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RELIGIOSITÀ POPOLARE

 

RELIGIOSITÀ POPOLARE

Circa l’espressione r.p. si sono fatte lunghe disquisizioni e si sono proposte denominazioni diverse (religione popolare, pietà popolare, religione del popolo, ecc.) per evitare equivoci e superare pregiudizi e ambivalenze. Resta comunque un alone di indeterminatezza nell’uso dell’espressione sia in riferimento ai soggetti che al significato e agli aspetti fondamentali che la caratterizzano. Poiché qualunque tentativo di definizione risulterebbe parziale ai fini della sua comprensione, è più utile elaborare un quadro concettuale che aiuti a comprenderne la natura e le caratteristiche.

1.​​ R.p.: un modo di vivere e credere.​​ Prima di ogni contrapposizione e accentuazione di «alterità», si deve anzitutto riconoscere la r.p. come una modalità concreta di​​ ​​ religione radicata in una cultura e vissuta in contesti sociali particolari. Si tratta quindi di un fenomeno religioso inscindibile da un’esperienza culturale, legato alla storia di comunità locali. Questo significa che, in quanto «vissuto di un popolo», se ne comprende il valore e il significato non a partire dalle concezioni o dai contenuti che esprime, ma dalle funzioni che svolge, da cui, ovviamente, si possono dedurre concezioni e contenuti. La sua è anzitutto una funzione rassicurante perché realizza una sorta di «umanizzazione del divino», avvicinandolo alla vita. La r.p. costituisce inoltre l’orizzonte di comprensione dei significati della vita e il fondamento comune dei comportamenti concreti. Assume quindi valore centrale per l’identificazione individuale e collettiva. Le manifestazioni religiose servono ad esprimere e a rinsaldare l’identità della comunità ambientale, a rafforzare le appartenenze, a far riconoscere i segreti dell’arte di vivere alle nuove generazioni e a segnare i momenti di progressivo inserimento nel mondo degli adulti. L’obiettivo e il modello ideale di riferimento è una realizzazione sapienziale della vita incarnata, per lo più, in un anziano. Il coinvolgimento nelle manifestazioni religiose, peraltro, è tradizionalmente il modo più efficace per realizzare la​​ ​​ socializzazione sia religiosa che ambientale; insieme​​ costituiscono e vengono percepite come aspetti complementari di un itinerario unificante che integra i contenuti sacrali con quelli socioculturali. Alla luce di questi elementi di comprensione si può senz’altro affermare che una caratteristica fondamentale della r.p. è quella di essere una «fede condivisa», espressa insieme e in gran numero da coloro che si riconoscono portatori di valori e che non possono sottrarsi alla sua presenza. Ci sono senz’altro livelli e intensità diversi di coinvolgimento, ma la r.p. riguarda tutti coloro che vivono in uno stesso contesto e si riconoscono negli stessi valori di fondo. «La religione fatta di costumi è una casa simbolica ove ci si sente a proprio agio, e ove si diventa se stessi, e a cui si è legati profondamente perché ivi si può essere durevolmente se stessi ed esprimervi le proprie convinzioni spontaneamente e i propri sentimenti più profondi» (Vergote, 1981, 298).

2.​​ R.p.: aspetti fondamentali.​​ Uno degli aspetti fondamentali della r.p. è anzitutto l’accentuazione della dimensione rituale, la sovrabbondanza dei segni, la preminenza della corporeità. Il primato è dato all’esperienza, al vissuto, al segno come mediazione, alla presenza come contatto diretto con il luogo sacro o con l’immagine sacra. La «fede corporea» facilmente porta a sentire profondamente insieme con gli altri; a sentire il beneficio di un’atmosfera, di un clima, di ciò che suscita ammirazione. In questa fede corporea vi è un cuore che dà anima e nuova energia a ogni manifestazione: la​​ ​​ festa. Essa segna i ritmi della vita collettiva, è l’occasione della rigenerazione, aiuta a vivere la gioia dell’appartenenza alla collettività ambientale, ecc. La r.p. sente anche forte il bisogno del «meraviglioso», del «miracolo», poiché accentua l’esigenza di segni concreti della presenza e della potenza del divino. Potenza che si vuole benevola e disposta a coinvolgersi nelle situazioni personali problematiche attraverso una serie di comportamenti devozionali, appresi e trasmessi secondo le modalità efficaci sperimentate nella tradizione. Le caratteristiche finora accennate non devono indurre a pensare che tutto nella r.p. si esaurisca nell’esteriorità. La ritualità popolare, nella sua varietà e ricchezza, esprime spontaneità di sentimenti e una fede carica di emozionalità, ma queste si radicano nelle motivazioni devozionali e di fede nelle quali non è affatto estraneo un bisogno salvifico insieme a quello materiale.

3.​​ R.p.: aspetti problematici.​​ La r.p., per quanto sia un fenomeno molto diffuso ancora oggi, fa pensare spontaneamente a qualcosa di passato e rischia di essere idealizzata. Nel passato e soprattutto oggi essa non è invece priva di aspetti problematici. Anzitutto bisogna sottolineare che la r.p. ha una fragilità intrinseca dovuta al suo specifico di essere una «religione di costume», radicata in un «modo culturale» e vissuta in contesti sociali e territoriali particolari. Tutti questi aspetti sono stati attraversati da grandi cambiamenti che hanno coinvolto profondamente la r.p., ma poiché non vi è stata continuità nel rinnovamento, oggi si rischia di rimanere sulle tracce dei padri più per fedeltà materiale che per comprensione e valorizzazione di significati. La frattura tra «memoria e mentalità» è carica di conseguenze problematiche e rischia di far scadere nel folkloristico non poche manifestazioni religiose. La fragilità e problematicità è accresciuta anche dalla marginalizzazione del cattolicesimo popolare rispetto alla liturgia e all’azione pastorale della​​ ​​ Chiesa. Il rischio del parallelismo di modalità religiose e di modi di credere è tutt’altro che scongiurato: dopo il grande fervore di riflessioni e di ricerche degli anni Settanta e Ottanta del sec. scorso, attualmente si riscontra solo una maggiore tolleranza senza veri riconoscimenti e capacità di interazioni e di integrazioni. Non bisogna trascurare inoltre di sottolineare elementi di ambiguità presenti nelle stesse concezioni che animano la r.p., legate al ruolo assegnato a Dio e ai Santi, all’ambivalenza di atteggiamenti e di valutazioni, di sentimenti e di credenze: alla fede si ritiene di dover aggiungere sempre qualche supplemento, di dover affiancare qualche perplessità o di chiedere una sorta di verifica. Problematicità, fragilità e ambivalenza della r.p. richiedono un forte impegno educativo-religioso che consenta anche di valorizzarne meglio il significato e la portata nell’attuale percorso storico del «popolo di Dio».

Bibliografia

Pannet R.,​​ Le catholicisme populaire,​​ Paris, Centurion,​​ 1974;​​ Equipo Seladoc,​​ R.p.,​​ Roma, ASAL, 1977; Sartori L. (Ed.),​​ R.p. e cammino di liberazione,​​ Bologna, EDB, 1978; Orlando V.,​​ La religione «del popolo»,​​ Bari, Ecumenica, 1980; Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti,​​ Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano, LEV, 2002; Sodi M. - G. La Torre (Edd.),​​ Pietà popolare e liturgia. Teologia-spiritualità-catechesi-cultura, Ibid., 2004; Orlando V.,​​ Religione «popolo» e pastorale popolare,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1986; Id.,​​ R. p. nel Sud. Criteri e metodi di analisi, in «Itinerarium» 13 (2005) 211-233.

