente Concilio generale di Lione, T. si avvia, deferente, ma per cessare di vivere a Fossanova il 7 marzo 1274. Il 18 luglio 1323, a preferenza di Raimondo di Peñafort, proposto dal capitolo generale di Pamplona, viene canonizzato ad Avignone da Giovanni XXII; il 15 aprile del 1567, da Pio V, è proclamato​​ Doctor Ecclesiae.

2. Una costituzione robusta protegge un’indole introversa, affatto corriva. In una sua lettera del giugno del 1285, il francescano Giovanni Peckham († 1292), collega del Domenicano a Parigi tra il 1268 e il 1272, finito poi arcivescovo di Canterbury, ne descrive con singolare approssimazione il patetico isolamento. C’è accreditatissima la sistematizzazione che in tutto e per tutto si rifà, tramite Alessandro di Hales, Bonaventura di Bagnoregio, e tutti gli altri illustri maestri francescani e non, alla veneranda tradizione cui​​ ​​ Agostino dà vita; e c’è di contro​​ illa​​ novella quasi tota contraria,​​ quae quidquid docet Augustinus​​ –​​ destruit pro viribus et enervat,​​ pugnas verborum inferens toti mundo​​ – (Chartularium Universitatis Parisiensis, I, p. 634s.). Sì, T. non ama Agostino,​​ platonicorum doctrinis imbutus​​ (Summa th., IIa IIae, q. XXIII, a. 2, ad 1m ) e da lui si discosta, non senza tentare, sulle prime, di riconsiderare deferentemente le coordinate strutturali delle sue opzioni. Tuttavia siffatta diversione non lo consegna mai ad Aristotele. Del filosofo si libera già sugli inizi del proprio avvio, allorché, a ridosso del suo​​ De essentia et entibus​​ (Metaph.​​ VII), assesta, non ancora autorizzato, un proprio​​ De ente et essentia.​​ E nel seguito ne controllerà nei​​ Commenti​​ e ovunque altrove, il sempre più invadente contributo [3]. Solitario, non può non procedere sperimentando. Lo​​ Scriptum super libros Sententiarum​​ (1252-56), registra più d’una variazione, in seguito alle quali consegna alle​​ Q.D. de veritate​​ (1256-59) una elaborata metafisica della rettitudine, sottesa dall’inflessibilità di Dio. Tuttavia, pur se volenterosa, essa risulta tosto abusiva intraprendenza. Una autocritica del ragionare umano sostanzia, prevaricando, l’Expositio in l. Boethii de Trinitate​​ (1258-59); e giusto sulla misura dell’uomo è distesa la riflessione cristiana nella​​ Summa c. gentiles​​ (1259-65). Il​​ Compendium theologiae, organizzato sul trittico delle virtù teologali, non può non richiamare la tripartizione abelardiana, quasi un ricupero sperimentale. Tosto la gratuita abrupta imponenza delle​​ Q.D. de potentia Dei​​ (1265-66) inaugura sontuosamente, contro le angustie dell’Avicennismo, una metafisica della fecondità. Ed ecco la​​ Summa theologiae​​ (1267-73) tesa a realizzarne i termini in Dio (Ia), nell’uomo (IIa), nell’ambivalenza del Verbo incarnato (IIIa).

3. Il fatto che quest’ultima composizione sia dedicata ad​​ incipientes, così come quel tanto di attività pastorale che gli impegni accademici gli consentono [4], denotano inequivoca la volontà di aprire, ormai quarantenne, agli esordienti il suo residuo interesse. Nel settembre del 1272, del resto, nominato suo malgrado esecutore testamentario dal cognato Ruggero d’Aquila, sottrae senza ambagi all’Amministratore dei beni della Corona, cui re Carlo I li ha affidati, i quattro orfani, per riconsegnarli, memore dello strazio della propria oblatura, alla tenerezza della mamma [1]. Non è perciò fuor di proposito estrapolare dalle sue contesture teologiche inesplicitate indicazioni di interesse pedagogico. L’uomo, di cui nella seconda parte della​​ Summa theologiae​​ studia la fecondità, è soggetto strutturalmente individuale, estenuato per di più tra generazione e corruzione. Una sorta di scarto duttile della specie, o, come lo si designa tecnicamente, una parte soggettiva che, mentre evolve tra nascita e morte, non può esprimerne le virtualità, né tutte né al meglio (Ia IIae, q. LXIII, a. 1). Onde sopravvivere, esso si associa d’istinto in solidarietà e concorrenze più o meno impegnative, che leniscono, senza tuttavia saturarle, le strutturali menomazioni che l’individuano. Seguito nel suo operare, dacché​​ agere sequitur esse, un soggetto siffatto, non solo non sa esprimere le complessive virtuosità della specie, ma dispiegherà di massima dinamicità non sempre congrue, né sempre congruamente espresse. A meno che i suoi apparati non siano suscettibili di abituali adattamenti. Di fatto, a parere di T., i principii operativi dell’uomo lo sono. Egli è dotato di razionalità e per ciò stesso è capace di ponderazione. Anche la razionalità in parola è partecipata, ma può essere disciplinata e può come tale immettere a sua volta misura e disciplina nelle propensioni che sostanziano ogni produttività. Spetta alla ponderazione disporre ed imporre caso per caso la discrezione opportuna alle tendenze eccedenti, la stimolazione necessaria alle tendenze retrive, e la commisurazione debita ai contesti. Naturalmente il fluttuare tra nascita e morte rende sempre ardua l’intrapresa di esprimere continuatamente al meglio l’uomo che si è: per tale ragione la partita è esaltante, e in definitiva ineludibile. Questo è comunque l’uomo. Solo soggetti non individualizzati e perciò immateriali sono in grado di esprimere, senza previe calettature, la naturale espansività della specie che verificano (Ia IIae, q. LI, a. 1:​​ Utrum in angelis sit aliquis habitus). La seconda parte della​​ Summa theologiae​​ può prospettare al meglio, ai suoi destinatari esordienti, questo intricato organico. E però, come fare singolarmente al dettaglio, nella farragine della storicità, il mestiere dell’uomo, da​​ puer​​ se​​ puer, da​​ adolescens​​ se​​ adolescens, da​​ iuvenis​​ se​​ iuvenis, da​​ gravis​​ se​​ gravis, da​​ senex​​ se​​ senex, non è disciplina scolare; è fatica strenua dell’educazione [5].

Bibliografia

[1]​​ Torrell J.-P.,​​ Initiation à saint Thomas d’Aquin. Sa personne et son oeuvre, Fribourg-Paris,​​ 1993; [2]​​ Monumenta O.P. Historica, 20, 29; [3] Weisheipl J.,​​ Thomas’ evaluation of Plato and Aristotle, in «New Scholasticism» XLVIII, 1974, 100-124; [4]​​ Torrell J.-P.,​​ La pratique pastorale d’un théologien du XIIIe siècle: Thomas d’Aquin,​​ prédicateur, in «Revue Thomiste» LXXXII,​​ 1982, 213-245; [5] Buehler W. J.,​​ The role of prudence in education, Washington, D.C., 1950; Westberger D.,​​ Right practical reason. Aristotle,​​ action,​​ and prudence in Aquinas, Oxford, 1994;​​ Schrör Ch.,​​ Praktische Vernunft bei Thomas von Aquin, Stuttgart, 1994.

