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RATKE Wolfgang

 

RATKE Wolfgang

n. a Wilster nel 1571 - m. ad Erfurt nel 1635, pedagogista enciclopedico e didatta tedesco.

1. Di famiglia borghese, R. studiò teologia e lingue, con interessi enciclopedici e, poi, pedagogici. Soggiornò a Londra e, in guerra, ad Amsterdam, per stabilirsi nel 1611 a Francoforte, dove stese il suo noto​​ Memoriale​​ (1612), presentato alla Dieta. Tentò di applicarne i principi a Cöthen, senza successo, finendo in carcere. In seguito errò per varie città, a volte con l’appoggio dei governanti, ritentando il suo esperimento e sostenendolo con vari saggi, in polemica con i suoi critici, finché approdò a Erfurt, dove morì. Oltre agli scritti di didattica:​​ Allunterweisung. Schriften zur Bildungs-,​​ Wissenschafts- und Gesellschaftsreform​​ (Istruzione universale. Scritti per una riforma dell’educazione, della scienza e della società), 2 voll., Berlino, Volk und Wissen, 1970-1971.

2. È nota la sua concezione didattica, meno quella enciclopedico-riformistica, fondata sulla​​ ​​ Bibbia, sulla natura e sulle lingue, con una connotazione cristiana e pedagogica di fondo. Alla prima sono legati la sua fama e i suoi meriti. Individuata nel​​ metodo​​ la procedura più efficace e innovativa, ne propone un’applicazione all’insegnamento. Si tratta di un​​ metodo naturale​​ e quindi unico, come la natura, a cui si devono ispirare i manuali, che, da allora, si vanno moltiplicando. La sua fiducia nel metodo risulta riduttrice del ruolo dell’educatore e, in parte, delle peculiarità dell’alunno. I suoi​​ «aforismi»​​ sono di​​ tre categorie:​​ due didattiche (più tradizionale l’una e innovativa l’altra) e la terza di carattere più generale. Della prima fanno parte la gradualità, la ripetizione frequente e il silenzio. Della seconda, l’esclusione della violenza e costrizione, l’adattamento al singolo, l’armonia universale, la priorità della lingua vernacola e il primato di esperienza, esempi, e uso su precetti, autorità e preconcetti. Della terza sono parte l’esigenza di democratizzazione, di continuità tra famiglia e scuola e di organizzazione.

3. Ebbe grande, seppur contrastato influsso, e va considerato un fecondo seminatore più che un produttore.

Bibliografia

su R., attenta e ricca l’«Introduzione» all’Allunterweisung;​​ Rioux G.,​​ L’oeuvre pédagogique de W.R., Paris, Vrin,​​ 1963;​​ Hofmann F.,​​ Das Schulbuchwerk W.R.s zur Allunterweisung, Ratingen, A. Henn, 1974;​​ Michel G.,​​ Die Welt als Schule. R.,​​ Comenius und die didaktische Bewegung,​​ Hannover, H. Schrödel, 1978.

B. A. Bellerate




RAYNERI Giovanni Antonio

 

RAYNERI Giovanni Antonio

n. a Carmagnola nel 1810 - m. a Torino nel 1867, pedagogista e educatore italiano.

1. Nasce in una famiglia modesta, compie gli studi di retorica e di filosofia nella cittadina natale e di teologia a Chieri. Ordinato sacerdote, s’impegna nello studio e nell’insegnamento della pedagogia. Dopo aver seguito il corso di lezioni di​​ ​​ Aporti a Torino (1844), R. è nominato direttore della scuola di Metodo a Saluzzo (1846) e, due anni dopo, primo titolare della cattedra superiore di Metodo, detta poi di pedagogia, presso l’università di Torino. Nel 1849 partecipa alla fondazione della Società d’Istruzione e d’Educazione, il cui scopo è «il risorgimento della patria per mezzo dell’educazione morale e religiosa, civile e politica». Ne diviene il primo presidente effettivo e ne resta sempre uno dei membri più attivi.