V. Orlando




RESILIENZA

 

RESILIENZA

Il termine r.​​ (dal latino​​ resilio​​ = saltare indietro, rimbalzare) è stato coniato in fisica ed indica la «capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spaccarsi» (Zingarelli, 2001).

1. Nelle scienze socio-educative indica la capacità di una persona di fare appello alle sue risorse interiori per reagire ad una situazione sfavorevole e sviluppare una​​ ​​ personalità positiva, nonostante tutte le previsioni contrarie. Molti soggetti vivono situazioni ad alto rischio e tuttavia non vengono sconfitti dalle stesse, nonostante debbano affrontare sventure, traumi o lutti che provocano dolore, stress, ansietà, tensione. La r. li aiuta a non cadere nella​​ ​​ devianza. Questa «forza d’animo» può forse avere una base genetica, ma è essenzialmente una qualità morale, che si sviluppa nel corso della vita assumendo modalità diverse a seconda delle circostanze, dei singoli individui, dei modelli di riferimento e degli apprendimenti.

2. Caratteristiche del «resiliente» sono: a) la capacità di esaminare autenticamente se stesso; b) la capacità di mantenersi a una certa distanza, fisica ed emozionale, dai problemi, senza isolarsi; c) la capacità di stabilire rapporti intimi e soddisfacenti; d) la capacità di affrontare i problemi, capirli e controllarli; e) la capacità di creare ordine, bellezza e darsi obiettivi partendo dal disordine; f) la disposizione dello spirito all’allegria, che permette di relativizzare gli avvenimenti negativi e coglierne il lato positivo; g) la capacità di interiorizzare i​​ ​​ valori comuni di una​​ ​​ società. Queste disposizioni si sviluppano in connessione a buoni rapporti iniziali con madre e​​ ​​ famiglia (attaccamento) che forniscono la base per​​ ​​ sicurezza interna, autostima e senso di​​ ​​ autoefficacia. Se queste basi mancano, bisogna provvedere con figure ed esperienze alternative (​​ prevenzione). Si tratta di scoprire i punti di forza del ragazzo e far leva su di essi per aiutarlo a risollevarsi da una situazione insopportabile. La r. è favorita infatti da​​ empowerment​​ e​​ coping,​​ ​​ proattività, competenze comportamentali e sociali, capacità di dar​​ ​​ senso alla vita, ecc.

Bibliografia

Oliverio Ferraris A.,​​ La forza d’animo,​​ Milano, Rizzoli, 2003; Malaguti E.,​​ Educarsi alla r. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi,​​ Trento, Erickson, 2005; Cyrulnik B.- E. Malaguti (Edd.),​​ Costruire r. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, Ibid., 2006.

G. Vettorato




RETI EDUCATIVE

 

RETI EDUCATIVE

L’elaborazione del paradigma pedagogico delle r.e. può essere ricondotta a più fattori, sia di ordine socio-pedagogico che antropologico. Il punto di partenza, tuttavia, è «l’emergenza educativa», legata alla crisi delle agenzie educative tradizionali, alle incertezze dovute ai cambiamenti radicali avvenuti e in atto, al policentrismo socio-educativo e al rischio di frammentazione che l’accompagna.

1. Il lavoro di r. è un lavorare in «contesto»; in una realtà territoriale che «contiene» una pluralità di presenze private e pubbliche, che vivono, per lo più, di vita propria, e verso cui ciascuno si orienta, o liberamente o perché vive, al loro interno, esperienze significative della sua quotidianità. Lo specifico del paradigma (modello) operativo di r. è che queste presenze non sono viste settorializzate, separate, funzionali a qualcosa di specifico, ecc.; rientrano invece in una visione globale, sistemica della situazione. A partire da questo approccio risultano sempre più impellenti le esigenze di coordinamento, di integrazione, di sinergia. La prospettiva teorico-sociale-educativa di riferimento del lavoro di r. è l’approccio sistemico relazionale che partendo dalla consapevolezza dei problemi e delle sfide della società attuale e cogliendone il riflesso nel contesto territoriale concreto, matura la consapevolezza di un progetto educativo integrato e attiva strategie valide per la sua concretizzazione. Per l’efficacia di questa strategia operativa risulta indispensabile lo sviluppo di una ritrovata capacità di «soggettività sociale» delle componenti individuali e organizzate della società civile, che la facciano evolvere verso una prospettiva di «comunità solidale».

2. Perché le r. possano esprimere la loro potenzialità educativa, devono aiutare a ridare centralità all’uomo nel suo mondo, dando la parola ai suoi desideri più autentici; devono concretamente agevolare le persone perché possano riconoscere lo spazio in cui esprimere il loro protagonismo e rivelarsi soggetti sociali responsabili. Il lavoro educativo di r. si fonda sulla visione antropologica di​​ ​​ Mounier che vede la persona umana strutturalmente aperta all’altro, che è condizione per essere se stesso, e comporta una assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro. Questo porta verso il «noi comunitario» e aiuta a comprendere la società come r. di persone solidali, che cercano di vivere una reciproca responsabilità. Una r.e. diventa, pertanto, una risorsa di senso che incrementa il tessuto relazionale e dà consistenza alla convivenza umana. Tutto questo fa comprendere che la r.e. non è attivata per rispondere ad emergenze o a patologie particolari, ma per mettere in circolo nuove idee per migliorare la qualità della vita di tutti, per la ricerca di un’identità condivisa e la costruzione progressiva del «noi comunitario». Si pone pertanto come antidoto alla frammentazione della complessità sociale, cerca di far maturare un patrimonio di beni educativi, di promuovere educazione in prospettiva preventiva e, in questa prospettiva, farsi carico anche di situazioni di bisogno.

3. Il lavoro educativo di r. tende, quindi, al superamento dell’individualismo pedagogico, e a evidenziare il valore sociale dell’educazione; cura una nuova grammatica delle relazioni educative e suscita sinergie per la conoscenza del territorio per poter operare all’interno del sistema socio-culturale. Proprio per questo ha come esigenze prioritarie per la sua efficacia il confronto e la riflessione per poter interpretare l’esperienza, la logica di scambio per costruire riferimenti culturali comuni, l’interiorizzazione dell’etica del dono per creare fiducia reciproca, la complementarità possibile tra identità differenti e l’importanza della progettualità di r., in cui tutti questi elementi trovano sintesi ed efficacia operativa.

4. La costruzione di una buona r.e., si fonda sull’individuazione dei componenti di r., dei compiti e delle funzioni, evidenziando in maniera esplicita gli elementi essenziali e gli impegni del reticolo formativo, organizzandoli e gestendoli in maniera armonica. Le condizioni indispensabili per l’operatività della r.e. sono, quindi, la comunicazione e il coinvolgimento, l’attività solidale e il sostegno alle dinamiche formative; la capacità di mediare relazioni informali e interventi formali; ottemperando alla necessità del compito condiviso della osservazione partecipante per un rinnovato senso di appartenenza e capacità di protagonismo nella comunità educante.

5. L’operatività e la costruzione della r.e. dipendono anche dalla capacità di far emergere figure professionali con competenze educative peculiari e di riferimento diversificato. Ciascuna realtà territoriale dovrebbe esprimere un operatore di r. che potrebbe fare da stimolatore dell’attenzione educativa all’interno delle stesse. È indispensabile, tuttavia, individuare un coordinatore, che sia veramente in grado di una «regia pedagogica» finalizzata a suscitare e coordinare il protagonismo di tutti, con l’intento di valorizzare lo specifico educativo delle diverse presenze territoriali.

