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SISTEMA PEDAGOGICO

 

SISTEMA PEDAGOGICO

In generale per s. si intende un insieme di parti in interazione tra di loro. Un s.p. può quindi essere definito come un insieme di concetti, principi e metodi relazionati tra loro in modo da formare un complesso organico e coerente. Tale definizione è spesso analoga a quella di modello pedagogico e di metodo pedagogico. Un significato leggermente più declinato nei riguardi della pratica educativa concreta assume normalmente l’espressione «s. educativo» ed espressioni analoghe. Molto spesso si parla anche di s. educativo e di s. scolastico dal punto di vista istituzionale (​​ s. formativo): insieme organizzato di luoghi, programmi, persone, procedure gestito secondo leggi e norme ufficiali. In psicologia con questo termine si descrive il soggetto considerato sotto il profilo del suo mondo interiore (il s. del sé).

1.​​ Significato tradizionale.​​ Il significato tradizionale si accosta a quello di metodo. In altri termini si tratta di un quadro di riferimento di valori, concetti e principi d’azione che guidano la pratica educativa. Ad es., san Giovanni​​ ​​ Bosco inizia il suo «trattatello» su​​ Il​​ s. preventivo​​ compilato nella seconda metà dell’Ottocento con queste parole: «Due sono i s. in ogni tempo usati nella educazione della gioventù: Preventivo e Repressivo. Il s. Repressivo consiste nel far conoscere la legge ai sudditi, poscia sorvegliare per conoscerne i trasgressori ed infliggere, ove è d’uopo, il meritato castigo. In questo s. le parole e l’aspetto del Superiore debbono essere severe, e piuttosto minaccevoli, ed egli stesso deve evitare ogni famigliarità coi dipendenti. [...] Diverso e, direi, opposto è il s. Preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare in guisa, che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l’occhio vigile del Direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evenienza, diano consigli ed amorevolmente correggano [...]. Questo s. si appoggia tutto sopra la ragione, la religione, e sopra l’amorevolezza» (Braido, 1992, 253-254).

2.​​ Significato sistemico.​​ È l’aggettivo che viene usato per indicare che l’analisi o la​​ ​​ progettazione educativa viene condotta utilizzando le categorie concettuali proprie della teoria dei s., quale è oggi intesa. Ad es., un’analisi sistemica di una pratica educativa tende a individuare gli elementi fondamentali che la caratterizzano e le relazioni che li legano tra di loro. Si vuole in questo modo esaminare la struttura di base che fa da supporto a tale pratica: elementi teorici e assiologici di riferimento, e loro organizzazione interna; dispositivi e congegni educativi che vengono utilizzati, e loro interazione reciproca e con gli elementi teorici e assiologici di riferimento; modalità e strumenti di gestione e di controllo della pratica, e loro relazione con gli altri elementi caratterizzanti tale pratica. Inoltre si mira a evidenziare se la pratica, esaminata dal punto di vista sistemico, risulta statica o dinamica, aperta ad altre pratiche e contesti educativi o chiusa in se stessa.

3.​​ Significato sistematico.​​ L’aggettivo è usato normalmente secondo un’accezione diversa da quella dell’aggettivo sistemico. In questo caso l’attenzione è posta più che sulla struttura di base, sulle procedure che si mettono in atto sia nell’analisi che nella progettazione di una pratica educativa. Sistematica è una progettazione che passa dall’analisi della domanda educativa alla formulazione degli obiettivi, alla ricerca dei contenuti, metodi e mezzi per raggiungerli, alla definizione di una modalità di regolazione e di​​ ​​ valutazione.

Bibliografia

von Bertalannfy L.,​​ Teoria generale dei s.,​​ Milano, ILI, 1971; De Giacinto S.,​​ Educazione come s.,​​ Brescia, La Scuola, 1977; Dick W. - L. Carey,​​ The systematic design of instruction,​​ Glenview, Scott Foresman & Company, 1978; Bertoldi F.,​​ I s. nella didattica,​​ Milano, Vita e Pensiero,​​ 21985; Luhmann N. - K. Schorr,​​ Il s. educativo,​​ Roma, Armando, 1988; Braido P. (Ed.),​​ Don Bosco educatore: scritti e testimonianze,​​ Roma, LAS,​​ 21992; Id.,​​ Prevenire non reprimere. Il s. educativo di Don Bosco, Ibid., 1999; Greco F.,​​ Introduzione all’analisi dei s. educativi, Roma, Armando, 2005; Callini D.,​​ Società post-industriale e s. educativi, Milano, Angeli, 2006.

M. Pellerey




SISTEMA PREVENTIVO

 

SISTEMA PREVENTIVO

In un particolare mondo pedagogico cattolico dell’Ottocento la formula ebbe una certa risonanza dopo la pubblicazione, nel 1877, delle pagine su​​ Il s.p. nella educazione della gioventù,​​ nelle quali don​​ ​​ Bosco affermava con una certa enfasi: «Due sono i s. in ogni tempo usati nell’educazione della gioventù». Ma la contrapposizione dei due «sistemi» era emersa già prima in Francia a proposito di due tipi di educazione: dei «collegi» pubblici e privati laici (scuola di istruzione media-superiore), da una parte, e dei «collegi» cattolici, dall’altra: nei primi austera, esigente, propedeutica a un severo impegno nella società; in quelli confessionali, dolce, paterna o materna, accondiscendente, chiusa e protettiva, meno idonea ad un serio inserimento nella società civile, regolata da leggi uguali per tutti ed eventualmente penali.

1. Precedentemente, in Belgio e in Francia la formula aveva assunto un particolare significato nella politica scolastica relativa all’insegnamento libero: il s.p. ne precludeva​​ a priori​​ l’autorizzazione, mentre il «s. repressivo» l’ammetteva, salvo intervenire con ispezioni, restrizioni o soppressioni in caso di abusi, irregolarità o illegalità. Nell’ultimo terzo del sec. i due s. vengono contrapposti anche in Italia ed altrove in relazione ad analoghi antitetici atteggiamenti dello Stato di fronte al pericolo costituito dall’Internazionale socialista.

2. Ma al di là delle formule, l’indicazione di don Bosco circa il s.p. coinvolge una particolare tradizione educativa preoccupata piuttosto di prevenire in età evolutiva le deviazioni e gli errori che intervenire per reprimerli. La contrapposizione può limitarsi al livello disciplinare, all’ordine esterno, al «governo»; oppure estendersi, come nell’esperienza educativa di don Bosco e in altre iniziative assistenziali (per l’infanzia, l’adolescenza, i ragazzi in particolari situazioni sociali, morali, caratteriali), all’intero impegno formativo. In quest’ottica si può considerare preventivo il s. educativo che presenta in tutto o in misura significativa questi elementi: la​​ prevenzione assistenziale​​ (vitto, vestito, alloggio, istruzione), a cui segue la​​ prevenzione educativa,​​ per cui non si reprimono e puniscono mancanze, errori, deviazioni avvenute, ma si impedisce che accadano e, insieme, si promuove tutto ciò che contribuisce alla crescita in umanità dei soggetti. Questo lavoro può effettuarsi in favore di soggetti in situazioni di normalità (prevenzione primaria) o già con sintomi di adesione a modelli di comportamento in qualche modo devianti (prevenzione secondaria) oppure con comportamenti asociali già strutturati (prevenzione terziaria). Essa si attua con l’assistenza benefica e educativa,​​ sorretta dalla​​ dedizione​​ generosa degli educatori e dalla​​ fiducia​​ degli educandi. Ne sono atmosfera naturale l’amore-«amorevolezza»​​ e l’amicizia,​​ integrate dalla​​ ​​ ragione-ragionevolezza​​ che investono programmi, disciplina, avvisi, correzioni. La prevenzione si realizza in forma privilegiata in​​ comunità​​ strutturate e ispirate al regime e al clima della​​ famiglia,​​ a partire dalla stessa comunità domestica.

3. Nella storia le versioni della prevenzione educativa si esprimono come pedagogia dell’amore. Resta principio ispiratore la formula «plus amari quam timeri», enunciata nelle regole monastiche di sant’Agostino e di san Benedetto, ripresa nella sostanza da sant’Anselmo d’Aosta e letteralmente dal vescovo di Verona Ratherius (sec. IX). Se ne trovano tracce nel Medioevo, in riferimento all’infanzia, nelle trattazioni sull’educazione dei nobili di Vincenzo di Beauvais, di Egidio Romano e di Bartolomeo di san Concordio. Più copiosi elementi di tale s.p. vengono recepiti da cospicui rappresentanti della pedagogia umanistica e rinascimentale (Pier Paolo Vergerio,​​ ​​ Vittorino da Feltre, Maffeo Vegio,​​ ​​ Antoniano) e da trattatisti moderni come​​ ​​ Fénelon e​​ ​​ Rollin. Nell’Ottocento si discute e si scrive di «prevenzione» nei confronti di fenomeni di vario tipo: politica (moti rivoluzionari, minacce all’ancien régime,​​ ecc.), sociale (delinquenza, mendicità, questione operaia), penale (carceri, istituti per corrigendi), educativa (educazione come prevenzione, prevenzione nell’educazione), religiosa (la religione come rassicurazione, ecc.). Si moltiplicano istituzioni scolastiche e educative, istituti di vita consacrata maschili e femminili dediti all’assistenza della gioventù, scrittori di cose pedagogiche che adottano contenuti, lessico e metodi propri del s.p.:​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane, Barnabiti,​​ ​​ Aporti, L. Pavoni, P.-A. Poullet,​​ ​​ Dupanloup, A. Teppa, ecc. Oggi di «prevenzione» e di s.p. si tratta in rapporto all’«emarginazione», potenziale o effettiva, a molteplici livelli: educativo, didattico, psicologico, sociale, terapeutico.

