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STATUS

 

STATUS

Comunemente il significato di s. viene spiegato facendo riferimento alla posizione riconosciuta a un individuo in una determinata struttura sociale.​​ 

1. In una​​ ​​ società stratificata i gruppi sociali sono in rapporto gerarchico tra di loro e a ciascuno viene attribuito un particolare livello a seconda della funzione e del ruolo esercitato. Si tratta, in verità, di un costrutto mentale, che esprime quello che gli altri pensano circa il valore di una persona. Questa collocazione, che può anche non confermare quello che uno pensa di sé, viene realizzata a partire dai criteri di valutazione utilizzati nella società in cui si vive; essa individua un insieme di diritti e di doveri e i comportamenti corrispondenti, ai quali corrisponde un particolare grado di stima e di prestigio che la collettività è pronta a riconoscere. La strutturazione di s. ha una fondamentale importanza nell’organizzazione della società perché ci dice la diversità delle funzioni che la costituiscono e il valore che ad esse viene attribuito.

2. I fattori che determinano l’attribuzione di s. dipendono dal tipo di società. In genere sono riconosciuti come fattori importanti la nascita, la ricchezza, l’istruzione, l’attività professionale e la funzione specifica che essa svolge in situazioni particolari della stessa società; hanno anche una notevole incidenza, in alcuni sistemi sociali, la razza, il sesso, l’età. Una distinzione ormai classica circa l’attribuzione di s. è quella che risale a R. Linton (1936). Egli parla di s. attribuito (ascritto) che dipende da fattori non legati alle scelte individuali (nascita, razza, sesso, età, ecc.) e di s. acquisiti, raggiunti cioè tramite l’intraprendenza individuale. Possiamo ancora sottolineare che ogni individuo ha numerosi s. a seconda dei gruppi di appartenenza e delle funzioni che svolge nella società; fra essi ve ne è comunque sempre uno che esercita l’influenza maggiore nel determinare la sua collocazione nella scala sociale e viene indicato come «s.-chiave». A volte può anche capitare che si verifichi un «conflitto di s.» (tra lo s. familiare e quello professionale, tra quello politico e quello religioso, ecc.), perché la persona non riesce ad armonizzare bene i diversi ruoli-s. che esercita.

3. Lo s. di un individuo non dipende soltanto dalla posizione personale nei gruppi sociali o nelle istituzioni, ma anche dalla collocazione dei gruppi e istituzioni nella gerarchia sociale e dalla loro capacità di far prevalere nel sistema sociale alcuni fattori di s. piuttosto che altri. Nel XVIII sec., ad es., la borghesia riuscì a far prevalere lo s. economico su quello della nascita e a far riconoscere l’importanza della sua funzione sociale, poiché seppe sfruttare il prestigio e l’autorità che determinate professioni avevano assunto all’interno del sistema economico.

Bibliografia

Linton R.,​​ The study of man,​​ New York, Appleton-Century-Crofts, 1936; Parsons T.,​​ Il sistema sociale,​​ Bologna, Il Mulino, 1965; Fichter J. H.,​​ Sociologia,​​ strutture e funzioni sociali,​​ Roma, Onarmo, 1969; Pavan P.,​​ Introduzione alla sociologia,​​ Roma, Studium, 1973.

V. Orlando




STEFANINI Luigi

 

STEFANINI Luigi

n. a Treviso nel 1891 - m. a Padova nel 1956, filosofo e pedagogista italiano.

1.​​ Cenni biografici.​​ Libero docente in pedagogia nel 1925, nel ’31 ebbe l’incarico di questa disciplina presso l’università di Padova, dove si era laureato in filosofia e in lettere. A Messina, nel 1936-37 tenne la cattedra di filosofia teoretica. L’anno successivo fu chiamato a Padova per ricoprire l’insegnamento di pedagogia. Dal 1940 passò a quello di storia della filosofia. Insegnò per diversi anni anche estetica. Nel secondo dopoguerra, S. contribuì alla nascita del Centro di Studi Filosofici di Gallarate (1945), alla ripresa dell’Associazione Pedagogica Italiana (1950) e della Società Filosofica Italiana (1952), nonché all’avvio di​​ Scholé​​ (1954). Fu membro della Consulta Didattica Nazionale e, nel 1951, presidente del Centro Didattico Nazionale per la Scuola Secondaria.

2.​​ Da «Idealismo cristiano» a «Spiritualismo cristiano».​​ Tra gli anni venti e trenta del sec. XX, S., in serrato confronto con il pensiero gentiliano, dal quale prese sempre le distanze pur avvertendone il «fascino», giungeva a denominare​​ Idealismo cristiano​​ la sua prima sintesi teoretica. Un quadro sistematico della sua pedagogia si aveva nel trattato del 1932,​​ Il​​ rapporto educativo.​​ La forte connotazione «spiritualistica» del discorso si saldava però con un’equilibrata e «realistica» attenzione per il complesso dei fattori bio-psichici e socio-culturali interferenti con l’educazione. Tra i primi in Italia ad approfondire l’esperienza dell’attivismo, S. apprezzava l’anima didatticamente innovatrice del movimento, ma criticava la riduttiva visione antropologico-pedagogica di parecchi suoi esponenti, che tendeva a limitare gli interessi personali dell’alunno alla sfera bio-psichica, a ravvisare nell’attività del discente l’aspetto prevalentemente utilitaristico, a reputare la libertà dell’educando quasi in contrapposizione con l’autorità dell’educatore. Non minore tempestività egli mostrò nell’analizzare l’esistenzialismo filosofico e pedagogico tedesco, giungendo, fra l’altro, a una decisa opposizione verso i pedagogisti della cosiddetta «Sinistra diltheyana», fautori di un’educazione razzistica e statolatrica. La seconda fase della sua riflessione, compresa fra l’inizio degli anni trenta e i primi anni quaranta, ebbe il punto di arrivo teoretico con​​ Spiritualismo cristiano​​ (1944).

3.​​ L’approdo al personalismo.​​ Il nucleo centrale della teoresi dello S., nella terza e conclusiva fase di sviluppo, era così indicato: «L’essere è personale e tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione della persona e di comunicazione tra le persone». Da qui la definizione della persona come «parola». Con ciò egli riconosceva al soggetto intrinseca virtù comunicativa, espressiva e «allusiva», che gli consente di «dirsi», stabilendo relazioni con l’intera realtà e attribuendo ad essa significato. La «metafisica della persona» costituì presupposto fondante dell’abbozzo di​​ «summa​​ personalistica», con sviluppi in direzione della filosofia morale e sociale, dell’estetica e della pedagogia. Questa, in particolare, la «formula» del​​ ​​ personalismo pedagogico: «il fine immediato dell’educazione è la maieutica della persona e ogni altra finalità, essa stessa personalisticamente intesa, è da conseguirsi attraverso la mediazione della persona del singolo». Nella pedagogia di S. balzano in evidenza quali motivi caratteristici: il «primato educativo» dell’infanzia; la ricerca di un equilibrio realistico fra il «pelagianesimo pedagogico» di​​ ​​ Rousseau e il «giansenismo pedagogico» di​​ ​​ Freud; la visione dell’educazione come​​ metanoia;​​ la preminenza dell’intimità della coscienza contro i rischi della dissipazione; l’accento sui valori morali, sociali, estetici e religiosi; la «sinergia» tra maestro e alunno; l’apprezzamento per la «didattica degli esemplari»; l’attenzione al «concreto» esistenziale e storico; la prospettiva della «scuola del dialogo». Dal 1996 la Fondazione L.S. di Treviso si propone di onorare la memoria dell’autore e diffonderne il pensiero, riprendendolo e attualizzandolo.

Bibliografia

a)​​ Fonti​​ (opere di S. più significative dal punto di vista pedagogico):​​ La pedagogia dell’idealismo giudicata da un cattolico,​​ Torino, SEI, 1927;​​ Il​​ rapporto educativo. Proemio alla scienza dell’educazione,​​ Padova, CEDAM, 1932;​​ Mens cordis. Giudizio sull’attivismo moderno,​​ Ibid., 1933;​​ Il momento dell’educazione. Giudizio sull’esistenzialismo,​​ Ibid., 1938;​​ Pedagogia e didattica,​​ Torino, SEI, 1947;​​ Educazione estetica e artistica,​​ Brescia, La Scuola, 1954;​​ Personalismo educativo,​​ Roma, Bocca, 1955. b)​​ Studi:​​ Rigobello A., «L’itinerario speculativo di L.S.», Introduzione a L.S.,​​ Personalismo sociale,​​ Roma, Studium,​​ 21979; Caimi L.,​​ Educazione e persona in L.S.,​​ Brescia, La Scuola, 1985; Calaprice S.,​​ L’esigenza di un progetto in pedagogia. La proposta di L.S.,​​ Bari, Adriatica, 1990; Prellezo J. M.,​​ L.S. (1891-1956). Approccio al «personalismo educativo»,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 38 (1991) 1309-1337; Corrieri L.,​​ L.S.: un pensiero attuale, Milano, Prometheus, 2002; Cappello G.,​​ L.S. Dalle opere e dal carteggio del suo archivio, Quinto di Treviso, Europrint Edizioni, 2006.​​ 

L. Caimi




STEINER Rudolf

 

STEINER Rudolf

n. a Kraljevec nel 1861 - m. a Dornach (Svizzera) nel 1925, pensatore tedesco di ispirazione romantica.

1.​​ Vita ed opere.​​ Già membro della Società Teosofica (1875), fondatore della Società Antroposofica (1913), fu ideatore del modello educativo (Libera Scuola Waldorf, Stoccarda, 1919, in ted.​​ Freie Waldorfschule)​​ seguito dalle scuole omonime aderenti al «movimento pedagogico steineriano». Nato da genitori originari dell’Austria, momentaneamente trasferitisi a Kraljevec, il piccolo S. frequenta la scuola tecnica a Vienna. Sin dall’età di dieci anni, è attratto dalle conversazioni di un amico medico che gli parla di Lessing, Goethe, Schiller. A ventitré anni vive una profonda esperienza educativa, insegnando ad un bambino con difficoltà intellettuali. Nel 1884 cura le introduzioni alle opere scientifico-naturali di Goethe e riflette sui concetti di uomo, mondo e natura, nonché sul metodo delle scienze naturali (La filosofia della libertà,​​ 1894). L’humanitas​​ di Goethe in cui si fondono antico e moderno, istinto e saggezza così da costituire l’unità inscindibile dell’essere e della sua storia che procede per metamorfosi eterne ed infinite costituisce il suo riferimento costante (La concezione goethiana del mondo,​​ 1897). S. scopre tuttavia qualcosa d’altro, rimasto, a suo giudizio, sconosciuto al poeta tedesco e ne fa l’obiettivo di tutta la sua vita (cfr.​​ Teosofia. Introduzione alla conoscenza soprasensibile del mondo e del destino umano,​​ 1904). Attraverso conferenze e scritti (si contano oltre 6000 conferenze e 354 voll.) destinati ad un pubblico variegato, egli invita a percorrere la «via della conoscenza», l’antroposofia o scienza dello spirito, intesa a guidare dallo spirituale individuale allo spirituale universale.