Bibliografia

Rossini V.,​​ Marginalità al centro. Riflessioni pedagogiche e percorsi formativi, Roma, Carocci, 2001; Sanicola L.,​​ L’intervento di r., Napoli, Liguori, 1994; De Natale M. L.,​​ Devianza e pedagogia, Brescia, La Scuola, 1998; Serra R.,​​ Logiche di r. Dalla teoria all’intervento sociale, Milano, Angeli, 2001; Di Nicola P. (Ed.),​​ R. in movimento,​​ politica della prossimità e società civile, Ibid., 2004; Orlando V. - M. Pacucci,​​ Le r.e. territoriali, in «Orientamenti Pedagogici» 51 (2004) 415-444; Idd.,​​ La scommessa delle r.e. Il territorio come comunità educante, Roma, LAS, 2005.

V. Orlando




RETORICA E EDUCAZIONE

 

RETORICA E EDUCAZIONE

In gr. (la lingua che ha coniato il termine)​​ he tékhne rhetoriké​​ significava l’«arte del dire»,​​ la​​ «scienza del parlare bene»​​ (ed ovviamente con successiva estensione, anche​​ «dello scrivere bene»).

1.​​ Le vicende storiche.​​ Importata dai maestri greci a Roma, la r. venne presto identificata con l’arte oratoria​​ divenendo una delle scienze ausiliarie dell’arte politica. Si caratterizzò quindi come uno dei pilastri culturali, fondamento essenziale dell’educazione da fornire al buon cittadino, nei grandi manuali in cui si raccolse la scienza del persuadere con eleganza: la​​ Rhetorica ad Herennium,​​ di autore incerto, ma per secoli attribuita erroneamente a Cicerone; il​​ De inventione​​ indubbiamente ciceroniano; il​​ Dialogus de oratoribus​​ dello storico Tacito; infine, sommo fra tutti, l’Institutio oratoria​​ di​​ ​​ Quintiliano, opera che costituisce un piano completo di formazione pedagogica, mirante a coordinare le conoscenze e le capacità naturali del soggetto. Su questo modello poi la cultura tardo-antica e medievale inserisce la r. nel quadro istituzionale delle materie scolastiche, accanto alla​​ grammatica​​ e alla​​ dialettica​​ (formanti il cosiddetto​​ trivio)​​ e trasforma a poco a poco la sua teoria e la sua pratica in una disciplina dello stile, attivando livelli e ambiti letterari fino a quel punto rimasti esclusi dall’esercizio retorico. Come «disciplina del parlare o dello scrivere» la r. diviene fondamento di gran parte dell’educazione letteraria fino a un’età molto recente e si fa presente nei curricola d’insegnamento ed in genere nella cultura, scolastica e no. Nella tradizione scolastica italiana fino al 1859 dà nome ai corsi (o alle classi) dell’insegnamento secondario che seguivano i corsi (o le classi) di​​ grammatica,​​ corrispondenti, cioè, al primo biennio del nuovo liceo italiano, e che precedevano quelli di​​ filosofia.

2.​​ Come «ars deceptiva» e come «ars persuadendi».​​ Il termine non ha sempre avuto i medesimi significati. C’è infatti una r. come «ars deceptiva», ingannatrice, quella che nasconde con gli orpelli (con i «fioretti rettorici», diceva Galileo) il vuoto delle idee, l’assenza dei concetti, le presunzioni di certezza. È un cedimento della r. verso il compiacimento dell’esito, da raggiungere comunque, anche attraverso le vie della persuasione occulta, come tante azioni di propaganda commerciale, ma anche politica, possono ampiamente confermare. Da qui deriva quella disapprovazione secolare che pesa sul termine. Ma c’è anche una r. come «ars persuadendi», che non è da condannare: l’arte, cioè, del riuscire a trasmettere agli altri idee significative, contenuti seri, concetti importanti, usando con competenza ed abilità le risorse della lingua, intesa come strumento del pensiero. Questa attenzione all’agire comunicativo deve tener conto di quella razionalità diretta a persuadere l’allievo, più che attraverso la forza interna dell’argomentazione, secondo la dialettica classica, per mezzo delle capacità di comprenderne l’animo (cioè le precomprensioni, i pregiudizi, le conoscenze previe, le opinioni, la capacità di riflessione critica) e le passioni (oggi diremmo gli atteggiamenti, gli interessi, le sensibilità). Appunto per questo la r. considera anche l’educazione in relazione a complessi problemi della comunicazione interpersonale, avvertendo l’apporto che ad essa può derivare dall’utilizzazione di tutti i nuovi linguaggi (visivi, sonori, gestuali ecc.) e della struttura che per la loro sintesi, e non soltanto per la loro sovrapposizione, si costituisce.

3.​​ La «nuova r.».​​ La r., se si è presentata per secoli come «ars», ha anche costituito una precisa ben individuata​​ metodologia​​ che, in certo modo, ha permesso di parlare delle cosiddette​​ due culture.​​ Sulla scia di Ch. Perelman numerosi autori sono venuti in questi ultimi anni prospettando l’essenzialità del procedimento retorico nell’ambito delle scienze umane della prassi: l’agire e il fare dell’uomo ne sono direttamente impregnati. La r. si presenta pertanto anche come​​ discorso​​ che riflette su di sé, nell’esigenza di assegnarsi limiti ben precisi e quindi di evitare di mutarsi in retoricismo o mera persuasività: tale funzione (metaretorica)​​ permette una considerazione critica, e quindi anche epistemologica, dei molteplici discorsi retorici che si attuano quando sono formulati nell’ambito delle scienze umane: dalla politica al diritto, dalla letteratura alla poetica, dalla semiologia alla linguistica, dalla sociologia alla psicologia, dall’antropologia alla pedagogia. In questo ultimo ambito la r. interviene in funzione correttiva, per evitare l’estremo riduzionismo dell’educazione in ammaestramento o indottrinamento, per riconoscere che l’insegnamento-apprendimento non può esaurirsi in tecnicismo né in moduli esclusivamente intellettualistici, per sollecitare un rapporto educativo in direzione critica, per arricchire la dimensione filosofica dell’educazione con la dimensione scientifica e più ancora con quell’operatività che è propria dell’arte. È qui che si ricupera il suo autentico significato scientifico, rilevante per le​​ ​​ scienze dell’educazione.

Bibliografia

Perelman Ch. - L. Olbrechts-Tyteca,​​ Trattato dell’argomentazione. La Nuova r.,​​ Torino, Einaudi, 1966; Laneve C.,​​ R. e educazione,​​ Brescia, La Scuola, 1981; Mortara Garavelli B.,​​ Manuale di r.,​​ Milano, Bompiani, 1989; Carruthers M.,​​ Machina memorialis. Meditazione,​​ r. e costruzione delle immagini, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2006; Matelli E.,​​ Appunti di r. e forme della comunicazione, Milano, ISU Università Cattolica, 2006.

C. Laneve




RICERCA EDUCATIVA / PEDAGOGICA

 

RICERCA EDUCATIVA /​​ PEDAGOGICA

Con la parola r. si vuol designare una riflessione sul fatto educativo condotta con appropriato metodo scientifico. I fatti educativi possono essere studiati: 1) sul piano teoretico, come fanno la​​ ​​ filosofia dell’educazione e la​​ ​​ pedagogia, allo scopo di stabilire lo statuto epistemologico proprio di questo tipo di conoscenza e i problemi assiologici e normativi; 2) sul piano storico (​​ storia della pedagogia) e su quello comparativo (​​ educazione comparata), per confrontare le concezioni e le istituzioni in senso diacronico (quelle emerse nel tempo), in senso sincronico, quelle disperse geograficamente; 3) sul piano empirico. Qui ci limiteremo a quest’ultimo tipo di r., caratterizzata dalla rilevazione diretta, sul campo, dei fatti educativi e scolastici. All’interno della r. empirica si possono distinguere: gli studi quantitativi da quelli qualitativi e quelli descrittivo-osservativi da quelli con intervento.