2. Il suo saggio,​​ Primi principi di metodica​​ (1850), ha avuto notevole diffusione diventando il «vademecum» dei maestri italiani nella seconda metà dell’Ottocento. Nell’opera di maggior impegno,​​ Della pedagogica. Libri cinque​​ (1859) «confluisce il pensiero educativo del nostro Risorgimento» (Gambaro, 1977, 671). Il contributo di R. non rimane limitato all’impegno, pur apprezzabile, di sistematore e propagatore delle più autorevoli dottrine pedagogiche e didattiche del suo tempo dalla cattedra universitaria e attraverso i suoi scritti. Fu anche significativa la sua presenza nell’ambito della politica scolastica: prese parte attiva alla stesura della L. Boncompagni (1848) e collaborò nei progetti di riforma educativa dei ministri Gioja, Cadorna e Berti.

Bibliografia

Gambaro A., «La pedagogia del Risorgimento», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ vol. II,​​ Da Comenio al Risorgimento italiano,​​ Brescia, La Scuola, 1977, 535-796; Prellezo J. M.,​​ Pensiero pedagogico e politica scolastica. Il caso di G.A.R. (1810-1867),​​ in «Annali di Storia dell’Educazione» 1 (1994) 149-167; Id., «R.G.A.», in​​ Enciclopedia filosofica, vol. 10, Milano, Bompiani / Fondaz. C.S.F. Gallarate, 2006, 9415-9416; Chiosso G.,​​ Carità educatrice e istruzione in Piemonte. Aristocratici,​​ filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ‘800, Torino, SEI, 2007.

J. M. Prellezo




RAZIONALITÀ

 

RAZIONALITÀ

Dal lat. tardo​​ rationalitas,​​ è la proprietà di essere razionale, di possedere cioè una struttura che deriva dalla​​ ​​ ragione o che può essere compresa dalla ragione.

1.​​ Le due forme tradizionali.​​ La r. analitica e quella dialettica costituiscono, com’è noto, i capisaldi della r. umana, in quanto la prima è il metodo della scienza, la seconda quello della filosofia. La r. moderna ha trovato nella prima la sua identità: la riduzione delle forme della r. teoretica a quella matematico-scientifica e l’emarginazione delle altre forme di r. di tradizione aristotelica. Oggi però si riscontra una rinnovata attenzione proprio per quelle altre forme di r., anche se segnate dall’esperienza filosofica degli ultimi tempi. La r. assume un significato più ampio e si manifesta in modi molteplici e sulla base di procedimenti plurimi di pensiero. Si conferma l’identità distinta delle due procedure di pensiero: l’analitica caratterizza la procedura scientifico-dimostrativa; la dialettica quella dell’argomentazione filosofica.

2.​​ R. coerente con l’oggetto di ricerca.​​ Questi due modi di ragionare si devono a loro volta confrontare con l’oggetto del discorso. Ad un sapere diretto alla conoscenza delle​​ cose che sono necessarie,​​ occorre accostare un sapere diretto alla conoscenza delle​​ cose che sono per lo più e di quelle che possono essere altrimenti:​​ cioè gli oggetti verso cui può dirigersi la nostra attenzione e il nostro studio non sono gli stessi, ma sono differenti. I metodi di studio e di riflessione critica vanno di conseguenza selezionati ed anche adattati in modo da risultare coerenti con il diverso oggetto di ricerca. Ora fra​​ le cose che sono per lo più o che possono essere altrimenti​​ occorre mettere le azioni umane. Le vicende umane non possono essere studiate​​ soltanto​​ con metodi scientifici del tipo di quelli utilizzati per indagare i fenomeni naturali.