2.​​ La pedagogia steineriana.​​ Il primo saggio pedagogico dell’A. è intitolato​​ L’educazione del bambino dal punto di vista della scienza dello spirito​​ (Educazione del bambino e preparazione degli educatori,​​ Milano, Antroposofica, 1965). Tale pedagogia scaturisce dal metodo steineriano del risveglio interiore ed ha carattere scientifico-spirituale. Essa è antroposofica, cerca di coniugare l’uomo con il divenire cosmico in cui acquistano significato e direzione il presente, il passato ed il futuro e vede nel bambino in crescita un essere nel quale le parti costitutive di corpo, anima, spirito devono essere nobilitate e purificate dall’io. L’educatore dallo «sguardo psicologico» impara a pensare l’unità dell’essenza umana, segue lo sviluppo del bambino e sa influire su di esso perché sia armonico ed equilibrato. La Libera Scuola Waldorf ha un suo piano di studi in cui ampio spazio viene dato alle attività intellettuali, manuali, spirituali, all’euritmia intesa come «parola visibile». Nel 1993 si contano 52 istituti dove si svolgono corsi di formazione all’insegnamento (Lehrerseminare)​​ e 619 scuole R.S. diffuse in tutti i continenti. In ogni Paese il piano di studio è adattato alle esigenze locali anche al fine di permettere i riconoscimenti istituzionali necessari. Considerazione particolare meritano le comunità terapeutiche steineriane (Camphill)​​ che seguono i principi antroposofici nella diagnosi e nella cura dei soggetti con​​ ​​ handicap. Il consenso pedagogico che in genere le iniziative steineriane ricevono tende ad essere direttamente proporzionale alla capacità di apertura e di comunicazione del movimento in cui gli adepti si riconoscono e con cui i seguaci si confrontano, nonché alla disponibilità di ascolto di coloro i quali ne avvertono la presenza.

Bibliografia

Chistolini S.,​​ Scuola R.S. Teoria prassi sviluppo,​​ Roma, La Goliardica,​​ 21998; Id.,​​ Il Camphill in Scozia,​​ in «I Problemi della Pedagogia» 38 (1992) 249-268; Id.,​​ Nella libertà educare alla libertà,​​ Lecce, Pensa MultiMedia, 2001; Id.,​​ Oltre​​ la Scuola S. e il metodo Montessori. Si chiama Homeschooling la risposta della famiglia alla crisi sociale della scuola, in «Il Nodo. Scuole in rete» 9 (2006) 30, 19-26.

S. Chistolini




STILE DI VITA

 

STILE DI VITA

Lo s.d.v. esteriorizza l’immagine di sé privata e pubblica, consapevole e intenzionale, intima e comunicativa, che ogni persona assume ed esprime.

1. Come ogni forma esistenziale, lo s.d.v. si costruisce, matura, cambia relativamente. È legato a età, sesso, costituzione, carattere emotivo e reattivo, personalità olistica e soprattutto spirituale, nonché influssi d’ambiente. È unificato o tende a uniformità, tra rigidità bloccata dentro e dura all’esterno, labilità imprevedibile e sconcertante, fluidità capace di molti volti e adattamenti. Esso si costruisce e si educa insieme all’individualizzazione della persona, non solo tollerata, ma privilegiata nella cultura moderna. Lo s.d.v. oggi risente dell’inserimento dell’individuo nell’uguaglianza planetaria con tutti. Esprime l’appartenenza a minoranze qualificate di età, sesso, cultura e sottocultura, professione, stato di vita. Si colloca nello spazio prezioso dove ognuno è uguale solo a sé e ha su tutto sempre qualcosa di suo da dire agli altri, determinando accettazioni e rapporti.

2. In genere lo s.d.v. è un sottosistema della persona legato a condizioni e scelte sostanziali che obbligano o consigliano lo s.d.v. come modo d’uso del tempo, come forme del fare, dire, rapportarsi, scegliere, avere, essere, dare. Lo s.d.v. è collegabile ai tipi ideali. Questi sono costruzioni teoriche semplificanti. In rapporto ad essi lo s.d.v. può essere libero e personalizzato, imposto, conformista, tradizionale, inespressivo, forzato; o anche estroso, provocante, controcorrente, esotico. I costumi e le mode lo sostengono, ma anche lo banalizzano nella ripetizione, lo privano di creatività, di originalità e di quella varietà che arricchisce ambienti e gruppi quando è produzione interna e linguaggio comunicativo esterno capace di concretizzare valori in forme e messaggi. Lo s. conformista può venire premiato, imposto, controllato, rifiutato. L’anticonformismo molte volte si traduce in banale mancanza di gusto, in ostentazione di diversità provocanti prive di contenuti e messaggi, in trasgressione più immaginata che reale.

3. Dal punto di vista pedagogico, lo s.d.v. può essere inteso come parte dei contenuti dell’educazione, nasce dai suoi metodi, qualifica i risultati possessivi. Considerato in se stesso è un «oggetto» particolare dell’educazione. Infatti lo s.d.v. è educabile; esso attraversa fasi di imitazione ripetitiva, di critica o rifiuto, di ricerca e prova, di creatività originale e personale. Gruppi o ambienti possono crearne uno e offrirlo o tendere a imporlo a tutti. Lo s. personale dell’educatore ha molte conseguenze, non solo sul piano dell’esemplarità ripetitiva. Se valido, è testimonianza da interpretare per andare oltre verso il proprio s.d.v. È via di educazione indiretta, offerta privilegiando concezioni di vita, idee di sé, orizzonti di valori, con coscienza e modalità di comunicazione e coinvolgimento significative.

Bibliografia

Henz H.,​​ Lehrbuch der systematischen Pädagogik,​​ Freiburg, Herder,​​ 1964; Battistella G.,​​ Nuovi s.d.v.: intuizioni ed esperienze,​​ Bologna, EMI, 1995.

P. Gianola​​ 




STILI DI APPRENDIMENTO

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STILI DI APPRENDIMENTO

Gli s.d.a. vengono collocati in​​ ​​ psicologia differenziale come strutture individuali per mezzo delle quali le persone si distinguono una dall’altra. Essi traggono la loro origine dagli s. cognitivi che nel passato venivano distinti dagli s.d.a., mentre attualmente sono loro assimilati. Tutti e due gli s. hanno la loro radice nelle abilità mentali generali e specifiche. Le abilità mentali differenziate portano il soggetto a percepire la realtà e organizzarla in strutture personali.

1.​​ S. cognitivi.​​ Il processo individualizzato inizia con la raccolta delle informazioni che si svolge in due differenti modi: visivo o sensibile. I dati percepiti possono essere organizzati in modo seriale oppure olistico e nello stesso tempo possono essere giustapposti formando una struttura analitica oppure messi in rapporto significativo formando una struttura relazionale. Oltre al modo in cui vengono raccolte e elaborate le informazioni, è importante il modo con cui avviene il controllo cognitivo sullo stimolo. Da tale modo derivano vari s. cognitivi tra i quali i più ricorrenti sono: dipendenza o indipendenza dal campo, rigidità o flessibilità, impulsività o riflessività, complessità o semplicità cognitiva, livellamento o rilevamento (minimizzare o potenziare le differenze), verbalizzazione o visualizzazione. Gli s. cognitivi sono formati dalla componente razionale e da quella affettiva. La prima è rappresentata dalla elaborazione delle informazioni e dei concetti, la seconda dall’attenzione, motivazione e persistenza. Lo s. cognitivo, secondo Kogan (1982), può essere inteso come una «variazione individuale nel modo di percepire, ricordare e pensare, come anche ad apprendere, immagazzinare, trasformare e utilizzare le informazioni» (p. 586). Lo s. cognitivo, quindi, è una elaborazione personale degli stimoli ambientali in strutture significative e più o meno consistenti (Poláček, 1987). Gli s. cognitivi sono numerosi e in molti casi si sovrappongono. Spesso uno s. viene usato per definirne un altro (Jonassen e Grabowski, 1993); per es., il soggetto riflessivo (opposto all’impulsivo) viene descritto analitico, verbale e focalizzante. Il soggetto olistico è introverso, impulsivo, emotivo e flessibile. Alcuni autori pensano che tutti gli s. cognitivi possono essere ricondotti a due dimensioni bipolari, disposte in rapporto ortogonale: globale - analitica e verbale - immaginativa.