4. Le «parole» del «preventivo» in don Bosco sono svariate: sul versante protettivo-immunizzante, l’assistenza, la disciplina, la vigilanza, l’ospizio; su quello positivo-costruttivo, la «salvezza», il dovere, il lavoro, lo studio, il gioco, il «tempo libero» (teatro, canto, musica, escursioni), l’obbedienza, la carità, la castità, la pietà, i sacramenti, la famiglia e la familiarità, la paternità e la maternità, l’oratorio, l’ospizio, i laboratori artigianali, le compagnie giovanili, la società, la Chiesa. Sovrastano le tre parole​​ ragione,​​ religione,​​ amorevolezza,​​ fondamento e anima dell’intero s., negativo e positivo, contenutistico e metodologico. In una visione sistematica dell’«esperienza educativa complessiva» si possono mettere in evidenza i seguenti elementi.

5. La prevenzione assistenziale-educativa di don Bosco non è quella di Fénelon o di Rollin, che si riferisce a giovani socialmente privilegiati, né quella di Aporti che riguarda il mondo dell’infanzia da preservare da deformazioni culturali e morali. L’azione di don Bosco nasce e si sviluppa in favore della «classe più pericolante e più pericolosa della civile Società», la gioventù «povera e abbandonata», «povera e pericolante». In proposito, nella sua concreta esperienza personale e istituzionale si verifica uno spostamento di accento nella considerazione della «gioventù povera» e della «povera gioventù». È possibile, infatti, notare un progressivo ampliamento dell’«abbandono» e del relativo pericolo, attivo e passivo: dal mondo ristretto della gioventù «povera» dal punto di vista economico, morale, culturale, «pericolosa» per la società, la visuale e l’operatività si estendono progressivamente alla «povera gioventù», tutta o quasi, sempre più «pericolante» in una società sempre più «pericolosa». In quest’ottica il s. è immaginato e formulato in rapporto non solo alle limitate fasce di giovani di cui don Bosco si occupa direttamente con le sue istituzioni, ma all’intero «pianeta giovani», che egli vede nei «sogni» diurni e notturni, dal Piemonte all’Italia tutta, alla Francia, alla Spagna, all’America, da Santiago del Cile a Pekino, dall’Europa all’Australia, compresi quelli da acquisire alla «civiltà cristiana» nelle terre di missione.

6. Pur consapevole dell’estrema problematicità delle situazioni, dei giovani don Bosco ha una visione sostanzialmente ottimistica, naturalmente solo se soccorre l’efficace e tempestiva opera dell’adulto educatore, assolutamente determinante. «Questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana società, su cui si fondano le speranze di un felice avvenire, non è per se stessa di indole perversa. Tolta la trascuratezza dei genitori, l’ozio, lo scontro de’ tristi compagni, cui vanno specialmente soggetti de’ giorni festivi, riesce facilissima cosa l’insinuare ne’ teneri loro cuori i principii di ordine, di buon costume, di rispetto, di religione; perché se accade talvolta che già siano guasti in quella età, il sono piuttosto per inconsideratezza, che non per malizia consumata» (Piano di Regolamento,​​ Introduzione,​​ 1854, 1). Di fatto il s. sembra attribuire una quasi onnipotenza all’educazione e all’educatore, protagonista nell’interpretare e attuare le attese dei giovani. Da questo punto di vista la «prevenzione» presenta una certa ambivalenza, con una marcata prevalenza della parte dell’educatore su quella dell’educando, chiamato soprattutto a obbedire e a conformarsi: è certamente un fatto di tempi e di mentalità.

7. La triade​​ ragione,​​ religione,​​ amorevolezza,​​ nota soprattutto nel suo significato metodologico, esprime anzitutto sinteticamente il complesso delle intenzioni, dei fini, dei contenuti e dei programmi del processo assistenziale-educativo preventivo, nell’ambito di una visione antropologica tendenzialmente umanistico-cristiana, non elaborata da don Bosco in sistematiche categorie teoretiche, ma vissuta ed espressa a livello catechistico e biblico-narrativo. Essa implica: a fondamento e coronamento, la​​ dimensione religiosa,​​ cattolica ed ecclesiale, in ordine alla «salvezza» e alla santità, nel rispetto delle diverse disponibilità; il fondamentale ricupero e potenziamento sul piano​​ umano,​​ culturale, professionale e sociale, coll’approdo, secondo una formula spesso ripetuta, al «buon cristiano e onesto cittadino»; l’integrazione​​ affettiva,​​ particolarmente urgente per soggetti deprivati di amore, senza famiglia o lontani da essa. All’una o all’altra delle tre dimensioni fa riferimento una ricca varietà di obiettivi, di contenuti e di lessico, spesso datati, ma non irrilevanti: «pietà», «santo timor di Dio», «osservanza dei religiosi precetti», «adempimento dei propri doveri», «amor della fatica», «istruzione», lavoro, «rispetto alle autorità» religiose e civili, fuga dai cattivi compagni, «l’affetto ai parenti», la «fraterna benevolenza», l’«allegria».

8. L’istituzione tipica del s.p. di don Bosco è l’«oratorio», non nuovo nella tradizione catechistica e educativa italiana (a cominciare dal ’500 con s. Filippo Neri e s. Carlo​​ ​​ Borromeo). Con don Bosco esso assume un significato paradigmatico, indicando qualsiasi «luogo» di incontro con i giovani, su «loro misura», dove in clima di libertà e di amicizia essi incontrano l’educatore padre, fratello, amico: il «cortile», la strada, la piazza, gli «oratori», gli ospizi con arti e mestieri, i collegi per studenti, i piccoli seminari, le scuole festive serali diurne, elementari, classiche, tecniche, i laboratori per la formazione professionale, le colonie agricole; ed ancora, le associazioni, i gruppi, i libri, le chiese, le missioni. Don Bosco non ha privilegiato nessuna istituzione particolare, assumendo quelle esistenti, dando semmai a loro un volto «nuovo», così come vuol essere innovativa la versione del tradizionale s.p. da lui riproposto.

9. La «novità» dello stile educativo di don Bosco è stata percepita fin dai primi anni della sua azione educativo-assistenziale, attraverso l’immagine di un prete alla ricerca dei giovani, vicino a loro, sensibile alle loro esigenze (sicurezza, lavoro), comprese quelle apparentemente superflue (gioco, gioia, espansione vitale); ma soprattutto alla loro fame di affetto, di amore, di amicizia; realtà che don Bosco fissa molto presto in parole essenziali: «Una lunga esperienza ha fatto conoscere che il buono risultato dell’educazione della gioventù consiste specialmente nel saperci fare amare per farci di poi temere»; oppure, dirette al suo vicino collaboratore: «Studia di farti amare piuttosto che [var.​​ prima di – se vuoi] farti temere». L’impianto metodologico si può riassumere nei seguenti fondamentali principi: a) prevenire e assistere [essere presenti, essere per] con intelligenza, fede e amore; b) «poche parole, molti fatti», amore effettivo oltre che affettivo: l’educatore si farà amare e farà amare i valori di cui è tramite se colle parole, e più ancora coi fatti, farà conoscere che «le sue sollecitudini sono dirette esclusivamente al vantaggio spirituale e temporale de’ suoi allievi»; c) predisporre interventi differenziati secondo i livelli morali e culturali, le indoli e le necessità dei singoli; d) «la pratica di questo s. è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: la carità è benigna e paziente, soffre tutto e sostiene qualunque disturbo»; e) 1’amore paterno, materno, fraterno che si sviluppa in clima di «famiglia»: «Chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto specialmente dai giovani»; f) nel processo educativo attribuire peso, graduale e individualizzato, ai «mezzi» della grazia salvifica, in particolare alla preghiera, ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia («colonne che devono reggere un edifizio educativo»), alla divozione mariana; g) in particolare far «rilevare la bellezza, la grandezza, la santità di quella​​ ​​ Religione che propone dei mezzi così facili, così utili alla civile società, alla tranquillità del cuore, alla salvezza dell’anima»; h) accanto e con altrettanta sollecitudine far nascere e crescere nei giovani il gusto della vita, il senso di responsabilità nei suoi confronti, la proiezione al futuro e al destino eterno, alla luce dei «novissimi», in particolare mediante un’oculata scelta vocazionale; i) arricchire l’intero spazio educativo con le più disparate iniziative di «tempo libero» dirette a creare un clima di gioia, di festa, di «benessere».

10. Don Bosco non si ferma dinanzi a ostacoli quando vuol suscitare il più vasto movimento in favore del progetto-giovani, dovunque e da chiunque promosso; e a tutti, soprattutto negli ultimi anni di vita, osa proporre come stile operativo il s.p. della​​ ragione,​​ della​​ religione,​​ dell’amorevolezza.​​ Vi provvede in vari modi: fonda due istituti religiosi, la società di san Francesco di Sales (​​ Salesiani) e l’istituto delle​​ ​​ Figlie di Maria Ausiliatrice; istituisce l’associazione dei Cooperatori; mobilita gli exalunni e le exalunne chiamati ad attuare nel proprio mondo familiare, civile ed ecclesiale il metodo sperimentato in periodo educativo; e poi la più vasta cerchia di collaboratori, benefattori, ammiratori, uomini e donne di buona volontà, pensosi del futuro dell’età in crescita e della società che da essa sarà costituita e costruita. «Siamo salesiani» egli dice a tutti, intendendo non una qualche appartenenza istituzionale, ma la vasta comunità spirituale di quanti nell’attività assistenziale-educativa si ispirano al vangelo della carità, di cui è testimone credibile l’autore della​​ Filotea​​ e del​​ Teotimo,​​ s. Francesco di Sales, di cui don Bosco vuol perpetuata la nobile amabilità e l’esuberante zelo.

