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SPEARMAN Charles Edward

 

SPEARMAN Charles Edward

n. a Londra nel 1863 - m. a Londra nel 1945, psicologo e statistico inglese.

Dopo le prime ricerche con Wundt (​​ pedagogia sperimentale), ha studiato a Würzburg e a Göttingen. Nel 1907 è rientrato a Londra, dove ha insegnato all’Università fino al 1931. Fin dal 1904 S. si è dedicato allo studio della struttura dell’intelligenza umana. Allo scopo, ha ripreso e sviluppato gli apporti di K. Pearson e applicato ai test mentali una tecnica di analisi statistica innovativa: l’analisi fattoriale.​​ Ne è derivata una teoria bifattoriale dell’intelligenza, secondo la quale le attività cognitive impegnano tutte un fattore generale comune (il fattore «g») e fattori di second’ordine o attitudini specifiche (fattori «s»). Il modello proposto da S. è stato sviluppato successivamente dai fattorialisti inglesi (per es.​​ ​​ Burt), che hanno messo a punto una teoria gerarchica dell’intelligenza. Ricercatori americani (come L. Thurstone) hanno opposto ad esso un modello multifattoriale delle attività intellettuali, nel quale si negava l’esistenza di un fattore generale sovraordinato. Gli studi più recenti (Gardner, 1987) tendono a valorizzare le differenze nelle strutture intellettuali che si creano nei diversi periodi storici e nelle differenti culture (teoria delle intelligenze multiple). Anche se ha subito evoluzioni, l’apporto di S. resta comunque rilevante.

Bibliografia

a) Tra le opere di S.:​​ The nature of intelligence and principles of cognition,​​ London, Macmillan, 1923;​​ The ability of man,​​ Ibid., 1927;​​ Psychology down the ages,​​ Ibid., 1937. b) Su S.:​​ Covello H. L.,​​ Los factores mentales de S. y las potencias escolásticas, Córdoba (Argentina), Universidad de Córdoba. Facultad de Filosofía. Instituto de Metafísica, 1955;​​ Collis J. M. - S. Messick - U. Schiefele​​ (Edd.),​​ Intelligence and personality, Mahwah (N.J.), Erlbaum, 2001; Harrison K. - C. R. Brand,​​ The variable importance of general intelligence («g») in the cognitive abilities of children and adolescents, in «Educational Psychology», 26 (2006)​​ 6, 751-767.​​ 

C. Coggi




SPERIMENTAZIONE

 

SPERIMENTAZIONE

Il termine è dal lat.​​ experior​​ (sperimento, metto alla prova) e indica i metodi usati per studiare e verificare costrutti e risultati educativi.

1. Tale metodologia collega esperienza ed esperimento (Bertoldi, 1976), esplicitando più razionalmente controlli e procedimenti (Calonghi, 1977), con soluzioni più sicure ed economiche di problemi educativi (per es. sull’apprendimento). Gli obiettivi della s., definiti formalmente e operativamente, sono controllabili attraverso condotte (indicatori) osservabili. Le ipotesi della s., coerenti con gli obiettivi, sono maturate e formulate secondo contenuti, metodi, strutture (ivi), dalla scoperta (problem finding),​​ alla soluzione del problema (problem solving), coinvolgendo lo sperimentatore con creatività, intelligenza, capacità critica (Boncori, 1995).

2. Applicazioni educative e scolastiche sono dirette a migliorare la conoscenza e la soluzione dei problemi riguardanti, ad es., il profitto scolastico e accademico, la dispersione, ecc. (Boncori, 1992). L’interazione produttiva tra operatori, insegnanti e ricercatori migliora la s. Una metodologia sperimentale funzionale e valida per l’educazione e la scuola è rappresentata dall’osservazione pedagogica (Boncori, 1994; 1997; Coggi, 1989), basata sulla descrizione delle caratteristiche istituzionali, scolastiche, ambientali (socio-culturali, familiari), personali. Il processo osservativo incorre in errori comuni (per es.:​​ effetto alone,​​ conoscenza per​​ stereotipi,​​ ecc.), con distorsioni sistematiche riguardanti la validità e l’attendibilità della rilevazione e, conseguentemente, l’efficacia degli interventi (Boncori, 1994, 2000). Tali problemi sono controllati dalla consapevolezza di chi osserva (doti personali) e da metodologie strutturate: le​​ Guide di osservazione​​ (Boncori, 1997), ad​​ es., rilevano e programmano interventi sugli alunni attraverso la predisposizione di unità di osservazione, obiettivi (comuni, specifici), indicatori e descrittori comportamentali, fino ad una sintesi in un profilo finale che sintetizza le diverse variabili considerate. Il metodo sperimentale è usato anche per osservare e valutare il comportamento degli insegnanti (Boncori, 2000), con metodologie strutturate, rilevazione di dati, colloquio (Montgomery, 1999).​​ La validazione sperimentale fonda la validità dell’intera metodologia.

3. L’esperimento​​ può conferire validità alle conoscenze e agli interventi educativi, e richiede una strutturazione della situazione, mantenendo costanti tutti i fattori eccetto quello sperimentale, sulla cui azione si vuole ricercare. Va deciso su quali soggetti (popolazione, campione) operare: una​​ s. campionaria, ad es.,​​ è​​ basata su un «numero limitato di individui, oggetti o eventi, la cui osservazione consente di trarre delle conclusioni o inferenze estendibili all’intera popolazione o universo da cui il campione è stato tratto» (De Landsheere, 1973). L’estensione dei risultati all’intera popolazione (validità esterna) dipende da limiti metodologici connessi con il campione e le misure. Le fasi​​ classiche​​ della s. includono la maturazione dell’ipotesi e la definizione del problema (attraverso ricerche ed esperienza), la formulazione sperimentale dell’ipotesi in termini di variabili rilevabili e misurabili, la definizione e descrizione della popolazione e / o del campione, la scelta degli strumenti per l’acquisizione dei dati, la rilevazione e l’elaborazione dei dati, il commento dei risultati, le conclusioni a cui si è giunti sul problema iniziale e le successive ricerche e ipotesi previste per ulteriori e migliori soluzioni​​ (Bieger, Gerlach, 1996; Evans, 1968; Wiersma, 1995).

4. Lo schema di base dell’esperimento (Laeng, 1992) confronta i cambiamenti tra una situazione iniziale e una finale, dopo l’applicazione di un fattore sperimentale. Ad es., nel disegno sperimentale​​ con un gruppo,​​ c’è una situazione iniziale, misurata con una prova iniziale; viene applicato il fattore​​ ordinario​​ e quello​​ sperimentale, con effetti misurati distintamente in una situazione finale. Questo disegno di s. ha limiti consistenti soprattutto perché non può valutare in modo distinto il peso della maturazione e dell’apprendimento dei soggetti nel corso dell’esperimento (Calonghi, 1977). Un disegno sperimentale con due gruppi permette un controllo più distinto e preciso del fattore sperimentale. Ad es., per verificare se alcuni esercizi per sviluppare la capacità critica sono efficaci (Boncori, 1995) in alunni di scuola media, e disponendo di due gruppi-classe presi a caso, o sperimentalmente equivalenti, si può procedere come segue: si dividono gli alunni, o le due classi, in due raggruppamenti casuali (A - sperimentale, B -​​ di controllo). Dopo un test iniziale e valido di capacità critica (Boncori, 1989) al gruppo A e B, si propone solo al gruppo A un​​ trattamento​​ educativo (T), per es. con schede valide di esercizio critico (Boncori, 1995). Il gruppo B​​ segue solo la scuola ordinaria. Alla fine del​​ trattamento, si valuta nuovamente (con la prova usata all’inizio o forme parallele) la capacità critica per gli alunni del gruppo A e del gruppo B. Differenze statisticamente significative nei due gruppi alla fine della s. indicheranno l’efficacia degli esercizi svolti sulla capacità critica. Graficamente, questo disegno sperimentale si esprime come segue:​​ 