3.​​ R. e complessità dei processi educativo-didattici.​​ I comportamenti umani, come l’insegnare​​ e l’apprendere,​​ sono inestricabilmente intrecciati con componenti interne (intenzioni,​​ propositi,​​ motivazioni)​​ che danno loro senso e significato. Il metodo scientifico classico considera legami causali diretti, a senso unico; ma connessioni di tal tipo non sono le sole che esistono fra l’azione del docente​​ e l’apprendimento del discente.​​ Tale metodo può essere applicato a fenomeni naturali che rimangono stabili e uniformi nel tempo e nello spazio: ma questo è un contesto che ha poco a che fare con la situazione educativa e didattica. La realtà complessa e dinamica dei processi educativi e didattici non riesce ad essere compresa o spiegata adeguatamente da nessuno di essi. In quest’epoca di crisi della r. analitica, occorre riconoscere la molteplicità delle «vie della ragione» e ridare spazio a r. spesso presenti, ma tenute nascoste, quasi vergognosamente, come la​​ dialettica,​​ quella​​ retorica​​ e quella​​ pratica,​​ favorendo l’integrazione tra i diversi apporti. Anche gli apparati tecnologici messi in opera dalle teorie curricolari emerse negli anni ’60 e ’70 del XX sec. sono governati da orientamenti tecnici, sensibili solo alle esigenze di​​ efficacia,​​ di​​ efficienza,​​ di​​ r.​​ obiettiva. Sono questi gli stessi caratteri evidenziati da un approccio scientifico che vuole «misurare tutto ciò che si muove», ignorando i problemi economici, sociali e politici che si nascondono dietro i numeri. Pertanto il termine r. nel campo pedagogico-didattico se, da un lato, ha valorizzato la dimensione scientifica della r. analitica, dall’altro non può non riconoscerne i limiti. Dunque: senza voler espellere questo tipo di r. dal dominio delle scienze dell’educazione né dare spazio a nuovi primati o imperialismi, siano essi legati all’esaltazione della r. pratica, dialettica o addirittura retorica, occorre piuttosto muoversi in una prospettiva sistemica, di collaborazione reciproca, di complementarità. In campo didattico sarà inevitabile valorizzare l’apporto di approcci e metodologie differenti e complementari al fine di: a) descrivere e comprendere al meglio situazioni di fatto; b) cercare di spiegare in modo sufficientemente affidabile le cause dell’insoddisfazione; c) intervenire ispirandosi a quadri di significati e di valori che possano non solo illuminare lo scenario di riferimento, ma soprattutto guidare le scelte e le azioni conseguenti. In tal senso occorrerà favorire lo sviluppo della pluralità delle vie percorse della r. umana, mirata non soltanto alla costruzione del sapere, ma anche all’impegno dell’agire: e dunque r. teorica e r. pratica, r. «forte» e r. «debole»; e così via.

Bibliografia

Ladrière J.,​​ I​​ rischi della r.: la sfida della scienza e della tecnologia alle culture,​​ Torino, SEI, 1978; Agazzi E. - F. Minazzi - L. Geymonat,​​ Filosofia,​​ verità e scienza,​​ Milano, Rusconi, 1989; Laneve C.,​​ Per una teoria della didattica. Modelli e linee di ricerca,​​ Brescia, La Scuola, 1993;​​ Romero Pérez C.,​​ Conocimiento, acción y racionalidad en educación, Madrid, Biblioteca Nueva,​​ 2004; Scuderi Sanfilippo G.,​​ Il razionalismo critico come problema pedagogico. Banfi,​​ Bertin e il senso della pedagogia, Cosenza, Pellegrini, 2005; Minichiello G.,​​ Il principio imperfezione. Razionalismo pedagogico e teoria della conoscenza, Lecce, Pensa, 2006.

C. Laneve




READINESS

 

READINESS

Le teorie riguardanti la r. all’apprendimento – o stato di adeguatezza – si rifanno al concetto di maturazione durante le tappe di sviluppo biologico e mentale di ogni individuo. Tale concetto si basa sulla constatazione che il bambino, per raggiungere la maturità, passa attraverso tutti gli stadi dello​​ ​​ sviluppo.