2.​​ Singoli s.d.a.​​ Quando i soggetti devono apprendere i contenuti delle singole materie, tendono a farlo in base alle loro strutture cognitive. Allo s. cognitivo si associa il contenuto specifico e in tal modo ha origine lo s.d.a. La combinazione di queste componenti è molto chiara nello s.d.a. di J. E. Hill in cui l’approccio teorico, canale percettivo (visivo - uditivo) e contenuto (linguistico - quantitativo) sono combinati in quattro tipi di apprendimento ed alcuni sottotipi. Le percezioni sensoriali (uditive, visive, tattili e motorie), insieme con le modalità ambientali (illuminazione, rumori, temperatura), stanno alla base degli s.d.a. di R. Dunn e K. Dunn. La stessa conduzione dell’apprendimento può essere impostata sui vari s. A. F. Grasha e S. W. Riechmann hanno focalizzato l’attenzione sulla modalità con cui l’alunno partecipa alla conduzione dell’insegnamento: coinvolto - evitante, collaborativo - competitivo, indipendente - dipendente (Jonassen e Grabowski, 1993). A. F. Gregorc ha impostato l’apprendimento sullo s. cognitivo (concreto - astratto) e sul modo con cui l’alunno procede nel suo lavoro: sequenziale (o ordinato) e casuale. Dalla combinazione delle due variabili contrapposte sorgono quattro tipi di apprendimento: concreto - sequenziale, concreto - casuale (Jonassen e Grabowski, 1993). Infine D. A. Kolb ha dedotto gli s.d.a. dal modo in cui procede una corretta schematizzazione del reale dall’esperienza concreta alla sperimentazione attiva. Si tratta di due coordinate in netta opposizione logica e disposte in rapporto ortogonale: esperienza concreta - concettualizzazione astratta e osservazione riflessiva - sperimentazione attiva. Nei quadranti delle due variabili si situano quattro tipi di apprendimento: convergente, divergente, assimilativo e accomodante (Poláček, 1987). I quattro tipi sono associati logicamente con quattro tipi di ambienti di apprendimento: ambiente orientato affettivamente, percettivamente, cognitivamente e comportamentalmente. La conoscenza dell’associazione offre al docente utili spunti per la conduzione individualizzata dell’apprendimento dei soggetti a tutti i livelli di scolarità (Poláček, 2001). Molti s.d.a. possono essere accertati con strumenti sufficientemente oggettivi, come riportato da Jonassen e Grabowski e adatti a rilevare tanto i tipi cognitivi quanto quelli di apprendimento.​​ 

3.​​ Strategie di apprendimento.​​ Agli s.d.a. sono subordinate le strategie di apprendimento; esse sono impostate sul procedimento o sul metodo più efficace per apprendere molti contenuti, apprenderli fedelmente e assimilarli nelle strutture mentali in modo duraturo. L’attuale ricerca non si scosta in realtà dall’approccio ai contenuti usato negli anni settanta e noto sotto la formula SQ3R (Survey,​​ Question,​​ Read,​​ Recite,​​ Review).​​ La formula propone al soggetto i seguenti cinque passi dà compiere per apprendere un testo complesso: a) sguardo d’insieme; b) porsi degli interrogativi; c) lettura: rilevare argomenti principali e parole chiavi; d) esprimere con le proprie parole il contenuto e verificare la completezza dell’apprendimento; e) rivedere il testo dopo un certo tempo (​​ studio). La qualità dell’apprendimento dipende dalle abilità del soggetto e dall’impegno usato nei singoli passi. Vi è un accordo quasi unanime tra gli autori circa il fatto che in base a tali variabili l’apprendimento può essere​​ profondo​​ oppure​​ superficiale.​​ L’apprendimento profondo avviene quando il soggetto è coinvolto nell’argomento in modo personale e creativo. L’apprendimento superficiale al contrario si verifica quando il soggetto dedica un’eccessiva attenzione ai dettagli, riproduce fedelmente il testo ed è distaccato affettivamente dai contenuti. Vari autori hanno identificato un terzo approccio, detto​​ strategico.​​ In questo caso il soggetto ottimizza le sue risorse in modo tale da ottenere buoni risultati e secondo i casi adotta l’approccio profondo o quello superficiale. Esistono vari questionari adatti a rilevare i tre tipi di approcci insieme ad altri aspetti dell’apprendimento elaborati da De Beni et al. (2003), Pellerey (1996) e Poláček (2005). I processi rilevati sono poi associati con alcune componenti della personalità (​​ concetto di sé,​​ ​​ stima di sé,​​ ​​ autoefficacia).

4.​​ Utilizzazione pedagogica.​​ Per lungo tempo gli s. cognitivi non hanno trovato un’applicazione pratica. Quando è stata intravista la possibilità di fondare su di essi l’apprendimento, l’utilizzazione ha assunto vaste proporzioni in campo educativo. Gli s.d.a. richiamano l’attenzione sul metodo di insegnamento come anche sul metodo di apprendimento, mettendo in un rapporto le due realtà (docente - alunno). Essi pongono in risalto i bisogni individuali dell’alunno nell’apprendimento prendendo in considerazione il suo s. come anche la necessità di usare vari metodi e adottare differenti sussidi in modo tale da andare incontro alle esigenze dell’intera classe. Alcuni ricercatori suppongono che l’apprendimento possa essere facilitato nel caso in cui vi sia una corrispondenza o almeno una affinità tra lo s. di insegnamento del docente e lo s. dello studente (Poláček, 2005). L’insegnante dovrà non soltanto potenziare alcuni s.d.a. ma correggere tutti quelli che non conducono ad un apprendimento completo. Recentemente è stato constatato che lo s. olistico e lo s. verbale sono complementari, come lo sono anche quello analitico e immaginativo. Da alcune ricerche emerge che l’uso del materiale didattico opposto allo s. cognitivo dell’alunno (olistico o seriale) portava ad un apprendimento più lento e meno fedele, mentre quello consono allo s. produceva un apprendimento rapido e fedele. I processi di apprendimento possono essere migliorati con opportuni interventi sulla motivazione, sulla metacognizione e sul consolidamento riducendo in tal modo la motivazione intrinseca degli alunni (Poláček, 2006). Infine le coordinate di Kolb si prestano alla valutazione della qualità e della specificità dell’apprendimento in rapporto alle differenti istituzioni formative (indirizzi della secondaria di secondo grado e facoltà universitarie). Kolb (1981) ha pure constatato che tanto le singole discipline quanto i metodi usati in una determinata istituzione creano un clima differenziato e di conseguenza formano dei processi cognitivi corrispondenti. Tra le varie conferme che tali processi siano stabili e presenti anche nell’esercizio della professione può essere ricordata quella di Curry (1991), che ha riscontrato la presenza delle due variabili di Kolb in modo differente tra chirurghi, pediatri e medici generici.

Bibliografia

Kolb D. A., «Learning styles and disciplinary differences», in A. W. Chickering (Ed.),​​ The modern American college,​​ San Francisco, Jossey-Bass, 1981; Kogan N., «Cognitive styles in older adults», in T. M. Field et al. (Edd.),​​ Review of human development,​​ New York, J. Wiley, 1982; Poláček K.,​​ S.​​ cognitivi nell’orientamento,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 34 (1987) 841-860; Curry L.,​​ Patterns of learning style across selected medical specialities,​​ in «Educational Psychology» 11 (1991) 247-277; Jonassen D. H. - B. L. Grabowski,​​ Handbook of individual differences,​​ learning,​​ and instruction,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1993; Pellerey M.,​​ Questionario sulle strategie di apprendimento,​​ Roma, LAS, 1996; De Beni R. et al.,​​ Psicologia cognitiva dell’apprendimento, Trento, Erickson, 2003; Poláček K.,​​ S. cognitivi e s.d.a.: Rapporto e utilizzazione, in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 639-653; Id.,​​ QPA - Questionario sui Processi di Apprendimento.​​ Superiori e università, Firenze, O.S., 2005; Id.,​​ Questionario sui processi di apprendimento: Un’integrazione al manuale, in «Orientamenti Pedagogici» 53 (2006) 249-269.

K. Poláček​​ 




STILI EDUCATIVI

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STILI EDUCATIVI

Quando parliamo di s.e. facciamo riferimento ad una modalità stabile di comportamento e di relazione con gli educandi che definisce il clima all’interno del​​ setting​​ educativo stesso. Secondo Weber (1973) gli s.e. «sono possibilità interdipendenti del comportamento educativo, caratterizzati da tipici complessi di pratiche educative».

1. Uno dei maggiori contributi concernenti gli s.e. è offerto dal lavoro di Lewin, Lippit e White (1939) i quali, in riferimento alla guida dei gruppi, hanno individuato tre categorie di stili: autoritario,​​ laissez faire, democratico. La​​ leadership​​ autoritaria​​ si caratterizza essenzialmente per l’alto grado di controllo esercitato dal leader sui membri del gruppo, per l’unidirezionalità verticistica delle comunicazioni e per l’esclusione dei collaboratori dalle diverse fasi del processo decisionale. Al contrario, la​​ leadership​​ laissez-faire​​ rinuncia al controllo nei confronti dei subordinati, lascia loro ampi spazi di autodeterminazione anche a scapito dell’efficienza del gruppo, non favorisce una chiara definizione dei ruoli. La​​ leadership​​ democratica​​ evita i rischi presenti nelle due precedenti modalità gestionali, attraverso una conduzione del gruppo partecipativa e responsabilizzante. Le forme comunicative sono di tipo circolare, il leader non rinuncia al proprio ruolo di guida, ma al contempo permette ai subordinati di prendere parte attiva al processo decisionale.

2. Le reazioni registrate nei soggetti in rapporto alle differenti modalità di gestione del gruppo consistono in: un senso di maggior efficienza e produttività, anche se a scapito del clima interpersonale, in coincidenza con lo s. autoritario; marcate sensazioni di confusione e di disorientamento in presenza di uno s.​​ laissez-faire; un incremento della motivazione, del senso di responsabilità e della partecipazione, una maggiore cura delle dinamiche socio-relazionali (sebbene ciò possa inizialmente mortificare l’efficienza del gruppo), in concomitanza di uno s. democratico.

3. In ambito più strettamente pedagogico per riferirsi agli s. suddetti si utilizzano prevalentemente i termini autoritario-direttivo, permissivo, autorevole-responsabilizzante. Lo s. autoritario-direttivo si caratterizza per un’alta direttività da parte dell’educatore che lascia scarsa autonomia decisionale agli educandi assumendosi ogni responsabilità; prevalgono ordini, lodi, biasimi, critiche ed un certo distacco. Lo s. permissivo si contraddistingue per una mancanza di autorevolezza da parte dell’educatore che non offre agli educandi alcun supporto, rinunciando a porre regole e astenendosi dal lodare e dal criticare. Lo s. autorevole-responsabilizzante è proprio dell’educatore che mostra comprensione e interesse per gli educandi, ne incoraggia l’autodirezionalità, il libero impegno, pur svolgendo funzioni orientative e normative. L’educatore con queste caratteristiche si pone come guida che indica il cammino, ma lascia agli educandi la possibilità di sperimentare, di agire, di crescere nell’autodirezionalità.