Gruppo A (sperimentale):  C 01  T  02​​ 

Gruppo B (di controllo):  C  03 ​​  04

5. Disegni sperimentali con più gruppi, controllano meglio i diversi fattori attivi nella s., con conseguenti migliori analisi e soluzione dei problemi (Calonghi, 1977; Laeng, 1992). Connesse con la validità e l’attendibilità della s. sono le problematiche sulla misurazione, l’elaborazione dei dati, l’uso di test statistici idonei (Kerlinger, 1964; Boncori, 1993, 2006), per valutare le indicazioni sperimentali e le ipotesi formulate, con stima probabilistica dell’errore (p≤.01-.05). La presentazione dei risultati dà agli interessati (ricercatori, insegnanti, ecc.) una sintesi dell’intero procedimento, per interventi educativi più produttivi e ulteriori ipotesi di s. Tra gli strumenti usati nella raccolta dei dati c’è il cosiddetto​​ portfolio, «una raccolta mirata del lavoro dello studente, in un certo periodo di tempo, che ci mostra dettagliatamente e con evidenza i suoi sforzi, progressi o profitto in una certa area» (Smith, 1997). Le ricerche ne documentano la validità sperimentale purché basata sull’uso di procedure rigorose per la strutturazione metodologica e la rilevazione dei dati, con risultati significativi e correlazionali (Smith, Tillema, 1998) su​​ manager​​ aziendali, presidi, apprendimento scolastico della lingua scritta, lettura, matematica, programmi per superdotati (Boncori, 2000).

Bibliografia

Kerlinger F. N.,​​ Foundations of behavioral​​ research,​​ New York, Holt, Rinehart and Winston, 1964; Calonghi L.,​​ La scelta del campione,​​ Roma, UPS, 1973; De Landsheere G.,​​ Introduzione alla ricerca in educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1973; Bertoldi F.,​​ S.,​​ Brescia, La Scuola, 1976; Coggi C.,​​ L’osservazione sistematica e i docenti di scuola media,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 36 (1989) 915-934; Boncori G.,​​ Test di pensiero critico «Caccia all’errore 12»,​​ Roma, Kappa, 1989; Id., «Rendimento», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9948-9961; Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Boncori G.,​​ Guida all’osservazione pedagogica,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Id.,​​ Educare la capacità critica,​​ Roma, CRISP, 1995; Id., «Le guide di osservazione in pedagogia», in C. Nanni (Ed.),​​ La ricerca pedagogico-didattica - Problemi,​​ acquisizioni e prospettive, Roma, LAS, 1997, 231-244; Montgomery D.,​​ Positive teacher appraisal through classroom observation, London, Fulton, 1999; Boncori G.,​​ L’osservazione sistematica in pedagogia: un metodo per la ricerca e la pratica educative, in «Studium Educationis» (2000) 2, 248-260; Boncori L.,​​ I test in psicologia. Fondamenti teorici e applicazioni, Bologna, Il Mulino, 2006.

G. Boncori




SPIRITO

 

SPIRITO

È un termine dai molti significati. Ne può essere conferma perfino il vocabolario della lingua italiana dello Zingarelli. Alla voce s. vi troviamo tra l’altro: «principio immateriale attivo, spesso considerato immortale o di origine divina, che si manifesta come vita e coscienza», «anima, principio di vita individuale», «manifestazione ed essenza della divinità», «essenza personificata», «vivacità d’ingegno, intelligenza briosa». Ne derivano alcuni precisi modi di espressione: avere molto s., nutrire lo s., credere negli s.

1. Lungo la storia del pensiero filosofico-religioso ci sono stati diversi ambiti e modi di intendere il vocabolo s. A partire dalla filosofia greco-latina, esso si trova in tutte le epoche della storia della filosofia. È pure presente nella filosofia orientale. Il suo significato sarebbe da ricercare attraverso il greco​​ nous,​​ il latino​​ mens​​ o​​ ingenium​​ nonché​​ spiritus.​​ Per i filosofi, il termine s. ha un significato particolare quando indica la vita dell’intelligenza e della volontà dell’uomo (= lo s. dell’uomo). Lo s., quindi, è una realtà che si coglie prima di tutto sul piano antropologico e fa pensare all’interiorità dell’uomo. Lo s. dice la capacità di riflessione su se stesso e di​​ ​​ libertà, nonché la capacità di apertura all’assoluto. Grazie allo s., l’uomo può agire come soggetto.​​ 

2. Questa è la ragione per cui lo s. è anche una realtà teologica. Pur limitandosi al suo significato religioso-spirituale, il termine conosce diversi usi: «uomo spirituale» in opposizione all’uomo carnale, «lo s. del mondo» e «lo S. di Dio», «mondo spirituale», «autori spirituali», «potere spirituale della chiesa» in opposizione al potere temporale dello Stato, ecc. Nella Bibbia, la realtà designata con il nome di s. è molto complessa. È a partire dall’AT che essa risulta una realtà concreta, come per es. alito, soffio, vento o, come nel Salmo 104,29-30, l’alito vivificante che Dio infonde negli esseri viventi, oppure il principio di una vita morale qualitativamente migliore, come in Ezechiele 36,26: «porrò il mio s. dentro di voi».​​ Nel NT, il vocabolo s., oltre ad essere frequente acquista un carattere sempre più forte. Da una parte risulta elemento della struttura trascendentale dell’uomo che lo rende​​ capax Dei​​ e dall’altra è il dono che Dio dà perché l’uomo progredisca sul piano spirituale. È interessante, a questo riguardo, il linguaggio di s. Paolo. Nella 1 Ts 5,23, per es., troviamo un’elencazione di «s.,​​ anima e corpo»​​ che non intende indicare parti costitutive dell’uomo. Lo s., in questo contesto, non è una terza componente accanto al corpo e all’anima, ma è un principio di qualificazione. Esso si esprime e si manifesta attraverso la psiche ed il corpo, qualificandoli a misura del loro progressivo dominio. Lo scopo del cammino ascetico, infatti, è quello di rendere il corpo e l’anima trasparenti e sottomessi allo spirituale. S. Paolo mette in costante dialettica lo s. e la carne. La carne indica ogni attività umana, puramente naturale, che si limita ai beni della vita terrena; lo s., invece, indica ogni attività umana che si dedica ai beni della vita futura. È così che l’Apostolo arriva a poter parlare dell’uomo spirituale (pneumatikós)​​ e distinguendo tra l’uomo naturale e quello spirituale, egli indica in quest’ultimo la presenza dello S. di Dio.

3. Dato questo fondamento biblico, la teologia parla dell’inabitazione dello S. santo in tutti gli uomini che possiedono la grazia e la carità, dei doni dello S. santo, delle mozioni dello S. santo. Lo S. santo unisce l’uomo a Cristo e in Cristo lo unisce al Padre. Si tratta di una relazione dinamica che coinvolge tutto l’essere dell’uomo. «L’uomo naturale però non comprende le cose dello S. di Dio; esse sono follia per lui,​​ e non è capace di intenderle,​​ perché se ne può giudicare solo per mezzo dello S.»​​ (1 Cor 2, 14). L’esperienza spirituale cristiana significa, in questo caso, entrare sempre più profondamente nel mistero di Dio: «È in te la sorgente della vita,​​ alla tua luce vediamo la luce»​​ (Sal 36,10). Nella teologia si parla perfino dei «sensi spirituali», sottolineando la concretezza della relazione dell’uomo con Dio ma, prima ancora, il coinvolgimento di tutta la persona, sensi compresi, nell’esperienza di Dio.

Bibliografia

Ryle G.,​​ Lo s. come comportamento,​​ Torino, Einaudi, 1955; Ancilli E. et al.,​​ L’uomo nella vita spirituale,​​ Roma, Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum, 1974;​​ De Carvalho M. J. jr.,​​ La formation de la pensée humaine. La dynamique ontologique de l’esprit. Genèse de la pensée,​​ Neuchâtel, La Baconnière, 1974; Forest A.,​​ Essai sur les formes du lien spirituel,​​ Paris, Beauchesne, 1981; Lazorthes G.,​​ Le Cerveau et l’Esprit,​​ Paris, Flammarion, 1982; Boracco P. L. - B. Secondin (Edd.),​​ L’uomo spirituale,​​ Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1986.