P. T. Stella




TORRANCE Ellis Paul

 

TORRANCE Ellis Paul

n. a Milledgeville (Georgia) nel 1915 - m. a Minneapolis nel 2003, psicologo statunitense.

T. completata l’istruzione primaria, intraprese gli studi secondari nel Collegio militare della Georgia e li concluse con ottimi risultati.​​ Insegnò nella scuola secondaria per alcuni anni. Prestò poi il servizio militare, ormai in possesso di laurea professionale, lavorando come psicologo. Nel 1951 ottenne il dottorato all’Università di Michigan, iniziando la sua carriera accademica a Kansas e in seguito a Michigan, assumendo l’insegnamento nel Dipartimento di psicologia dell’istruzione.

1. L’interesse di T. per la creatività è nato presto, già durante gli anni del suo insegnamento nella scuola secondaria, ma solo con l’incarico di insegnamento nel Dipartimento di psicologia dell’Università di Minnesota il suo interesse per tale argomento è stato fortemente rafforzato. Continuerà a lavorare sulla​​ ​​ creatività per parecchi decenni fino alla conclusione della sua vita. La sua produzione scientifica è stata vastissima. I titoli delle pubblicazioni superano il migliaio. Ad esse appartengono alcuni test di creatività elaborati lungo tutto questo periodo, tra i quali il più noto e più diffuso è il T. Test of Creative Thinking - TTCT​​ (Ball e T., 1984) adattato in varie lingue, tra le quali l’it. (T., 1989). T. ha diffuso le sue idee sulla creatività nell’universo scolastico, e ha voluto promuovere la creatività nelle scuole utilizzando due modelli: «Incubation Model of Teaching» e «Future Problem Solving Program». I due programmi dovevano aiutare gli studenti a «pensare in modo creativo» e simultaneamente a tenere in considerazione il loro futuro. A questi progetti partecipò un numero considerevole di studenti negli USA.

2. Per illustrare la qualità della ricerca svolta da T., riportiamo in sintesi i dati della sua verifica longitudinale durata 40 anni e pubblicata da Cramond e collaboratori (2005). Nel 1950 J. P. Guilford apre la strada agli studi sulla creatività, e nel 1956 propone il suo modello sulla struttura dell’intelligenza. T. ha assunto i quattro fattori per elaborare il suo TTCT e lo ha somministrato nel 1958 ad un campione di alunni della scuola primaria, rilevando la loro produzione creativa a distanza di 12, poi a 22 anni e infine a 40 anni. Nella fase finale è stato possibile verificare la capacità predittiva del test. I dati di fluidità, di flessibilità e di originalità sono stati correlati in modo significativo con la produzione creativa degli stessi alunni. C’è da sperare che il ricco e vasto contributo di T. sia valorizzato dagli educatori e psicologi per riattivare l’interesse per la creatività in questi ultimi tempi in costante calo.

Bibliografia

Ball O. E. - E. P. T.,​​ T.​​ Tests of creative thinking: streamlined scoring guide figural A and B,​​ Bensenville, Scholastic Testing Service,​​ 1984; T.E.P.,​​ Test di pensiero creativo - Forma A, Firenze, O.S., 1989;​​ Cramond B. et al.,​​ A report on the 40-year follow-up of the T. Tests of creative thinking: Alive and well in the New Millennium, in «Gifted Child Quarterly»​​ 49 (2005) 283-291.

K. Poláček




TOSSICODIPENDENZA

 

TOSSICODIPENDENZA

Per t. o secondo l’OMS farmacodipendenza, s’intende la dipendenza psichica e / o fisica da una​​ ​​ droga.

1.​​ Precisazioni.​​ Nel 1973 l’OMS ha formulato le seguenti definizioni che oggi si attagliano alla dipendenza morfo-eroinica e alcoolico-barbiturica.​​ Dipendenza psichica​​ è la situazione in cui una droga produce sensazioni di benessere e una pulsione psichica o spinta incontrollabile a consumarla in maniera periodica o continua al fine di ottenere un piacere o di impedire sensazioni spiacevoli. Per​​ dipendenza fisica​​ si intende l’abitudine o l’assuefazione a una droga, che si manifesta con la comparsa di disturbi fisici violenti, allorché l’autosomministrazione è interrotta. Questi disturbi, chiamati​​ sindrome di astinenza​​ o di privazione, costituiscono un insieme specifico di sintomi psichici e fisici che variano secondo il tipo di droga. Per quanto concerne la cocaina, è stato individuato nel 1990 dall’OMS un diverso modello di tolleranza e dipendenza psichica e fisica, chiamato​​ neuroadattamento, che verrà riferito in seguito allorché si parlerà di sindrome di astinenza. La​​ tossicomania, termine che molti autori raccomandano di non usare più, è stata definita dall’OMS (1957) uno stato d’intossicazione periodica o cronica che colpisce l’individuo, originato dal consumo ripetuto di una droga naturale o sintetica. Le sue caratteristiche sono: a) un desiderio invincibile di continuare a consumare la droga e di procurarsela con tutti i mezzi; b) una tendenza ad aumentare le dosi; c) una dipendenza di ordine psichico e a volte fisico; d) un effetto lesivo per l’individuo e la società. In realtà detto termine è assorbito in quello di t. e neuroadattamento e non ha più motivo di esistere sotto l’aspetto tassonomico-classificativo.