4. Circa gli effetti psichici sugli educandi dei suddetti s.e., alcuni ricercatori (Tausch-Tausch, 1979) hanno evidenziato interessanti correlazioni. Allo s. direttivo autoritario tendono a correlarsi: diminuzione della individualità e della varietà espressiva, maggiore tensione, eccitabilità, aggressività, modesta attività comune, comportamenti più egocentrici che comunitari, sottomissione o reattività. Allo s. permissivo tendono invece a correlarsi:​​ disorientamento, confusione, demotivazione, percezione di trascuratezza e abbandono. Allo s. autorevole-responsabilizzante tendono, infine a correlarsi:​​ maggiore molteplicità di modalità comportamentali, atmosfera più lieta e rilassata, rapporti più spontanei ed amichevoli, corresponsabilizzazione e autosupporto. Sempre in riferimento agli effetti psichici che possono correlarsi all’assunzione di determinati s. da parte dell’educatore, Kendall e Di Pietro (1995) caratterizzano alcuni s. genitoriali che spesso sono il frutto di convinzioni irrazionali, e che possono predisporre i figli a forme di pensiero e di comportamento disfunzionale: lo s. iperansioso, lo s. iperprotettivo, lo s. ipercritico, lo s. perfezionistico, lo s. incoerente. Lo​​ s. iperansioso​​ si riscontra in quei genitori che si preoccupano eccessivamente per la sicurezza fisica del proprio figlio e che tendono ad inviare messaggi nei quali è inclusa frequentemente l’idea del pericolo. È probabile che la ripetuta esposizione a questo genere di messaggi favorisca nei figli una rappresentazione del mondo come potenzialmente minaccioso e comportamenti ansiosi e di ricerca ossessiva di sicurezza. Lo​​ s. iperprotettivo, è per alcuni aspetti simile al precedente, ma in questo caso anziché preoccuparsi per l’incolumità fisica del proprio figlio i genitori si preoccupano eccessivamente per la sua incolumità emotiva, evitandogli ogni minima frustrazione. Animati dalla convinzione che ogni esperienza spiacevole può diventare un trauma, tali genitori tendono ad eliminare tutte le possibili fonti di disagio nella vita dei propri figli, incoraggiando una bassa tolleranza alla frustrazione, un eccesso di egocentrismo e impoverendo, al contempo, lo strutturarsi di una personalità resiliente. Lo​​ s. ipercritico​​ è caratterizzato dalla tendenza a notare ed ingigantire gli errori e le manchevolezze del proprio figlio e a dare per scontati i comportamenti positivi; pertanto l’interazione educativa si caratterizza per un’elevata frequenza di critiche e rimproveri che possono essere manifestati apertamente oppure in modo sottile. Questo s. facilmente può favorire paura di sbagliare, paura di essere disapprovato, isolamento sociale, basso livello di autostima, comportamenti di evitamento. Lo​​ s. perfezionistico,​​ è proprio di quei genitori che sono portati a ritenere sbagliato ciò che non è perfetto al cento per cento, e pertanto esigono dai propri figli livelli di prestazione molto elevata, indipendentemente dalle oggettive difficoltà del compito. Sostenuti dalla convinzione che bisogna riuscire bene in tutte le cose e avere successo, tali genitori possono trasmettere al proprio figlio l’idea che egli vale qualcosa e merita di essere amato nella misura in cui riesce in tutto quello che fa. Il figlio può così far proprio un atteggiamento perfezionistico, impara a temere la disapprovazione ed il rifiuto qualora non dovesse riuscire pienamente, a considerare la possibilità di sbagliare come una catastrofe, a vivere la prestazione con un carico di ansia eccessivo. Lo​​ s. incoerente,​​ è proprio di quei genitori che tendono ad utilizzare rinforzi in modo non contingente, gratificando o punendo il figlio a seconda del loro umore anziché in base all’adeguatezza o meno del suo comportamento. L’incoerenza, che talvolta può risiedere nello stesso genitore, altre volte tra i genitori, è fonte di disorientamento per il figlio in quanto non permette a quest’ultimo di prevedere gli effetti del proprio comportamento; inoltre a lungo andare può contribuire alla costruzione di un’immagine negativa e scarsamente autorevole degli stessi genitori.​​ 

5. L’analisi delle correlazioni esistenti tra s.e. ed effetti psichici sugli educandi, non deve farci cadere in facili determinismi; in ambito psicosociale, infatti, il nesso di causalità tra fattore di rischio ed esito disfunzionale, non è di tipo lineare, ma processuale; tuttavia possiamo senz’altro affermare che l’assunzione consistente, da parte degli educatori, di uno s. autorevole-responsabilizzante, costituisce una variabile ambientale significativa per una buona crescita intrapersonale e interpersonale.

Bibliografia

Lewin K. - R. Lippit - R. K. White,​​ Patterns of aggressive behavior in experimentally created «social climates», in «Journal Social Psychology» 10 (1939) 271-299;​​ Weber E.,​​ Erziehungsstile, Donauworth, Auer,​​ 1973; Taush R.- A. M. Tausch,​​ Psicologia dell’educazione, Roma, Città Nuova 1979; Franta H.,​​ Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa, Roma, LAS, 1988; Kendall P. C. - M. Di Pietro,​​ Terapia scolastica dell’ansia, Trento, Erickson, [1995]; Giorgetti M. et al.,​​ Rappresentazioni e comportamenti degli insegnanti come dimensioni dello s.e.,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 42 (1995) 245-260; Gonfalonieri E. - C. Giuliani,​​ S.e. genitoriali e benessere psicologico in età prescolare e scolare, in «Età Evolutiva» 82 (2005) 67-73; Steinberg L. et al.,​​ Patterns of competence and adjustment among adolescents from authoritative,​​ authoritarian,​​ indulgent,​​ and neglectful homes: a replication in a sample of serious juvenile offenders, in «Journal of Research on Adolescence» 16 (2006) 47-58.

H. Franta - A. R. Colasanti




STIMA DI SÉ

 

STIMA DI SÉ

Il termine s.d.s. si riferisce in genere alla valutazione affettiva di se stessi come oggetto di conoscenza, cioè a come ci si sente (orgogliosi, felici oppure mortificati, in colpa), se si è soddisfatti o meno di se stessi in base sia a valori personali e sociali, che nel confronto con le altre persone.

1. Nella s.d.s. si possono infatti distinguere un processo valutativo ed uno affettivo, e i diversi studiosi tendono a privilegiare ora l’uno ora l’altro processo per descrivere l’autostima: nel primo caso, la s.d.s. viene definita come un atteggiamento di approvazione o disapprovazione verso di sé, un giudizio di valore espresso nei propri confronti a partire da una serie di parametri valutativi personali e sociali; nel secondo caso, invece, la s.d.s. viene descritta ponendo l’accento sul vissuto emozionale che accompagna la valutazione di sé, ovvero sul sentimento che si prova ad essere quel che si è.

2. È comunque difficile trovare una definizione univoca della s.d.s., sia per le sfumature diverse evidenziate dai vari studiosi, sia perché talvolta è stata prestata poca attenzione alla descrizione di tale costrutto, dando per scontato che tutti sappiano di cosa si tratti. A questo va aggiunto che spesso la s.d.s. viene confusa e usata in maniera intercambiabile con il​​ ​​ concetto di sé, sebbene, nonostante le affinità, si tratti di due costrutti diversi. Anche su tale questione ci sono posizioni diverse: per alcuni l’autostima è un costrutto separato da quello del concetto di sé, mentre per la maggior parte degli studiosi è un costrutto distinto ma subordinato al concetto di sé, intendendo l’autostima come la dimensione valutativa e affettiva del concetto di sé. La poca chiarezza dal punto di vista concettuale ha avuto delle ripercussioni metodologiche nella ricerca sulla s.d.s., per cui in molti casi i risultati emersi non sono comparabili tra loro, e spesso sono ambigui, contraddittori e poco consistenti (Wells - Marwell, 1976; Wylie, 1979). È importante segnalare però che negli ultimi decenni lo studio della s.d.s. ha mostrato progressi significativi, e questo grazie all’utilizzazione di accurati piani di ricerca in cui ci si è serviti di definizioni più chiaramente operazionalizzabili, di strumenti di rilevazione adeguatamente validati, e analizzando inoltre l’autostima non solo in termini globali ma anche rispetto a specifici ambiti (per es.: scolastico, sociale) di esperienza (Harter, 2001).

3. Dagli anni ’70 del sec. scorso in poi, la s.d.s. è stata oggetto di crescente interesse da parte di psicologi ed educatori, in quanto essa sembra rivestire un ruolo rilevante nel buon funzionamento della persona: solitamente, infatti, un buon livello di autostima, che sia solido e non fittizio, è positivamente correlato con uno stato di benessere psicologico, di integrazione sociale, e con autonomia e un minor disadattamento (Mruk, 1999). La s.d.s., inoltre, risulta essere una variabile di particolare importanza anche a scuola, poiché è correlata sia ad un buon inserimento nell’ambiente scolastico sia alla riuscita negli studi, sebbene non sia stato ancora definito se l’autostima sia una conseguenza del successo o, viceversa, se ne sia uno dei determinanti: attualmente si propende a credere che tra le due variabili esista un’influenza reciproca. Promuovere dunque la s.d.s. degli alunni, oltre ad essere un importante obiettivo formativo, può contribuire a rendere più efficace anche l’azione dell’insegnante strettamente finalizzata all’acquisizione delle conoscenze e allo sviluppo delle abilità negli studenti. Tenendo conto, infine, che lo sviluppo della s.d.s. è influenzato dall’interazione con persone significative, quali ad es. gli insegnanti, negli ultimi anni si sono moltiplicate le opere che riconoscono proprio nella scuola un luogo privilegiato, accanto alla famiglia, per promuovere l’autostima dei ragazzi (ad es.: Lawrence, 1988; Pope - McHale - Craighead, 1994).

Bibliografia

Wells L. E. - G. Marwell,​​ Self-esteem: its conceptualization and measurement,​​ Beverly Hills, Sage Publications, 1976; Wylie R. C.,​​ The self-concept,​​ vol. 2, Lincoln, University of Nebraska, 1979; Lawrence D.,​​ Enhancing self-esteem in the classroom,​​ London, Paul Chapman Publishing, 1988; Pope A. W. - S. McHale - E. Craighead,​​ Migliorare l’autostima: un approccio psicopedagogico, Trento, Erickson,​​ 1994; Mruk C.,​​ Self-esteem. Research,​​ theory and practice, New York, NY, Springer Publishing Company, Inc.,​​ 21999; Harter S., «On the importance of importance rating in understanding adolescents’ self-esteem: beyond statistical parsimony» in R. J. Riding - S. G. Rayner (Edd.),​​ Self perception, Westport, CT, Ablex Publishing, 2001, 3-24; Kernis M. W. - A. W. Paradise, «Distinguishing between secure and fragile forms of high self-esteem», in E. L. Deci - R. M. Ryan (Edd.),​​ Handbook of self-determination research, Rochester, NY, University of Rochester Press,​​ 22004, 339-360; Desbouts C. G.,​​ «La scuola non fa per me».​​ Insuccesso scolastico e autostima, Roma, LAS, 2006.