J. Struś




SPIRITUALITÀ

 

SPIRITUALITÀ

Il termine, relativamente nuovo, viene adoperato in riferimento a diversi contesti e ambiti della vita religiosa dell’uomo. Si dice s. cristiana ma pure cattolica, protestante, ortodossa, nonché dei laici, dei religiosi, e anche del lavoro, dello sport, del tempo libero. Il vocabolo, non essendo ristretto all’ambito esclusivamente cristiano viene applicato ancora alle altre religioni: s. buddhista, ebraica, musulmana, shintoista.

1. Nel senso specifico cristiano, il termine s. ci orienta allo Spirito santo nella concreta situazione storica di credenti in Gesù Cristo. La parola s. subentra in gran parte a quelle di «ascetica e mistica» prese insieme. Ne risulta che la s. costituisce, in quanto riflessione teologica, una scienza teologica cristiana che si interessa del vissuto cristiano sostenuto dallo Spirito santo nella sua esistenza e nel suo cammino verso la perfezione nella storia. Il discorso sulla s. tiene conto di molteplici agganci tra l’esistenza cristiana e il mistero cristiano. Perciò la s. cristiana è fondamentalmente, allo stesso tempo, una s. cristologica, perché si ispira soprattutto alla figura di Cristo, una s. pneumatologica, perché è lo Spirito santo colui che produce nel cuore del credente in Gesù la filiazione divina e i frutti di ogni santificazione, una s. biblica, perché al centro della vita dei credenti si trova la parola di Dio che fa prendere coscienza dell’iniziativa gratuita dell’amore del Padre per tutti gli uomini, una s. ecclesiale, perché il luogo di nascita e di crescita dell’uomo in Cristo per mezzo dello Spirito santo è la comunità dei discepoli, una s. sacramentale, perché i sacramenti sono la celebrazione dei misteri della vita di Cristo per noi.

2. Benché tale vissuto abbia origine con i sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, cresima, eucaristia, non si può ignorare l’importanza della Parola di Dio che suscita e orienta verso una graduale esperienza di vita spirituale ogni credente in Gesù. Di fatto, la s. cristiana ubbidisce alla legge della gradualità, soggetta alla progressione del tempo, all’impegno e alla fedeltà dell’uomo, partendo dalla situazione e dallo stato reale in cui egli si trova. Un secondo aspetto è il contributo che la crescita cristiana dà alla maturazione umana. Una pedagogia seria della fede e una introduzione al mistero cristiano, intesa come mistagogia, sono sempre a sostegno sia di una profonda s., sia del mutuo rapporto tra la​​ ​​ maturazione umana e la crescita cristiana. La s. cristiana, in quanto esperienza di vita spirituale nella storia, assieme ai principi forniti dalla teologia, comprende anche tutta la ricchezza delle molteplici esperienze suscitate dalla grazia. Ne risulta l’importante compito che ha da svolgere la storia della s.: stabilire la certezza storica dei fatti, liberandoli dai dubbi e dalle leggende, determinandone con precisione il tempo, il luogo, la successione, i rapporti vicendevoli; offrire una vasta raccolta di esperienze certe, vissute da persone di ogni ceto, di ogni tempo, di ogni luogo, da cui si possono ricavare metodi da seguire e modelli da imitare; presentare, attraverso lo svolgersi del tempo, testimoni e testimonianze del sentimento e del pensiero della Chiesa a riguardo della perfezione cristiana. Contano, in questo senso, la canonizzazione dei santi, il valore teologico delle vite e degli scritti dei santi e, in genere, degli autori spirituali, l’approvazione degli Ordini e delle Congregazioni religiose. Non essendoci un tipo di fede valido per tutti i tempi né un ideale di santità sovratemporale, e dato il carattere innovatore e provvisorio della s., sono possibili sempre nuovi stili di s. con inevitabili nuovi rischi.

3. Considerando i vari tipi di religione presenti nel mondo, notiamo tra essi una sostanziale differenza, che va da un formale rapporto con il divino a una vera comunione di fede, amore, speranza. Ne consegue il tipo di s. Tra i tipi di religione si possono distinguere:​​ una via religiosa,​​ che si esprime nella organizzazione dei rapporti degli uomini con il divino;​​ una via di sapienza​​ che, partendo dall’insegnamento dei grandi saggi, propone degli itinerari e delle tecniche per conseguire la liberazione e una comunione con il tutto;​​ una via di fede​​ che, partendo da un rapporto più personale di fede, si abbandona a un essere divino considerato persona.

Bibliografia

Calati B. - B. Secondin - T. P. Zecca (Edd.),​​ S. Fisionomia e compiti,​​ Roma, LAS, 1981; Rondet M. - C. Viard,​​ La crescita spirituale. Tappe,​​ criteri di verifica,​​ strumenti,​​ Bologna, Dehoniane, 1989; Moioli G.,​​ L’esperienza spirituale, Milano, Glossa, 1992; Bernard Ch. A. (Ed.),​​ La s. come teologia.​​ Simposio organizzato dall’Istituto di S. dell’Università Gregoriana, Roma 25-28 aprile 1991, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1993; 147-167;​​ Carmelitani Scalzi,​​ La teologia spirituale.​​ Atti del Congresso internazionale OCD,​​ Roma 24-29 aprile 2000, Roma, OCD / Teresianum, 2001;​​ Cazzulani​​ G.,​​ Quelli che amano conoscono Dio.​​ La teologia della s.​​ cristiana di Giovanni Moioli (1931-1984). Prefazione di B. Secondin, Roma, Pubblicazione del Pont. Seminario Lombardo, 2002;​​ García C.,​​ Teología espiritual contemporánea.​​ Corrientes y perspectivas,​​ Burgos, Monte Carmelo, 2002;​​ Mirabella​​ P.,​​ Agire nello Spirito.​​ Sull’esperienza morale della vita spirituale, Assisi, Cittadella, 2003; Pellerey M., «S. e educazione», in C. Semeraro (Ed.),​​ La​​ s.​​ salesiana in un mondo che cambia, Caltanissetta / Roma, Sciascia Editore, 2003, 75-97.

J. Struś




SPONTANEITÀ / SPONTANEISMO

 

SPONTANEITÀ / SPONTANEISMO

Col primo termine si indica un carattere proprio del comportamento in quanto non orientato da influssi o prescrizioni o abitudini indotte attraverso l’azione di agenti e fattori educativi di qualche tipo (è l’equivalente del concetto di «naturalità»); col secondo si intende la concezione pedagogica per la quale il carattere della spontaneità rappresenta la condizione essenziale di autenticità della situazione educativa.

1.​​ Suggestioni.​​ La valorizzazione della s. risale al paradigma dell’Emilio​​ di​​ ​​ Rousseau, nel quale assume l’aspetto di educazione secondo natura e di educazione indiretta e consiste essenzialmente nel rivendicare il rispetto della struttura originaria del fanciullo nei suoi ritmi evolutivi e nelle sue espressioni vitali di contro alle costrizioni ed alle convenzioni delle usanze sociali e pedagogiche. Il tema basilare della bontà naturale, poi, troverà una particolare ripresa nell’attivismo e la sua più intensa elaborazione nell’opera di A. S. Neill (1883-1973), che riporta il criterio della s. al principio dell’autoregolazione come attributo sostanziale positivo della natura del soggetto, una volta che esso non venga disturbato (represso, inibito, minacciato) dal sistema delle strutture sociali e morali, fra le quali un posto di primaria importanza negativa spetta proprio all’educazione Si tratta di quello che Perkinson qualifica come «paradigma della crescita» di contro ai paradigmi della «iniziazione» e della «trasmissione». Lo s. si prospetta, allora, come una visione che, a partire dai dati immediati della realtà biopsichica, si sposta a quelli di ordine culturale e formativo per affermare che soltanto un’educazione basata sul rispetto e sulla promozione di questa immediata capacità di autoregolazione può garantire l’approdo ad uno sviluppo compiuto del soggetto verso la felicità personale e l’adattamento produttivo alla vita.