2.​​ Sindrome di astinenza.​​ La conseguenza dell’instaurarsi della t. è rappresentata dalla manifestazione della sindrome astinenziale che rende molto difficile il divezzamento, la disassuefazione e la riabilitazione del dipendente. Quanto alla sindrome astinenziale da​​ oppioidi, alla quale si possono correlare per grandi linee quelle da alcool e da barbiturici, i primi sintomi della crisi, se la droga viene autoiniettata, insorgono da sei a dodici ore – I grado – dopo l’ultima assunzione e sono caratterizzati da aumento della frequenza del respiro, irrequietezza, sudorazione profusa, rinorrea ovvero emissione di liquidi nasali, sbadigli, sonno profondo ma agitato. Dopo circa ventiquattr’ore – II grado – i sintomi si accentuano e se ne presentano altri; gli sbadigli possono essere di tale violenza da lussare la mandibola; compare una forte lacrimazione, la pupilla si dilata (midriasi). Insorgono tremori, dolori e scosse muscolari, la pelle diviene fredda, sudata, con peli eretti – la cosiddetta sindrome del «tacchino freddo» –, caldane, brividi e grave anoressia. Tra ventiquattro e quarantott’ore – III grado – aumentano i sintomi precedenti e si aggiungono: agitazione, insonnia, elevazione della temperatura corporea, della pressione arteriosa, della frequenza del polso e del respiro. Inoltre violente contrazioni intestinali, nausea, vomito e diarrea profusa. Tra le quarantotto e le settantadue ore la crisi raggiunge l’acme: compaiono forti brividi squassanti e sensazione di freddo intenso. Tutto il corpo è percorso da tremiti, i piedi scalciano involontariamente: in gergo si dice «dare un calcio all’abitudine». I crampi muscolari aumentano d’intensità. Si avvertono dolori forti e diffusi, soprattutto a carico delle ossa. Tutta la sintomatologia a poco a poco regredisce e si risolve nel giro di dieci-quindici giorni, pur persistendo spesso per alcuni mesi dolenzia diffusa, leggeri tremori, stato di ansia, sensazione di freddo. La gravità è variabile, ma la crisi nell’adulto non è letale, e secondo molti studiosi, almeno in gran parte inconsciamente pretestuosa al fine di ottenere nuovamente la droga. Nei neonati di madre eroinomane è mortale se non si interviene con somministrazione scalare di oppiacei che risolve la situazione in quattro, cinque giorni. Negli ultimi anni si è individuata una sindrome di astinenza cronica o protratta. Se l’oppioide è assunto per via orale, come avviene per il metadone, l’insorgenza è ritardata, ma la durata è prolungata. Circa la sindrome astinenziale da​​ cocaina, alla quale si può assimilare quella da anfetamina, si distinguono tre fasi, legate al neuroadattamento sopra citato. La fase di​​ crash​​ – o di disforia acuta – dura da nove ore a quattro giorni, dopo l’assunzione dell’ultima dose. Un lasso di tempo in cui si possono individuare tre momenti diversi: precoce, intermedio e tardivo. Nel complesso la fase del​​ crash​​ è una condizione acuta di autolimitazione all’assunzione intensa e protratta, che non contribuisce però all’eliminazione delle ricadute croniche. In questa fase è consigliato il trattamento con tirosina, la sostanza base da cui parte la sintesi di queste due catecolamine. La seconda fase,​​ Withdrawal​​ (astinenza, o anedonia, o disturbo post-stimolatorio dell’umore), è più lunga delle altre. Si protrae da circa una settimana fino a dieci, da quando è cessato l’abuso. Può essere considerata un’autentica vera astinenza fisica di tipo classico secondo il modello oppiaceo. Talvolta si manifesta con uno stato che, per la gravità dei sintomi, richiede terapia rianimatoria. L’assunzione cronica di elevati dosaggi di stimolanti potrebbe determinare modificazioni neurofisiologiche nei sistemi cerebrali che regolano i processi psicologici. Anche in questa fase possono essere riconosciuti distintamente tre periodi: precoce, intermedio e tardivo. In questa fase è indicato il trattamento integrato psicoterapico e farmacologico con farmaci antidepressivi o anche dopaminergici, ovvero a effetto dopaminico. La fase 3,​​ Extinction​​ (estinzione, o disturbo condizionato post-astinenziale) ha una durata indefinita; l’umore e la risposta edonica sono normali. Ciononostante possono ripresentarsi episodi di desiderio della droga. Un desiderio – a differenza della seconda fase – che non è accompagnato da senso di malessere. La smania può diventare anche molto assillante e comparire – qualche volta – anche a distanza di parecchi anni dall’ultima assunzione. Molto spesso la manifestazione è episodica, e in certi casi può durare anche qualche ora. Comunque, difficilmente porta ad un nuovo abuso. Il desiderio di cocaina si manifesta nel contesto di particolari stati emotivi, indotti da luoghi, eventi o ricorrenze, qualsiasi cosa che ricordi la precedente tossicomania. Dopo un periodo di trattamento psicofarmacologico residenziale, atto al superamento delle prime due fasi, il soggetto rientra nel proprio ambiente, un momento sempre estremamente delicato. Il trattamento – a meno che non vi siano alterazioni psichiatriche di fondo sensibili alla terapia farmacologica – è essenzialmente psicoterapeutico.

3.​​ I cannabinoidi.​​ Producono attrazione con una dipendenza psichica di solito non molto rilevante e una fisica ancor meno eclatante, solo per soggetti che abbiano consumato quantitativi molto elevati. Altrettanto può dirsi per i farmaci sedativi benzodiazepinici, mentre più importante è la sintomatologia per gli stimolanti allucinogeni di sintesi, quali l’ecstasy o metilen-diossi-3,4 meta-anfetamina.

4.​​ Gli allucinogeni naturali e il semisintetico LSD. Non producono molti degli effetti caratteristici delle droghe, in quanto non ingenerano assuefazione e t. vera e propria, ma anzi, dopo una somministrazione si ha una fase refrattaria, tuttavia per la notevole attrazione psichica e per la loro grave tossicità, specie psicoalterante, per l’uso di massa che se ne è fatto, per le gravi alterazioni comportamentali e per il coinvolgimento giovanile, vengono assimilati alle droghe vere e proprie.

5.​​ Interventi educativi e rieducativi. Di fronte alla diffusione geometrica delle droghe, specie nei giovani, l’approccio e le strategie educative (comunità terapeutiche) sono stati fortemente coinvolti con finalità preventive e terapeutiche. Un primo aspetto è rappresentato dalla​​ ​​ prevenzione secondaria o terapia dei consumatori di droga. La pedagogia si propone di divezzare i consumatori e comunque di impedire che divengano dipendenti con approcci e strategie particolari. Infine la prevenzione terziaria o terapia del dipendente, si giova di metodologie educative pedagogiche e di sostegno per il divezzamento con superamento della crisi astinenziale, disassuefazione e riabilitazione del tossicodipendente.

Bibliografia

Sapira J. D. - C. Cherubin,​​ Drug abuse, Amsterdam & New York, Excerpta Elsevier, 1985; Martin W. H.,​​ Drug addiction, Berlin and New York, Springer Verlag, 1987; Malizia E. - H. Ponti,​​ Coca e cocaina, Roma, Newton Compton, 1993; Nizzoli U. - M. Pissacroia (Edd.),​​ Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, Padova, Piccin, 2003; Malizia E. - S. Borgo,​​ Le droghe, Roma, Newton Compton, 2006.

E. Malizia




TRADIZIONALISMO

 

TRADIZIONALISMO

Il t. in educazione ha molti significati: statico (conservazione di qualcosa che si trasmette per generazione), dinamico (filo conduttore che unisce gli avvenimenti dando loro unità), polemico (impegno nella razionalizzazione delle forme irrazionali della vita), storico-pedagogico (caratteristica comune a tutti i popoli dell’Antico Oriente con la nota finalità di mantenere invariate le credenze religiose, la struttura politica e l’organizzazione sociale), e storico-critico (mantenere ciò che vi è di buono nel passato, aggiungere ciò che vi è di meglio nel presente e guardare al futuro).

1. Etimologicamente il termine deriva dal lat.​​ tradere​​ (trasmettere). Quando si tratta di una trasmissione spontanea dei beni culturali e nazionali da una generazione ad un’altra si parla dei presupposti della​​ ​​ cultura e dell’educazione di ogni popolo (si comunica il linguaggio, la religione, i costumi). In ambienti religiosi e confessionali, la tradizione è elemento e criterio di prim’ordine per l’«ortodossia» della pratica religiosa. Se in questo presupposto non interviene l’educazione il t. sarà statico e regressivo; se l’educazione interviene adeguatamente esso sarà dinamico e progressivo. Se si intende il t. in senso politico-pedagogico (ristagno in un’epoca passata, con la pretesa di farla rivivere, come successe a V. Trotzendorf riguardo alla Repubblica Romana o a certi t. cattolici), si nega automaticamente tutto il progresso educativo; in questo caso, l’educazione consiste nell’«inculcare»; il soggetto dell’educazione deve attenersi al programma e gli viene negata ogni creatività.