1. Alcuni pedagogisti ed educatori hanno espresso punti di vista diversi a proposito dello stato di r.​​ ​​ Piaget basa la sua teoria dell’apprendimento sul concetto di r., ma nel suo approccio allo sviluppo non enfatizza eccessivamente gli stati di maturazione e di r. dato che evidenzia come, dopo i primi mesi di vita, la maturazione sia marginale nei suoi effetti mentre l’esperienza è ciò che conta. Secondo Piaget, lo sviluppo attraverso fasi o tappe intellettuali coincide necessariamente con le esperienze concrete vissute dal soggetto e da ciò si deduce che lo stato di r. non avviene passivamente, ma va stimolato attivamente e che è compito dell’insegnante proporre attività situate ad un livello sopra qualunque stato di r. ci si trovi davanti. Secondo la​​ ​​ Montessori, i periodi di «sensitività» corrispondenti a particolari età esistono quando l’interesse e le capacità mentali del soggetto-bambino sono adatte ad acquisire nuove conoscenze come quella dei colori e del linguaggio.

2. Nell’ambito della scuola, spetta all’insegnante scoprire, per ogni alunno, il livello di r. all’apprendimento e, affinché questo abbia luogo, disporre i tempi, i metodi e i materiali. Il concetto di r. è utilizzato in riferimento all’apprendimento della lettura che prevede un periodo ottimale d’inizio dai 5 anni e 6 mesi ai 6 anni e 6 mesi. Nonostante la relativa certezza sulla r. del periodo citato, è necessario verificarla per ogni soggetto.

Bibliografia

Bybee R. W. - R. B. Sound,​​ Piaget for educators, Columbus (Ohio), Charles E. Merrill Publishing Co, 1990; Pianta R. C. - M. J. Cox - K. L. Snow (Edd.),​​ School r.,​​ early learning and the transition to Kindergarten, Baltimore (MD), Brookes, 2007.

C. Cangià




RECUPERO

 

RECUPERO

Il termine r. è utilizzato spesso in contesti medico-sanitari nei quali i campi possono essere quelli della fisiologia, della psicologia clinica o della memoria (Galimberti, 1992). Più in generale esso è alla radice di tutti quegli interventi che si utilizzano per portare la persona a riattivare funzioni o operazioni parzialmente deteriorate o mal funzionanti.

1.​​ R. e rieducazione.​​ Nel contesto​​ sociale​​ si parla anche di rieducazione intendendo tutta una serie di interventi ritenuti necessari per riportare il soggetto a riappropriarsi del suo itinerario di crescita in modo più adeguato. Abitualmente quindi si fa riferimento soprattutto a un soggetto in età evolutiva, che sta adottando comportamenti non in sintonia con le norme vigenti nel suo contesto sociale e che quindi deve imparare a comportarsi in modo diverso da come, abitualmente o sporadicamente ma in modo compromettente, fa. In questo processo di riattivizzazione delle proprie energie, la parola rieducazione sottolinea l’intervento dall’esterno, mentre, più opportunamente, il termine r. esprime sia l’operazione di stimolo di un agente esterno che il riattivarsi delle energie compiuto dal soggetto a partire dal suo interno. Il percorso di r. sociale dovrebbe tenere conto dei bisogni dei giovani, dell’organizzazione complessiva della società, della qualità delle relazioni sociali, della presenza di strutture intermedie di socializzazione quali la scuola, le associazioni, i servizi sociali, della capacità degli adulti di trasmettere sentimenti, mete, obiettivi e modelli di identificazione e soprattutto della loro capacità di interagire dinamicamente con i giovani. Un tempo il mezzo privilegiato erano le case di rieducazione ampiamente criticate per il loro effetto stigmatizzante e per la logica della repressione e della esclusione (Goffman, 1968). Da allora si assiste a una molteplicità di interventi intesi ad attivare il percorso di r. del minore senza toglierlo dalla comunità di vita e aiutando lui e gli adulti ad assumere le proprie responsabilità. Perché l’intervento da potere sociale dell’adulto diventi aiuto per il giovane viene fatto veicolare su un terreno meno assistenziale e più educativo.