C. Messana




STORIA DELL’INFANZIA E DELLA GIOVENTÙ

 

STORIA DELL’INFANZIA​​ E DELLA GIOVENTÙ

La s.d.i. e d.g., come la s. della vecchiaia e altre s. di genere, può essere considerata dal punto di vista storico e storiografico.

1. Da un punto di vista storico non esiste una s.d.i. e d.g., o dei minori e simili, se non come s. dei vari ceti (nobili, borghesi, popolari, professionali) entro comunità più o meno larghe (da quella di villaggio a quella nazionale) e dislocata nel tempo e nello spazio (urbano, rurale, montano); insomma la s. si modella sulla s. delle varie classi sociali con le loro condizioni materiali di vita decisamente influenti, a seconda delle aree e degli ambiti, sugli adulti come sui minori. Si pensi all’ambito familiare, all’importanza ivi assunta dal bambino nel tempo, nel quadro sociale, nella stessa tipologia familiare, che presenta volti antichi e moderni; si pensi ad una istituzione sociale volta ad assicurare la comunità del patrimonio incentrata sull’autorità paterna, alla presenza (o assenza) di legami familiari come «lo spirito di famiglia», agli aspetti della vita domestica e privata e così via; si pensi alla grande rivoluzione demografica ed all’urbanizzazione connesse alla rivoluzione industriale, che cambiano gli stessi quadri di riferimento dell’infanzia e della gioventù. La s. del genere presenta indubbi caratteri comuni a larga parte di quello specifico strato di popolazione sia che si tratti di abbandono, che di violenza, di sfruttamento agricolo e industriale, come di istruzione primaria e secondaria; vi pesano indubbie variabili sociali, economiche e giuridiche; vi influiscono, in misura diversificata, congiunture dovute a carestie ed epidemie e simili. Esiste, sul piano dell’immaginario, il complesso di idee costruite e fatte proprie dal mondo adulto sull’infanzia e sulla gioventù, e anche sulla sua s., in una lenta secolare presa di coscienza dell’individualità umana nel suo farsi. Naturalmente l’elaborazione delle idee assume toni diversi a seconda della condizione sociale, passandovi fattori come la cultura, i livelli di alfabetizzazione, il tipo di fede religiosa (si pensi al mondo protestante), persistenze ataviche e così via.

2. Nella società medievale il «sentimento» dell’infanzia, vale a dire la consapevolezza della peculiarità dell’infanzia, è diverso dalla società moderna, dove tutto cambia con la separazione del bambino dalla famiglia, con un lento processo di scolarizzazione del bambino e l’intervento di sempre più plurime agenzie di socializzazione nella società contemporanea. Nell’Ottocento e nel Novecento lentamente, in vari Paesi europei dapprima, quindi in Italia, si afferma un modello borghese, non senza incontrare resistenze quanto a sentimenti, pratiche di vita consolidate e abitudini. Veicoli ne sono la letteratura per l’infanzia, la scuola primaria, le istituzioni educative in senso lato, ma anche l’extrascolastico come forme di socializzazione, di integrazione, di formazione di identità sia pure in contesti i più vari. Anche per l’età contemporanea sono importanti le suggestioni di un libro che può essere considerato emblematico:​​ Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,​​ di Ph. Ariès (con tutte le riserve avanzate dai recenti studi sul​​ ​​ Medioevo). Dal punto di vista storiografico non se ne può prescindere; per contrasto risulta chiarificatore anche l’apporto di L. De Mause che espone invece, come hanno sottolineato Becchi e Julia «una teoria lineare della s.»; questa «produce un miglioramento generale della sorte dei bambini», e la periodizzazione dei modi di relazione più diffusi tra genitori e figli «nella parte più evoluta della popolazione e nei paesi socialmente più avanzati» si risolve in uno schema, tutto sommato bizzarro, di sei «modi» che sarebbero apparsi successivamente: da quello «infanticida», nato nell’Antichità, fino a quello «cooperativo», che ha inizio nel sec. scorso, attraverso quello del «rifiuto», proprio del Medioevo, quello «ambivalente» dei sec. XIV-XVII, quello «intrusivo» del Settecento (nel quale comincia ad affermarsi una reazione «empatica» dei genitori nei confronti dei loro figli), quello «socializzante» che esordisce nell’Ottocento. La s.d.i. prevista da De Mause finisce con l’essere un lungo «catalogo di atrocità» con «un gusto spiccato per il macabro».

3. D’altra parte accentuando in chiave antropologica il marcato carattere di​​ liminalità​​ della giovinezza, colta «all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la formazione e il pieno dispiego delle facoltà mentali, tra la mancanza e l’acquisizione di autorità e di potere», le società nel tempo hanno sempre «costruito» la giovinezza come un fatto intrinsecamente instabile, irriducibile alla fissità dei fatti demografici o giuridici, come una realtà culturale in cui gli individui sembrano non appartenere alle classi di età, ma le attraversano; allora si tende non ad una s., ma a s. plurime di giovani, scollocati ogni volta «nel groviglio di rapporti sociali specifici, legati a contesti e momenti storici differenti», indagati in una molteplicità di prospettive, in cui vengono valorizzati i riti di passaggio o della liminalità giovanile. La storiografia italiana offre contributi di G. Levi, O. Niccoli, E. Becchi, D. Bertoni Jovine, J.-C. Schmitt, E. Trisciuzzi, per non considerare altri apporti. Ancor prima che dal punto di vista storico e storiografico occorre però chiedersi che senso abbia una s. di generi: se si pone al centro dell’interesse una categoria astratta e avulsa dal resto e dal contesto, si compie una falsificazione storica ponendo in essere una produzione affatto ideologica; come è stato giustamente notato «il bambino del benessere, il bambino-re, il bambino oggetto libero e felice della pubblicità, il bambino cui si destinano Disneyland, Eurodisney, parco di Astérix, non è il modello più diffuso; i bambini che lavorano sono ancora oggi centinaia di milioni»; diversamente, connessa con il quadro più generale entro il quale va compresa, calata, letta la s. di genere può contribuire a fare emergere caratteri e aspetti insondati, arricchire con nuove acquisizioni, porre ulteriori problemi.

4. Ben diverso, naturalmente, è affrontare il tema della educazione dell’infanzia che è insieme s. di modelli, ma anche di interventi educativi, nonché di istituzioni formative, dove si fanno i conti con il contributo offerto da​​ ​​ Aporti,​​ ​​ Montessori,​​ ​​ Agazzi,​​ ​​ Fröbel. L’educazione dell’infanzia implica l’esame della politica scolastica dall’asilo alla scuola infantile sia sul piano scolastico che su quello dell’orientamento dei programmi didattici come su quello del recupero con educazione specifica (convitti per orfani, ad es.). Ma se si esula dalla s. dell’educazione dell’infanzia e della gioventù, molto facilmente si scivola nella s. di genere, autoreferente, isolata, al limite inutile.

Bibliografia

Ariès Ph.,​​ Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,​​ Bari, Laterza, 1976; Levi G. (Ed.),​​ S. dei giovani,​​ Roma / Bari, Laterza, 1994; Becchi E. - D. Julia (Edd.),​​ S.d.i.,​​ 2​​ voll., Ibid., 1996; Dogliani P.,​​ S. dei giovani, Milano, Mondadori, 2003;​​ Gutiérrez A. - P. Pernil,​​ Historia de la infancia. Itinerarios educativos, Madrid, UNED, 2004.​​ 

A. Turchini




STORIA DELLA PEDAGOGIA

 

STORIA DELLA PEDAGOGIA

Come s. di un settore particolare (più che di una disciplina specifica), rientra nel discorso storico ed è nata ancora prima di un riconoscimento ufficiale della «pedagogia come scienza», almeno con riferimento alle istituzioni e, in certo senso, alla stessa educazione, come, per es., in A. H. Niemeyer (1754-1828). Si userà qui il lemma in senso molto comprensivo, per quanto suscettibile di distinzioni.

1.​​ Il​​ cammino storico:​​ le pubblicazioni di s.d.p. si sono moltiplicate in parallelo al consolidarsi della concezione classica della s. e del suo metodo, attorno alla metà del sec. XIX. In Italia, invece, con un po’ di ritardo. Gli inizi ne hanno denunciato un carattere pratico, mirato all’uso, più che critico-scientifico, donde lo sviluppo della manualistica. La riflessione successiva, che considerò la s.d.p., come la s. in genere, inserita tra le​​ Geisteswissenschaften​​ («scienze dello spirito»), secondo W. Dilthey, ne ha favorito un’elaborazione connessa, se non strettamente dipendente, a criteri e orientamenti teoretici, per non dire «ideologici». Infatti non solo si operava in modo spiccatamente selettivo, tra i materiali a disposizione, ma si procedeva in forma descrittiva, suppostamente asettica e, magari anche, edificante, con una lettura moralistica, allora assai diffusa, della s. in genere. Tale approccio intendeva evidenziare una continuità nelle linee di sviluppo in sintonia (o anche in contrasto) con principi e visioni del reale, per lo più di «scuola» o di corrente. Solo più tardi, gradualmente e lentamente​​ la critica,​​ nelle sue diverse espressioni, passò dalla s. anche alla s.d.p., inizialmente con un ruolo marginale, quando ancora le impostazioni e letture «ideologiche» prevalevano, e, in seguito, più rilevante, soprattutto al rendersi conto che le​​ traduzioni​​ erano, generalmente,​​ infedeli,​​ con conseguenze più e meno evidenti e pesanti. Tale preoccupazione filologica, fondamentalmente, contribuì anche al superamento e, anzi, all’integrazione di punti di vista ideologicamente contrastanti su un terreno meno soggettivo e più gratificante. Una forte spinta a questa​​ deideologizzazione​​ della s. in generale, e, di riflesso, di quella della pedagogia è venuta dal movimento promosso dalle «Annales d’Histoire Économique et Sociale», a partire dal 1929, in quanto si sono messi in evidenza altri interessi, altre fonti (anche orali), l’esigenza di problematicizzazione, di recupero di silenzi storici, di contrasti e differenze che spezzano quella continuità ideale, prima ricercata, e infine l’opportunità di collegare i tempi brevi con quelli lunghi in modo da ricavarne una diversa prospettiva (sia in senso verticale, diacronico e di livelli applicativi, che orizzontale, geografico-comparativo). Di qui derivava, con un’angolazione diversa, una più fondata possibilità di valutazione. Si è così venuta imponendo, a poco a poco, una rilevazione​​ di discontinuità​​ nel divenire storico-pedagogico, con una più attenta​​ valorizzazione del diverso​​ e del sotterraneo (se non sotterrato), ma, al tempo stesso​​ del comune,​​ del plurale di fronte all’antecedente prevalere del singolare. Si è dunque passati, con la mediazione della filologia, da un momento di subordinazione della s.d.p. a concezioni prevalentemente filosofiche, alla ricerca di una sua autonomia, da fondare su una miglior definizione di metodi e strumenti, su una più differenziata individuazione di fonti e sui parametri di riferimento delle scienze dell’educazione, nella scia di orientamenti già affermatisi all’estero (Francia e Inghilterra, specialmente). A questo indirizzo ha fatto riscontro il proliferare di studi più specialistici, con una suddivisione dei campi di indagine in settori e sotto-settori, con una loro identità (per es.,​​ ​​ s. dell’infanzia, dell’istruzione femminile e così via), pur inseriti in più ampi e complessi sistemi, che intervengono comunque con pesanti condizionamenti, soprattutto sociali. Donde, all’interno di una periodizzazione a lungo termine, l’importanza di curare la​​ contestualizzazione,​​ anche quando si intenda occuparsi di un personaggio singolo o di un’istituzione particolare, con espliciti riferimenti alla situazione politica, sociale, economica e culturale, nonché alle mentalità operanti.