2. Il t. come reazione all’​​ ​​ Illuminismo, al razionalismo e alla rivoluzione presuppone la fine dell’ottimismo razionalista. In Francia lo incarnano L. de Bonald (1754-1840), J. de Maistre (1753-1821) e H.-F. R. de Lamennais (1782-1854); in Italia G. Ventura (1792-1861); in Spagna J. Donoso Cortés (1809-1853) e J. M. Ortí Lara (1826-1904). Con costoro il t. diventa una vera e propria ideologia, una visione globale della vita politica. In pedagogia si avvicina a queste posizioni il​​ ​​ perennnialismo. La negazione pratica di ogni t. (come in Neill e nella pedagogia libertaria) è presente in pochi educatori delle​​ ​​ Scuole Nuove mentre lo hanno criticato tutti coloro che si sono allineati a questa corrente o hanno scritto su di essa.

Bibliografia

Gambra R.,​​ El concepto de tradición en la filosofía actual,​​ in «Arbor» 9 (1945) 545-573; Agazzi A.,​​ Problemi e maestri del pensiero e dell’educazione, 3 voll., Brescia, La Scuola, 1955-1959; Ravera M.,​​ Introduzione al t. francese, Roma / Bari, Laterza, 1991.

V. Faubell




TRADIZIONE

 

TRADIZIONE

Chiamiamo t. «il complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione ad un’altra» (Devoto-Oli). Dato il valore vitale che riveste in quanto affermazione di continuità nella mutevolezza, la t. è fatta oggetto di scienze molteplici, segnatamente la storia, la religione, l’antropologia culturale e certamente la pedagogia. In ambito educativo, la t. (e le t. che la codificano, segnatamente le t. popolari o folkloriche) viene considerata nel suo doppio senso di contenuto e di forma di trasmissione.

1. Così nell’educazione familiare, scolastica e religiosa la t. rappresenta teoricamente​​ i contenuti formativi nelle loro radici storiche, carichi dunque di esperienzialità e di saggezza, per cui rinunciando alla t. si sperpera un’eredità ricevuta. Uno snodo educativo delicato riguarda il rapporto intergenerazionale, tra anziani e giovani. Squilibri demografici ed ancor più culturali oggi nelle società occidentali determinano sovente un reciproco «muro del silenzio» e quindi fatalmente l’impoverimento del senso della vita, carente di storia.

2. È vero però che talora la t. riveste un​​ peso eccessivo​​ rispetto al futuro e all’innovazione, per cui l’educazione rischia il​​ ​​ tradizionalismo e la conservazione. Nello stesso rischio cade una educazione che realizza la trasmissione dei valori della t. affidandosi prevalentemente a forme di socializzazione e di imitazione materiale. Il pericolo consiste nel non discernere la giusta validità di quanto si trasmette, conferendogli valore normativo indebito e quindi generando per opposizione ribellione e rifiuto.

3. È corretto il cammino educativo se la​​ t. rimane «un atto tra vivi», si stabilisce una reciprocità tra passato e presente, per cui quanto viene ricevuto si trova a sua volta arricchito. Purtroppo questo non è facile né scontato. L’approccio carismatico o quello meramente riproduttivo si contendono scorrettamente il campo e tradiscono la t. come insieme di beni tramandati da assumere creativamente.

4. Può essere​​ paradigmatico l’ambito cristiano​​ (​​ educazione cristiana). Ivi la t., a differenza della S. Scrittura, che è momento codificato e rigido degli avvenimenti fondatori, rappresenta il credo religioso, con i suoi riti ed istituzioni, nel loro essere vissuti da comunità di persone, che tengono viva la t. mediante la personale partecipazione. L’educazione alla t. vivente si ha nella​​ ​​ Chiesa pienamente soltanto attraverso un processo di iniziazione, ossia di vitale inserimento in quanto viene notificato nella catechesi e celebrato nel rito. È lecito affermare che ha senso l’educazione alla t. (nel significato vitale del termine) e che essa deve andare oltre la fase istruttiva, nozionale, a favore di un cammino formativo culturale ed esistenziale insieme. In tale cammino è indispensabile abilitare all’esercizio critico delle tante t. che pullulano, ora legittimamente, ora no, nel corso dei secoli.

Bibliografia

Benedetti M. V.,​​ T. educazione società, Salerno, Libreria Editrice Internazionale, 1970; Centro di Studi Filosofici di Gallarate, «T.», in​​ Dizionario delle idee, Firenze, Sansoni, 1977; Prandi C., «T.», in E. Pace (Ed.),​​ Dizionario di sociologia e antropologia culturale, Assisi, Cittadella, 1984, 600-604.

C. Bissoli




TRAINING AUTOGENO

 

TRAINING AUTOGENO

Metodo sistematico di allenamento graduale per raggiungere attraverso esercizi di concentrazione psichica ed autoregolazione uno stato di distensione.

1. Il neurologo J. H. Schultz (1884-1972), interessatosi al movimento psicoanalitico, si dedicò poi a ricerche ed esperienze nel campo dell’ipnosi, cercando di correlare funzioni somatopsichiche. Nel 1932 con​​ Das Autogene T., Schultz presentò l’elaborazione scientifica dei fondamenti teorici e le modalità di svolgimento del t.a. La tecnica è applicabile in trattamenti individuali e di gruppo a scopi preventivi e terapeutici, in soggetti interessati e con sufficiente autonomia psichica; il t.a. è sconsigliato con bambini fino ai cinque anni e nei casi di severi disturbi mentali ed emotivi. Il t.a. si pone due obiettivi generali: il miglioramento e / o l’eliminazione di disturbi in funzioni neuropsichiche, conseguenti a modifiche ottenibili con la concentrazione e la distensione. Il complesso fenomeno della commutazione biopsichica, analoga a quella del sonno fisiologico, comprende la totalità dell’individuo (aspetti dinamici, relazionali e simbolici). È necessario perciò che la persona che impiega a scopi terapeutici e / o insegna il t.a. abbia una profonda conoscenza del metodo, della dinamica psicologica e dei meccanismi neurofisiologici dell’essere umano.

2. Gli esercizi fondamentali riguardano: la sensazione di peso (distensione muscolare), la sensazione di calore (distensione vascolare), la regolazione del battito cardiaco e del ritmo respiratorio, la sensazione di fresco alla fronte ed, infine, la sensazione di calore nella zona del plesso solare. Tali esercizi hanno lo scopo di modificare funzioni neurofisiologiche e stati emozionali (tensione, ansia, aggressività) attraverso l’esperienza di distensione che costituisce l’essenza stessa del t.a. Agli esercizi segue una fase di ripresa, necessaria per ripristinare lo stato di coscienza vigile e di attività neuromuscolare. Gli esercizi superiori riguardano piuttosto la sfera della personalità: attraverso esperienze immaginative guidate e libere (es. visualizzazione di colori, formulazione di proponimenti) è possibile far emergere vissuti interiori che possono essere utilizzati a scopo terapeutico e / o come mezzo di sviluppo e di crescita individuale.