2.​​ R. e ambienti educativi.​​ Le strutture educative sono quindi ipotizzate come differenziate sul bisogno dei​​ ​​ minori. Ogni Paese sta superando il sociale-giuridico per pensare gli interventi in terreni più agili del privato-sociale. Le aree di intervento si allargano comprendendo l’area della socializzazione, quella del lavoro e della formazione professionale, e quella più specifica della emarginazione e della​​ ​​ devianza. I servizi si moltiplicano e i tipi di intervento cercano di rispettare una priorità che dovrebbe assicurare meglio la realizzazione degli obiettivi educativi. In caso quindi di necessità viene proposto nell’ordine: l’affido familiare, le comunità o gli istituti. Questi ambienti educativi sono molto articolati e molteplici. Ogni Paese avvalendosi delle proprie tradizioni cerca di modularli tenendo conto (almeno come tensione ideale) della finalità pedagogico-educativa, rispettando possibilmente il ruolo della​​ ​​ famiglia che non andrebbe deresponsabilizzata, inserendo personale educativo e proponendo una giusta flessibilità.

3.​​ Interventi alternativi al carcere.​​ Rimanendo nell’area europea segnaliamo alcuni interventi proposti come alternativa al​​ ​​ carcere. In​​ Francia​​ dal 1-12-89, non è più possibile la detenzione dei minori infrasedicenni. Per quelli con età maggiore oltre alla detenzione sono state introdotte tre misure alternative: «il rinvio della pronuncia della pena», il «lavoro di interesse generale (Tgi)» e la «mediazione-riparazione». Interessante quest’ultima soluzione che consiste nel non far comparire il giovane davanti al giudice minorile, ma nel fargli prendere coscienza dell’esistere di una legge penale, del suo contenuto e delle conseguenze della trasgressione nei confronti della vittima e della società. Il diritto minorile​​ tedesco,​​ invece, è caratterizzato dal principio dell’educazione, nel tentativo di mettere in secondo piano il concetto di punizione. Vengono utilizzate come misure alternative alla detenzione, solo per i reati meno gravi, le «misure alternative ambulanti» (es. obbligo di seguire lavori non remunerati di utilizzo sociale, pagare una multa a favore di un’istituzione sociale, risarcire la vittima, presentare le proprie scuse, evitare certi luoghi o talune persone, ecc.). Per quanto riguarda i reati più gravi sono state sviluppate le «nuove misure ambulanti» che comprendono i corsi di rieducazione sociale in cui un gruppo di minori discute insieme ad un operatore sociale di argomenti importanti che riguardano la loro situazione, i corsi di rieducazione specializzati per il r. dei conflitti, destinati in particolare a coloro che hanno la tendenza al maltrattamento ed alla violenza, la presa in carico singola da parte di un istruttore che si occuperà delle difficoltà familiari e / o sociali del giovane, ed infine la mediazione tra autore e vittima del reato che ha come scopo principale l’obiettivo di placare in prima persona i partecipanti al conflitto generato. Per ultimo, l’organizzazione penale minorile utilizzata in​​ Scozia​​ ed in​​ Inghilterra​​ è basata sull’uso di «sistemi di ascolto dei minori» con l’obiettivo di decidere se un minore che abbia commesso un reato, che si trovi in uno stato di abbandono o vittima di una violenza, abbia bisogno di un intervento delle autorità. Tali sistemi di ascolto sono una specie di Tribunale Informale in cui i componenti della struttura, i minori stessi, i genitori e gli operatori sociali discutono insieme del problema portato da uno dei minori e con una commissione che rappresenta lo Stato propongono interventi adeguati. Anche in​​ Italia,​​ soprattutto dopo il DPR 448 / 88, la tendenza è quella di utilizzare il carcere come estremo rimedio. Misure alternative, seguendo un po’ l’andamento delle soluzioni proposte negli altri stati europei, sono la «messa alla prova» e la «conciliazione con la vittima». Significativa ormai è la tendenza a utilizzare risorse educativamente più rilevanti come l’inserimento del ragazzo in comunità educative (comunità alloggio, case famiglia, gruppi appartamento, comunità di accoglienza, cooperative di lavoro) con adulti in grado di aiutarlo a riappropriarsi di competenze più adeguate alla sua crescita. Ogni comunità ha il suo progetto educativo (​​ progettazione educativa) che tiene conto delle indicazioni generali imposte dagli standard regionali o nazionali, dei principi di riferimento a cui si ispira il gruppo educativo e della metodologia ritenuta adeguata ai fini proposti. Si può quindi concludere affermando che in Europa si è passati da un «modello punitivo retributivo» a un «modello rieducativo trattamentale» e si sono poste ormai le basi per impostare il r. su un «modello riparativo conciliativo».