Bibliografia

Stella P.,​​ Don Bosco nella storia della religiosità cattolica,​​ 3 voll., Roma, LAS, 1968-1988 (2a​​ ediz. del I e II vol.: 1981); Id.,​​ Don Bosco nella storia economica e sociale,​​ 1815-1870,​​ Ibid., 1980; Traniello F. (Ed.),​​ Don Bosco nella storia della cultura popolare,​​ Torino, SEI, 1987;​​ Pensiero e prassi di don Bosco nel 1° centenario della morte (31 gennaio 1888-1988),​​ in «Salesianum» 50 (1988) 5-214;​​ Éducation et pédagogie chez Don Bosco,​​ Colloque interuniversitaire, Lyon, 4-7 avril 1988, Paris, Fleurus,​​ 1989;​​ Don Bosco e la sua esperienza pedagogica:​​ eredità,​​ contesti,​​ sviluppi,​​ risonanze,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 36 (1989) 3-239; Arzuffi O.,​​ Emarginazione A-Z. Guida pratica ai problemi,​​ alle istituzioni,​​ alla legislazione,​​ Casale Monferrato (AL), Piemme, 1991; Braido P. (Ed.),​​ Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze,​​ Roma, LAS, 1992; Id.,​​ Breve storia del s.p.,​​ Ibid., 1993; Id.,​​ Il​​ s.p. di don Bosco alle origini (1841-1862),​​ in «Ricerche Storiche Salesiane» 14 (1995) 255-320; De Natale M. L.,​​ Devianza e pedagogia, Brescia, La Scuola, 1998; Braido P.,​​ Prevenire,​​ non reprimere, Roma, LAS, 1999.

P. Braido




SKINNER Burrhus Frederic

 

SKINNER Burrhus Frederic

n. a Susquehanna (Pennsylvania) nel 1904 - m. a Cambridge (Massachusetts) nel 1990, psicologo statunitense.​​ 

1. S. può a ben ragione essere considerato tra i​​ patres​​ della moderna psicologia. Dopo aver trascorso una gioventù, quasi da bohémien, attratto com’era dalla letteratura e dalla vita d’artista, iniziò la sua carriera universitaria presso l’Università dell’Indiana, cui fece seguito quella di Minneapolis, per concludere infine con quella prestigiosa di Harvard. Per quanto riguarda la sua visione teorica, S. ebbe in mente un organismo, estremamente complesso, che solo in parte veniva controllato dagli stimoli condizionati previsti da Pavlov. Al contrario, l’organismo era fortemente influenzato dai risultati prodotti dalle proprie azioni, che egli chiamò rinforzi. Per studiarne il comportamento era quindi del tutto inutile l’apparecchiatura pavloviana che ne limitava fortemente i movimenti e che esigeva un soggetto passivo. Al suo posto era necessario uno spazio, all’interno del quale l’organismo poteva muoversi liberamente, manifestare migliaia di risposte diverse ed incrementare solo quelle che sarebbero state seguite dal rinforzo. Fu questa la famosa gabbia di S., grazie alla quale fu possibile scoprire il mondo, davvero complesso, di rapporti che legano i comportamenti ai risultati. Era possibile, controllando l’erogazione di rinforzi, consolidare abitudini motorie, sociali, cognitive. Addirittura creare dei comportamenti superstiziosi. Ed il tutto non solo in animali, più o meno complessi quali ratti e piccioni ma anche in soggetti umani. Dopo aver dedicato i primi anni della sua attività alla ricerca di laboratorio, condotta prevalentemente su organismi infraumani e che gli permise di comporre il suo libro più innovativo in campo sperimentale,​​ The behavior of organisms​​ (1938), S. si dedicò all’applicazione della sua visione psicologica, chiamata​​ Experimental analysis of behavior,​​ in ambiti diversi.

2. Di questi quello pedagogico è sicuramente tra i più interessanti, non solo perché fu possibile a S. introdurre il concetto di​​ ​​ programmazione lineare e di macchina per l’insegnamento, antesignana per molti aspetti dell’apprendimento mediante computer ma anche perché mise a disposizione del mondo della scuola un modo innovativo d’interpretare i comportamenti dell’allievo e di cambiarli orientandoli verso finalità pedagogicamente più evolute (La tecnologia dell’insegnamento,​​ 1972). Accanto a quello pedagogico vale la pena indicare anche il settore riabilitativo, in cui la tecnologia skinneriana continua a mostrare una costante efficace nel trattamento di alcuni tra i disturbi più angoscianti quali l’autolesionismo, le condotte autistiche ecc.

3. Infine anche il settore clinico risentì non poco l’impatto della visione skinneriana che si concretò nella cosiddetta​​ Behavior modification.​​ Di essa vale la pena ricordare l’attacco alla concezione psichiatrica e psicoanalitica dei disturbi psicologici ed alla scarsa solidità scientifica di molte delle teorie elaborate all’interno della psicodinamica, oltreché l’elaborazione di strategie d’intervento di provata efficacia. All’insieme di queste attività, S. ne volle aggiungere un’altra, memore com’era dei suoi interessi giovanili per la letteratura, trasformandosi in saggista best seller. Il suo​​ Walden II​​ (1948), descrizione di una società utopica regolamentata dalle leggi del comportamento da lui scoperte in laboratorio e l’altro saggio​​ Al di là della libertà e della dignità​​ (1973) in cui tentava una critica scientifica di alcuni concetti tipici della cultura occidentale, gli valsero una notevole popolarità presso il pubblico non specialistico ma nel contempo una serie pesante di critiche, mosse da filosofi, politici ecc. che ne appannarono lo smalto di saggista. Tra i tanti successi, una frustrazione.

4. Il libro che S. ritenne fondamentale per la comprensione della sua concezione psicologica​​ Verbal behavior​​ (1957) fu ferocemente stroncato da Chomsky, che ne impedì in tal modo il radicamento nella linguistica moderna. A detta di molti, però, vi è il sospetto che Chomsky abbia preso lucciole per lanterne, non avendo colto il senso dell’approccio skinneriano al linguaggio, di natura radicalmente funzionalistica ed assolutamente distante dai diktat strutturalistici del tempo. Il futuro sarà buon giudice. A conferma, infine, della sua inesauribile voglia di conoscere e di comunicare, è opportuno citare il suo ultimo libro​​ Vivere bene la terza età​​ (1984) scritto quando aveva già 80 anni, in cui suggeriva utili strategie per sopravvivere psicologicamente all’erosione della terza età, mostrando ancora una volta un’incrollabile fiducia nella scienza, da lui intesa come il migliore tra i diversi​​ ​​ problem solving​​ ideati dall’uomo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ principali opere di S.:​​ The behavior of organisms,​​ New York, Appleton-Century-Crofts, 1938;​​ Walden II,​​ New York, Macmillan, 1948;​​ Science and behavior,​​ Ibid., 1953;​​ Verbal behavior,​​ New York, Appleton-Century-Crofts, 1957;​​ Beyond freedom and dignity,​​ New York, Knopf, 1971; S.B.F. - M. E. Vaughan,​​ Enjoy old age,​​ New York, Sperling & Kupfer, 1983. b)​​ Studi:​​ Carpenter F.,​​ The S. printer,​​ New York, The Free Press,​​ 1974; Meazzini P., «S. e la tecnologia del comportamento», Prefazione a S.B.F.,​​ Studi e Ricerche,​​ Firenze, Giunti-Barbera, 1976.

P. Meazzini




SOCIALIZZAZIONE

 

SOCIALIZZAZIONE

L’elemento specifico e caratterizzante di ogni​​ ​​ società umana è la presenza della​​ ​​ cultura. Essa trasforma l’individualità biologica in individualità sociale, non per via ereditaria e meccanicistica, ma con un’azione intenzionale dei soggetti sociali che predispongono un ambiente e mettono in atto un processo di trasmissione di valori e di comportamenti, definito processo di s.​​ 

1.​​ Dalla natura alla cultura: l’apporto delle scienze sociali.​​ Gli animali sono guidati da un’eredità genetica, l’uomo oltre che da questo, soprattutto da un patrimonio di elementi culturali frutto di apprendimento diretto. Se quindi la cultura è il contenuto della conoscenza, la s. è​​ il processo​​ mediante cui essa viene appresa dall’individuo, che da essere esclusivamente biologico diventa membro di un determinato gruppo sociale e quindi capace di occuparvi precise posizioni. Tale processo però non è né deterministico, né automatico, né orientato al semplice e passivo conformistico​​ adattamento​​ della persona alla società. Vi è sempre infatti una dinamica intrinseca legata alla particolare natura dell’uomo, che per la sua razionalità e libertà è capace di protagonismo e di inserimento​​ critico​​ nella vita sociale. Per le sue molteplici dimensioni la s. è quindi​​ oggetto di studio di diverse scienze sociali,​​ come l’antropologia, la psicologia, la storia. La​​ storia​​ ne analizza le pratiche educative sviluppatesi lungo i secoli attraverso lo studio dei vari tipi di «cultura dell’infanzia» e della sua immagine nelle diverse epoche (Ariès, Duby, Le Goff). La​​ sociologia​​ (sociologia dell’educazione) ne studia i condizionamenti sociali relativi al doppio versante della società e della persona. L’accentuazione di uno dei due aspetti caratterizza quindi anche le contrapposte prospettive teoriche: quella struttural-funzionalista (​​ Parsons) e conflittualista (​​ Scuola di Francoforte) sul versante della società, quella interazionista ed evolutiva (Stryker, Gecas) sul versante della formazione dell’identità e dell’evoluzione personale.

2.​​ Concetti e definizioni.​​ Sotto il profilo sociologico, il processo di s. è stato oggetto di numerosi studi, ricerche, interpretazioni teoriche e quindi di altrettante definizioni (Sturman). Secondo L. Gallino le diverse teorie della s. si possono utilmente raggruppare in​​ tre categorie:​​ a)​​ Le teorie che la definiscono come apprendimento di ruoli,​​ così da rendere possibile un comportamento conforme alle norme dominanti in una società o in una parte di essa, nella supposizione che ciò sia gratificante anche per l’individuo (ed è la posizione di​​ ​​ Durkheim, di Parsons e del funzionalismo). b)​​ Le teorie che la definiscono come riduzione,​​ specificazione e canalizzazione delle infinite potenzialità umane​​ ad un campo più ristretto e preciso di prestazioni. c)​​ Le teorie che la definiscono come capacità di stimolare l’attività personale del socializzando​​ verso la realizzazione di un proprio modello di comportamento sociale rilevante e coerente con certe attese di ruolo. In conclusione, costitutivo del concetto di s. è la sua natura di legame fondamentale tra la cultura di un gruppo e i suoi membri attraverso un processo di apprendimento, che si svolge a diversi livelli a seconda delle agenzie di s., che ne fanno da soggetto e da contesto. Non è un processo deterministico, per la possibile resistenza alle norme che il soggetto può manifestare, lasciando perciò spazio a comportamenti anche devianti in una dinamica che si esprime tra adattamento, conformità alle norme sociali ed enfasi sullo sviluppo autonomo, distinto e autoassertivo dell’individuo.