1.​​ R. quantitativa e qualitativa. La r.​​ quantitativa​​ ha come obiettivo quello di descrivere, prevedere o spiegare eventi osservabili, isolando i fattori in un contesto e studiandone le relazioni, attraverso misure e risultati numerici. Scopo della r. quantitativa è la definizione di modelli generali, che unificano e accomunano più casi. Per questo viene detta anche tradizionalmente nomotetica. Consiste nell’individuare e misurare le variabili e i loro legami nello studio della realtà empirica, sulla base di attese (ipotesi) che il ricercatore formula alla luce di teorie e di ricerche precedenti. Nella r. quantitativa si pianifica il controllo di ipotesi, accuratamente sviluppate e descritte, svolgendo i passaggi richiesti dalla logica, cioè secondo le fasi legittime del pensiero adulto che muove alla conquista d’una conoscenza. Si cerca quindi di corroborare o confutare le attese con la rilevazione di dati empirici. Obiettivo della r.​​ qualitativa​​ è invece quello di comprendere la realtà educativa indagata e approfondirne le specificità, mediante il coinvolgimento e la partecipazione personale del ricercatore. Ha dunque uno scopo idiografico, ha per oggetto di studio il particolare, il singolo o un gruppo. Tra i primi a citare l’esigenza di questa forma di r. è Dilthey, che sottolineava la necessità di comprendere (verstehen)​​ i fatti educativi badando all’intenzionalità tipica dei fatti umani. La r. qualitativa è tornata ad affermarsi e svilupparsi soprattutto dopo il 1970. Secondo questa prospettiva il fatto educativo va studiato nella sua globalità; le tecniche per conoscerlo si servono dell’empatia e dell’intelligenza induttiva e generalizzante. Cambiano le strategie per la raccolta dei dati e per la loro analisi, nonché i criteri per giudicare della validità dei risultati. In sostanza cambia l’impianto epistemologico.

2.​​ La r. di tipo descrittivo o osservativo e la r. con intervento.​​ Le r. descrittivo-osservative sono utili quando si vogliono studiare le condotte, senza perturbarne lo svolgimento naturale, o quando si intendono indagare fenomeni che sarebbe impossibile o immorale riprodurre. Le r. con intervento invece, una volta individuato un problema, prevedono l’introduzione di un cambiamento e la sua verifica.

3. La r.: diverse forme.​​ Ne indichiamo soltanto le più significative dal punto di vista pedagogico.

3.1.​​ Le forme di r. descrittivo-osservativa di tipo quantitativo sono: l’inchiesta (indagine), la r. con osservazione sistematica e alcune forme di r. valutativa. a) Le​​ inchieste​​ sono r. finalizzate a determinare il livello di una o più variabili e le loro relazioni in una data popolazione. Si attuano seguendo alcuni passaggi caratteristici. A partire da un problema che si vuole indagare e in seguito ad una adeguata ricognizione dello stesso in letteratura, si sceglie un campione rappresentativo della popolazione da studiare e tale da consentire la generalizzazione delle conclusioni a tutti i membri della medesima. Le informazioni raccolte devono essere​​ valide, in grado cioè d’informare sul fenomeno in oggetto, confrontabili e cumulabili. Per questo gli strumenti di rilevazione vanno collaudati e devono essere standardizzati. Abitualmente si adottano​​ ​​ prove oggettive o prove strutturate di profitto,​​ ​​ questionari,​​ check-list,​​ scale di prodotti o di giudizi. Dopo le somministrazioni, vengono impiegati sistemi di codifica e di elaborazione dei dati, che fanno ricorso a opportune statistiche per individuare le interrelazioni tra le variabili in gioco e la loro incidenza sugli esiti. Attualmente vengono condotte con relativa frequenza varie tipologie di inchiesta (survey) internazionali. Tra le​​ survey​​ internazionali sono significative quelle promosse dalla I.E.A. (International evaluation of achievement)​​ e le indagini​​ P.I.S.A.​​ (Program for International Student Assessment)​​ proposte dall’OCSE,​​ che confrontano il livello di competenza raggiunto in alcune discipline da campioni di alunni appartenenti a livelli scolastici o età prefissati in vari Stati. Tali studi adottano una metodologia accurata e una varietà di strumenti che consentono di raccogliere informazioni anche su di un vasto numero di variabili di sfondo e moderatrici, rispetto al fenomeno studiato. Le inchieste sono forme di r. quantitativa ed estensiva, che necessariamente approcciano la realtà che studiano in forma prevalentemente mediata. b)​​ La r. con osservazione sistematica​​ prevede la rilevazione diretta delle condotte dei soggetti presi in considerazione, attraverso l’utilizzo di strumenti strutturati di annotazione dei comportamenti. c) La​​ r. valutativa​​ è volta ad osservare e giudicare l’oggetto di r., spesso per intervenire poi con scopi di miglioramento. Prevede un insieme di procedure che permettono di formulare un giudizio su prodotti singoli (es. curricoli, libri di testo, ricerche…) o su strutture complesse, come le istituzioni scolastiche.

3.2.​​ Tra le forme di r. osservativa di tipo qualitativo, si possono citare: la r. etnografica e lo studio di caso. a)​​ La r. etnografica​​ ha lo scopo di delineare le caratteristiche di una cultura, di studiare una collettività, comprendendone le credenze, le abitudini comunicative, le convenzioni e i significati ad esse attribuiti e interpretando il punto di vista dei soggetti osservati. Implica che il ricercatore trascorra un periodo di tempo relativamente lungo con i soggetti da osservare, condividendo la quotidianità nel contesto scelto.​​ Lo studioso si sforza di cogliere il senso dei comportamenti attraverso le osservazioni che integra con le informazioni provenienti da altre fonti come il materiale documentario. Si tratta di una forma di r. di tipo antropologico, transitata relativamente di recente allo studio dei fatti scolastici. La r. etnografica non esige di norma ipotesi formulate in precedenza, lascia che siano i fatti osservati a suggerirle e modificarle man mano, non pretende di giungere a generalizzazioni, perché dà valore allo studio dei casi e giudica la qualità delle r. con criteri diversi da quelli della r. quantitativa. b)​​ Lo studio di caso​​ è​​ un’indagine empirica, condotta su un singolo soggetto, su un’istituzione o un evento (programmi, cambiamenti organizzativi…). Utilizza molteplici fonti di informazione, prevede una osservazione approfondita e prolungata di casi individuali, implica un accurato lavoro di analisi e di presentazione del materiale che riguarda il soggetto o il fenomeno studiato «in situazione» (in un contesto).