4.​​ Il​​ r. scolastico.​​ Una parte importante del r. viene riservata al​​ r. scolastico​​ in quanto la​​ ​​ scuola occupa il minore per molte ore del giorno e costituisce un fattore a volte determinante della sua crescita. Variabili significative sono quelle relative all’​​ ​​ apprendimento, all’​​ ​​ insegnamento e all’​​ ​​ insuccesso scolastico.

Bibliografia

Goffman E.,​​ Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,​​ Torino, Einaudi, 1968; De Leo G. - A. M. Dell’Antonio,​​ Nuovi ambiti legislativi e di ricerca per la tutela dei minori,​​ Milano, Giuffré, 1993; Cavallo M. (Ed.),​​ Le nuove criminalità: ragazzi vittime e protagonisti,​​ Milano, Angeli, 1995; Severi V.,​​ Insegnamento e apprendimento in difficoltà. Ricerca e azione educativa di fronte all’insuccesso scolastico,​​ Torino, UTET, 1996; Stella P.,​​ Difesa sociale e rieducazione del minore,​​ Padova, CEDAM,​​ 2001; Scardaccione G.,​​ Il minore autore e vittima di reato. Competenze professionali,​​ principi di tutela e nuovi spazi operativi, Milano, Angeli, 2007.

L. Ferraroli




REGISTRO

 

REGISTRO

È un libro o quaderno che serve da strumento per la documentazione della vita scolastica in generale e della classe in particolare.

1. Esistono diversi tipi di r. utilizzati nella scuola: oltre a quelli di carattere amministrativo (r. contabili, r. delle assenze di tutti gli addetti all’istituto, r. delle tasse pagate e degli esoneri, r. di carico e scarico dei diplomi rilasciati, r. partitario delle entrate e delle spese) e quelli dei verbali delle adunanze dei rispettivi organi collegiali, ce ne sono altri relativi agli alunni, quali: r. annuale degli alunni («r. di classe»), r. degli esami, delle prove e dei voti di esame, «scheda di valutazione»,​​ ​​ «portfolio», ecc.

2. Oggi, secondo il concetto pedagogico sia di​​ ​​ valutazione che di​​ ​​ organizzazione scolastica, alcuni r. assumono un’importanza particolare, quali il «r. di classe», il «r. del professore». Quest’ultimo serve propriamente per l’annotazione dell’osservazione sistematica che questi fa nei riguardi dei singoli alunni durante le ore di lezione, per la raccolta e documentazione dei risultati della valutazione continua degli alunni attraverso le prove orali e / o scritte della verifica. Tale tipo di r. ha un carattere anche narrativo e può presentare diverse tecniche di osservazione quali liste di controllo e scale di classificazioni. Questi tipi di r. possono avere, a seconda dei Paesi, una forma​​ standard​​ stabilita dallo stesso organismo nazionale incaricato dell’istruzione scolastica.

3. Infine, il termine r. nell’ambito scolastico viene usato a volte per indicare mezzi didattici di vario genere, quali ad es. i diversi timbri della voce che un insegnante può variare, o il tipo di canale comunicativo che si adotta nel processo didattico.

Bibliografia

Giannarelli R. - G. Trainito,​​ Compendio della legislazione sull’istruzione secondaria,​​ Firenze, Le Monnier, 1992; Pellerey M.,​​ Le competenze individuali e il portfolio, Milano, RCS, 2004.