2.​​ Impulsi e confini.​​ La riduzione della presenza dell’ordine oggettivo esterno al solo piano delle convenzioni sociali minime (non invadere con le proprie pretese il diritto degli altri ad una espressività uguale alla propria), rende la posizione spontaneistica certamente debole sotto molti riguardi, esponendola al rischio di un istintualismo privo di limiti. D’altro canto, occorre dire che essa ha rappresentato la più convinta reazione all’irruzione della violenza sul terreno dell’educazione, dando un non indifferente apporto alla vocazione​​ della pedagogia moderna a saper stare – come diceva Neill stesso – «dalla parte dei bambini». Occorre comunque ricordare che l’esperienza del limite e lo sguardo dell’adulto restano contributi non eliminabili dall’itinerario di sviluppo umano del bambino.

Bibliografia

Gilbert R.,​​ Le idee attuali in pedagogia,​​ Roma, Città Nuova, 1973; Snyders G.,​​ Le pedagogie non direttive,​​ Milano, Feltrinelli, 1975; Angelicola M. D.,​​ Un’utopia rivisitata,​​ Roma, Armando, 1978; Neill A. S.,​​ Summerhill.​​ Una proposta contro la società repressiva,​​ Milano, Rizzoli, 1979; Perkinson H. J.,​​ Learning from our mistakes. A reinterpretation of twentieth-century educational theory, Westport-London, Greenwood P.,1984; Marcelli D.,​​ Il bambino sovrano, Milano, Cortina, 2003.​​ 

C. Scurati




SPRANGER Eduard

 

SPRANGER Eduard

n. a Berlino nel 1882 - m. a​​ Tübingen​​ nel 1963, filosofo e pedagogista tedesco.

1. Studiò da W. Dilthey, F. Paulsen e O. Hintze a Berlino. Dal 1911 al 1920 fu professore di filosofia e pedagogia a Leipzig, a partire dal 1920 a Berlino. Nel 1925 fu assunto nella Accademia Prussiana delle scienze; dal 1936 al 1939 esercitò attività didattica in Giappone; nel 1945 fu rettore commissario dell’università di Berlino; dal 1946 al 1952 professore a​​ Tübingen.

2. S. è considerato, accanto a Th. Litt e H. Nohl, uno dei pedagogisti più influenti in Germania durante il XX sec. A ciò hanno contribuito l’ampia tematica e la fondazione filosofica della sua opera, il suo insegnamento accademico e il suo influsso determinante nella riforma della scuola. Lo specifico della sua opera scientifica è il fatto che si radica totalmente nella tradizione della cultura classica, dell’idealismo e dell’umanesimo; ne danno testimonianza i suoi due libri sull’idea di umanesimo in Humboldt (1909) e sulla riforma della scuola (1910), come pure i suoi articoli su Goethe. Nello stesso tempo però S. studiava le scienze empiriche del suo tempo, in particolare la psicologia, senza tuttavia cadere in una posizione empiricistica. Le due celebri opere su​​ Le forme della vita​​ e​​ La psicologia dell’età giovanile​​ sono opere di una psicologia che appartiene alle scienze dello spirito, ed interpreta il senso unitario dell’esperienza psichica alla luce di un’attuazione generale dei valori. L’anima individuale in quanto spirito soggettivo si forma «dall’interno» nella relazione con la cultura oggettiva.

3. In questo senso S. si riallaccia anche alle idee della​​ Reformpädagogik,​​ con la quale però si mette a confronto, come fa anche per gli altri movimenti sociali del suo tempo. Alla dinamica di questi movimenti contrappone tuttavia il rigore categoriale dell’impegno scientifico, interpretandoli nella dialettica dell’individualità e dell’universalità tipica di Humboldt. Sul piano della riforma della scuola S. ha avuto influsso sullo sviluppo delle Accademie pedagogiche per la formazione degli insegnanti, in cui l’autonomia di una pedagogia educativa doveva trovare una impostazione appropriata per la formazione degli educatori. Per la comprensione della funzione insegnante sono stati rilevanti i seguenti scritti di S.:​​ Der Eigengeist der Volksschule​​ (1955) e​​ Der geborene Erzieher​​ (1958), in cui, fondando l’educazione su una responsabilità etico-sociale, che nella figura dell’insegnante trova la sua forma appropriata, giunge a un orientamento professionale «stabile».

Bibliografia

Gesammelte Schriften, Hrsg. von H. W. Bärht et al., Heidelberg, Quelle und Meyer,​​ 1969;​​ Meyer-Millner G. (Ed.),​​ E.S. Aspekte seines Werks aus heutiger Sicht, Bad Heilbrunn, Klinkhardt, 2001; Sacher W. - A. Schraut (Edd.),​​ Volkserzieher in dürftiger Zeit. Studien über Leben und Wirken E.S., Frankfurt, Peter Lang, 2004; Schraut A.,​​ Biografische Studien zu E.S., Bad Heilbrunn, Klinkhardt, 2007.

F. Hamburger




STADI DI SVILUPPO

 

STADI DI SVILUPPO

Uno s.d.s. (fase, tappa) è un momento evolutivo della storia della persona in cui si manifesta un insieme organico di comportamenti che presentano caratteristiche comuni a livello cognitivo, affettivo e relazionale.

1. Lo studio degli s.d.s. consente di descrivere e sistematizzare l’evoluzione del comportamento umano; di conseguenza, una concezione stadiale è utile per avvicinarsi alla comprensione della normalità, o anormalità, sia del comportamento che dello sviluppo. L’approccio descrittivo-interpretativo, caratterizzante la psicologia evolutiva, consente di considerare il processo evolutivo come un succedersi di s. qualitativamente o quantitativamente diversi.

2. Sebbene la concezione stadiale dello sviluppo abbia sempre accompagnato la storia della psicologia evolutiva, la problematica attuale è particolarmente collegata alla teoria di Piaget e da questa prende origine. La teoria piagetiana attribuisce agli s. le seguenti caratteristiche:​​ sequenzialità,​​ universalità,​​ integrazione,​​ struttura d’insieme.​​ Nel corso dello sviluppo, sono rintracciabili episodi di​​ décalages​​ («sfasamenti»), cioè è possibile che si verifichino delle non corrispondenze tra il livello evolutivo raggiunto e le risposte comportamentali. Nonostante le critiche e i numerosi tentativi di definire nuove proposte (es., Flavell, Welman e Gelman, Case e Pascual-Leone), la teoria di Piaget non ha ancora trovato un’alternativa adeguata e conserva grande valore euristico e teorico nello studio dello sviluppo umano.

3. Dal punto di vista educativo appare utile, inoltre, sottolineare che ogni s. coincide con un «periodo critico» o «momento sensitivo» in cui l’educando è particolarmente predisposto alla comprensione, all’apprendimento e al superamento del compito di sviluppo che corrisponde allo s. che sta attraversando; la conoscenza dei diversi s. e dei relativi compiti di sviluppo, costituisce un quadro di orientamento per l’educatore che si voglia impegnare nell’adeguamento delle proprie proposte alle reali capacità e possibilità di ogni educando.

Bibliografia

Flavell J. H.,​​ La mente dalla nascita all’adolescenza nel pensiero di Jean Piaget,​​ Roma, Astrolabio, 1971; Sugarman L.,​​ Psicologia del ciclo della vita. Modelli teorici e strategie d’intervento, Milano, Cortina, 2003.

A. Arto




STANDARD

 

STANDARD

Punto di riferimento, criterio.

1. Il termine inglese s. e i suoi derivati sono molto usati in​​ ​​ statistica e in​​ ​​ psicometria. Designano in genere un livello qualitativo desiderabile, distinto sia dal livello «ideale», raramente raggiunto, sia dal livello «normale», che si riferisce alla media delle prestazioni osservate e quindi può essere di qualità anche modesta. In ambito statistico, vengono chiamate s. unità fisse di misura utilizzate per confronti o per costruire scale. Per es. la​​ deviazione s.​​ è un indice di variabilità espresso nelle unità di misura originali ed è la misura di variabilità più usata;​​ errore s.​​ è la deviazione s. che descrive la variabilità di una statistica (per es. di una media aritmetica, di un coefficiente di correlazione) quando la misurazione viene compiuta numerose volte; la​​ differenza s.,​​ per es. fra due medie, è la differenza tra due medie diviso l’errore s. della differenza.