3. Oltre che in campo clinico, il t.a. trova un suo impiego in una pedagogia razionale dove assume una funzione preventiva, nella prospettiva di una educazione della tensione (Schultz, 1966). L’obiettivo tende a favorire lo sviluppo autentico ed armonico degli individui, in base ad un’adeguata conoscenza della propria unità biopsichica e delle proprie potenzialità psicosomatiche. Il t.a. viene impiegato, infine, nello sport e nel lavoro; nel primo caso permette, attraverso la distensione e la concentrazione, migliori prestazioni, nel secondo caso favorisce l’eliminazione dello stress ed il recupero di energie psicofisiche in tempi brevi.

Bibliografia

Schultz J. H.,​​ Das Autogene T.​​ Konzentrative Selbstentspannug; Versuch einer klinisch-praktischen Darstellung, Stuttgart, Thieme, 1966 (trad. it. 1983); Id.,​​ Übungsheft für das autogene​​ T., Ibid., 1980 (trad. it.:​​ Quaderno di esercizi per il t.a., Milano, Feltrinelli, 1982); De Vita F.,​​ Il t.a. nell’ansia adolescenziale. Un manuale teorico-pratico per operatori psicopedagogici e sociali dell’età evolutiva, Roma, Armando, 1993; Albisetti V.,​​ Il t.a. per la quiete psicosomatica, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1997.

G. Giordanella Perilli




TRANSFER DELL’APPRENDIMENTO

 

TRANSFER​​ DELL’APPRENDIMENTO

Il t.d.a. si definisce come l’acquisizione personale, senza intervento di un insegnamento, di un’attività o contenuto per effetto dell’apprendimento di altre attività o contenuti. L’interrogativo che sta sotto al t.d.a. si esprime così: quale influsso ha l’apprendimento di un’abilità sull’apprendimento o sulla performance di un’altra attività? Concretamente, si manifesta con il chiedersi se la conoscenza dell’italiano che ha una persona l’aiuterà ad apprendere lo spagnolo o il francese e se saper pattinare su ghiaccio può aiutare l’imparare a pattinare su ruote.

1.​​ Tipi di t.d.a.​​ Si conoscono tre tipi di t.: positivo, negativo e neutro. Il t. positivo dell’apprendimento avviene ad es. quando si insegna ad un gruppo di studenti un’abilità B che viene acquisita dopo 6 sessioni di pratica a differenza di quanto accade ad un altro gruppo di studenti che ha imparato in precedenza un’abilità A che acquisisce l’abilità B dopo 3 sessioni di pratica. Dato che il numero di sessioni di pratica è stato ridotto da 6 a 3, si ha un t. positivo (6 - 3 = +3). Il t. negativo si ha quando, contrariamente all’esempio dato, l’abilità A appresa in precedenza ha effetti deleteri sull’apprendimento dell’abilità B con il risultato (6 - 9 = -3). Il t. neutro (o t. zero) si ha invece quando il possesso di una data abilità ha un effetto minimo sull’apprendimento di un’altra abilità; esemplificando, l’apprendimento del lavoro a maglia non ha nessun effetto sull’apprendimento della grafica computerizzata (6 - 6 = 0).

2.​​ Aspetto psicologico del t.d.a.​​ Sebbene nella psicologia contemporanea il t.d.a. venga trattato come un argomento a parte con il proprio disegno sperimentale e le proprie procedure di misurazione, le sue implicazioni pervadono l’intera psicologia, dall’apprendimento condizionato allo sviluppo della personalità. Lo studio sperimentale del t.d.a. da parte degli psicologi non è facile dato che il carattere indeterminato ed ampio delle formulazioni teoretiche offerte rende difficile l’applicabilità nel vivo della classe. Per questo motivo, lo studio sperimentale si è concentrato in laboratorio. Questo ha permesso la scoperta di fenomeni legati al t.d.a. Il primo è la somiglianza stimolo-risposta. Il metodo di apprendimento di associazione di parole a due a due ha mostrato che quando all’apprendimento di una prima lista di parole segue l’apprendimento di una seconda lista avviene un t. negativo e che a maggiore somiglianza di elementi che costituiscono gli stimoli presenti nelle due liste, maggiore è il grado di t. negativo. Se si aumenta invece la somiglianza nei termini di risposta cresce il t. positivo. Collegati direttamente alla somiglianza stimolo-risposta sono i fenomeni chiamati inibizione retroattiva e proattiva. Se l’apprendimento di un nuovo compito interferisce con la produzione dell’abilità acquisita in precedenza, ha luogo una inibizione retroattiva. Ad es. i risultati forniti dopo l’apprendimento di una lista di vocaboli in lingua straniera da parte di due gruppi sono diversi se nell’intervallo tra l’apprendimento e la performance si chiede ad uno dei due gruppi d’imparare un’altra lista di vocaboli mentre all’altro si chiede di eseguire un compito molto diverso dal precedente. Se invece un’abilità appresa rende difficile la competenza in un’altra abilità appresa dopo si ha un’inibizione proattiva. Qui, contrariamente all’esempio precedente, l’apprendimento della seconda lista di parole avviene prima dell’apprendimento della lista che verrà poi valutata. Da questi due esperimenti è stato dedotto che a maggiore somiglianza delle liste di parole da apprendere corrisponde una minore ritenzione. Comunque, l’inibizione proattiva produce minore dimenticanza dell’inibizione retroattiva (​​ memoria). Un ulteriore fenomeno che testimonia del t.d.a. è la predifferenziazione dello stimolo. I film didattici possono essere considerati un esempio quotidiano di predifferenziazione dello stimolo perché gli studenti che li vedono ricevono un’informazione preliminare da utilizzare nei momenti successivi di apprendimento. La visione di un film sulla cellula prepara gli studenti ad acquisire meglio le abilità necessarie alla corretta visione delle cellule al microscopio. La predifferenziazione dello stimolo viene largamente sfruttata con i pacchetti multimediali (​​ multimedialità) e consente un miglior t.d.a. perché i risultati di un gran numero di sperimentazioni hanno mostrato che quando uno studente ha l’opportunità di entrare in un ambiente globale ritiene un numero di informazioni sui componenti incontrati che lo preparano ad intrattenersi senza difficoltà con il pacchetto di apprendimento. L’apprendimento contrapposto è l’ultimo fenomeno trattato nello studio del t.d.a. Il soggetto impara a discriminare tra due colori, ad es. il rosso e il blu in un insieme di oggetti colorati di rosso e di blu; deve poi operare la scelta corretta quando gli viene chiesto di indicare uno dei due colori e subito dopo gli viene chiesto di indicare l’altro colore. All’inizio trova difficoltà nello scegliere la seconda opzione dato che è influenzato dalla prima scelta corretta, poi, con l’esercizio, migliora e arriva a non commettere più errori. Nell’apprendimento extra-dimensionale il soggetto impara prima a discriminare, ad es. scegliendo un oggetto quadrato in un insieme di oggetti quadrati e rotondi, e poi a contrapporre la sua scelta scegliendo l’oggetto rotondo. Queste contrapposizioni sono difficili per molti studenti perché sono presenti effetti negativi dato che l’individuo tende a persistere nello scegliere l’oggetto quadrato che all’inizio era l’opzione corretta. Man mano che si eseguono prove, la tendenza a scegliere la prima opzione s’indebolisce e, con ulteriori prove, l’utente arriva al punto di non fare più errori.