3.3.​​ Tra le forme di r. di tipo quantitativo​​ con intervento si può citare l’esperimento con le sue varianti. L’esperimento​​ è la pianificazione d’una r. che segue questo schema di ragionamento. Viene «messa alla prova un’ipotesi», attraverso l’introduzione di un cambiamento in una situazione e vengono valutati sistematicamente gli effetti provocati. Il ricercatore opera un mutamento nel valore di una variabile (detta variabile indipendente) e studia l’effetto prodotto su di un’altra variabile, detta dipendente. Le conclusioni vengono tratte in maniera probabilistica: gli esiti conseguiti possono infatti essere addebitati all’intervento introdotto, ma potrebbero anche derivare da fattori casuali che il ricercatore non è riuscito a tenere adeguatamente sotto controllo. Per garantire il più possibile la validità della r. occorre che la stessa segua fasi rigorosamente controllate. Va anzitutto scelto e formulato un problema, badando alla sua rilevanza teorica e / o pratica; va curato il reperimento delle conclusioni già acquisite o degli studi e ricerche condotti sull’argomento. Lo scopo del quadro storico-teorico è quello di trarre indicazioni per una più corretta formulazione del problema, sugli strumenti e sui procedimenti di rilevazione e sui risultati disponibili. Si formula dunque un’ipotesi che si intende controllare con la r. Si esplicita il quadro delle variabili connesse con l’ipotesi e si prepara concretamente la verifica sperimentale della stessa. Va individuato quindi un piano (design) sperimentale, che tenga conto della realtà in cui si opera, delle esigenze logiche connesse con la possibilità di concludere legittimamente sul rapporto esistente tra la variabile indipendente e quella dipendente. Per garantire la validità interna della r. occorre infatti controllare tutti i passaggi della stessa, neutralizzando l’azione di fattori spuri, evitando errori sistematici, riducendo il più possibile quelli casuali, in modo da raggiungere conclusioni con una probabilità soddisfacente. Di norma si accetta di incorrere in un errore non superiore al 5%. I piani sperimentali più noti sono: il piano a gruppo unico, quelli a due gruppi, a quattro gruppi, fattoriali e parziali. I piani più adottati nella r. scolastica sono: quello a gruppo unico, che lavora su un solo contingente di studenti in due tempi diversi, introducendo in sequenza i due fattori di cui si vogliono confrontare gli effetti, e quello a due gruppi, che utilizza due gruppi equivalenti, uno sperimentale e uno di controllo. Per costituire i gruppi occorre scegliere adeguatamente i soggetti sui quali svolgere lo studio. La r., infatti, di solito non può essere condotta sull’intera popolazione, occorre dunque individuare la porzione di individui su cui realizzarla (scelta del campione). Il campionamento è stato lungamente indagato per ridurre i costi e la durata degli studi senza far venir meno le condizioni che ne garantiscono la validità esterna, ovvero la possibilità di generalizzare i risultati raggiunti all’intera popolazione di riferimento. A tal fine occorre che il campione rappresenti adeguatamente le caratteristiche della popolazione. Questo si ottiene adottando campioni probabilistici (es. campione casuale semplice; sistematico; a gruppi o grappoli; a stadi, proporzionale e non proporzionale) Sono state studiate anche forme di esperimento con un «caso unico» ed elaborate statistiche per l’analisi dei loro risultati.

3.4. Tra le forme qualitative di r. con intervento ha assunto particolare rilevanza attualmente la​​ r.-azione​​ (action research), così denominata da​​ ​​ Lewin. Tale forma di r. viene oggi attuata in diverse varianti. È una forma di r. partecipativa, volta a risolvere un problema che si rileva in un contesto. Prevede che il ricercatore e gli operatori coinvolti nella situazione problematica prendano parte a tutte le fasi della r., al fine di migliorare la situazione stessa. È autoriflessiva, e così favorisce il miglioramento della professionalità degli operatori. Il suo obiettivo non è conoscere, ma operare, agire, migliorare le azioni. La r.-azione nelle realtà scolastiche richiede che siano i docenti stessi, presa coscienza della situazione, ad avviare lo studio insieme al ricercatore. Nella r.-a. si privilegia la ricostruzione documentata e ordinata del processo innovativo, con cui si affronta il problema e si ricorre a criteri di validità come la triangolazione, che implica il confronto tra i punti di vista di persone che occupano posizioni istituzionali diverse (Stenhouse). Non ci si preoccupa di generalizzare le conclusioni raggiunte, ma si cerca il miglioramento della situazione oggetto di studio e l’estensione degli esiti a contesti simili. La strumentazione da usarsi varia considerevolmente per potersi adattare agli scopi operativi, alla preparazione degli operatori, ai traguardi conoscitivi ritenuti adeguati.

4.​​ Conclusioni.​​ La r.e. si è preoccupata della varietà, della complementarità e completezza degli approcci. Storicamente si sono intensificati i tentativi di distinguere tra la riflessione personale e di gruppo sui fatti e la r. vera e propria, tra gli scopi operativi immediati e l’individuazione di costanti che, pur facendo spazio alle particolarità delle situazioni, consentano la cristallizzazione delle conoscenze. Progressivamente si sono integrate le diverse forme di r., al fine di dare risposte più adeguate a contemplare la complessità dei problemi educativi. Sul piano internazionale ci si preoccupa sempre più di dare alla r. una legislazione e organizzazione idonee ad assolvere i compiti che deve svolgere per la verifica dei risultati e per il miglioramento dei metodi, delle istituzioni e della qualità dell’educazione.

Bibliografia

Mayer R. et al.,​​ Méthodes de recherche en intervention social,​​ Montréal, Morin,​​ 2000; Flick U. - E. V. Kardoff - I. Steinke (Edd.),​​ Qualitative research: A handbook, London, Sage, 2002; Trinchero R.,​​ Manuale di r. educativa,​​ Milano, Angeli, 2002;​​ Gobbo F.,​​ Etnografia nei contesti educativi, Roma, CISU, 2003; Sorcio P.,​​ La r. qualitativa in educazione. Problemi e metodi,​​ Roma, Carocci, 2005; Coggi C. - P. Ricchiardi,​​ Progettare la r. empirica in educazione,​​ Ibid., 2005; Prellezo J. M. - J. M. García,​​ Invito alla r. Metodologia e tecniche del lavoro scientifico,​​ Roma, LAS,​​ 42007.

L. Calonghi - C. Coggi




RICHTER Johann Paul

 

RICHTER Johann Paul

n. a Wunsiedel nel 1763 - m. a Bayreuth nel 1825, poeta e pedagogista romantico tedesco.

1. Orfano e povero, R. (pseud.​​ Jean Paul), non poté concludere gli studi. Fu precettore, aprì una scuola e insegnò per anni. Fu poi aiutato da amici, tra cui Herder, fino alla morte, benché ormai famoso. Il suo scritto più noto in educazione è:​​ Levana​​ oder Erziehnlehre​​ (1807), tradotto anche in it. (Levana o dottrina dell’educazione:​​ varie ediz.), ma se ne occupa anche nei suoi romanzi.

2. Sotto l’influsso del​​ ​​ filantropismo, trattò, prima, del valore della poesia e di educazione nazionale, ma, con il​​ Levana,​​ che lo inserì tra i pedagogisti, centrò la sua attenzione sui​​ primi tre anni di vita,​​ ispirandosi a​​ ​​ Rousseau e a​​ ​​ Pestalozzi, soprattutto. Riconosce valore determinante a quell’età, dominata dal sentimento, da guidare e stimolare specie nell’espressione della gioia, mediante il gioco, e della serenità, mediante l’affetto e l’educazione etico-religiosa. È importante anche la disciplina e l’obbedienza, fondate però sull’amore, la fiducia e la riconoscenza. Alla madre spetta un ruolo privilegiato, come all’educazione femminile, che però non delinea. Fine dell’educazione è lo sviluppo delle tendenze e aspirazioni individuali, benché come risultato più di esplosioni affettive che di un processo continuo e progressivo. Distingue due classi di bambini: della Domenica e del Lunedì («Sonntags-und Montagskinder»),​​ ai quali compete un’educazione, rispettivamente, classica o linguistica.