2. Con riferimento ai​​ ​​ test,​​ standardizzare​​ significa «allineare a s. prefissati», cioè da un lato a procedure fisse di somministrazione (descritte nel manuale del test) e dall’altro a unità di misura che consentano confronti, generalizzazioni. Il​​ campione di standardizzazione​​ è il campione (presumibilmente estratto a caso dalla popolazione, e quindi rappresentativo di essa) su cui sono state calcolate le norme s. necessarie per standardizzare i punteggi del test, cioè per passare dai punteggi grezzi a punti s. utilizzabili nei confronti. Per​​ punteggio s.​​ s’intende un qualsiasi tipo di punteggio, ottenuto mediante trasformazione matematica dai punteggi grezzi, che assuma come unità la deviazione s. della popolazione considerata criterio di riferimento.

3. Gli​​ Standards​​ pubblicati dall’American Psychological Association​​ e da altre associazioni statunitensi sono guide pratiche per valutare la validità e l’attendibilità di strumenti di misura usati in campo educativo e psicologico. Sono elaborati da esperti di chiara fama e contengono criteri molto particolareggiati, in gran parte applicabili anche in Italia.

Bibliografia

Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Hays W. L.,​​ Statistics for the social sciences,​​ New York, Holt,​​ 51994; Aera, Apa, Ncme,​​ The Standards for educational and psychological testing,​​ Washington DC, APA, 1999; Boncori L.,​​ I test in psicologia,​​ Bologna, Il Mulino, 2006.

L. Boncori




STATISTICA

 

STATISTICA

Studio quantitativo dei fenomeni di massa o collettivi che, per essere adeguatamente conosciuti, richiedono l’osservazione di fenomeni più semplici (singoli) che li costituiscono. Tali sono, per es., la natalità, la mortalità, le migrazioni, la scolarità, l’occupazione. Di tali fenomeni la s. studia l’aspetto quantitativo e fornisce metodi e strumenti per una loro descrizione sintetica ed uno studio più approfondito da diversi punti di vista (confronti, generalizzazioni, previsioni).

1.​​ Finalità della conoscenza s.​​ Un primo tentativo di precisazione dei compiti della s. può esser compiuto accennando ad una duplice esigenza che sta a fondamento del suo sorgere: la prima, di ordine pratico, volta a soddisfare concrete necessità dei gruppi sociali; la seconda di ordine «conoscitivo», collegata al desiderio che l’uomo ha sempre avvertito di conoscere a fondo la realtà che lo circonda. Questa seconda esigenza, in particolare, mira all’individuazione di connessioni e regolarità nei fenomeni naturali, in vista di comportamenti da adottare ma anche per la soddisfazione che tale conoscenza procura.

2.​​ Cenni storici.​​ Della s. come attività pratica si hanno tracce antichissime, per es. presso i Sumeri e altri popoli della Mesopotamia. Ma gli esempi più interessanti provengono dalle rilevazioni (censimenti) praticate nell’antico Egitto, in Cina (censimento della popolazione e delle terre nel 2238 a.C.), presso il popolo d’Israele e a Roma. Tracce della s. come disciplina possono essere individuate presso scrittori greci, latini e medioevali, mentre come metodologia autonoma essa ha origini più recenti. Per il suo aspetto descrittivo si fa riferimento alla «s. universitaria» tedesca, che si proponeva di descrivere le cose notevoli dello Stato. Iniziatore ne è considerato E. Conring (1606-1681), ma il merito di avere riorganizzato e diffuso la nuova disciplina spetta a G. Achenwall (1719-1772) che propose anche di chiamarla s. (termine già noto e utilizzato). Si trattava di una descrizione prevalentemente qualitativa, messa successivamente in crisi dalla proposta del danese I. P. Anchersen di utilizzare tavole statistiche. La proposta, nonostante vivaci resistenze da parte degli statistici universitari, si affermò ponendo le premesse per​​ la complessa e ricca documentazione s. odierna. Dal punto di vista della metodologia, tuttavia, i riferimenti obbligati sono i lavori di J. Graunt e successori (​​ demografia), e il contributo del calcolo delle​​ ​​ probabilità.

3.​​ L’indagine s.​​ Un’indagine s. è analiticamente suddivisibile in fasi (raccolta, classificazione, elaborazione, interpretazione). La prima di esse è la raccolta delle informazioni. Essa ha importanza fondamentale, in quanto è chiamata a fornire il materiale su cui si svolgeranno tutte le successive elaborazioni. È in questa fase che, avendo presenti le esigenze cui intende far fronte la rilevazione, deve essere individuato il collettivo (popolazione) oggetto di studio, precisando se verranno considerate tutte le unità (censimento) o solo una parte di esse (​​ campione). Occorre inoltre delimitare i caratteri da rilevare, gli strumenti per farlo e altri aspetti che caratterizzano il piano di rilevazione. In particolare va chiarito il livello di misura che verrà adottato, condizionato sia dal tipo di carattere (qualitativo o quantitativo) che dal modo seguito per misurarlo. La distinzione è rilevante agli effetti della informazione che si ottiene, ma anche per il tipo di operazioni ammissibili ai diversi livelli. I dati raccolti, dopo un’attenta verifica per individuare ed eliminare, nei limiti del possibile, eventuali errori, possono essere organizzati in tabelle (matrici) dove le righe rappresentano le singole unità e le colonne i caratteri (variabili), come nel seguente ipotetico esempio riferito ad allievi di una Scuola Secondaria Superiore:

Unità

 

Sesso

 

Età

 

Classe

 

Ital. or.

 

Ital. scr.

 

Storia

 

Mat.

 

1

 

M

 

16

 

3

 

7

 

6

 

8

 

7

 

2

 

F

 

15

 

2

 

7

 

8

 

6

 

7

 

3

 

F

 

17

 

3

 

6

 

5

 

7

 

6

 

4

 

M

 

15

 

2

 

5

 

5

 

6

 

5

 

 

Partendo da queste informazioni ha inizio la fase di descrizione, che comporta la loro sintesi mediante classificazione (naturalmente se il numero delle unità lo richiede), il calcolo di indici significativi, le rappresentazioni grafiche, ecc.

4.​​ L’analisi unidimensionale.​​ Considerando un carattere alla volta (una colonna della matrice) viene realizzata la prima fondamentale sintesi, la classificazione, che porta a sostituire la molteplicità ed eterogeneità dei dati individuali con gruppi omogenei in base alle modalità del carattere oggetto di studio. Il risultato della classificazione porta al concetto di frequenza (assoluta: numero di unità che appartengono a una modalità o classe) e a quello di distribuzione semplice (cioè secondo un solo carattere), uno dei concetti cardine della metodologia s. Così, per es., considerando un voto (una colonna della matrice) si perverrebbe ad una distribuzione di frequenza come la seguente (N = 70):

 

Voto

 

4

 

5

 

6

 

7

 

8

 

9

 

Tot.

 

F. assol.

 

5

 

7

 

11

 

21

 

16

 

10

 

70

 

F. percent.

 

7.1

 

10.0

 

15.7

 

30.0

 

22.9

 

14.3

 

100

 

 

L’esame di tabelle del genere permette di ottenere informazioni sul modo di distribuirsi delle unità rispetto alle modalità (o classi di modalità) dei caratteri considerati, favorendo l’emergere di particolari rilevanti: modalità (o classe) più frequente, andamento globale delle frequenze, ecc. Diverse forme di rappresentazione grafica, che si fondano prevalentemente sui risultati della classificazione, facilitano questo esame, proponendone una visione d’insieme dove emergono con immediatezza gli elementi più significativi. Alcune di esse (poligoni, istogrammi...) possono offrire spunti significativi in vista di un esame approfondito e del ricorso a modelli interpretativi teorici.