3.​​ La s. come apprendimento di ruoli.​​ Poiché la s. è un processo di apprendimento di norme e di ruoli, è indispensabile per conoscerne la natura fare ricorso alle teorie che ne approfondiscono i costitutivi essenziali. In sintesi le possiamo indicare nelle cinque seguenti: a)​​ La teoria del rinforzo sociale,​​ sviluppata da​​ ​​ Thorndike, Guthrie,​​ ​​ Eysenck,​​ ​​ Skinner, si riferisce fondamentalmente alle premesse del comportamentismo e attribuisce al soggetto un ruolo essenzialmente passivo. b)​​ La teoria dell’imitazione della condotta e / o dell’identificazione con la persona​​ (Whiting e Winch), secondo cui l’apprendimento delle norme avviene mediante l’osservazione e per riproduzione interiore di un modello legittimato da vari fattori, come dal potere sociale, dal prestigio, dalla ricchezza, dalle qualità umane, dalla familiarità, dall’affetto. Il modello percepito nella sua globalità risponde a sua volta a bisogni di significato, di stima, di affetto, di appartenenza del socializzando stesso. c)​​ La teoria psicoanalitica:​​ soprattutto in​​ ​​ Freud, per il quale si apprende quando si accetta il principio della realtà come correttivo del principio del piacere e come canalizzazione delle energie dell’Io, secondo le esigenze del Super-Io. La s. è considerata quindi lo strumento principale per il controllo e per 1’organizzazione della società. d)​​ La teoria dello sviluppo cognitivo:​​ elaborata soprattutto da​​ ​​ Piaget, da​​ ​​ Lewin e dagli psicologi della​​ ​​ Gestalt, attribuisce al soggetto l’attività di simbolizzazione e di integrazione delle rappresentazioni mentali in un prioritario quadro complessivo di significati, che si viene formando progressivamente nelle diverse fasi dello sviluppo cognitivo del bambino. e)​​ La teoria dell’interazionismo simbolico:​​ sviluppata tra il 1930 e il 1960 da Cooley, Mead, Gerth, Wright Mills e dalla scuola di Chicago. L’assunto di base è che l’uomo costruisce attivamente la realtà sociale («la realtà come costruzione sociale» di Berger e Kellner) e l’immagine di sé, trasmessagli dagli​​ altri significativi​​ (le persone importanti per il soggetto) in una dinamica interattiva sul cui sfondo rimangono gli​​ altri generici.​​ Non tutte le teorie psicologiche dell’apprendimento sottolineano la funzione attiva del soggetto nel processo di s. Alcune infatti lo considerano sostanzialmente «passivo», sulla linea di molte affermazioni della sociologia positivista e neo-positivista, che però è giustamente criticata dall’interazionismo simbolico e dalle sociologie critiche, che tendono ad evidenziare la dimensione proattiva del soggetto. Considerare infine la​​ s. come apprendimento​​ significa quindi presupporre sempre un «insegnamento» o la «trasmissione» di qualcosa in modo sia formale che informale.

4.​​ Forme e tipi di s.​​ Nella prospettiva più sopra analizzata, la s. accompagna tutte le diverse fasi della vita. Però è possibile individuarne qualcuna particolarmente critica, in cui essa riveste maggiore importanza, come nell’infanzia e nell’adolescenza. Un ulteriore criterio di classificazione viene generalmente ricavato a partire dagli effetti della società complessa e cioè della differenziazione sociale e della specificazione settoriale, in termini sia di specializzazione o​​ segmentazione dei contenuti​​ sia per​​ ambiti delle agenzie educative.​​ Nel primo caso si tratta allora di s. politica, di s. religiosa, di s. morale, di s. alla pace, di s. alla legalità, di s. alla solidarietà, di s. all’interculturalità, di s. alla mondialità, ecc. Nel secondo caso si parla di s. familiare, s. scolastica, s. parrocchiale, s. di gruppo o associativa, s. massmediale. La letteratura distingue infine tra​​ s. primaria,​​ s. secondaria,​​ e​​ s. terziaria.​​ a) Si definisce​​ s. primaria,​​ la s. che viene impartita ad un soggetto che si inserisce per la prima volta in una società. È dunque sinonimo di s. di base e si riferisce all’interiorizzazione dei valori fondamentali, generalmente costitutivi della personalità e più resistenti al cambiamento. Per alcuni antropologi culturali il termine è sinonimo di «inculturazione»​​ cioè di interiorizzazione di una «prima» cultura, a cui altre potranno aggiungersi in seguito. b)​​ S. secondaria​​ è quella che completa e modifica la precedente. Viene impartita generalmente non nella famiglia ma nelle istituzioni della società come la scuola, la chiesa e i vari tipi di gruppi (dal gruppo dei pari a quelli dell’associazionismo formale, ai vari movimenti e istituzioni). Essa consiste nell’interiorizzazione dei diversi ruoli ed ambiti esistenziali, ciascuno dei quali assicura la divisione del lavoro nella società. Per alcuni la s. secondaria inizierebbe con l’adolescenza, però oggi nella società moderna il bambino trova già una serie di stimoli perfino dalla scuola materna che vengono a sovrapporsi a quelli della famiglia, così da diventare essi stessi fonte di s. anche primaria. È così che i confini tra le due si configurano incerti e problematici, tanto da suggerire l’ipotesi che il rapporto reciproco si stia modificando, nel senso di una forte contrazione della s. primaria, a vantaggio di quella secondaria, e ciò a causa della pluralità e differenziazione dei ruoli sociali che l’individuo è chiamato a ricoprire, oltre che a motivo della sovraesposizione massiccia ai mezzi di comunicazione sociale cui ogni persona è sottoposta. In ogni caso la s. primaria termina quando anche l’«altro generalizzato» si è fissato nella coscienza individuale. In questa prospettiva diventa più difficile parlare di s. primaria e / o secondaria in termini di tempi e di fasi. c) Oggi più che nel passato, le più frequenti situazioni di disagio giovanile e i vari processi di disadattamento chiamano in causa un terzo tipo di s., quella che viene definita​​ terziaria.​​ È un processo di ri-s., tipico dei soggetti che hanno subito un processo di de-s. o che comunque non hanno raggiunto livelli soddisfacenti di s. (ipo-s.). Si può forse definirla anche come «educazione correttiva» (Edel e Hellner), come «educazione di reinserimento degli a-sociali» (Sack e Harbordt), come «recupero della de-s.» (Rossner).

5.​​ Modelli correnti di s.​​ Sono derivati da specifici quadri teorici, che sinteticamente si possono individuare in tre diversi tipi (Besozzi). a)​​ Il​​ modello integrazionista o funzionalista.​​ La s. è considerata come un processo volto all’integrazione del soggetto nel gruppo sociale di appartenenza, con una accentuazione della sua dimensione​​ funzionale e normativo-coercitiva​​ sul versante della società e di quella​​ adattativa​​ sul versante del soggetto. Tale modello pone l’accento sul ruolo e la​​ conformità​​ ad esso, perché avviene attraverso il processo della​​ trasmissione​​ di un patrimonio consolidato e condiviso di valori, di norme, e di conoscenze. Le agenzie di s. operano secondo una linea di​​ continuità,​​ pur nella specificità, gradualità e coerenza dei compiti. b)​​ Il​​ modello conflittualista.​​ Assume il conflitto e la lotta per il dominio sociale come categorie fondamentali di descrizione dei rapporti societari. Suo presupposto è l’ideale emancipatorio della persona contro ogni forma di condizionamento e di riproduzione sociale (Althusser e Bowles) o culturale (Bourdieu e Passeron). Un ulteriore sviluppo di queste teorie è dato dalla​​ teoria della resistenza​​ (Giroux e Apple), che tenta di superare il determinismo insito nelle analisi dei condizionamenti sociali e culturali. c)​​ Il modello comunicazionale.​​ Nasce dalla sfiducia rispetto ai valori ultimi, per cui la s. è un processo cognitivo di costruzione del sapere e degli stessi orientamenti di valore sulla base delle diverse contingenze sociali. Ciò che spinge all’agire non è tanto l’imposizione e la norma quanto il creare e lo scoprire nuove motivazioni.

6.​​ Problemi aperti.​​ Il modello della s.​​ come comunicazione​​ valorizza il soggetto in termini di percorso individuale, di esplorazione, di progettualità, di ricerca e di negoziazione, ma lascia sul campo una serie di interrogativi, che riguardano prima di tutto la sua generale «debolezza» e flessibilità. Ciò comporta il rischio di iposocializzazione, di narcisismo e di fragilità dell’io. In secondo luogo viene enfatizzata l’«eterodirezionalità», dove l’obiettivo non è più il conseguimento dell’interiorizzazione dei fini, ma la cura delle relazioni sociali. In terzo luogo, nello spirito assai diffuso della flessibilità non è risolta l’aporia della relazione tra dualità e reciprocità dell’individuo e della società, tra soggettività / oggettività e socialità. È tutta da esplorare la possibilità di fondare solidarietà e identità sociale, su basi puramente comunicative. Infine rimane aperto il problema di fonte illuministica, se sia sufficiente «conoscere» per «essere​​ socialmente e individualmente», se cioè sia sufficiente possedere una o più mappe cognitive per governare adeguatamente il proprio percorso di vita, o non piuttosto sia necessario possedere anche delle capacità, attitudini, virtù personali che (oltre alla conoscenza) permettono il raggiungimento di certi obiettivi e non soltanto un adeguamento alle contingenze del momento. Si profila quindi in alternativa l’ipotesi di un​​ modello di s. a carattere relazionale,​​ dove la s. non è più intesa come controllo sociale, né come comunicazione «tout court», ma inverata nella relazione sociale (Donati) sulla base di contenuti che sono gli orientamenti e stili di vita, i progetti e i valori.