3. Piuttosto frammentario e disorganico, scopre il valore, in specie, del 1° anno e tenta quasi una «didattica dell’infanzia». Il giudizio su di lui non è unanime, ma prevalentemente positivo.

Bibliografia

esiste un’ediz. critica in 9 voll.:​​ Jean Pauls sämtliche Werke,​​ Berlino, Preussische Akademie der Wissenschaften, 1927-1964; su R.: Gentile M. T.,​​ R.,​​ Brescia, La Scuola, 1951.

B. A. Bellerate




RIDUZIONISMO

 

RIDUZIONISMO

Posizione epistemologica secondo cui affermazioni o fenomeni di un certo tipo sono riconducibili e derivabili da altri considerati più fondamentali.

1. Nella prima fase del neo-positivismo le affermazioni scientifiche erano considerate ultimamente riportabili al linguaggio osservativo di base. Tuttavia il r. ha trovato una sede particolare nelle scienze della vita. Ne sono figura esemplare le classiche e contemporanee controversie tra r. e olismo. In biologia il r. meccanicista sostiene che i fenomeni vitali possono essere descritti e spiegati con affermazioni e leggi di tipo chimico-fisico. In campo psicologico il comportamentismo vecchio e nuovo spiega i processi psichici in termini neurofisiologici. Già A. Comte descriveva la società in termini fisici e J. O. de La Mettrie parlava di uomo-macchina. Ai modi del comportamento animale alcuni riportano la spiegazione delle condotte sociali.

2. Il r. è particolarmente importante in sede educativa. Da una concezione antropologica riduttiva seguirà facilmente un’immagine distorta di educazione, risolta di volta in volta, ad es., a puro allevamento o addestramento da forme di radicale biologismo antropologico; a puro decondizionamento da forme di radicale spontaneismo; ad addestramento ed apprendimento da forme di comportamentismo o tecnologismo; a​​ ​​ socializzazione da forme di sociologismo; ad educazione intellettuale da forme di razionalismo; ad educazione morale da forme di moralismo; a catechesi da forme di confessionalismo religioso; a competenze da forme di funzionalismo socio-economico.

Bibliografia

Agazzi E. (Ed.),​​ The problem of reductionism in science, Boston, Kluwer, 1991.

C. Nanni




RIFLESSIONE PARLATA

 

RIFLESSIONE PARLATA

La r.p. o verbalizzata è una forma di colloquio con cui si ottengono informazioni sui processi intellettuali e sulle strutture concettuali di un soggetto, stimolato a risolvere una situazione problematica. Si richiede all’intervistato di verbalizzare i ragionamenti che sta svolgendo mentre esegue un compito (un problema, la scelta di un titolo per una vignetta, ecc.). L’interazione è prevalentemente verbale, ma implica anche la rilevazione dei comportamenti osservabili di soluzione e i messaggi non verbali connessi (pause, ritmi dell’eloquio, ecc.).

1.​​ Evoluzione storica della tecnica.​​ Storicamente è stata sviluppata da​​ ​​ Claparède che la derivava dalla scuola di Würzburg. Lo strumento è stato ripreso da​​ ​​ Buyse che si è preoccupato soprattutto di affinare le tecniche di stesura del protocollo e di esplicitare le modalità di interrogazione per far emergere in modo analitico i ragionamenti, soprattutto assumendo stimoli di tipo scolastico. Allievi di Buyse come A. Bonboir, A. De Moraes e​​ ​​ Calonghi hanno ampliato i campi di utilizzo della tecnica e l’hanno affinata progressivamente. Alcuni cognitivisti come E. Gagné hanno ripreso lo strumento, valorizzandolo nella r. e riconoscendone la validità legata anche alla bassa distorsione dei ragionamenti, dovuta all’attenzione richiesta per la loro verbalizzazione. Ulteriori apporti sono stati dati da K. A. Ericsson e H. A. Simon per l’uso valido dei protocolli nella ricerca.

2.​​ Struttura dell’intervista.​​ La r.p. si presenta come una forma di​​ ​​ colloquio semistrutturato, preparato in base a un quadro teorico adeguatamente approfondito sui costrutti da far emergere, e centrato su una serie di situazioni-problema atte a condurre una verifica delle ipotesi in situazione critica, tale da far emergere i ragionamenti mentre si svolgono, attraverso domande graduate, frasi di rispecchiamento, parafrasi, messa in dubbio delle affermazioni. La r.p. viene condotta secondo le seguenti fasi: a) approfondimento teorico del tema e del problema su cui si intende indagare attraverso questo strumento; b) formulazione di ipotesi; c) elaborazione di situazioni che consentano all’alunno di manifestare il proprio modo di ragionare; d) definizione della struttura da attribuire al colloquio: può trattarsi di una struttura sequenziale a catena, ad imbuto (quando usata con scopi diagnostici), può presentare invece strutture ramificate, con ritorni sui problemi, nell’uso per il ricupero. La r.p. deve avere un’introduzione, che spiega il compito da svolgere e l’esigenza di verbalizzare i ragionamenti, un​​ corpus,​​ in cui si seguono con flessibilità i processi intellettuali dell’intervistato senza segnalare errori o limiti, e una​​ conclusione​​ che lasci l’interrogato gratificato del lavoro svolto; e) disposizione flessibile delle domande, chiare, adeguate al livello di maturazione cognitiva dell’intervistato, di retroazione o feed-back, di controllo, di rispecchiamento, di approfondimento, di verifica; f) controllo dei fattori che possono ridurre l’attendibilità del materiale raccolto; g) allestimento di tecniche di registrazione (audio e video, se possibile); h) definizione di un sistema di stesura del protocollo, che dovrebbe riportare: dati anamnestici sul soggetto intervistato tali da chiarire eventuali particolarità individuali e da fornire informazioni sulle variabili di sfondo; l’intera trascrizione dell’interazione, accompagnata da osservazioni raccolte durante lo svolgimento delle prove; eventuale materiale integrativo (disegni, schemi, ecc.); i) scelta di un sistema di trattamento delle risposte. Numerose sono però le variabili che possono ridurre l’attendibilità di una r.p. Per la maggior parte sono connesse con le caratteristiche dell’intervistatore​​ (stile relazionale, fluenza verbale, comunicazione non verbale, caratteristiche intellettuali e di personalità, conoscenza del grado di maturità dell’intervistato, competenza nei contenuti dell’intervista, pregiudizi). Altri fattori di disturbo sono connessi con l’impianto o la​​ struttura dell’intervista,​​ con la situazione-problema (motivazione suscitata, chiarezza, validità della prova); altre ancora riguardano le caratteristiche di chi viene interrogato.

3.​​ Utilizzo della tecnica.​​ Può essere un valido strumento, purché impiegato nel quadro di ipotesi teoricamente fondate. È stata utilizzata soprattutto nel settore della diagnosi degli errori ed è risultata uno strumento importante della ricerca qualitativa. Può essere trasformata in strumento di innovazione didattica se si prende un campione rappresentativo di studenti e si vede: a) quali tipi di errore possono esser indotti da un certo iter di apprendimento; b) quali nuove sequenze didattiche possono essere strutturate, basandosi sull’informazione fornita dall’iter di ricupero o di apprendimento individuale e collettivo con r.p. Altre possibili applicazioni si possono riscontrare nell’ambito delle ricerche sugli stili di​​ ​​ apprendimento, sulla comprensione della lettura e sulle competenze metacognitive sviluppate da un soggetto.