5.​​ La sintesi e la variabilità.​​ Partendo da un altro punto di vista si perviene a una sintesi dei dati che sostituiscono alla loro molteplicità un solo indice (valore medio) che serve a rappresentarli. Tra i numerosi valori medi ricordiamo: la moda o risultato più frequente, individuabile a tutti i livelli di misura (nominale e successivi); la mediana, che divide a metà la distribuzione dei dati una volta che questi siano stati ordinati; la media aritmetica (o media per antonomasia) calcolabile su dati quantitativi. Quest’ultima si ottiene, per definizione, facendo la somma di tutti i risultati e dividendola per il loro numero. In simboli:

I tre valori medi considerano i dati da diversi punti di vista e abitualmente non coincidono (e sono possibili distribuzioni senza o con più mode). La sintesi operata dai valori medi avviene però a scapito di quella fondamentale caratteristica dei risultati che stimola e giustifica il loro trattamento con metodi statistici: la variabilità. Gli indici di variabilità si propongono di ricuperare questo dato. Essi hanno in genere valore zero quando tutti i dati sono uguali tra di loro, superiore a zero e crescente all’aumentare della variabilità stessa. Il più importante, sia teoricamente che in pratica, è lo scostamento quadratico medio:

(e il suo quadrato, s2, detto varianza). Lo scostamento q.m. viene spesso assunto come riferimento (unità di misura) per mettere a confronto deviazioni dalla media aritmetica, prescindendo dall’unità di misura in cui sono espressi i risultati (standardizzandoli, come anche si dice). La formula di calcolo è la seguente:

La standardizzazione sostituisce alla distribuzione delle X (con media X e scostamento q.m.​​ s),​​ quella dei punti z, con media uguale a zero e scostamento q.m. (e quindi varianza) uguale a 1, mantenendo però invariato l’andamento della distribuzione di partenza.

6.​​ L’analisi bidimensionale.​​ Un passo decisivo nella descrizione dei fenomeni collettivi si compie considerando contemporaneamente due caratteri (due colonne della matrice dei dati). Lo studio dei dati da questo punto di vista risponde all’esigenza sempre avvertita dall’uomo di rendersi conto dell’andamento congiunto di due (o più) fenomeni per coglierne eventuali regolarità (si pensi ad alcune generalizzazioni contenute nei proverbi popolari relativi a fenomeni meteorologici, come «Rosso di sera bel tempo si spera»), per scoprire le «cause» e per servirsi delle conoscenze acquisite a fini pratici. A livello descrittivo la metodologia s. per l’analisi bidimensionale segue lo schema illustrato sopra per i caratteri (variabili) semplici. Si parte dalla classificazione dei dati che, nel caso di due variabili, porta a costruire tabelle a doppia entrata (specie di stanze o celle con diversa entrata per le due variabili). Si possono calcolare valori medi e indici di variabilità per le diverse distribuzioni, percentuali, ecc. e anche ricorrere a rappresentazioni grafiche. Ma la considerazione congiunta di due variabili permette soprattutto di avviare il discorso relativo ad eventuali connessioni tra di loro, di misurarne la consistenza, di costruire e utilizzare modelli interpretativi della realtà studiata. Un primo passo è costituito dall’esame della «indipendenza» tra due variabili. Si parla di indipendenza se, al variare di un carattere (per es. il sesso), le distribuzioni parziali dell’altro presentano lo stesso andamento (la stessa composizione percentuale). In caso contrario si parla, specie per caratteri qualitativi, di connessione e vengono utilizzati svariati indici per misurarla. A livello almeno ordinale di misura è possibile stabilire se due caratteri variano rappresentazione grafica) si cerca di stabilire come un carattere (Y) varia in media al variare di un altro (X). Si parla, in genere, di analisi di regressione e della relativa equazione. L’analisi dell’interdipendenza pone invece, per così dire, le due variabili X e Y sullo stesso piano per studiarne il reciproco comportamento (come variano assieme) e giungere a calcolare indici che rendono ragione sia del verso (col segno + o -), sia della consistenza (numericamente espressa) del vicendevole legame. Il più noto e utilizzato di questi indici (specie nelle applicazioni psicologiche e didattiche) è il coefficiente di correlazione​​ r​​ (detto anche di Bravais-Pearson, dal nome degli studiosi che per primi se ne sono occupati). Il coefficiente​​ r​​ varia tra -1 (relazione lineare negativa perfetta) e +1 (relazione lineare positiva perfetta). I risultati intermedi indicano gradi più o meno stretti in riferimento a questo tipo di legame. Il valore​​ r​​ = 0 sta a significare che non è possibile descrivere, anche se approssimativamente, il legame tra X e Y con una equazione lineare come quella vista sopra. Si può infatti ottenere​​ r =​​ 0 in presenza di altri tipi di legame (per es. quadratico). Occorre poi precisare che​​ r​​ non è in grado di «spiegare» il perché dell’eventuale legame, e non può quindi, da solo, autorizzare affermazioni del tipo causa-effetto. Accanto ad​​ r​​ esiste inoltre tutta una serie di altri coefficienti, utilizzati per adattarsi al tipo di dati a disposizione. A conclusione di queste considerazioni sull’analisi bidimensionale va aggiunto che il discorso può essere ampliato considerando contemporaneamente tre o più variabili. La letteratura in proposito è molto vasta: qui ci si limita a ricordarne l’esistenza.

7.​​ L’inferenza s. (classica).​​ Le descrizioni dei dati di cui si è finora parlato, trattano sostanzialmente allo stesso modo informazioni provenienti dall’intera popolazione (censimenti) o da una sua parte (rilevazioni campionarie). L’inferenza s. si occupa invece del secondo tipo di dati, la cui raccolta non rimane fine a se stessa, ma deve servire a produrre informazioni su uno o più aspetti della popolazione da cui il campione proviene. Il discorso al riguardo richiede però una duplice precisazione. La prima concerne la terminologia usata: quando la chiarezza del discorso lo esige, le sintesi numeriche riferite alla popolazione vengono chiamate​​ parametri​​ (e di solito indicate con lettere dell’alfabeto greco); sono invece dette​​ costanti statistiche​​ (o semplicemente costanti, o statistiche) quelle ottenute sui campioni (ordinariamente rappresentate con lettere dell’alfabeto latino). La seconda precisazione riguarda il campione: gli strumenti per l’inferenza vengono forniti dal calcolo delle​​ ​​ probabilità, assumendo sue distribuzioni a rappresentare il comportamento dei fenomeni naturali oggetto di studio. Ciò suppone che i campioni su cui si opera non siano scelti in modo qualsiasi, ma rispettando norme atte ad assicurare alle singole unità una data probabilità di entrare a farne parte (nel caso dello schema di campionamento casuale semplice, la stessa probabilità). In tal modo viene garantita la possibilità di costruire distribuzioni campionarie teoriche come quella delle medie campionarie, della differenza tra medie, ecc., che costituiscono il fondamento dell’inferenza s. Fatte queste precisazioni, si può affermare, almeno in prima approssimazione, che l’inferenza s., partendo dalle informazioni ottenute attraverso le rilevazioni campionarie, giunge ad affermazioni sui parametri della popolazione relativa e anche sulla forma della distribuzione dei dati nella stessa. I problemi che l’inferenza s. è chiamata a risolvere, possono essere classificati in due grandi categorie (collegate, peraltro, tra di loro): stima di parametri e verifica di ipotesi. Nel caso della​​ stima​​ si tratta di individuare strumenti (stimatori)​​ in grado di fornire informazioni sulla popolazione da cui proviene il campione. Qui verranno considerati procedimenti per stime relative a parametri, che si presentano sotto una duplice forma: a)​​ Stime puntuali:​​ si assume il valore (stima) fornito dallo stimatore a rappresentare il relativo parametro incognito della popolazione (es.: media, percentuale). È il metodo abitualmente utilizzato, per es. in TV e sui giornali, per presentare risultati di rilevazioni campionarie. b)​​ Intervalli di confidenza.​​ Le stime puntuali possono non apparire soddisfacenti, in quanto abitualmente non si è in grado di valutare la consistenza dell’errore di stima (differenza tra stima e parametro) e la probabilità di incorrervi. Gli intervalli di confidenza intendono proprio offrire la possibilità di misurare, in termini di probabilità, l’attendibilità di una stima, costruendo attorno ad essa intervalli in grado di contenere, con assegnata probabilità (es. 95%), l’incognito parametro della popolazione.