2.​​ I​​ contenuti della s.d.p.:​​ da quanto sopra emerge che, in un primo tempo, la s.d.p. si è interessata ed occupata anzitutto di quanto le consentiva una lettura ideologica, con garanzia di continuità: le istituzioni, in primo luogo (famiglia, scuola, extrascuola); le idee e dunque le teorie educative, nonché i loro promotori, in subordine. Anzi, con l’affermarsi dell’idealismo, si è capovolta la priorità e si sono progressivamente trascurate le istituzioni, a vantaggio delle idee e dei sistemi. Oggi, come conseguenza degli sviluppi della ricerca storica generale, si può ipotizzare, non senza divergenze, che una​​ s. dell’accaduto in educazione​​ o, più semplicemente,​​ s. dell’educazione,​​ come concetto più generale e comprensivo, si articoli su​​ tre livelli: culturale,​​ istituzionale e prassico,​​ con uno sforzo però di​​ coglierne le interconnessioni e interdipendenze e di interpretarle.​​ a)​​ Il​​ livello culturale​​ è da intendersi in senso ampio, quasi antropologico, in cui le idee (sistematizzate o meno), in modo più e meno consapevole, hanno un ruolo direttivo dell’agire, tanto sulla base di collaudate esperienze, che sono state trasmesse e recepite, quanto in virtù di una revisione, personale o di gruppo, di quelle stesse tradizioni in vista di comportamenti diversi o anche come frutto di un’elaborazione teorica, suggerita da una propria analisi dell’esperienza oppure da tesi precedentemente formulate e sostenute. Questa «cultura», sia locale che a più vasto raggio, è decisiva nella formazione della​​ mentalità,​​ che si caratterizza per le sue aspettative, per gli interessi e per le valutazioni che dà, nella stimolazione e direzione dell’agire del soggetto. Come non si può parlare di educazione in senso astratto, se non come esercizio retorico, così non esistono idee o sistemi astratti, a sé stanti. L’una e le altre si ritrovano nel vissuto, nel concreto storico o di un personaggio o di gruppi o di esperienze, da cui finalmente si possono ricavare «rappresentazioni», come risultato di un’elaborazione intellettuale personale o comune, che dà origine appunto a idee e, se organicamente collegate, a «ideologie», in senso positivo, o, filosoficamente, a sistemi. Questi come tali non sono un «dato» storico, neppure entro i limiti consentiti per parlare di dato, ma il frutto di un’operazione astrattiva sul medesimo, che risulta invece di comportamenti, di azioni, di relazioni, che costituiscono effettivamente l’oggetto di studio e di valutazione dello storico. b)​​ Il​​ livello istituzionale,​​ che si occupa della famiglia, della scuola, dello Stato, della chiesa e altro ancora, in quanto agiscono o interferiscono sull’educazione, è portatore di una «cultura» e se ne fa promotore. In senso tuttavia più rigido, cristallizzato e conservatore, perché senza vita propria e con una tendenza all’omologazione di tutti coloro che vi fanno capo, di cui individua le espressioni negli usi e costumi, nelle tradizioni, nelle norme e leggi, che, scavalcando appunto il singolo, tendono a subordinarlo e a mantenerlo dipendente, anziché a favorirne la libertà e l’autonomia. Donde la ripetitività e il rischio, cui troppo spesso si cede all’interno delle istituzioni, dell’automatismo e dell’irresponsabilità, dell’incoscienza e incomprensione. Il cambiamento e l’innovazione sono assai più difficili in questo ambito, a causa della più resistente vischiosità delle istituzioni stesse, degli ostacoli che si frappongono, ritenendosi consolidate e dunque pressoché immutabili, del loro minor dinamismo, frenato dalla pluralità dei membri, non tutti e non sempre docili, e infine della preoccupazione vincente per la propria sopravvivenza, che ritengono minacciata da ogni variazione del consueto. In esse, conseguentemente, si è mirato (oggi, si spera, meno) per lo più all’istruzione per non dire all’indottrinamento, anziché a un’educazione responsabile, che privilegi il singolo soggetto con i suoi diritti, con tutte le sue esigenze e possibilità. c)​​ Il​​ livello prassico​​ dovrebbe, nei limiti del possibile, cogliere e tener conto dello sviluppo e della crescita umana del singolo, come dei gruppi, più e meno ampi, in rapporto all’ambiente in cui si vive, agli orientamenti dominanti e ai condizionamenti cui si è subordinati, definendone eventuali scarti e peculiarità e cercando di individuarne i fattori di promozione, nonché gli ostacoli. A questo livello si gioca il futuro dell’individuo, secondo l’esito, a breve, medio e lungo termine, dell’incontro-scontro tra le tendenze e possibilità del singolo soggetto o del gruppo e le richieste e norme della società più ampia o istituzione. Spesso non si indaga in questa linea o non si è in grado di venirne a capo, poiché indubbiamente la «memoria storica» è limitata, ma, se non se ne ricercano e individuano le fonti opportune, si finisce per amputarla ulteriormente. Infatti è assai più facile ritrovare e riconoscere le tradizioni più estese, le norme e le leggi, che le deviazioni dalle medesime, salvo casi di particolare incidenza storica. Un solo esempio. I dati internazionalmente divulgati sono espressione non della realtà di un Paese, ma delle sue leggi e decisioni ufficiali, che tuttavia, spesso, non trovano alcuna rispondenza nei fatti. Eppure la s. «effettuale» è esclusivamente​​ res gestae​​ (sia pure in senso ampio) e, in ogni caso, da quelle dovrebbe derivare la​​ historia rerum gestarum,​​ per riferirsi a una distinzione classica, benché un po’ riduttiva. In questo ambito rientrano, in quanto considerati nel loro esercizio, gli usi e costumi, che, a livello individuale, si traducono in​​ abitudini,​​ ed anche i​​ metodi​​ educativi. Il che non toglie che, in seconda istanza, si possa tentare di confrontarli e valutarli​​ in astratto,​​ teoricamente. Concludendo, è ancora da sottolineare l’interconnessione​​ e​​ interdipendenza​​ tra questi tre livelli: esse sono tanto strette da impedire, da un lato, una chiara spartizione del territorio pedagogico e, dall’altro, da richiedere indispensabilmente il ricorso all’interdisciplinarità,​​ vale a dire all’aiuto e alla collaborazione di altre competenze, che lo storico, per quanto preparato e aperto, non può, per lo più, avere in proprio. Sotto questo profilo si può correttamente parlare di un’aspirazione, anche della s.d.p., alla​​ totalità,​​ all’aver presenti tutti gli elementi e fattori che giocano nella vita umana. A questo punto si può pure guardare a una possibile articolazione dei contenuti in funzione di una distinzione di storie diverse. Più comunemente si parla di​​ s.d.p.,​​ se riferita alla sola​​ s. delle idee e dei «sistemi» educativi​​ (espressione, a mio avviso, da preferire); di​​ s. dell’educazione,​​ se si guarda alle​​ istituzioni​​ (​​ s. della scuola e delle istituzioni educative), o al​​ costume​​ e​​ metodi​​ educativi e così via, riconoscendo a quest’ultima quasi una​​ onnicomprensività.​​ 