3.​​ Aspetto pedagogico-didattico del t.d.a.​​ Tre modi di vedere il t.d.a. hanno dominato fin dall’epoca più antica: la disciplina formale, la presenza di elementi identici e la conoscenza di principi generali. Attraverso lo studio della geometria ci si aspettava di veder migliorare le abilità della ragione come attraverso lo studio del latino ci si aspettava di veder migliorare la memoria. Sebbene molti educatori abbiano creduto al potere della disciplina mentale, i test sperimentali l’hanno rifiutata perché le abilità di ragionamento di gruppi di studenti di matematica della scuola superiore, confrontati con altri studenti ugualmente capaci che non avevano però lo stesso esercizio in campo matematico non hanno mostrato nessuna differenza nel ragionamento logico. È stata postulata una teoria alternativa che afferma come il t. tra attività ha luogo solo se dette attività condividono gli stessi elementi. Da questa teoria deriva la predizione che l’abilità nell’addizionare aiuta notevolmente l’abilità nel moltiplicare dato che la moltiplicazione è un insieme di addizioni. La formulazione circa gli «elementi comuni» è stata scossa quando è stato sperimentalmente scoperto che è la comprensione di principi generali ad avere il maggiore effetto sul t.d.a. La disciplina formale, la presenza di elementi comuni e la conoscenza di principi generali più che teorie rigorosamente definite sono punti di vista che possono avviare ricerche e sperimentazioni. Ad es. si potrebbe ipotizzare che l’abilità in matematica non produce miglioramento nelle abilità di ragionamento forse perché l’insegnamento è svolto in modo tradizionale. Il t.d.a. resta da esplorare e deve essere un impegno di ogni insegnante / educatore per aiutare di più e meglio i propri studenti.

Bibliografia

Mestre J. (Ed.),​​ T. of learning: research and perspectives. From a modern multidisciplinary perspective, Greenwich (CT), Information Age, 2005; Singley M. K. - J. R. Anderson,​​ The t. of cognitive skill, Cambridge, London, Harvard University Press, 1989; De Beni M.,​​ Costruire l’apprendimento, Brescia, La Scuola, 1994;​​ Royer​​ J. M. (Ed.),​​ The cognitive revolution in educational psychology, Greenwich (CT), Information Age, 2005.

C. Cangià




TRANSFERT / CONTROTRANSFERT

 

TRANSFERT /​​ CONTROTRANSFERT

Il t. (o traslazione, come il termine compare nella ediz. it. delle​​ Opere complete​​ di​​ ​​ Freud) indica nella sua accezione più generale l’atteggiamento emotivo (positivo o negativo) del paziente nei confronti del proprio psicoanalista. In un’accezione più specifica viene definito come il processo mediante cui il paziente proietta sulla figura dello psicoanalista affetti, pensieri e condotte originariamente relativi a persone della propria esperienza precedente l’analisi e in particolare relativi a persone facenti parte del proprio nucleo familiare.

1. Per Freud, il t. non caratterizza esclusivamente la situazione analitica – si può infatti parlare di t. in diverse situazioni interpersonali quali quelle rappresentate dalla relazione tra medico e malato, fra maestro e allievo, tra ipnotizzatore e ipnotizzato ma è nella situazione analitica, e soltanto in essa che il t. viene interpretato e utilizzato come fondamentale strumento terapeutico. Diversamente da altri concetti cardine della​​ ​​ psicoanalisi, quello di t. è stato oggetto, da parte di Freud, di una elaborazione progressiva. Questo termine indica nei primi scritti freudiani soltanto una delle modalità di spostamento dell’affetto da una rappresentazione a un’altra, mentre dal 1912 (La dinamica della traslazione) e in gran parte come conseguenza della scoperta e sistematizzazione del complesso edipico, della riflessione sui problemi tecnici che i primi trattamenti psicoanalitici sollevavano nonché dei contributi dei primi allievi, quali ad es. Ferenczi, che già nel 1907 aveva mostrato come nell’analisi, ma anche nelle tecniche di suggestione e di ipnosi, il paziente inconsciamente facesse svolgere al medico il ruolo delle figure parentali amate o temute il t. diviene il principale strumento della tecnica psicoanalitica. Per Freud (che identifica nel t. sia una componente negativa, «l’arma più forte della resistenza», sia una componente positiva caratterizzata dall’emer-gere di sentimenti positivi nei confronti dell’analista, che consentono di «stabilire una relazione positiva con l’analista» e che viene quindi in parte a coincidere con la «alleanza terapeutica») la situazione psicoanalitica crea le premesse indispensabili per il sorgere della «nevrosi di t». Per Freud, dunque (che a più riprese, fino negli ultimi scritti, sottolinea la centralità del concetto di t. considerandolo, insieme alla teoria della rimozione e alla teoria pulsionale, «uno dei tre pilastri su cui si regge la dottrina psicoanalitica delle nevrosi») il t. crea «una provincia intermedia fra la malattia e la vita, attraverso la quale è possibile il passaggio dalla prima alla seconda». In questo senso il t., o meglio la nevrosi di t. (una sorta di «malattia artificiale completamente accessibile agli attacchi» dello psicoanalista) diventa il mezzo principale per «domare la coazione a ripetere». Diventa cioè una sorta di palestra in cui quest’ultima può espandersi in una «libertà quasi assoluta e dove le è prescritto di presentarci tutti gli elementi pulsionali patogeni che si nascondono nella vita psichica dell’analizzando». La nevrosi di t. (che svolge «l’inestimabile servizio di rendere attuali e manifesti gli impulsi amorosi, occulti e dimenticati dei malati») diventa così il principale strumento analitico, lo specifico terreno della cura analitica. Per Freud dunque il t., «che fa sì che il paziente scorga nel medico un ritorno di una persona importante del suo passato [...] e trasferisca quindi su di lui sentimenti e reazioni che spettavano a questo modello» si rivela come «un momento di insospettata importanza nel trattamento psicoanalitico». Da un lato dunque il t. è considerato «un mezzo ausiliare di valore inestimabile», dall’altra una fonte di seri pericoli. «La lotta tra il medico e il paziente [...] si svolge quasi esclusivamente nell’ambito dei fenomeni di t. È su questo terreno che deve essere vinta la battaglia e la vittoria si esprime nella guarigione definitiva della nevrosi» (Freud, 1912). Il concetto di t. ha assunto nei diversi autori un’estensione assai ampia fino ad abbracciare tutti i fenomeni inerenti alla relazione del paziente con lo psicoanalista; esso esprime quindi, più che qualsiasi altro concetto, la concezione di ciascun analista in merito alla cura, al suo oggetto, alla sua dinamica, alla sua tattica, ai suoi obiettivi.