8.​​ Verifica di ipotesi.​​ Un’ipotesi s., in questa prospettiva, può essere considerata come un’affermazione relativa a qualche parametro della popolazione (es.: media, percentuale, coefficiente di correlazione...). Tale ipotesi va sottoposta a verifica, nel senso che si cerca di valutarne i limiti di sostenibilità (in termini di probabilità) alla luce dei dati raccolti su di un campione proveniente dalla popolazione a cui il parametro è riferito. In pratica, si procede abitualmente in questo modo: 1) si enuncia un’ipotesi di base o nulla (H0) e una sua alternativa (H1) nel caso in cui H0​​ non risulti sostenibile; 2) si ricorre ad una procedura (un​​ ​​ test) per suddividere la totalità dei possibili risultati campionari in due regioni: una contenente quelli compatibili con H0, l’altra (regione «critica») quelli che sembrano far preferire H1; 3) le due regioni vengono individuate tenendo presente un prefissato rischio di errore (α) se si dovesse arrivare a respingere H0​​ e la formulazione dell’alternativa H1​​ (unidirezionale o bidirezionale); 4) si raccolgono i dati sul campione, si applica il test e si decide (abitualmente) pro o contro la sostenibilità di H0. Questo modo di procedere trova applicazione in una grande varietà di situazioni, ma, come si è detto, si fonda sul ricorso a distribuzioni campionarie teoriche. Quando ciò fosse impossibile, o sconsigliabile data la natura dei dati, esiste tutta una serie di procedure (test) non vincolate alla forma della distribuzione della variabile nella popolazione, spesso denominate test non parametrici. Il modo di impostare e risolvere i problemi ricalca tuttavia, nei suoi momenti essenziali, quello visto sopra. Tale procedimento è stato ed è sottoposto a vivaci critiche, particolarmente dai sostenitori della interpretazione soggettiva della probabilità, che ritengono essenziale, nel procedimento, anche una valutazione previa (probabilità iniziale) relativa alla situazione in esame e fanno esplicito riferimento all’utilizzazione del teorema di Bayes (inferenza Bayesiana). Anche a proposito dell’inferenza, come (e più che) per la descrizione, occorre ricordare che esiste una imponente serie di strumenti che affrontano una grande varietà e complessità di verifica di ipotesi statistiche su uno o più campioni, su una o più variabili in situazioni sperimentali o di semplice osservazione, ecc.

9.​​ L’uso scientifico della s.​​ L’importanza della metodologia s. è tale che si è arrivato a considerarla come «il metodo esclusivo per investigare i fatti naturali, qualunque sia la loro specie» (Boldrini, 1968, 29). Infatti essa trova applicazioni in campo economico, demografico, medico, fisico, oltre che in quasi tutte le rilevazioni (sondaggi) su diversi aspetti della situazione sociale (tra cui quelli educativi). Ciò esige, da parte degli utilizzatori dei suoi risultati, una conoscenza (almeno essenziale) delle modalità di trattazione dei dati e del loro significato. Essa infatti è in grado di proporre descrizioni (e interpretazioni) quantitative delle principali caratteristiche relative ai molteplici aspetti della vita sociale, alla cui conoscenza sono interessati da diversi punti di vista sociologi, psicologi, educatori, pedagogisti. D’altra parte il continuo ricorso a indagini campionarie esige un atteggiamento critico nella valutazione dei risultati ottenuti, sia dal punto di vista della loro origine (caratteristiche del campione) che del loro significato (descrizione «approssimata» dell’essere, non del dover essere). Una conoscenza dei procedimenti proposti dalla s. – anche solo a livello elementare – può risultare utile nella fase di documentazione di determinate situazioni (es.: andamento di iscrizioni, promozioni, ripetenze a livello di una istituzione scolastica) e / o di esperienze innovative che vanno adeguatamente illustrate e valutate. Ciò suppone, in definitiva, da una parte il «non rifiuto» di una seria documentazione anche quantitativa e, dall’altra, un attento procedimento di utilizzazione e valutazione critica della stessa: due atteggiamenti che la metodologia s. è in grado di suggerire e affinare.

10.​​ S. e informatica.​​ Una delle remore all’uso della metodologia s.​​ è stata rappresentata, in passato, dal timore suscitato dal continuo ricorso a grandi quantitativi di dati e al loro trattamento. Il successo degli elaboratori elettronici ha ridimensionato questo timore. Essi permettono di utilizzare agevolmente «pacchetti» di programmi dedicati esplicitamente alle elaborazioni statistiche dei dati, continuamente aggiornati e ampliati, come S., SPSS, SYSTAT, ecc. Essi propongono (anche se con accentuazioni diverse) soluzioni standardizzate per la costruzione delle matrici dei dati (immissione dei dati), la loro descrizione e rappresentazione grafica (anche in riferimento a recenti proposte di «analisi esplorativa dei dati»), la costruzione di modelli interpretativi (analisi di regressione, correlazione canonica...), la verifica di ipotesi dal livello elementare (test su due campioni) a quello più approfondito (analisi della varianza), al trattamento delle classificazioni a livello qualitativo, all’analisi delle serie storiche, ecc. Il problema posto dall’utilizzazione delle enormi possibilità offerte da questi «pacchetti» è quello di sapere, almeno a grandi linee, ciò che si vuole, ma soprattutto ciò che si può ottenere dai dati. Si richiede cioè una sostanziale conoscenza delle possibilità e dei limiti insiti nelle diverse procedure proposte al fine di utilizzare le stesse (o farle utilizzare da altri) per ottenere risposte coerenti con gli obiettivi che stanno alla base del ricorso allo studio quantitativo di una determinata realtà.​​ 

11.​​ Una cultura s.​​ Il continuo ricorso a dati statistici, che riguardano i più diversi aspetti della vita di un Paese, e la disinvolta pubblicizzazione che ne viene fatta da parte dei mezzi di comunicazione sociale, pone il problema di una «alfabetizzazione» dei destinatari di questi messaggi, che li ponga in condizione di comprendere, valutare e anche, seppure a livello elementare, usare dati quantitativi presentati sotto forma di grafici, tabelle e / o sintetizzati con opportuni indici e misure. La scuola si è posta da tempo questo problema, introducendo nei programmi, già a livello di scuola di base, una iniziazione alla s. e alla probabilità. Esiste, al riguardo, una ricca documentazione reperibile in Internet, sia di testi specifici, sia di esempi sviluppati sfruttando strumenti informatici. Sono sorte anche, e continuano la loro attività, organiche iniziative tese a stimolare e sostenere questo impegno. Si segnalano, a titolo di esempio: la Rivista «Induzioni.​​ Demografia,​​ probabilità,​​ s. a scuola» (fondata nel 1990, http: / / www.libraweb.net / riviste.php?chiave=09) che si propone di diffondere idee statistiche nella scuola e sottolineare l’utilità della s. nella vita pratica; il CIRDIS (Centro Interuniversitario di Ricerca per la Didattica delle Discipline Statistiche) (http: / / cirdis.stat.unipg.it / ), al quale aderiscono diverse Università. Anche l’ISTAT (Istituto Centrale di S.) è impegnato a «promuovere, fin dai​​ primi cicli scolastici,​​ la cultura dei numeri», dedicando alla scuola un apposito spazio,​​ BINARIODIECI, «percorso guidato nell’officina dei dati ufficiali» (ww.istat.it / servizi / studenti / binariodie / ..) e avvertendo che in questa direzione si stanno muovendo in tutto il mondo i principali istituti di s., anche utilizzando le nuove opportunità offerte da Internet. Il riferimento a Internet sottolinea altre possibilità di «produrre» informazioni statistiche a livello elementare: il ricorso all’uso dei cosiddetti​​ Fogli Elettronici​​ che permettono di sostituire, almeno all’inizio, i Programmi dedicati di cui si è detto sopra, per es. EXCEL, sulla cui utilizzazione in questo contesto sono rintracciabili in Internet moltissimi riferimenti.