H.-C. A. Chang




RELATIVISMO ETICO

 

RELATIVISMO ETICO

Un certo​​ pluralismo etico​​ è sempre esistito nel mondo dell’uomo. Spesso si radica in un più vasto pluralismo culturale e, dati gli inevitabili rapporti esistenti tra etica e religione, si accompagna a un certo pluralismo religioso che non raramente è sfociato nel passato (ma in parte tuttora) in forme di conflittualità e pratiche di imperialismo religioso. Forse anche per evitare queste forme di conflitto, si sta diffondendo l’idea che ogni forma di convinzione morale debba avere uguale diritto di presenza nella società globale in cui viviamo. Questa tolleranza sbocca facilmente in un vero e proprio r.e.

1. La diversità delle opinioni etiche non è più vista come un​​ minor male, magari superabile solo parzialmente e lentamente, attraverso un dialogo franco e sereno, ma addirittura come una ricchezza e quindi come un valore. È facile vedere come questa tendenza, mentre sottolinea il ruolo della coscienza e delle convinzioni personali nel vissuto etico e religioso, minaccia la serietà del vissuto etico: se tutte le forme di pensiero morale, per quanto diverse e perfino contraddittorie, fossero ugualmente valide, nessuna di esse potrebbe arrogarsi il privilegio della verità; sarebbe come dire che tutti le affermazioni morali sono sempre discutibili e rifiutabili. Mentre il pluralismo etico invita alla ricerca e al dialogo, fosse pure animoso, il r.e. abbatte le fondamenta stesse del pensiero morale.

2. Ed è facile vedere come il r.e. si riveli minaccioso, in un mondo in cui l’umanità può, con una possibile guerra nucleare totale, o anche solo con il saccheggio della natura, distruggere la sua stessa sopravvivenza. Nelle sue forme estreme, il r. morale finisce per negare serietà e carattere obbligante a qualsiasi affermazione etica. Per questo, non sono mancati pensatori che hanno cercato di elaborare un’etica dotata di validità universale, capace perciò di essere accettata da tutti. E, poiché alla radice di o almeno collegato con il pluralismo etico si trova spesso il pluralismo delle religioni, una simile forma di pensiero morale dovrebbe essere valida a prescindere da ogni riferimento al mondo del divino, e fondarsi quindi solo su principi di ragione per sé evidenti e perciò, almeno potenzialmente, universali. Una simile forma di pensiero morale vorrebbe essere, ad es., quella fondata sul cosiddetto​​ principio di reciprocità,​​ che impegna il soggetto a comportarsi con gli altri come egli vorrebbe che essi si comportassero con lui. Questo principio (già presente peraltro nell’evangelico «ama il prossimo tuo come te stesso») è il contenuto del cosiddetto «imperativo categorico» che sta alla base dell’etica kantiana e che è stato ancora recentemente ripreso nella «teoria della giustizia» di J. Rawls e nell’«Etica della comunicazione» di J. Habermas e O. Apel, come fondamento di un’etica universale. Altri tentativi recenti di dare fondamento stabile a un’etica universale tendono a privilegiare l’urgenza di salvare la vita sulla terra dal pericolo incombente di una catastrofe ambientale: così ad es.​​ Il principio responsabilità​​ di H. Jonas.

3. Si noti come nelle diverse «teorie della società» ideale che, dall’Illuminismo in poi, attraversano non solo la storia del pensiero ma anche la prassi politica del nostro tempo, sia sempre inclusa, se pure magari non esplicitata, una qualche forma di pensiero morale che aspira a un consenso universale. Il credente guarda con interesse a queste forme di pensiero morale, riconoscendo in esse una risposta al bisogno di certezze etiche, che nasce dal cuore dell’uomo e dalle stesse esigenze della convivenza sociale, a livello mondiale. E tuttavia non ci si può nascondere la radicale insufficienza di tutti questi tentativi. Essi sono infatti privi di una vera efficacia motivante. La loro attuazione pratica esigerebbe quel supplemento di motivazione che solo qualcosa di equivalente a una fede religiosa potrebbe dare. Ora una tale unanimità motivazionale non appare ancora all’orizzonte dell’umanità.