2. Il c. (o controtraslazione) può essere definito come la risposta inconscia dello psicoanalista al paziente e più particolarmente al suo t. Il concetto di c. è stato scarsamente elaborato da Freud, che lo considera «l’effetto dell’influsso del malato sui sentimenti inconsci del medico». Freud dunque (che ritiene che «ogni psicoanalista procede esattamente fin dove glielo consentono i suoi complessi e le sue resistenze interne») utilizza il concetto di c. per indicare quei «difetti personali dell’analista che interferiscono con la sua capacità di dare un’esatta valutazione del paziente». In questo senso, e tenendo conto delle particolari condizioni in cui si svolge il lavoro analitico, Freud fa riferimento al c. quasi esclusivamente per sostenere in un primo tempo la necessità che l’analista, «riconoscendo in se stesso l’esistenza della controtraslazione», affianchi «alle proprie esperienze con i malati» l’approfondimento della propria autoanalisi e in un secondo momento per sostenere la necessità dell’analisi didattica, che metterebbe l’analista in grado di «imparare abbastanza dai suoi stessi errori e di superare i punti deboli della sua personalità». Il concetto di c. ha successivamente assunto una notevole importanza (tanto sul piano metodologico che sul piano teorico) nella psicoanalisi post-freudiana. La posizione dei diversi autori rispetto alla delimitazione di questo concetto non è univoca. Per alcuni infatti il c. riguarda tutti gli aspetti della personalità dell’analista che possono intervenire nella cura, mentre per altri esso si riferisce esclusivamente ai processi inconsci che il t. dell’analizzato induce nell’analista. Dal punto di vista tecnico si possono distinguere schematicamente tre orientamenti: a) ridurre il più possibile le manifestazioni di c. mediante l’analisi personale; b) utilizzare, senza perderne il controllo, le manifestazioni del c. nel lavoro analitico; c) orientarsi, per l’interpretazione stessa, sulle proprie reazioni di c., spesso assimilate, in questa prospettiva, alle emozioni che si sono provate. Tale atteggiamento postula che la risonanza «da inconscio a inconscio» costituisca la sola comunicazione autenticamente psicoanalitica.

Bibliografia

Nagera H.,​​ I concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1974; Gill M. M.,​​ Teoria e tecnica dell’analisi del t., Roma, Astrolabio / Ubaldini, 1985; Semi C. A. (Ed.),​​ Trattato di psicoanalisi, Milano, Cortina, 1988; Etchegoyen R. H.,​​ I principi della tecnica psicoanalitica, Roma, Astrolabio / Ubaldini, 1990; Luborsky L.,​​ Capire il t., Milano, Cortina, 1992; Gill M. M.,​​ Psicoanalisi in transizione, Ibid., 1996; Langen D. - K. Mann,​​ Training autogeno, Milano, Red Edizioni, 2006.

F. Ortu - N. Dazzi




TRATTI DELLA PERSONALITÀ

 

TRATTI DELLA PERSONALITÀ

I t. sono una caratteristica duratura (ad es. «cordiale», «onesta») per mezzo della quale le persone si differenziano l’una dall’altra; essi si manifestano in modo consistente in varie situazioni e sono molto numerosi. Da alcuni decenni vari ricercatori hanno pensato che la saggezza popolare insita nei t. potrebbe essere un punto di partenza per la descrizione scientifica della personalità. Ma questo richiede previamente di riordinare i molteplici numerosi t. e ridurli ad un ragionevole numero. Questa operazione è stata fatta da alcuni autori dopo un’attenta riflessione: sono infatti stati eliminati i sinonimi con il procedimento dell’analisi fattoriale (​​ ricerca).

1.​​ Struttura.​​ I t. così vagliati sono stati considerati dei fattori costitutivi della personalità ma sul loro numero per descriverla per mezzo dei questionari ci sono ancora notevoli incertezze in quanto esso oscilla da un massimo di 58 ad un minimo di 3. I t. non descrivono la personalità in modo esauriente in quanto componenti importanti come valori non sono colti dai t. e i t. stessi non includono necessariamente le competenze (Matthews e Deary, 1998). I t. sono disposti in una struttura gerarchica, formata da un numero di t. indipendente (cosiddetto 1° strato) e da quelli combinati tra loro che formano il 2° strato. I t. del 1° strato vengono chiamati anche t. di sorgente in quanto sono costitutivi della personalità, mentre quelli che non appartengono a tale strato si chiamano t. di superficie in quanto integrano la descrizione della medesima (Teglasi, Simcox e Kim, 2007). Ogni t. ha il suo opposto con cui forma la specifica dimensione della personalità. Il t. si manifesta in una determinata situazione, senza cui esso è solo una disposizione latente. Il t. sotto un unico termine riassume vari comportamenti che si manifestano in differenti situazioni; i comportamenti sono dei segni o degli indici da cui viene fatta un’inferenza al rispettivo t. latente. Per poter valutare l’intensità di un t. occorre osservare il soggetto in varie situazioni; lo stesso t. può inoltre manifestarsi nelle medesime situazioni in modo differente. I t. si formano nell’interazione del soggetto con il suo ambiente e tale formazione è influenzata in modo rilevante dai fattori genetici. Infatti, i figli della stessa famiglia, nonostante la relativa uniformità del clima formativo dei genitori, presentano una grande variazione in numerosi t. I t. vengono utilizzati in tre grandi aree per diagnosticare o per descrivere la personalità: nel differenziale semantico, nei costrutti personali e nei​​ ​​ questionari di personalità.

2.​​ Critica ai t.​​ Nel 1968, W. Mischel (1968) ha sostenuto che i t. non sono altro che delle schematizzazioni di colui che osserva il comportamento altrui e quindi inesistenti nel soggetto osservato (Rogers, 1995, 619). Il​​ ​​ comportamento umano, di conseguenza, è dovuto alla situazione, i t. sono solo debolmente correlati con i criteri e hanno quindi una scarsa utilità pratica. L’opera di Mischel ha avuto notevole eco e ha contribuito a rinvigorire il neocomportamentismo nel suo aspetto di diagnosi comportamentale, basata sull’osservazione diretta del comportamento. Ai segni del t. è stato sostituito il campione di comportamento. L’obiettivo della diagnosi non è più rappresentato dalla stabilità del comportamento ma dalla sua fluttuazione, dovuta alla situazione e l’attenzione è stata spostata dalle differenze interindividuali a quelle intraindividuali. Volutamente sono state ignorate le cause remote del comportamento mentre l’attenzione veniva rivolta all’apprendimento precedente del soggetto, al suo ambiente attuale e alle conseguenze del comportamento prodotto in una specifica situazione. In quanto ai mezzi diagnostici non sono stati considerati importanti i requisiti tradizionali come la validità di criterio (concorrente e predittiva) e la validità di costrutto. L’unico tipo di validità richiesto per tali mezzi è stato quello della validità di contenuto. La critica di Mischel ha avuto un effetto benefico sui t. in quanto alcune sue affermazioni sono state sottoposte ad una accurata verifica. È stata constatata una grande variazione nei coefficienti per gruppi e t.; alcuni gruppi sono risultati molto consistenti, altri meno consistenti e la stessa cosa valeva per i t. Anche i coefficienti di correlazione considerati bassi da Mischel confermavano in molti casi la loro utilità pratica. Vari t. inoltre risultavano correlati in modo rilevante con alcuni criteri sociali importanti, come per es. l’aggressività infantile con la delinquenza nell’adolescenza. Nella polemica sono stati disattesi i dati ottenuti sui gemelli monozigoti i quali, pur avendo vissuto in ambienti diversi si rassomigliavano notevolmente in numerosi t. L’effetto più importante però consisteva nella combinazione del t. con la situazione e nella riscoperta dell’interazionismo: è stato infatti ampiamente riconosciuto che il comportamento è dovuto sia al t. che alla situazione. Attualmente vari metodi, come la «psicostoria» e la «psicobiografia» hanno confermato che i t. sono molto stabili lungo tutto l’arco della vita umana. Come reazione alla critica sono stati elaborati nuovi questionari con le metodologie più avanzate.