Bibliografia

Castellano V.,​​ Istituzioni di s.,​​ Roma, Ilardi, 1962; Boldrini M.,​​ S.:​​ teoria e metodi,​​ Milano, Giuffré, 1968; Giusti F.,​​ Introduzione alla s.,​​ Torino, Loescher, 1983; Leti G.,​​ S. descrittiva,​​ Bologna, Il Mulino, 1983; Girone G. - T. Salvemini,​​ Lezioni di S., 2 voll., Bari, Cacucci, 1992; Lombardo E.,​​ I dati statistici in pedagogia: esplorazione e analisi,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; Piccolo D.,​​ S., Bologna, Il Mulino, 2000; Bolasco S.,​​ Analisi multidimensionale dei​​ dati, Roma, Carocci, 2004; Frayre M. - A. Rizzi,​​ S.,​​ Ibid., 2005; Levine D. M. et al.,​​ S., Milano, Apogeo, 2006; Middleton M. R.,​​ Analisi S. con EXCEL,​​ Ibid., 2006; Belissima F. - F. Montagna,​​ Matematica per l’informatica,​​ Roma, Carocci, 2006.

S. Sarti




STATO SOCIALE

 

STATO SOCIALE

All’origine dello S.s. stanno il proposito e il progetto di attuare una democrazia integrale, non solo politica ma anche sociale ed economica. Con esso si voleva dare un contenuto pieno e reale ai diritti politici col realizzare anche i diritti sociali, quali ad es. il diritto al lavoro, il diritto di tutela dei bambini, dei giovani e delle operaie, il diritto di orientamento e di formazione professionale, il diritto di associazione, di tutela della salute, il diritto alla casa, alla sufficienza, alla sicurezza sociale. E ciò, non prescindendo dallo S., bensì mediante esso, facendolo​​ sussidiariamente​​ coordinatore delle iniziative dei singoli e dei gruppi, gestore di forme universalizzate di assistenza, programmatore dell’economia nella sua globalità (non nella sua totalità!) e, talora, quando necessario al bene comune, imprenditore in settori chiave.

1. Lo S.s., così come codificato in parecchie Carte costituzionali contemporanee, è stato immaginato culturalmente ed ideologicamente sostanziato da un’impostazione personalista comunitaria e solidarista.​​ In altre parole, è stato concepito come un​​ posterius​​ rispetto alla persona e ai suoi diritti e doveri, alle società minori, ovvero come espressione ed istituzione delle persone e delle società che lo precedono, come essenzialmente funzionale ad esse. E, inoltre, come​​ comunione solidale,​​ come​​ vita democratica​​ organica ed articolata a livello nazionale, regionale e locale. È, per conseguenza, intrinseco all’idealità dello S.s. l’intento di superare le forme statuali autoritarie, assolutistiche ed etiche in senso hegeliano.

2. Per ottenere una democrazia completa, quale espressione coessenziale di una società che vuole essere autenticamente umana ed umanizzatrice, si prevedono allora, tra lo S. e la società, tra le istituzioni pubbliche e i cittadini, corpi intermedi di rappresentanza e di partecipazione, quali ad es. i sindacati e i partiti. Il​​ decentramento​​ alle regioni è architettato non per favorire logiche regionalistiche o municipalistiche, ma per incentivare una responsabile e matura autopromozione democratica della base sociale, sempre però all’interno di una politica generale nazionale. Lo stesso​​ pluralismo sociale​​ è voluto e giustificato quale insieme di energie necessarie ad un più adeguato autosviluppo umano, sociale, civile, sanamente autonomo, oltre che, ovviamente, per una più ricca e consistente promozione del bene comune.

3. Col tempo, però, l’idealità dello S.s., viene offuscata e deformata da alcune sue realizzazioni concrete, specie da quella rappresentata dallo S.​​ assistenziale,​​ che ha finito per prevalere nel mondo occidentale. Lo S. assistenziale, se da una parte è riuscito, con un più allargato intervento statale, a porre rimedio a tante forme di povertà e di privazioni indegne della persona umana, dall’altra ha mostrato sempre più evidenti eccessi ed abusi, disfunzioni e difetti. In particolare: a) l’eccesso di intervento, che più di una volta giunge, contrariamente al principio di sussidiarietà, a sostituirsi ai vari soggetti sociali e alle loro reti di solidarietà primaria o gratuita, assistenzializzandoli, deresponsabilizzandoli, emarginandoli; b) l’accentramento esagerato di molti servizi sociali con conseguente aumento degli apparati pubblici, con enorme crescita delle spese, con erogazione di prestazioni dominata da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti; c) la perdita di molte energie umane, che vengono misconosciute o anche scoraggiate; d) l’instaurazione nelle prestazioni di​​ welfare​​ di un sistema​​ particolaristico-clientelare,​​ ad uso dei partiti, per ottenere consenso elettorale; e) la politica sociale praticata quale semplice predicato dello sviluppo economico; f) l’etica di solidarietà mutata in etica neocorporativistica, individualistica; g) i corpi intermedi di rappresentanza e di partecipazione trasformati in sistemi autoreferenziali, lontani dal loro ruolo di canali collettori di una domanda sociale da armonizzare con le esigenze del bene comune; h) politiche economiche assistenzialistiche; i) presenza sproporzionata di imprese pubbliche, che anziché favorire il capitale privato gli lasciano spazi sempre più ristretti.

4. Quale via di uscita? La ristrutturazione dello S.s. sembra non possa avvenire – a meno che non si voglia regredire – solo lungo la linea della​​ riorganizzazione​​ o del rafforzamento del polo dello S. e del pubblico, tramite riforme istituzionali, politiche e sociali che garantiscono prestazioni più mirate, migliori condizioni materiali e, nello stesso tempo, adeguata produzione di risorse economiche. In tal modo si accrescerebbero i difetti delle burocrazie pletoriche, dell’accentramento gestionale della solidarietà, si userebbe ancora un codice simbolico, politico, istituzionale, non valorizzando la famiglia, i vari gruppi primari, secondari e di​​ privato sociale.​​ Ma nemmeno lungo la linea della destrutturazione totale degli apparati del​​ welfare​​ o della liberalizzazione del mercato, perché si darebbe sfogo a modelli di relazioni mercantili che, come è risaputo, non vengono spontaneamente incontro ai bisogni spirituali e culturali delle persone, tantomeno ai bisogni di una società assetata di una migliore​​ qualità della vita.

5. Sembra che la soluzione più pertinente alla crisi strutturale e culturale dello S. assistenzialistico vada trovata lungo la via dell’istituzionalizzazione di un nuovo​​ complesso della cittadinanza,​​ diversificata secondo forme molteplici (politica, economica, sociale, di​​ privato sociale),​​ basata su una​​ ​​ solidarietà anch’essa concepita in un modo più differenziato, quale valore universale e particolare, valido per tutte le​​ sfere​​ sociali. La solidarietà​​ pubblica​​ è​​ una​​ forma della solidarietà. Essa può sussistere, se è mantenuta in vita ed è accresciuta, suo mediante, la solidarietà di base, primaria, secondaria, di​​ terzo settore,​​ rispetto alla quale ha funzione di integrazione e di aiuto. Secondo queste prospettive, la soluzione alla crisi dello S. assistenziale non si dovrebbe allora realizzare tramite un processo di pura inclusione o statalizzazione della solidarietà primaria, secondaria e di terzo settore, oppure tramite l’emarginazione o il depotenziamento di questa, ma riconoscendone l’autonomia, sostenendola, raccordandosi con essa, anche con sistemi di​​ mix,​​ per meglio rispondere a tutti i bisogni fondamentali della persona umana.

Bibliografia

Rosanvallon P.,​​ La nouvelle question sociale. Repenser l’État,​​ Paris, Seuil,​​ 1995; Donati P.,​​ Teoria relazionale della società,​​ Milano, Angeli, 1994; Id. (Ed.),​​ Lo S.s. in Italia. Bilanci e prospettive, Milano, Mondadori, 1999; Toso M.,​​ Welfare society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici,​​ Roma, LAS, ²2003.

M. Toso