3.​​ La metodologia della ricerca e altre considerazioni:​​ nell’entusiasmo dell’affermarsi di una «scienza» storica, nel sec. XIX, si è frequentemente parlato di «metodo storico», volendo rispondere a una delle caratteristiche di ogni scienza, nell’opinione di allora. D’altronde, all’epoca, esaurendosi la s. nella s. politica o quasi, il discorso di​​ un metodo​​ storico poteva apparire accettabile. Tuttavia con l’ampliarsi dei suoi ambiti, oggetti e strumenti, oggi, parlare di metodo storico non ha più senso, se non in quanto insieme di metodi e, perciò, è forse più opportuno far uso, con tale significato, del termine​​ metodologia.​​ Infatti, dato l’indispensabile ricorso all’interdisciplinarità diventa evidente l’utilizzazione di metodi molteplici e differenti, secondo il lavoro che si sta facendo. Ciò non toglie che anche per la s. dell’educazione si passi per i tre classici momenti, costitutivi di ogni ricerca: il​​ momento euristico,​​ quello​​ ermeneutico​​ e quello​​ critico​​ o valutativo. Il primo, teso al reperimento delle fonti e alla raccolta del materiale (bibliografico, testimoniale, filologico...), si colloca su un​​ piano​​ prevalentemente​​ descrittivo;​​ il secondo, che gioca anzitutto sulla contestualizzazione, per una più concreta e adeguata lettura del fenomeno che si studia, tenta un’elaborazione dei dati raccolti, confrontandoli, organizzandoli e collegandoli tra loro, e si propone una comprensione del fenomeno stesso, in​​ chiave​​ anche​​ esplicativa.​​ Indubbiamente il termine «ermeneutico» può suggerire altre aperture, che non è qui il caso di considerare, sebbene si riscontrino, solitamente, su questo livello le più usuali deficienze delle ricerche storico-pedagogiche. Infine il momento​​ critico​​ o valutativo si suddivide in due prospettive: quella​​ sincronica,​​ che punta a definire una valutazione del dato tra i suoi contemporanei, e quella​​ diacronica,​​ che invece, guardando il dato in proiezione sul presente e, nei limiti del possibile, persino sul futuro, ne tenta una valutazione per i contemporanei dello storico. Sotto questo profilo, ci si può aprire ad altre considerazioni valide per la s. in genere, che tuttavia conviene richiamare. In primo luogo, sono da denunciare alcuni​​ errori​​ ricorrenti, specie a livello di divulgazione storica. L’incidenza anzitutto di​​ pregiudizi​​ di ogni genere o di​​ generalizzazioni​​ indebite, che danno luogo agli stereotipi, solitamente duri a morire. Inoltre il facile uso di​​ illusioni retrospettive,​​ per cui addirittura si trasferisce nel passato la cultura o altre tipicità del presente (come quando si creano i​​ precursori​​ di idee o movimenti posteriori, di cui, all’epoca, non si aveva alcun sentore). Infine, limitandosi a cenni esemplificativi, l’etnocentrismo​​ e il​​ mito dell’origine,​​ in virtù dei quali si giudica tutto dalla situazione in cui ci si trova​​ considerata come ideale​​ oppure si ritiene che,​​ trovata l’origine​​ di un fatto, sia​​ tutto spiegato​​ o ci si illude che un​​ ritorno all’origine risolva tutti i problemi.​​ Un ultimo rilievo riguarda​​ lo storico,​​ da cui nasce appunto la​​ historia rerum gestarum,​​ non senza il peso di condizionamenti dovuti a lui stesso. Infatti se la s. è continuamente​​ in fieri,​​ si può riscrivere in continuazione, non è soltanto perché si possono trovare nuove fonti o dati oppure perché, in base a interessi e interrogativi comuni, la si legge e usa in una determinata prospettiva, ma anche perché il singolo ricercatore ha interessi propri, delle domande personali, cui cerca una risposta, e, si voglia o no (nonostante la dichiarata «morte delle ideologie»), qualche idea o suggestione che intende far passare, utilizzando dati storici. Non ci si riferisce, ovviamente, a palesi falsificazioni, come in altri tempi si è fatto, bensì a scelte, angolature da cui porsi, obiettivi da perseguire, che danno dei fenomeni ed eventi una lettura personalizzata, che, d’altro canto, è inevitabile, visto che lo storico è l’autore della s. scritta. L’importante, per il lettore critico, sarà arrivare, sulla base di tutte le informazioni che riesce ad avere, a discernere quegli elementi di soggettività, che se non inquinano (vista la loro ineluttabilità), tipicizzano un apporto storico.

Bibliografia

Clausse A.,​​ Introduzione storica ai problemi dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1974; Fornaca R.,​​ La ricerca storico-pedagogica,​​ Ibid., 1975; Semeraro A.,​​ Dina Bertoni Jovine e la storiografia pedagogica nel dopoguerra,​​ Manduria, Lacaita, 1979; Santelli Beccegato L.,​​ L’insegnamento della s.d.p.,​​ Brescia, La Scuola, 1981; CIRSE,​​ Problemi e momenti di s. della scuola e dell’educazione,​​ Pisa, ETS, 1982; Trebisacce G.,​​ L’educazione tra ideologia e s.,​​ Cosenza, Pellegrini, 1983; Santoni Rugiu A. - G. Trebisacce (Edd.),​​ I problemi epistemologici e metodologici della ricerca storico-educativa,​​ Cosenza, Pellegrini, 1983; Serpe B.,​​ La ricerca storico-educativa oggi. Fondamenti,​​ metodi,​​ insegnamento,​​ Cassano all’Jonio, Jonica Editrice, 1990; Cambi F.,​​ La ricerca storico-educativa in Italia 1945-1990,​​ Milano, Mursia, 1992; Genovesi G., «Cento anni di s. dell’educazione in Italia. Linee di tendenza e problemi», in B. Vertecchi (Ed.),​​ Il secolo della scuola - L’educazione nel Novecento,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995, 139-186.

B. A. Bellerate




STORIA DELLA SCUOLA

 

STORIA DELLA SCUOLA

Settore particolare della ricerca storica sull’educazione. Allo scopo di offrire un quadro d’insieme, si restringe in questo ambito la scelta dei temi e dei problemi, e ci si limita a ripercorrere le tappe più significative dello sviluppo della scuola occidentale, le cui radici affondano nelle esperienze del vicino Oriente. Per le questioni storiografiche si rimanda a s. della pedagogia Per i contenuti si vedano, in modo particolare, le seguenti voci: Grecia, Roma, Medioevo, Umanesimo rinascimentale, Filantropismo, Risorgimento, Scuole Nuove.

1.​​ Cenno alle origini.​​ Le liste lessicali e grammaticali trovate a Shuruppak, risalienti al 2600 a.C., testimoniano l’esistenza di scuole. Le liste di parole trovate a Uruk (l’attuale Warka), attestano che già agli albori della scrittura (verso il 3200 a.C.) esisteva nella Mesopotamia un certo tipo d’insegnamento. Finché il numero di scribi necessari per le registrazioni economiche non fu elevato, si provvedeva alla loro formazione con l’apprendistato: uno scriba anziano iniziava qualche giovane all’arte dello scrivere. Quando la vita sociale diventò più complessa e le esigenze amministrative del tempio e del palazzo reale aumentarono, si dovette disporre di un maggior numero di scribi con un’ istruzione più accurata, rendendosi necessaria a tale scopo un’istituzione permanente. Questa istituzione chiamata in sumerico​​ edubba​​ («casa della tavolette») era un locale annesso al tempio. I membri dell’edubba​​ venivano denominati «figli della casa delle tavolette». Il maestro principale era assistito da uno studente anziano («fratello maggiore»). Nelle scuole più numerose, oltre l’insegnante di accadico e di disegno, esistevano i responsabili della sorveglianza e della disciplina (molto rigorosa). Il programma scolastico offerto al futuro scriba (dubsar)​​ era ampio: scrittura, grammatica, matematica e geometria, rudimenti di filosofia, teologia, diritto, geografia, amministrazione civile. Non solo gli scribi (notai, archivisti, consiglieri), ma anche gran parte della classe dirigente (nobili, sacerdoti) frequentavano la scuola. Sulle tavolette dei contratti babilonesi appare pure qualche nome di donna; tuttavia, la cultura degli scribi mesopotamici rimase limitata a un gruppo elitario. Nell’Egitto faraonico pare che l’alfabetizzazione sia stata un fatto più diffuso. L’espressione equivalente a scuola («casa dell’istruzione») appare verso il 2000 a.C. Accanto alla scrittura, l’aritmetica e la geometria, la scuola (gravitante attorno al tempio) dava spazio alle attività fisiche: tiro con l’arco, cura e uso dei cavalli, nuoto (particolarmente necessario in un paese fluviale). Le ragazze erano educate alla danza, al canto, a suonare strumenti musicali. Per ciò che riguarda la didattica, sembra probabile, «alla maggior parte degli studiosi che si sono occupati della questione, che in Egitto si insegnasse a scrivere col metodo globale senza nessun preliminare insegnamento dei singoli segni» (Moscati, 1976, 61). Vengono privilegiati, come nella Mesopotamia, i metodi mnemonici. Negli​​ Insegnamenti​​ (scritti sapienziali), letti e copiati dai ragazzi egiziani, si fustiga l’ozio e si addita come ideale «la pratica di una buona condotta verso gli altri e verso la divinità».

2.​​ La scuola in Grecia e a Roma.​​ La scuola greca raggiunse nell’epoca ellenistica la sua espressione più compiuta. La diffusione della cultura nel Mediterraneo e in parte dell’Asia non significò svuotamento della medesima, anzi favorì la consapevolezza di una tradizione e l’impegno di approfondimento dei testi «classici». Contemporaneamente, con il contatto con altri popoli, la Grecia assorbì usi e idee religiose e culturali del mondo orientale (Egitto, Siria), con ripercussioni nell’ambito scolastico, in un’epoca in cui si hanno ormai scuole pubbliche e l’istruzione non è più lasciata alla sola iniziativa privata. Le iscrizioni trovate in Asia Minore attestano la presenza di questo tipo di istituzioni nel sec. III a.C., anche se continuano a esistere quelle private sostenute dai contributi degli alunni. L’impostazione delle scuole ellenistiche nei tre livelli fondamentali e con i programmi di studi umanistici rimane un punto di riferimento fino all’età moderna: 1° La scuola primaria del​​ didáskalos​​ è frequentata dal bambino dopo i sette anni. 2° La scuola secondaria del​​ grammatikós​​ si propone di dare una cultura generale (enkyklios paideia).​​ 3° Le modalità e caratteristiche delle scuole superiori non rispondono a un modello unico. Ci sono forme «minori» come le lezioni o conferenze che si danno nel ginnasio e nell’efebía,​​ accanto alla formazione atletica. Per i giovani greci, fare gli studi superiori comportava la frequenza della scuola del retore. La filosofia era patrimonio di una​​ élite​​ ridotta. Nell’antica Roma, lo Stato non si interessa dell’organizzazione e del finanziamento della scuola finché Vespasiano (dal 69 al 79) non prende provvedimenti a favore dei maestri di retorica. Dal II sec. a.C. la scuola romana adotta sostanzialmente il modello greco in tre livelli (scuola elementare o​​ ludus;​​ scuola del​​ grammaticus;​​ scuola del​​ rethor).​​ Speciale attenzione viene dedicata allo studio del diritto e alla professione forense. Un’istituzione privata, il​​ paedagogium,​​ cura la formazione degli schiavi e liberti destinati a professioni paraliberali. Nel corso dei primi secoli, i cristiani non creano proprie scuole. Essi considerano normale che i ragazzi acquisiscano la cultura profana frequentando le comuni scuole del tempo. Gli scrittori più intransigenti nei confronti dei pericoli del paganesimo accettano la cultura tradizionale, considerata come un insegnamento di base necessario per la comprensione della Bibbia. I cristiani vissuti nel mondo classico accettano una categoria dell’umanesimo ellenistico: l’esigenza dello sviluppo di tutte le potenzialità dell’uomo in quanto tale, prima di qualsiasi altra determinazione.