Bibliografia

Zimmer J. M. - S. J. Witnov, «Socialization», in R. Th. Murray,​​ The encyclopedia of human development and education. Theory,​​ research,​​ and studies,​​ Oxford, Pergamon Press, 1990, 397-404; 1863-1871; Sturman A., «Socialization», in T. Husen - T. Neville (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ vol. 10, Ibid., 1994, 5586-5591; Morcellini M.,​​ Passaggio al futuro.​​ La s. nell’età dei mass media,​​ Milano, Angeli, 1994; Ghisleni M. - R. Moscati,​​ Che cos’è la s., Roma, Carocci, 2001; Scanagatta S.,​​ S. e capitale umano, Padova, CEDAM, 2002; Dubar C.,​​ La s. Come si costruisce l’identità sociale, Bologna, Il Mulino, 2004; Cesareo V. (Ed.)​​ Ricomporre la vita. Gli adulti giovani in Italia, Roma, Carocci, 2005; Colombo M. (Ed.),​​ Educazione e mutamento. Valori,​​ pratiche e attori in un’epoca di trasformazioni, Catania, Bonanno, 2005; Donati P. P. - I. Colozzi (Edd.),​​ Capitale sociale delle famiglie e processi di s.,​​ Milano, Angeli, 2006; Donati P. P. (Ed.),​​ Sociologia. Una introduzione allo studio della società, Padova, CEDAM, 2006.​​ 

R. Mion




SOCIETÀ

 

SOCIETÀ

La varietà di uso del termine s. rende incerto ed equivoco il suo significato. Risulta, pertanto, necessario un chiarimento del concetto per giungere ad una definizione che ne consenta un’utilizzazione controllata ed epistemologicamente corretta.​​ 

1.​​ Una «prospettiva» per una definizione.​​ La chiarificazione del significato dipende anche dalla prospettiva in cui ci si colloca; il nostro approccio è quello tipico della scienza della s. (​​ scienze sociali): la sociologia. In questa disciplina l’accezione supera ogni approssimazione e genericità e viene riferita a una «totalità complessa» che include ogni forma di relazione tra gli uomini, sia a livello strutturale che culturale, e riguarda le varie dimensioni del vivere sociale: politica, economica, culturale, ricreativa, ecc. In questa visione di «totalità» deve essere percepita un’unità globale di gruppi, livelli e forme di vita istituzionale che si rapportano tra di loro e formano un’unità distinta rispetto a tutte le altre. Il concetto e l’accezione del termine s. che meglio esprime tutti questi aspetti, è quello di «s. globale» e la sua definizione può essere formulata nel modo seguente: «una s. è una organizzata collettività di persone, viventi insieme in un comune territorio, cooperanti in gruppo per soddisfare i loro bisogni sociali fondamentali, abbraccianti una comune cultura e funzionanti come una distinta unità sociale» (Fichter, 1969). Questa accezione di «s. globale» trova la sua concretizzazione nella​​ ​​ nazione. In essa gli elementi precedenti sono collocati in una continuità storica, arricchiti di una identità comune e di una coscienza collettiva e riconosciuti nelle loro differenziazioni interne.

2.​​ L’evoluzione storica.​​ Come ogni esperienza umana, l’organizzazione della vita sociale ha avuto fondamentali evoluzioni nel tempo. Si è passati dalla s. arcaica, che basava i vincoli del vivere sociale sui legami tribali o di sangue, alle forme più evolute fondate sugli interessi comuni e sulla solidarietà tra gli abitanti della stessa città (città-stato), a realtà basate su modalità razionali di organizzazione. Nelle sue diverse forme, la s. trova la ragione di esistere nella sua capacità di canalizzare, organizzare e soddisfare i bisogni fondamentali di coloro che la costituiscono. La sua struttura e il suo funzionamento si adeguano alle situazioni, alle esigenze, ai compiti che nel tempo sono andati sempre più differenziandosi e specializzandosi segnando un percorso che dalla s. primitiva è giunto all’attuale s. complessa. In questo cammino evolutivo non è mutata soltanto l’organizzazione, la struttura e il funzionamento della s., ma anche la sua fondazione teorica e l’interpretazione complessiva. Le diverse forme della vita sociale si sono basate su teorie che rispecchiavano concezioni filosofiche differenti. Fino al Cinquecento-Seicento è stata vincente la concezione dell’uomo «naturalmente socievole» e di conseguenza la s. è stata percepita come un evento di ordine naturale. Il filosofo inglese T. Hobbes oppone a tale interpretazione una visione problematica della condizione umana. Se la realtà è caratterizzata dalla «guerra di tutti contro tutti», non ci può essere altro fondamento alla convivenza umana che quello contrattuale: solo uno stato onnipotente può salvaguardare la pace. Partendo dallo stesso presupposto,​​ ​​ Rousseau giunge alla contrapposizione natura-stato, individuando nella costituzione della s. un fattore di corruzione dell’uomo, piuttosto che un antidoto alle sue difficoltà relazionali. Fino all’avvento dell’Illuminismo è la filosofia la prospettiva prevalentemente utilizzata per spiegare l’origine e il senso del vivere sociale. Successivamente si aprirà la fase in cui prevarrà lo studio positivo della s. e di tutti i fenomeni; a partire da A. Comte, si elaboreranno teorie sociologiche generali aventi come oggetto il funzionamento della s. e lo sviluppo della sociologia assicurerà modelli, metodi e chiavi interpretative sempre più precise e raffinate.

3.​​ Alcune caratteristiche fondamentali della s.​​ Concentrando la nostra attenzione sulla realtà sociale attuale, riscontriamo che elementi fondamentali di ogni s. sono la marcata differenziazione istituzionale e di gruppi sociali. Le diverse istituzioni e gli stessi gruppi tendono sempre più a specializzarsi per trovare una particolare collocazione all’interno della s. A seconda delle funzioni svolte dai diversi gruppi e della necessità e dell’apprezzamento che riserva la stessa s. alle loro caratteristiche e obiettivi, viene a costituirsi una sorta di preminenza di alcuni su altri, tanto da costituire una stratificazione che accentua sempre più le distanze. In ogni s., pertanto, si possono riconoscere criteri particolari nella differenziazione tra le persone, basati sia sulle loro caratteristiche individuali che sulla appartenenza a determinati gruppi. Quanto più le differenziazioni sono marcate, tanto più si evidenzia l’eterogeneità e la stratificazione di una s., la specializzazione e complessità della sua organizzazione e del suo funzionamento e l’insieme delle tensioni che concorrono a rendere dinamico l’intero sistema. La riflessione e la ricerca sociale, attualmente, si occupano soprattutto di questi fenomeni, studiando le varie forme e criteri della​​ ​​ complessità sociale e la loro incidenza sulla vita sociale. I rapidi e profondi cambiamenti, che hanno fatto parlare di «cambiamento d’epoca», evidenziano sempre più i rischi di perdita di identità e di emarginazione e la necessità di coniugare globalizzazione e localizzazione, orizzonte planetario e concretezza della vita in contesto, multicultura e insieme senso di appartenenza e di identità personale e sociale.

4.​​ L’esperienza individuale della s.​​ La dimensione sociale è un fatto connaturale al vivere umano. Non si tratta però di un fatto scontato, ma piuttosto problematico, soprattutto oggi a motivo dei cambiamenti della realtà sociale. La problematicità risiede, tuttavia, in due esigenze contrapposte: la necessità di rendere l’agire sociale prevedibile e fruibile attraverso la mediazione simbolica, che oggi si presenta diversificata e frammentata, e il riscontro della imprevedibilità del comportamento umano che esprime libertà e creatività. La mediazione simbolica ha sempre un carattere riduttivo perché la s., sull’esigenza della prevedibilità, cerca di costituire un sistema culturale atto a fondare una sufficiente omogeneità tra i membri e a regolare così i loro rapporti. La crescente esigenza di razionalità e di varietà degli apparati, tuttavia, rischia sempre più di costringere gli individui nei ruoli da interpretare e di legarli all’efficienza che l’esercizio di un ruolo deve assicurare. La soggettività individuale, pertanto, è spinta a cercare modalità significative di convivenza con la razionalità del sistema, sia in senso adattivo sia nella prospettiva di reinterpretare e modificare le norme attraverso cui si esprime la mediazione simbolica della s. Il rapporto tra soggettività individuale e sistema sociale, oggi, è reso particolarmente incerto; le regole che lo «normalizzano», infatti, sotto la spinta della creatività individuale ma anche delle nuove esigenze della s., sono diventate incerte, fluide. Il sociale, quindi, come luogo di incontro e di scambio non è più rassicurante e la s. è segnata da uno stato fluido e non strutturato, una «modernità liquida», sempre più individualizzata e privatizzata. In questa situazione, è possibile rinunciare a tentativi miranti ad organizzare le strutture e a definire le regole comuni per realizzare l’interdipendenza e il buon vivere delle persone? L’interrogativo è puramente retorico. La s. attuale ha bisogno di protagonisti che la rendano spazio organizzato della convivenza pacifica e solidale.