Bibliografia

Buyse R. - A. Bonboir,​​ Étude psychopédagogique des formes géométriques,​​ Bruxelles, CCUP, 1962; Claparède E.,​​ La genesi dell’ipotesi: uno studio sperimentale dei processi di pensiero,​​ Firenze, Giunti-Barbera, 1972; Calonghi L.,​​ Valutare,​​ Novara, IGDA, 1985;​​ Vermersch P.,​​ L’entretien d’explicitation, Paris, ESF, 2004.

C. Coggi




RIFORMA EDUCATIVA / SCOLASTICA

 

RIFORMA EDUCATIVA /​​ SCOLASTICA

È un cambiamento​​ importante e intenzionale​​ del​​ ​​ sistema formativo o di una sua parte. Quanto agli obiettivi e ai contenuti della r.e. in generale, si rimanda alla voce​​ ​​ sistema formativo, e alla voce​​ ​​ Italia per gli orientamenti specifici, mentre qui si tratterà solo delle strategie.

1. Sul piano organizzativo il modello tradizionale di r.e. consiste nella sua introduzione per​​ via d’autorità.​​ La generalizzazione della r.e. su tutto il territorio nazionale costituisce il vantaggio principale; al tempo stesso esiste il pericolo di un’osservanza solo formale da parte dei docenti perché non si è creato un consenso adeguato attorno alla medesima. Una seconda strategia, che si può definire​​ empirico-razionale,​​ consiste nella traduzione dei risultati della​​ ​​ ricerca educativa in prassi didattica per via di sperimentazione e nella diffusione dei processi innovativi nelle scuole. La procedura seguita, in quanto scientificamente corretta, assicura la validità della r.e.; problemi possono sorgere dalla resistenza che le scuole tendono ad opporre a cambiamenti che provengono da agenzie esterne come un istituto di ricerca. Dopo la delusione provata nei confronti delle r. globali venute dall’alto degli anni ’60 e ’70 del sec. scorso, il fulcro del rinnovamento si è spostato sull’​​ ​​ autonomia scolastica poiché le probabilità di successo di una r.e. sono maggiori quando l’insegnante e la comunità educativa ne sono partecipi, la sentono propria, hanno contribuito ad elaborarla, approvarla, attuarla. Il limite di tale strategia va visto nel rischio di una innovazione troppo disomogenea sul territorio nazionale.

2. Prevalentemente si tende a considerare i tre modelli come complementari. La ricerca ha anche messo in risalto alcune​​ condizioni​​ che paiono favorire il successo di una r.e.: l’impegno delle persone coinvolte, in particolare delle autorità al più alto livello; la rispondenza alle caratteristiche del contesto, soprattutto quelle culturali, per cui va vagliato con attenzione ogni prestito da altro Paese o ambiente; la stabilità del contesto; la previsione di correzioni in itinere negli obiettivi e nei contenuti; un’efficace​​ leadership​​ che deve assicurare la disponibilità delle risorse, la protezione da interferenze esterne, la motivazione del personale e la rimozione degli ostacoli amministrativi; la partecipazione degli insegnanti, degli studenti, dei genitori e della comunità locale; la professionalità del personale che deve essere già in possesso delle abilità richieste e / o che va preparato attraverso dimostrazioni pratiche e la guida di esperti presenti in loco; una valutazione continua.

Bibliografia

Ghilardi F. - C. Spallarossa,​​ Guida all’organizzazione della scuola,​​ Roma, Editori Riuniti, 1983; Thomas R. M., «Educational reforms, implementation of», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press,​​ 21994, 1852-1857; Everard B. - G. Morris,​​ Gestire l’autonomia.​​ Manuale per dirigenti e staff di direzione, Trento, Erickson,​​ 1999; Leithwood K. - P. Hallinger (Edd.),​​ Second international handbook of educational leadership and administration.​​ Part one and part two, Dordrecht, Kluwer, 2002; Sergiovanni T. J.,​​ Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002.

G. Malizia




RISORGIMENTO

 

RISORGIMENTO

Nell’analisi e nell’interpretazione del R. è a lungo prevalso un criterio storiografico che sovrapponeva la progettualità e la conclusione unitaria alla questione educativa. L’elaborazione pedagogica e le realizzazioni educative sono state conseguentemente spesso esplorate secondo il loro grado di funzionalità rispetto allo svolgimento del processo di indipendenza e unità nazionale. Tutti i maggiori studiosi (da Vidari a Calò, compreso lo stesso Gambaro a cui si deve una sintesi storico-pedagogica tuttora di grande autorevolezza) sono stati influenzati, in misura diversa, da istanze e analisi di tipo risorgimentale.

1. Gli apporti storiografici più recenti preferiscono invece collocare la riflessione pedagogica e le esperienze educative sviluppatesi nella stagione risorgimentale in primo luogo nel novero dei fenomeni suscitati dalle trasformazioni culturali, politiche, sociali, produttive, religiose di quegli anni, contestualizzandole, dunque, non tanto in rapporto a quello che sarebbe stato poi il complesso e controverso esito unitario, quanto in stretta relazione ai mutamenti connessi all’incipiente manifestarsi della modernità. Questo approccio consente di sfuggire ad un duplice rischio: d’un lato, che i contributi dei singoli protagonisti siano letti e interpretati secondo una prevalente e talora esclusiva categoria politica e, dall’altro, che le varie realtà regionali siano comprese nella loro specificità senza cadere nella manichea distinzione di approvazione o condanna a seconda che l’ipotesi risorgimentale-liberale sia stata più o meno presente nei rispettivi programmi. Proprio le diverse storie regionali ci consentono di verificare, inoltre, che se l’esperienza risorgimentale fu complessivamente ispirata a forte sentimento nazionale, ciò non impedì, tuttavia, che essa si sia svolta con modi e approcci differenziati in rapporto alle specifiche tradizioni locali. Questo dato risulta particolarmente significativo in campo pedagogico e scolastico ove interagirono differenti culture educative, da quella piemontese che guardò preferenzialmente alle esperienze svizzere e francesi, a quella lombarda e veneta sensibile alla tradizione mitteleuropea, a quella toscana che si costituì facendo riferimento ad una pluralità di apporti di respiro europeo.

2. Uno dei tratti caratterizzanti la stagione risorgimentale è rappresentato da una pedagogia connotata in senso fortemente popolare. Gli anni della rivoluzione e l’età napoleonica avevano mostrato la vitalità e la forza non solo dei ceti alto-borghesi, ma anche di quella piccola borghesia e degli strati alti dei ceti popolari che, a lungo marginali, si stavano, talvolta disordinatamente, affacciando sulla scena della storia e che avrebbero potuto portarvi il proprio fattivo apporto o contribuire a far precipitare la società nel disordine. Da​​ ​​ Cuoco in poi il problema dell’educazione popolare è al centro delle riflessioni e delle preoccupazioni educative tanto di reazionari a tutto tondo, come Monaldo Leopardi (che poneva tra le principali cause dei mali del mondo non soltanto le libertà costituzionali, ma anche la diffusione dell’istruzione), quanto, più costruttivamente, di moderati e democratici. Il progetto educativo dei democratici (Mazzini, Cattaneo, Mayer) puntava, per es., ad associare strettamente iniziativa politica e riflessione pedagogica, sulla linea già tracciata, invero con intenti moderati, dal Cuoco nel​​ Saggio sulla rivoluzione napoletana​​ e negli scritti sul «Giornale Italiano». L’anima moderata del R., a sua volta, guardava al popolo con altri sentimenti, non contraddittori, ma certamente diversi dalla prevalente lettura politico-pedagogica dei democratici. Alla base dell’iniziativa del riformismo moderato stavano sentimenti e atteggiamenti caritativi e filantropici attraverso cui ci si proponeva di sconfiggere in primo luogo il pauperismo, fonte di malessere sociale, di ignoranza e di miseria materiale e morale. Gli​​ ​​ Aporti, i Lambruschini, i Capponi, i Tommaseo, i Rosmini guardavano, in particolare, all’istruzione come ad un potente mezzo d’incivilimento. Essi avevano ben presente che i Paesi europei più progrediti potevano contare su una fitta rete di scuole. Il moltiplicarsi di asili infantili, la creazione di un vero e proprio sistema di scuole elementari e professionali, la scoperta della «gioventù povera e abbandonata» come di una nuova categoria di «poveri» verso cui si devono esercitare specifiche cure formative, rappresentano soltanto alcuni dei tasselli attraverso cui si costruisce una pedagogia centrata sulla fiducia nell’educabilità dell’uomo, sulla prevenzione piuttosto che sulla repressione, sul rispetto della tradizione religiosa, sullo stretto confronto con le trasformazioni produttive in corso (basterebbe ricordare in tal senso la lezione degli «Annali Universali di Statistica»).