3.​​ La scuola nel Medioevo.​​ Quando il Vangelo si diffonde nei popoli «barbari», la Chiesa dà vita alla scuola, in cui l’insegnamento ha però un carattere religioso. Le prime «scuole monastiche», sorte nel sec. IV, mirano all’istruzione elementare dei «giovani oblati» accolti nel monastero ancora ragazzi; la timida apertura ai giovani laici trova forti opposizioni, soprattutto in Oriente (​​ monachesimo). Nel sec. VI sorgono le «scuole cattedrali» nelle città e, nelle campagne, le «scuole presbiterali» per assicurare la formazione dei futuri preti. Con le invasioni barbariche non scompaiono del tutto le scuole romane. Le scuole ecclesiastiche vengono organizzate «per reazione contro l’insegnamento dato dai maestri tradizionali», indirizzato ai giovani desiderosi di acquisire una erudizione profana e di ottenere un posto nell’amministrazione; i chierici, che risentono l’influenza monastica, volevano che «la Bibbia fosse nota al più grande numero di persone» (Riché, 1991, 25). In un secondo momento frequentano le scuole ecclesiastiche anche alunni chiamati alla vita laica. Il programma è modesto: leggere, scrivere, imparare alcuni salmi, canto religioso, nozioni dottrinali, canoniche e liturgiche. Sembra che le​​ ​​ arti liberali siano state insegnate in scuole episcopali spagnole promosse da​​ ​​ Isidoro di Siviglia. Lo sviluppo di alcuni centri monastici e l’impulso dato dalla legislazione scolastica di Carlo Magno produce un’offerta culturale più ricca. Nel sec. XII alcune scuole cattedrali, sorte nelle città con maggior afflusso di studenti, si trasformano gradualmente in​​ ​​ Università. L’esplosione dei mestieri lungo il sec. XIII e l’organizzazione delle corporazioni di artigiani fanno maturare l’esigenza di un periodo di apprendistato. L’apprendista non riceve solo una preparazione tecnica, ma viene anche iniziato agli usi e segreti del mestiere attraverso un prolungato contatto con il maestro nell’officina e nella casa. Finito l’apprendistato, il candidato diventa​​ ufficiale,​​ e dopo due anni di pratica,​​ ​​ maestro.

4.​​ Dal Rinascimento all’Illuminismo.​​ La centralità dell’uomo e la riscoperta dei classici greci e latini spiegano la rinnovata attenzione dell’​​ ​​ Umanesimo ai problemi della scuola. Contemporaneamente a un percettibile decadimento delle scuole ecclesiastiche nel sec. XIV, le autorità comunali dedicano maggiori cure all’organizzazione dell’istruzione e la nobiltà si mostra più sensibile alla cultura, chiamando in famiglia, come precettori dei figli, preti o laici. Tra l’istruzione elementare e le università si fa strada un tipo di istituzione scolastica il cui programma di studi umanistici è all’origine del moderno insegnamento secondario classico. Le esperienze italiane più rinomate sono la scuola di​​ ​​ Guarino e la «Ca’ giocosa» di​​ ​​ Vittorino da Feltre. Gli umanisti elaborano le prime trattazioni su temi didattici (De tradendis disciplinis​​ di​​ ​​ Vives). Ebbero notevole risonanza e influsso i primi internati fondati in Olanda dai Fratelli della Vita Comune (sec. XIV-XV). La frattura verificatasi all’interno del Cristianesimo nel sec. XVI lascia una profonda traccia nell’impostazione della scuola. Nell’ambito del​​ ​​ Protestantesimo spicca l’opera di Melantone, organizzatore dell’insegnamento secondario e superiore in Germania, e, in campo cattolico, quella dei​​ ​​ Gesuiti. Il loro regolamento o metodo di studi per i collegi (​​ Ratio studiorum)​​ rimane un punto di riferimento fino a tempi recenti; inoltre, tra i ragazzi dei quartieri poveri romani, inizia il suo lavoro, nell’ultimo scorcio del ’500, il​​ ​​ Calasanzio, creatore della scuola popolare e gratuita in Europa. Nel clima riformatore del concilio di Trento, emerge l’impegno del​​ ​​ Borromeo nella fondazione di seminari e nella diffusione di scuole domenicali. Vengono create inoltre nuove congregazioni religiose dedite all’insegnamento:​​ ​​ Barnabiti, Somaschi, Orsoline di Brescia. La svolta scientifica e filosofica del sec. XVII si riflette sul pensiero di pedagogisti interessati al rinnovamento della scuola. Tra le istituzioni sorte nel periodo: le​​ ​​ Petites écoles​​ de Port-Royal, le fondazioni di​​ ​​ Francke, la congregazione dei​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane. L’affermazione dell’«onnipotenza» della ragione da parte dell’Illuminismo è all’origine dell’interesse che, nel ’700 («secolo dei lumi»), destano le questioni riguardanti la scuola. Il trinomio «istruzione, progresso, felicità» sintetizza le istanze fondamentali. In misura e a livelli diversi si fa più attiva la presenza dello Stato: vengono elaborati progetti di organizzazione dell’insegnamento pubblico (​​ Condorcet). Speciale importanza presentano le esperienze scolastiche del​​ ​​ Filantropinismo tedesco sotto l’influsso delle idee di​​ ​​ Rousseau.

5.​​ La scuola nell’Ottocento.​​ Nel clima favorito dal​​ ​​ Romanticismo (in reazione al movimento illuminista) si sviluppano la scuola popolare di​​ ​​ Pestalozzi e il giardino d’infanzia (Kindergarten)​​ di​​ ​​ Fröbel. I fatti connessi con la rivoluzione industriale (uso di nuove tecniche, presenza delle donne e dei bambini nelle fabbriche, nuove aspettative e attese nei confronti dell’istruzione) favoriscono lo sviluppo delle «scuole della domenica» e «scuole notturne» o serali per adulti e ragazzi impegnati di giorno nel lavoro. Speciale risonanza hanno le Scuole di​​ ​​ Mutuo insegnamento, sorte in Inghilterra (1797) e diffuse in Europa e America nei primi decenni dell’Ottocento. Anche le​​ Infant Schools​​ iniziate da​​ ​​ Owen in Scozia hanno vasta eco fuori della Gran Bretagna. La prima scuola infantile italiana (chiamata anche asilo) viene fondata nel 1828 da​​ ​​ Aporti. In Francia sono note le​​ Salles d’Asile​​ organizzate da​​ ​​ Oberlin. Le iniziative private sono accompagnate dagli interventi statali nell’ambito delle istituzioni scolastiche. Nel Regno Sardo, va ricordata la L. organica Casati (1859), estesa alle altre regioni italiane dopo l’unità nazionale, restando sostanzialmente in vigore fino alla riforma Gentile (1923). In Spagna, è nota la L. Moyano d’istruzione Pubblica (1857); in Francia, le leggi Guizot (1833) e Falloux (1850) instaurano la libertà d’insegnamento. Pur con lentezza e ambiguità, lo Stato si occupa della formazione tecnica e professionale. Ma va messa in risalto l’opera dei privati (La Rochefoucauld, Ridolfi,​​ ​​ Giner,​​ ​​ Manjón) e dei fondatori di istituti religiosi. Attraverso le numerose​​ ​​ Congregazioni insegnanti, maschili e femminili, fondate nel sec. XIX, la Chiesa ricupera una forte presenza nella scuola popolare e secondaria, non senza contrasti: il tema della libertà d’insegnamento occupa ampio spazio nella pubblicistica dell’Ottocento.

6.​​ La scuola alle soglie del 2000.​​ Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, si sviluppa un forte movimento di riforma educativa. Schematizzando, si può dire che da un periodo di centralità della scuola, nella prima metà del sec. XX, si è passati alla proposta di descolarizzazione degli anni ’60, alla neo-scolarizzazione e al ricupero della funzione educativa della scuola negli anni ’80, in un quadro di policentricità formativa che comprende tutta la società educante e non solo la scuola. Nelle strategie adottate nei Paesi occidentali per rispondere alla domanda d’ istruzione che emerge nell’attuale​​ ​​ società della conoscenza, sono individuabili queste linee di tendenza: centralità dell’educando, apprendimento lungo tutto l’arco di vita della persona, alternanza di studio e lavoro, autonomia della scuola, qualità dell’educazione, eguaglianza delle opportunità (quest’ultima proposta comporta una pedagogia individualizzata e l’offerta di pari possibilità ai due sessi), educazione interculturale e integrazione dei portatori di​​ ​​ handicap nell’istituzione scolastica ordinaria. In «prospettiva di futuro» si profila un modello di scuola neo-umanistica e solidaristica capace di accogliere anche le istanze valide di altri modelli: scuola che istruisce, che seleziona, aperta alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Bibliografia

Moscati S.,​​ L’alba della civiltà,​​ vol.3:​​ Il pensiero, a cura di P. Fronzaroli et al., Torino, UTET, 1976;​​ De Fort E.,​​ S.d.s. elementare in Italia,​​ Milano, Feltrinelli, 1979;​​ Riché P.,​​ Réflexions sur l’histoire de l’éducation dans le Haut Moyen Age,​​ in «Histoire de l’Éducation»​​ 50 (1991) 17-38; Arch. Cent. dello Stato,​​ Fonti per la s.d.s.,​​ IV:​​ L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875),​​ a cura di L. Montevecchi e M. Raicich, Roma, Minist. per i Beni Culturali, 1995; Gennari M.,​​ S. della Bildung: formazione dell’uomo e s. della cultura in Germania e nella Mitteleuropa,​​ Brescia, La Scuola, 1995; Chiosso G. (Ed.),​​ La stampa pedagogica e scolastica italiana, Ibid., 1997; Pazzaglia L. - R. Sani (Edd.),​​ Scuola e società nell’Italia unita. Dalla legge Casati al Centro-sinistra,​​ Ibid., 2001; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della s., 3 voll.,​​ Torino, SEI, 2004; Chiosso G. (Ed.),​​ L’educazione nell’Europa moderna. Teorie e istituzioni dall’Umanesimo al primo Ottocento, Milano, Mondadori, 2007; Prellezo J. M., «Le scuole professionali salesiane (1880-1922). Istanze e attuazioni viste da Valdocco», in​​ L’educazione salesiana dal 1880 al 1922, vol. 1, a cura di J. G. González et al., vol. 1, Roma, LAS, 2007, 53-94.

J. M. Prellezo