Bibliografia

Weber M.,​​ Economia e s.,​​ Milano, Comunità, 1961; Tonnies F.,​​ Comunità e s.,​​ Ibid., 1963; Rusconi G. H.,​​ La teoria analitica della s.,​​ Bologna, Il Mulino, 1968; Fichter J. H.,​​ Sociologia,​​ strutture e funzioni sociali,​​ Roma, Onarmo,​​ 31969; Touraine A.,​​ La produzione della s.,​​ Bologna, Il Mulino, 1975; Ardigò A.,​​ Crisi di governabilità e mondi vitali,​​ Bologna, Cappelli, 1980; Crespi F.,​​ Le vie della sociologia,​​ Bologna, Il Mulino, 1985: Beck U.,​​ La s. del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000; Bauman Z.,​​ La s. individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna, Il Mulino, 2002; Cesareo V. (Ed),​​ Sociologia. Concetti e tematiche, Milano, Vita e Pensiero, 2004.​​ 

V. Orlando​​ 




SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA

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SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA

Le nuove tecnologie dell’informazione hanno provocato nell’ultimo decennio una transizione verso nuove forme di vita sociale che ha fatto parlare di «s.d.c.».​​ 

1.​​ Le trasformazioni socio-economiche e culturali.​​ In breve si può dire che si è compiuto il passaggio da un modello industriale di economia ad uno​​ post-industriale.​​ Il secondo sottolinea la qualità e l’intensità dello sviluppo (ottenere più dal meno), il valore della produzione, la natura simbolica, interattiva, contestuale, partecipativa, autonoma e intellettuale dell’attività occupazionale e della sua strutturazione. Il passaggio al post-industriale si accompagna ad un aumento dei fenomeni di precarizzazione del lavoro​​ che mettono in crisi il tradizionale sistema di relazioni sociali. Anche la​​ cultura​​ della s.d.c. risulta segnata dalla rivoluzione dei microprocessori: moltiplicazione delle opportunità di informazione e di formazione e creazione di nuove forme di analfabetismo e di nuove marginalità; elevazione dei livelli di cultura generale e di competenze per l’accesso al mondo del lavoro e parcellizzazione che ostacola ogni tentativo di sintesi; potenzialmente personalizzante e al tempo stesso generatrice di consumo passivo da parte soprattutto degli strati più deboli della popolazione; fattore di pluralismo, ma anche all’origine del relativismo etico. I grandi miti dell’Occidente non riescono più a difendere le loro pretese di assolutezza e nel contesto di piena globalizzazione nel quale viviamo, prevalgono un nuovo individualismo e un conseguente utilitarismo. La​​ ​​ secolarizzazione religiosa si è attuata, più che nelle menti, nei cuori della gente che si sono rivolti più che altro al​​ ​​ consumismo, al benessere e al divertimento. Comunque, essa è stata controbilanciata da un ritorno di fiamma del sacro, della magia, di nuove forme di religiosità. Questi processi si combinano con il mondo della multicultura che, diffondendo il​​ ​​ pluralismo, mette in crisi i tradizionali modelli di uomo.​​ 

2.​​ L’impatto sul sistema educativo. Il passaggio alla s.d.c.​​ trasforma il senso e il​​ modo di lavorare, nascono nuove professioni, vecchi mestieri cambiano configurazione, altri scompaiono definitivamente. È richiesta la flessibilità, la mobilità occupazionale e la polivalenza della cultura professionale. Inoltre, molti giovani portano nella scuola la​​ cultura del frammento​​ che, se ha il merito di aver contribuito a mettere in crisi il dogmatismo delle grandi ideologie, pone gravi problemi al sistema di istruzione e di formazione. Per rispondere al meglio alle nuove esigenze si dovrà pensare a un​​ nuovo modello di uomo da formare​​ che non solo possieda i necessari requisiti tecnici, ma anche nuovi saperi di base (informatica-informazione, inglese, economia, organizzazione), capacità personali (comunicazione e relazione, lavoro cooperativo, apprendimento continuo), vere e proprie virtù del lavoro (affrontare l’incertezza, risolvere problemi, sviluppare soluzioni creative) e solidi valori civici, morali e spirituali (il rispetto dei diritti dell’uomo, il dialogo interculturale, l’apertura all’assoluto).

Bibliografia

Giddens A.,​​ Il mondo che cambia, Bologna, Il Mulino, 2000; Malizia G. - C. Nanni, «Istruzione e formazione: gli scenari europei», in Ciofs / Fp - Cnos / Fap,​​ Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, 2000, 15-42; Callini D.,​​ S. post-industriale e sistemi educativi, Milano, Angeli, 2006.

G. Malizia




SOCIOLINGUISTICA

 

SOCIOLINGUISTICA

Dopo i lavori anglosassoni di Bernstein (1971) e di Labov (1972) la s. ha ottenuto un posto a sé fra le scienze del​​ ​​ linguaggio, in quanto «studia le dimensioni sociali della lingua e del comportamento linguistico, vale a dire i fatti e fenomeni linguistici che, e in quanto, hanno rilevanza o significato sociale» (Berruto, 1995, 10).

1. Data la sua natura, la s. viene necessariamente a contatto con altre discipline, che con essa concorrono, in parte anche sovrapponendosi, alla ricerca sul rapporto fra lingua e società. In questo ambito essa si configura e si colloca come il nucleo centrale, in cui confluiscono i concetti di comunità linguistica e di competenza comunicativa, nonché il fenomeno della variazione nel lessico, nella fonetica, nella sintassi e nella morfologia.

2. Accanto a questo nucleo, in posizione molto ravvicinata, si ritrova la sociologia del linguaggio, che ha come oggetto di studio le varietà linguistiche, proprie delle singole comunità e distinte sulla base di criteri storici o diacronici, di criteri geografici o spaziali (donde le lingue regionali), di criteri relativi ai diversi strati socio-culturali (il gruppo, l’etnicità, il sesso, la classe generazionale) e, infine, di criteri situazionali.

3. In queste ultime rientrano le varietà che riguardano il parlante (i registri, formali o colloquiali) e quelle relative invece all’argomento di cui si parla, dette «lingue settoriali» o sottocodici, destinati ai diversi ambiti scientifici e disciplinari, quali la medicina, il diritto, l’economia, nonché i settori della politica, dello sport, della pubblicità... Ai confini tra l’area della s. e della sociologia del linguaggio si trovano la dialettologia, la linguistica pragmatica o studio della lingua come «modo di agire» nel contesto comunicativo e, infine, la psicologia linguistica, attenta all’interazione comunicativa sotto l’aspetto psicologico. Il tratto comune per altro alla s. e alle scienze confinanti consiste nel loro particolare modo di fare ricerca, sempre vicino ai concreti problemi di una comunità, compresi quelli della scuola e dell’educazione.

Bibliografia

Bernstein B.,​​ Class,​​ codes and control.​​ Theoretical studies towards a sociology of language,​​ London, Routledge & Kegan Paul, 1971; Labov W.,​​ Sociolinguistic patterns,​​ Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1972; Berruto G.,​​ Fondamenti di s.,​​ Bari, Laterza, 1995; Id.,​​ S. dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 2002; Giannini S. - S. Scaglione,​​ Introduzione alla s., Ibid., 2003; Berruto G.,​​ Prima lezione di s., Bari, Laterza, 2005.​​ 

G. Proverbio




SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

 

SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

La s.d.e. è tendenzialmente finalizzata a descrivere e a interpretare la complessa gamma dei fenomeni e dei soggetti che attengono al campo della​​ ​​ socializzazione, e a porli in relazione con la società nella sua globalità e nei suoi sottosistemi. Fa parte quindi delle cosiddette​​ s. specifiche o applicate,​​ il cui campo specifico di interessi è quello dell’educazione. Partecipa così di una doppia natura: quella della teoria sociologica generale, di cui condivide i metodi, gli obiettivi, le vicende storiche di un determinato approccio teoretico; e quella della specifica parte del sociale relativa ai suoi​​ oggetti propri​​ come i processi di​​ ​​ formazione, i significati della​​ ​​ scuola e dell’​​ ​​ istruzione, i rapporti tra le diverse componenti di un sistema educativo e la società.

1.​​ Le origini.​​ La s.d.e. nasce da​​ due diverse matrici​​ che finiranno poi per congiungersi, ma solo dopo alcuni decenni e non senza contrasti, e cioè la teoria sociologica generale e la natura della s.d.e. il cui obiettivo è di fare da supporto alle decisioni pedagogiche. Nel primo caso l’inserimento dei nuovi membri nella società e quindi il modo con cui essa si riproduce e i suoi processi educativi come condizione di sopravvivenza dei sistemi sociali, sono stati al centro delle grandi tradizioni sociologiche (​​ Durkheim, Weber, Marx). Esse, pur differenziandosi, hanno in comune tre punti, per cui considerano l’educazione un’istituzione sociale macrosociologica, ritengono centrali nella struttura sociale l’educazione e le sue interfacce con altre istituzioni, e vedono l’origine del cambiamento sociale nelle relazioni tra il sistema educativo e gli altri sistemi sociali, politici ed economici. Nel secondo caso, la convinzione ambivalente presso i sociologi che il sistema educativo è per gli uni determinato dalle strutture sociali mentre per altri ne è determinante, spinge la s.d.e. a specializzarsi in corrispondenza dei bisogni sociali e a proporsi come supporto alle decisioni pedagogiche, offrendo alla politica dell’educazione una serie di indicazioni empiricamente fondate.

2.​​ S.d.e. come scienza delle istituzioni e dei processi formativi.​​ Nel contesto di questo nodo centrale costituito dal rapporto educazione / società, la tradizione sociologica classica considera l’educazione come variabile dipendente dalla società. Mentre Durkheim si limita ad affermarne una dipendenza generica, Weber la precisa come dipendente dalle strutture del potere e Marx dai condizionamenti dei rapporti di produzione. Nella s. contemporanea le analisi a livello macro consentono così di individuare tre filoni: l’approccio del neomarxismo, quello del neo-funzionalismo e quello neo-weberiano. Con riferimento al neo-marxismo, anche i contributi più recenti continuano a considerare l’educazione in termini sovrastrutturali e deterministici. Le stesse teorie della riproduzione sociale (Althusser e Poulantzas) e della riproduzione culturale (Bourdieu, Passeron e Bernstein) non riescono a cogliere ciò che realmente avviene all’interno del sistema educativo, considerato ancora una passiva «cinghia di trasmissione». Il neo-funzionalismo non ha ancora trovato la soluzione all’antinomia tra funzionalità del sistema sociale e autonomia del sistema educativo. È problematica la questione dell’integrazione funzionale (Gouldner, Etzioni, Eisenstadt) che cerca una soluzione anche in termini di approccio sistemico (Buckley). Infine la s. neo-weberiana è il filone oggi meno esplorato. Esso però si propone il tentativo di individuare una rete delle «mappe subculturali della conoscenza». Collins evidenzia il significato dell’istruzione in termini di cultura di ceto, mentre Archer sollecita la necessità di procedere ad un’analisi dei sistemi educativi declinando tra di loro struttura e cultura, avviando così ad un​​ quarto approccio a livello micro​​ che trova i propri punti di riferimento teorico nella fenomenologia, nell’interazionismo simbolico e nell’etnometodologia. Oggi la s.d.e. nella sua globalità è riconosciuta unanimemente come una branca specialistica della s., che con il suo fuoco di analisi nello studio delle istituzioni e dei processi formativi è capace di dare incremento alla conoscenza sociologica. Nel passato, sempre nel tentativo di definire meglio la s.d.e., vi è stato un dibattito assai vivace attorno alla distinzione tra contesto americano (s.d.e. estranea alla s. mentre si avvicina di più alla pratica pedagogica e didattica) e contesto inglese (s.d.e. come studio sociologico dell’istruzione). Il dibattito si concentrava su una precisazione di non poco rilievo in quanto distingueva tra s. educativa (educational sociology)​​ e s.d.e. (sociology of education).​​ La prima infatti era essenzialmente una teoria normativa volta all’azione pratica con imperativi metodologici e didattici, come mezzo di controllo dei processi educativi. La seconda per contro sviluppava una teoria in grado di approfondire la conoscenza dei fenomeni educativi lungo una linea di descrizione-spiegazione-comprensione tipica della riflessione sociologica, collocandosi perciò a monte di qualsiasi intervento pratico, didattico e politico nel ruolo, pur non esclusivo, di aiuto ai decisori. Col tempo è stata la seconda accezione a prevalere.