3. Nell’uno come nell’altro caso la pedagogia è innervata di una forte tensione spirituale e religiosa, così da poter individuare nella dimensione della spiritualità e della religiosità la seconda forte caratteristica della pedagogia del R. L’uomo è concepito, con evidenti tratti romantici, come cuore, fede, sentimento e la sua educabilità è riposta proprio nella possibilità di incidere nella sua interiorità. In Mazzini si tratta di una religiosità immanente e laica capace di orientare la libertà dell’individuo secondo un fine sovraindividuale. Negli esponenti della cultura cattolico-liberale la religiosità si richiama al principio paolino della carità attiva, capace di manifestare con le opere la forza rinnovatrice del Cristianesimo. Si tratta di una religiosità non rinchiusa su se stessa, ma aperta al confronto con il nuovo che si sta definendo e disponibile, perciò, a misurarsi anche con le libertà moderne nella convinzione che la forza del bene è tale da essere in grado di assicurare lo sviluppo ordinato della società. Un progetto ambizioso e complesso destinato a incontrare difficoltà, diffidenze e resistenze (la vicenda umana, prima ancora che culturale, dello stesso​​ ​​ Rosmini costituisce, a questo riguardo, un caso tanto doloroso quanto emblematico) nel momento in cui, radicalizzatosi lo scontro tra Stato e Chiesa a partire dal terreno educativo, i vertici ecclesiastici tenderanno a rinchiudersi in modo difensivo e a diffidare della modernità e, in particolare, delle libertà che presumono di potersi costituire in forma indipendente dalla rivelazione cristiana.

4. Resta, infine, da segnalare una terza e decisiva caratteristica della riflessione educativa della stagione risorgimentale. Essa consiste nella funzione pedagogica attribuita ai ceti aristocratici e all’alta borghesia nei confronti delle classi popolari. Dovendo definire in che modo si debba realizzare la «popolarità» nell’educazione, uno dei periodici pedagogici più autorevoli e significativi del tempo, «L’Educatore Primario» di Torino, affermava che «la vera popolarità è quella che ha per iscopo di istruire il popolo, non quella di prendere dal popolo le sue stesse idee, poche e semplici, indefinite, esclusive e imperfette e avvolte in un mare di parole e di frasi». La pedagogia del primo Ottocento mentre riconosce il diritto di cittadinanza anche ai ceti subalterni, non giunge tuttavia ad ammettere la capacità autoeducativa del popolo, neppure nelle componenti democratiche: Mazzini, Gioberti, Cavour, Tommaseo in modo e con sfumature certo diverse, convengono tuttavia sulla necessità che il popolo sia «educato» e cioè governato e guidato con prudenza e amorevolezza e, attraverso tale via, possa giungere ad esplicare tutte le proprie potenzialità positive. Soltanto nel rispetto dell’ordine è infatti possibile che esso assuma le responsabilità che pur gli toccano nella vita sociale e produttiva. Si definisce in tal modo un doppio principio di lealtà e di partecipazione alla vita sociale e politica destinato ad imprimere un carattere oligarchico allo sviluppo del processo unitario: una cittadinanza piena riconosciuta ai ceti dirigenti, una cittadinanza dimezzata e «in prova» propria delle classi subalterne. Democratici e moderati si differenziano non tanto sul principio in sé, né sulle modalità di passaggio dall’uno all’altro tipo di cittadinanza (regolato da una legge di cooptazione sociale più che sulla base di un «diritto») quanto piuttosto per i tempi e le caratteristiche delle sue dimensioni.

5. Per la piena comprensione degli sviluppi dei processi di​​ ​​ alfabetizzazione e scolarizzazione che si compiono in età risorgimentale non si può infine prescindere da una circolazione pedagogica «povera» – che si svolge cioè senza approfondite elaborazioni teoriche – che tuttavia costituisce una pagina importante nella storia educativa dei ceti popolari. Essa si manifesta attraverso la presenza attiva di sacerdoti, aristocratici, laici, nuove congregazioni religiose che, nel reagire al flagello rivoluzionario, si propongono di «educare il popolo» non soltanto mediante le pratiche religiose e devozionali, ma anche attraverso la cura dei bambini, l’istruzione dei fanciulli e delle fanciulle, l’avviamento al lavoro, le attività ricreative. I loro punti di riferimento sono il principio della perfezione cristiana e le conseguenti prassi disciplinatrici segnate dalla amorevolezza, dalla correzione fraterna, da una disciplina severa, ma non violenta. Lungo è l’elenco delle iniziative intraprese in varie parti d’Italia tra cui spiccano quelle dei fratelli Cavanis (Venezia), Pietro Leonardi e Nicola Mazza (Verona), Luca Passi e Lodovico Pavoni (Brescia), i marchesi Falletti di Barolo, don Cocchi e don​​ ​​ Bosco (Torino), Luigi Aiello (Napoli), Antonio Lombardo (Palermo) e molti altri. Questo breve elenco non rende che in modo molto parziale il fervore dei promotori. Tra il 1800 e il 1860 sorsero infatti in Italia oltre 140 nuove congregazioni religiose con prevalenti scopi educativi che andarono a incrementare la presenza di quegli ordini religiosi di più antica data da tempo impegnati in questo campo.

Bibliografia

Vidari G.,​​ L’educazione in Italia dall’Umanesimo al R.,​​ Roma, Optima, 1930; Borghi L. (Ed.),​​ Il​​ R.,​​ Firenze, Giuntine-Sansoni, 1958; Picco I.,​​ La scuola nel R. Nascita della Scuola Nazionale,​​ Roma, Armando, 1961; Gambaro A., «La pedagogia italiana nell’età del R.», in​​ Questioni di storia della pedagogia,​​ Brescia, La Scuola, 1963, 407-664; Calò G.,​​ La pedagogia del R.,​​ Firenze, Sansoni, 1965; Chiosso G. (Ed.),​​ Scuola e stampa nel R. Giornali e riviste per l’educazione prima dell’Unità,​​ Milano, Angeli, 1989;​​ Scirocco A.,​​ L’Italia del R. (1800-1860),​​ Bologna, Il Mulino, 1990; Pazzaglia L. (Ed.),​​ Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione,​​ Brescia, La Scuola, 1994; De Giorgi F.,​​ Cattolici ed educazione tra Restaurazione e R., Milano, Isu-Università Cattolica, 1999; Chiosso G.,​​ Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia​​ (XIX e XX secolo), Brescia, La Scuola, 2001, 11-88.

G. Chiosso