3. Una domanda ineludibile è quella del rapporto dei t. con i disturbi di personalità. Dato che i t. sono positivi e negativi si potrebbe supporre che i primi descrivono il soggetto sano mentre quelli negativi definiscono il soggetto disturbato. In realtà tanto i primi quanto i secondi sono utili per entrambi tipi di soggetti, ma differente è la distribuzione delle frequenze dei medesimi per le due categorie (sana e disturbata). Livesley e Jang (2005), sostengono che i t. (positivi e negativi) dei soggetti affetti da patologia occupano posizioni estreme della distribuzione normale, essendo solo bassi o alti. Inoltre, tali soggetti in determinati t. risultano rigidi in quanto reagiscono a differenti situazioni in modo uguale (un paranoide si sentirà minacciato in ogni situazione e da ogni persona). Ostendorf e Riemann (2005) riportano i dati di alcuni studi secondo i quali la corrispondenza tra il DSM-IV (disordini della personalità) e il Five-Factor Model of Personality - FFM (cinque t. positivi) quanto alla varianza è stata soltanto di 52-70% il che indica da un lato un discreto accordo tra i due procedimenti diagnostici e dall’altro una significativa differenza cogliendo le due situazioni della salute psichica. Di conseguenza Ostendorf e Riemann sostengono che il FFM può diagnosticare i disordini della personalità in modo attendibile e valido.

4.​​ L’utilizzazione educativa.​​ I t., essendo modificabili, si prestano al potenziamento e alla correzione con opportuni interventi educativi. Data la loro notevole stabilità lungo tutta la vita umana, essi offrono la possibilità di prevedere l’evolversi di alcuni comportamenti socialmente indesiderabili (aggressività-delinquenza), e quindi possono costituire interventi di prevenzione già in tenera età. La distinzione tra t. di sorgente e t. di superficie può essere di guida nell’educazione poiché offre una realistica possibilità di prevedere l’efficacia di un intervento in quanto i primi sono più resistenti al cambiamento dei secondi. Infine i t. danno la possibilità di prevedere (ed anche prevenire) l’esito dell’interazione tra il soggetto e la situazione specifica nell’adattamento scolastico, professionale e sociale (​​ orientamento, teoria di Holland).

Bibliografia

Mischel W.,​​ Personality and assessment, New York, Wiley, 1968; Rogers T. B.,​​ The psychological testing enterprise: an introduction, Pacific Grove, Brooks / Cole, 1995; Matthews G. - I. J. Deary,​​ Personality traits, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; Ostendorf F.- R. Riemann,​​ Personality and personality disorders: introduction to the special issue, in «European Journal of Personality» 19 (2005) 249-256; Livesley W. J. - K. L. Jang,​​ Differentiating normal,​​ abnormal,​​ and disorder personality, in «European Journal of Personality» 19 (2005), 257-268; Teglasi H. - A. G. Simcox - N. Y. Kim,​​ Personality constructs and measures, in «Psychology in the Schools» 44 (2007) 215-228.

K. Poláček




TUTORE

 

TUTORE

Dal lat.​​ tutor​​ (protettore, custode, difensore), giuridicamente il t. è preposto alla difesa dei diritti di un minore, di un incapace o di un interdetto. Nel linguaggio pedagogico t. sta ad indicare la figura e il ruolo di chi sostiene in modo personalizzato 1’​​ ​​ apprendimento degli alunni, affiancando l’opera educativa dell’insegnante.

1. La pratica del tutorato trova i suoi precedenti storici nell’azione dei precettori dei giovani nobili e nelle forme di​​ tutoring​​ dei collegi aristocratici inglesi (che in ciò riprendevano tradizioni di scuole monastiche o episcopali). In alcuni Paesi la figura e il ruolo del t. è stata giuridicamente prevista per tutti gli alunni nel contesto di processi di apprendimento scolastico ed universitario. Il t. si distingue dal​​ counselor​​ e dall’orientatore in virtù di una sua più intensa e diretta attività formativa.

2. Mentre l’insegnante conduce la sua attività di istruzione e di formazione sull’intera classe, il t. aiuta i singoli alunni nell’apprendimento e nel superamento delle difficoltà di adattamento generale. Secondo le necessità individuali egli rivede i loro lavori scritti, suggerisce metodi di apprendimento più efficaci, li sostiene nelle crisi e li aiuta nelle decisioni scolastiche ed esistenziali. Il suo ruolo è espresso bene anche con i tre seguenti termini: guida, consigliere ed amico. Nel compito del t. vi è una «estensione» dell’opera educativa dei genitori dell’alunno, poiché egli contribuisce sia alla sua formazione intellettuale sia a quella etico-morale.

3. Diversamente dagli altri Paesi europei in Italia il t. è stato introdotto nella scuola solo recentemente (2003). La Marca (2005) ha elaborato un dettagliato quadro teorico-pratico per la formazione degli insegnanti-tutor ai loro compiti. L’autrice, in sostanza, riprende e amplia i compiti del t. riportati al n. 2 articolandoli nei seguenti argomenti: analisi delle caratteristiche sulle quali si fonda la professionalità del t., diversamente la capacità di dialogo, relazione empatica nei confronti dei destinatari della sua attività professionale e cioè verso gli alunni e i loro genitori. Particolarmente importante è la relazione con i genitori perché il suo compito è quello di stabilire un collegamento tra famiglia e scuola e fondare in tal modo l’unità di criteri dell’azione educativa. L’autrice poi, seguendo alcuni autori stranieri, definisce le competenze dell’insegnante tutor «riflessivo» raggruppate in cinque campi sotto i titoli: competenze legate alla vita della classe; competenze individuate nel rapporto con gli alunni e con le loro particolarità; competenze connesse con le discipline insegnate; competenze relative all’ambiente sociale e infine competenze inerenti alla persona. Vengono poi dati validi consigli su come condurre il colloquio con gli alunni di vari livelli di scolarità. C’è solo da augurarsi che la valida proposta per la formazione dei tutor della autrice possa trovare la piena realizzazione nella scuola di ogni ordine e grado della scuola italiana.

4. Nei Paesi in cui il t. svolge la sua attività nella scuola, da vari decenni è stato possibile verificare l’effetto sugli alunni di interventi programmati e svolti collegialmente. Secondo alcune ricerche riassunte da Cohen, Kulik e Kulik (1982), il risultato è stato molto positivo: gli alunni che hanno partecipato ai vari programmi hanno migliorato il rendimento, hanno potenziato il concetto e la stima di sé ed hanno pure migliorato l’atteggiamento verso le discipline scolastiche.

Bibliografia

Artigot Ramos M.,​​ La tutoría,​​ Madrid, Universidad Complutense,​​ 1973; Cohen P. A. - J. A. Kulik - C. L. Kulik,​​ Educational outcomes of tutoring: a meta-analysis of findings,​​ in «American Educational Research Journal» 19 (1982) 237-248; La Marca A.,​​ La funzione educativa dell’insegnante-tutor,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 835-857.

K. Poláček