3.​​ Il​​ rapporto educazione / società.​​ Esso è al centro del dibattito sulla natura della s.d.e., che analizzato secondo una prospettiva tematica e comparativa (Moscati, 1989) può articolarsi in​​ tre fasi.​​ Nella prima fase, comune agli altri Paesi occidentali, centrale è il​​ problema del cambiamento,​​ considerato sotto il profilo della ricostituzione dell’ordine e dell’adeguamento della società alle nuove direzioni e ai nuovi ritmi di evoluzione indotti dall’industrializzazione e dall’accelerazione dello sviluppo economico. L’istruzione allora assume un ruolo sempre più centrale come mezzo di sviluppo equilibrato dei singoli individui o come elemento unificante sul piano dei valori e dei modelli di comportamento. Emerge in primo piano la figura dell’insegnante che in Italia è stata analizzata dalle ricerche di Cesareo e di Barbagli e Dei.​​ La seconda fase​​ corrisponde all’accentuarsi dentro ai processi di modernizzazione del rapporto tra istruzione, stratificazione e mobilità sociale, che viene sempre più legata alla carriera professionale, in cui l’istruzione svolge un ruolo cruciale. L’esame di questo nesso importante enfatizza il tema dell’uguaglianza delle opportunità di fronte all’istruzione, sia rispetto alle condizioni iniziali di partenza sia rispetto agli esiti scolastici. Gli anni ’70 infatti sono caratterizzati dal dibattito sul rapporto tra origine sociale e riuscita scolastica e professionale, spostando così l’ottica verso un’attenzione ai soggetti e ai loro percorsi individuali e differenziati. I giovani acquistano «visibilità» così da stimolare lo sviluppo di numerose ricerche sulla condizione giovanile, in misura esponenziale rispetto al passato.​​ La terza fase​​ di sviluppo della s.d.e. corrisponde ad un sempre più attento ricupero del ruolo dei soggetti all’interno delle dinamiche formative, per cui si pone attenzione ai processi che avvengono all’interno dei gruppi, come la classe scolastica e gli attori in essa coinvolti. Si colgono il disagio degli studenti e l’incertezza degli insegnanti sul proprio ruolo. Si sviluppa un policentrismo formativo tanto nella domanda che nell’offerta di formazione.

4.​​ I​​ temi di studio e di ricerca della s.d.e.​​ Tentativi di individuare e differenziare specifiche e più precise aree tematiche e oggetti pertinenti di studio della s.d.e. sono stati compiuti a più riprese. Brookover (1964) individuava 4 aree di studio della s.d.e.: l’analisi delle relazioni del sistema educativo con gli altri aspetti della società; lo studio delle relazioni psicologiche e istituzionali dentro la scuola; l’analisi dell’influenza della scuola sul comportamento e sulla personalità dei suoi membri specie dell’insegnante; l’influenza della comunità e delle diverse agenzie di socializzazione sull’organizzazione scolastica. Floud e Halsey qualche anno dopo hanno fatto il medesimo tentativo sulla base di un’ampia bibliografia ragionata, giungendo a risultati quasi identici e, secondo Cesareo, sovrapponibili. Anch’essi avevano individuato alcuni ambiti corrispondenti, e cioè lo studio del sistema formativo in rapporto alla più ampia struttura sociale (sistemi di valori, demografia, economia, politica); l’esame delle relazioni tra le varie attività educative; gli influssi educativi esercitati dall’ambiente su studenti e insegnanti. Infine in una sistematizzazione più organica e razionale, Ribolzi (1988) è giunta a definire come ormai classici nella s.d.e. i temi seguenti: lo studio della funzione sociale dell’istruzione e in particolare della scuola; l’analisi dei soggetti istituzionali del sistema educativo (specie insegnanti e allievi); lo sviluppo dei processi di socializzazione (contesto anche extrascolastico); l’analisi delle macrorelazioni tra sistema formativo, sistema di classe e sistemi economici, politici, culturali. Volendo completare la panoramica anche in prospettiva di futuro è indispensabile tuttavia includere e approfondire altre cinque aree di studio oggi particolarmente urgenti, come il rapporto tra scuola e mercato del lavoro in relazione ai nuovi bisogni di professionalità e di internazionalizzazione, ma anche attento al rischio di un nuovo efficientismo produttivistico a scapito delle componenti affettive e socializzanti dell’adolescente; le nuove tecnologie nella ricerca educativa; la struttura organizzativa del sistema formativo e delle politiche sociali per i giovani; il confronto internazionale sui sistemi scolastici; la valutazione in efficacia ed efficienza dei processi formativi contro ogni forma di sprechi; la formazione diffusa, cioè quella rete articolata di opportunità formative che va progressivamente ad integrare la scuola e la formazione permanente degli adulti.

5.​​ Gli sviluppi della s.d.e. in Italia.​​ Anche se già dagli anni ’50 lo Svimez aveva avviato le prime analisi riguardanti i rapporti tra sviluppo economico e fabbisogni formativi, è solo a partire dagli anni ’60 che la s.d.e. acquista in Italia una fisionomia disciplinare autonoma nei confronti sia di materie affini come la pedagogia e la psicologia, sia della s. generale. Pur sorta in ritardo rispetto ad altri Paesi, ha seguito le tendenze prevalenti nel panorama internazionale. In particolare sull’onda dei movimenti studenteschi sorti originariamente negli Stati Uniti e copiati nei vari Paesi europei, la nuova s.d.e. ha voluto studiare i rapporti tra struttura di classe ed educazione. In ogni caso il filo conduttore del suo evolversi rimane sempre la riflessione sul rapporto educazione / società variamente interpretato dalle diverse posizioni teoriche. I due approcci «classici»: funzionalista e conflittualista, sono entrambi presenti nella s.d.e. italiana con una certa prevalenza del primo nell’epoca iniziale, e del secondo attorno agli anni ’70. Infatti in coincidenza con la fase della contestazione studentesca e più in generale con la «caduta dell’ottimismo sociale», si rafforza l’orientamento conflittualista di indirizzo marxista piuttosto che quello weberiano. In tempi più recenti, però, gli operatori tendono a rifiutare la concezione rigidamente althusseriana della scuola riproduttrice dei rapporti di classe, in quanto essa nega valore all’azione pedagogica e condanna la scuola all’immobilismo. Ancora scarsamente presente nel nostro Paese è l’empirismo metodologico, che trascurando una sistematizzazione in precise categorie concettuali, cerca la propria legittimazione nell’adozione di tecniche di misurazione sempre più sofisticate. Nella seconda metà degli anni ’80 la s.d.e. raggiunge una relativa maturità rappresentata dallo svilupparsi in parallelo di diversi indirizzi e tematiche di approfondimento, come le trasformazioni degli studi universitari, la selezione scolastica, la mobilità attraverso l’istruzione, il dibattito su scuola statale e non statale, l’analisi comparativa delle politiche formative. Il già ricordato «ritorno del soggetto» sulla scena della riflessione sociologica ha aiutato a controbilanciare la precedente enfasi su strutture, sistemi e istituzioni sociali, rivalutando l’intenzionalità soggettiva contro i determinismi sociologici, così da proporre alla macrosociologia una fondazione anche di tipo microsociologico. Ciò comporta lo sviluppo di nuove categorie per lo studio della realtà sociale, come i concetti di​​ interdipendenza,​​ interpenetrazione e multidimensionalità.​​ Su queste basi, consolidate da numerose analisi di ricerca, si sta stabilizzando una sistematica revisione e razionalizzazione della s.d.e. in Italia, secondo una identità abbastanza definita.

6.​​ Problemi aperti della s.d.e. in Italia.​​ Se la s.d.e. in Italia ha trovato difficoltà a costruirsi uno statuto epistemologico autonomo in relazione alle teorie di carattere generale, non le è stato neppure facile collegarsi alla riflessione scientifica internazionale in termini di modelli teorici e di problematiche. Gran parte delle difficoltà sono infatti legate al crescere dell’importanza delle zone di confine. In particolare i fenomeni inerenti al sistema formativo non possono più essere circoscritti come oggetto di uno studio disciplinare specifico, ma per il loro carattere trans-disciplinare richiedono un approccio più complesso. La sempre maggiore importanza del rapporto educazione / società sta infatti suscitando nuovi problemi, a motivo delle esigenze poste dalle modalità di sviluppo dei processi sociali, quelle cioè dell’integrazione e dell’ordine sociale in una società pluralista, complessa e multiculturale.

Bibliografia

Saha L. G., «Sociology of education: overview», in T. Husen - T. Neville Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon, 1994, vol. 10, 5596-5607; Hallinan M. T. (Ed.),​​ Handbook of the sociology of education, N.Y., Plenum, 2000; Ribolzi L. (Ed.),​​ Formare gli insegnanti.​​ Lineamenti di s.d.e., Roma, Carocci, 2002; Fischer L.,​​ S. della scuola, Bologna, Il Mulino, 2003; Maccarini A.,​​ Lezioni di s.d.e., Padova, CEDAM, 2003; Benadusi L. et al.,​​ Educazione e socializzazione. Lineamenti di s.d.e., Milano, Angeli, 2004; Benadusi L. - F. Consoli (Edd.),​​ La governance della scuola. Istituzioni e soggetti alla prova dell’autonomia, Bologna, Il Mulino, 2004; Besozzi E.,​​ Società,​​ cultura,​​ educazione, Roma, Carocci, 2006; Callini D.,​​ Società post-industriale e sistemi educativi, Milano, Angeli, 2006; Colombo M. et al. (Edd.),​​ S. delle politiche e dei processi formativi, Milano, Guerini, 2006; Schizzerotto A. - C. Barone,​​ S. dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006.

R. Mion




SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

 

SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

La s.d.r. può essere definita quella branca della s. il cui scopo specifico è costituito dallo studio scientifico delle relazioni esistenti tra​​ ​​ religione e​​ ​​ società.

1. La s.d.r. ha come oggetto di studio l’analisi dei fenomeni religiosi. Il punto di partenza della sua nascita è dato dallo sforzo di individuare il suo oggetto e i suoi metodi. In proposito una particolare importanza va riconosciuta al modo di considerare il rapporto tra la società e la religione. Si potrebbe pertanto osservare come il modo di intendere tale relazione sia in qualche misura paradigmatico tanto dell’evoluzione della riflessione sociologica quanto, a maggior ragione, di quella della s.d.r., e dei rapporti tra questi due campi di studio. Hervé Carrier (1967, 11) ci ricorda come la s. sia rimasta a lungo estranea al mondo cattolico e guardata con molto sospetto e serie riserve. Questo atteggiamento negativo era motivato dai presupposti positivisti e scientisti nell’era comtiana, spenceriana e più tardi durkheimiana. Oltre a questa estraneità dei cattolici, molti autori sottolineano l’esistenza di un vuoto di studi e ricerche di s.d.r. dopo il periodo dei classici della s. (​​ Durkheim e​​ ​​ Weber) che invece la considerano una componente essenziale della loro riflessione.

2. Una volta definita la collocazione della s.d.r. all’interno della s. e individuato il suo scopo, si può rilevare come il problema dell’oggetto di studio accompagna tutte le fasi del suo sviluppo e possa essere quindi ritenuto a tutti gli effetti un problema in qualche misura sempre aperto, forse proprio per la sua intrinseca complessità e problematicità, che ci dice quanto sia necessario andare oltre la semplice e sintetica definizione data sopra. Tentativi sistematici di individuazione delle aree più importanti sono stati compiuti a più riprese. R. Bellah indica quattro principali tematiche: a) il sistema simbolico (credenze e valori), che riguarda i legami tra credenze e sistemi simbolici; b) l’azione religiosa (pratiche religiose); c) l’organizzazione (aspetto comunitario) che è un elemento specifico della struttura sociale religiosa e consiste nel funzionamento dei gruppi che costituiscono il sistema religioso come la chiesa, le denominazioni, le sette, il culto, la chiesa locale, le parrocchie, le comunità religiose; d) le implicazioni sociali (aspetto etico) che comprendono l’influenza della religione sul comportamento e sulla personalità dell’uomo o dei credenti.

3. La s.d.r., come qualsiasi altro settore specialistico della s., non può quindi prescindere dal legame con la teoria sociologica generale, pena il venir meno di un apporto concettuale e metodologico fondamentale. È per questo motivo che essa segue anche in larga misura le vicende della s. generale: per es., il prevalere, all’interno di questa di un determinato approccio teorico o la contrapposizione tra posizioni diverse, a loro volta riferite a​​ ​​ ideologie contrastanti (marxismo, liberalismo, scientismo, ecc.), coinvolge direttamente anche la s.d.r., in particolare la concezione che si sviluppa riguardo all’impostazione teorica del concetto di religione. Questa chiara collocazione della s.d.r. all’interno della s. generale non significa tuttavia un rapporto di mera dipendenza di quella da questa. Piuttosto, nel tempo è maturata la capacità della prima di contribuire allo sviluppo della seconda, anche attraverso l’apporto delle sempre più numerose ricerche empiriche, che hanno consentito di vagliare molte ipotesi generali, di confermarle o di trasformarle. Si può pertanto sostenere che diventa sempre più evidente come tra s. generale e s.d.r. esista un rapporto di tipo circolare. La prima fornisce alla seconda schemi concettuali di analisi, anche in termini di ipotesi da verificare, mentre la seconda offre alla prima elementi per la chiarificazione o la riformulazione di concetti e teorie e dello stesso quadro di riferimento. La s.d.r. ha dovuto cercare fin dalle sue origini, come ogni scienza, di chiarire il proprio oggetto, precisare il proprio linguaggio, scegliere i metodi d’indagine e spiegare la propria utilità sociale. In tutte le fasi di questo processo di definizione del proprio statuto epistemologico, essa è stata frenata da uno sviluppo storico ambiguo, per cui, da un lato, è stata oggetto di elaborazioni complesse nella teoria sociologica generale (Durkheim e Weber) e, dall’altro, ha svolto un ruolo di supporto alla scienza o alle politiche sociali, o si è limitata a cercare di comprendere i problemi della società. Inoltre, la s.d.r. ha trovato difficoltà anche a motivo della qualità essenzialmente dinamica dei fenomeni di cui si occupa, che non è possibile catalogare, descrivere ed interpretare entro i confini disciplinari di una sola scienza. I fatti religiosi sono tipicamente interdisciplinari (​​ interdisciplinarità) e assumono spesso le caratteristiche di processi di confine che coinvolgono diversi sottosistemi e implicano tutte le componenti del rapporto tra persona e società. Questo spiega sia l’interesse di filosofi, storici, archeologi, teologi, sia le oscillazioni dei sociologi verso scienze con cui condividono largamente l’oggetto di studio.

Bibliografia

Durkheim E.,​​ Le forme elementari della vita religiosa,​​ Milano, Edizioni di Comunità, 1963; Carrier H. - E. Pin,​​ Saggi di s. religiosa,​​ Roma, AVE, 1967; Bellah R.,​​ Beyond belief.​​ Essays on religion in a post-traditional world,​​ New York, Evaston, London, Harper and Row, 1970; Cipriani R.,​​ La religiosità diffusa.​​ Teoria e prassi,​​ Roma, Borla, 1988;​​ Stolz F.,​​ Grundzüge der Religionswissenschaft,​​ Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht,​​ 1988; Acquaviva S. - E. Pace,​​ S.​​ delle religioni. Problemi e prospettive,​​ Roma, NIS, 1992; Berger P.,​​ A far glory.​​ The quest for faith in an age of credulity,​​ New York, The Free Press, 1992; Burgalassi S.,​​ Passato e futuro.​​ Religiosità italiana e analisi sociologica,​​ Pisa, ETS, 1992; Mette N. - H. Steinkamp,​​ Scienze sociali e teologia pratica,​​ Brescia, Queriniana, 1993; Simmel G.,​​ Saggi di s.d.r.,​​ Roma, Borla, 1993; Nesti A.,​​ La religione implicita. Sociologi e teologi a confronto,​​ Bologna, Dehoniane, 1994; Romanelli M. M.,​​ Il fenomeno religioso. Manuale di s.d.r., Ibid., 2002; Bajzek J. - G. Milanesi,​​ S.d.r, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2006.

J. Bajzek




SOCIOMETRIA

 

SOCIOMETRIA

Fondata da J. L. Moreno, la s. è la parte della​​ ​​ psicologia sociale che si occupa dello studio e della misura della struttura informale e dei fenomeni socio-affettivi presenti nei gruppi primari.

1. Lo schema classico di una ricerca sociometrica prevede quattro momenti: l’osservazione diretta dei comportamenti o il test sociometrico, la preparazione della matrice sociometrica, l’elaborazione del sociogramma e la rappresentazione dei sociogrammi individuali.

2. Il​​ test sociometrico​​ consiste nell’invitare ciascun componente del gruppo ad esprimersi in termini di «scelta» o di «rifiuto» nei confronti degli altri componenti in relazione ad una certa attività, la cui natura varia ovviamente a seconda del tipo di gruppo. L’insieme delle risposte viene riportato nella​​ matrice sociometrica,​​ un grafico reticolare a due entrate. I risultati del test sociometrico vengono rappresentati graficamente per mezzo del​​ sociogramma,​​ che originariamente, era costruito in termini di figure geometriche collegate da frecce direzionali. Gli uomini vengono rappresentati per mezzo di un triangolo, le donne per mezzo di un cerchio e le frecce che uniscono questi triangoli e questi cerchi, indicano le scelte e i rifiuti. In questo modo viene visualizzata la struttura informale del gruppo: le relazioni tra persona e persona, le simpatie e le antipatie reciproche, le attrazioni e repulsioni, la coesione del gruppo e l’esistenza di sottogruppi, la presenza di leader e di emarginati.

3. Oggi i risultati del test sociometrico vengono rappresentati per mezzo di tecniche statistiche sofisticate, come, ad esempio, l’analisi fattoriale. Le informazioni raccolte attraverso il test sociometrico consentono di elaborare anche un​​ sociogramma individuale,​​ mediante il quale vengono rappresentate la «posizione» di ciascun soggetto all’interno del gruppo, le sue relazioni nei riguardi degli altri componenti e le relazioni degli altri nei suoi confronti. A partire dai risultati offerti dal test sociometrico è possibile progettare interventi psicologici volti a facilitare la coesione di un gruppo e la sua capacità di realizzare i compiti affidatigli.

Bibliografia

Moreno J. L.,​​ Principi di s.,​​ di psicoterapia di gruppo e sociodramma,​​ Milano, Etas Kompass, 1964; Schuetzenberger A. A.,​​ La s.,​​ Roma, Armando, 1975; Mattioli F.,​​ S.,​​ Roma, Euroma La Goliardica, 2003.

E. Gianoli​​