4. Per il cristiano, una realtà così complessa e contraddittoria rappresenta una sfida: egli ritiene infatti di possedere un insieme di certezze che possono costituire il nucleo portante di un’etica universale. Per questo egli si sente chiamato ad attuare nella propria vita l’impegno morale del Vangelo, in tutta la sua serietà, e perciò in maniera esemplare e contagiosa, così come esigito dalla sua fede. Compito dell’educazione morale cristiana, attuata sia nella famiglia credente, che attraverso l’azione diretta della Chiesa è proprio anche quello di creare nell’educando credente una simile percezione di responsabilità, in certo modo universale.

Bibliografia

Gründel J.,​​ Mutabile e immutabile nella teologia​​ morale, Brescia, Morcelliana, 1976;​​ Rippe K. P.,​​ Ethischer Relativismus,​​ seine Grenzen,​​ seine Geltung, Paderborn, Schöning,​​ 1993; Harnan G.,​​ Moral relativism and moral obiectivity, Cambridge Mass., Blackwell, 1996; Corbi E.,​​ La verità negata. Riflessioni pedagogiche sul r.e., Milano, Angeli, 2005.

G. Gatti




relazione di AIUTO

 

AIUTO: relazione di

Si parla di relazione di a. ogni qualvolta si verifica un incontro tra due persone una delle quali è in condizioni di difficoltà e l’altra è in possesso delle competenze e degli strumenti necessari per agevolarne il superamento. In tal senso, la relazione di a. può essere definita come un processo dinamico nel quale una persona è assistita per operare un adattamento personale ad una situazione nei confronti della quale non è ancora riuscita ad adattarsi. Aiutare, infatti, deriva dal lat.​​ adiuvare (ad + iuvare)​​ ossia arrecare giovamento.

1. La situazione di difficoltà può essere di diversa natura: fisica, psicoemotiva, sociale, comportamentale, ed è sperimentata da chi ne è portatore come una condizione non soddisfacente, che incide sulla qualità della sua vita e dei suoi rapporti con l’ambiente. Colui che aiuta ha il compito di comprendere il problema nei termini in cui si pone per quel particolare individuo in quella particolare situazione, per poi aiutare l’individuo stesso ad evolvere personalmente nel senso di un miglior adattamento personale e sociale. Possiamo avere relazioni di a. di tipo informale (relazioni amicali, familiari, di vicinato) e relazioni di a. di tipo formale-professionale (relazioni insegnante-allievo; medico – paziente; sacerdote – fedele, ecc.). L’a. fornito, all’interno di queste relazioni può assumere diverse forme: sostegno emotivo, informativo, strumentale, valutativo. Alla luce di quanto espresso la relazione di a. viene a configurarsi come un’interazione asimmetricamente dipendente, in quanto una persona è nella posizione del «dare», l’altra è nella posizione del «ricevere». Il potere di influsso è, così, sbilanciato a favore di chi presta a. Sta quindi a quest’ultimo non abusare del potere che la situazione e il suo ruolo gli conferiscono e di agevolare la comunicazione nell’altro e a favore dell’altro.

2. Una metodologia particolare della relazione di a. è il colloquio di a. messo a punto da Rogers (1970). L’idea di fondo del colloquio di a. è che il miglior modo di offrire sostegno alla persona in difficoltà, non è suggerire soluzioni o prescrivere comportamenti da attuare, quanto piuttosto aiutare la persona stessa a comprendere meglio la sua situazione per giungere poi a riconoscere ed attivare risorse cognitive, emotive e comportamentali che ne consentono una migliore gestione. A tale riguardo, la cura degli aspetti comunicativi e relazionali assume un grande rilievo. In particolare, a colui che presta a. si richiede di: evitare interventi direttivi (consigliare, prescrivere, rassicurare, valutare, interpretare) per lasciare spazio a forme di supporto verbale non direttive che facilitino l’autoesplorazione e l’autocomprensione (riformulare, rispecchiare, chiarificare); creare un ambiente non ostacolante; mostrare attenzione, calma e disponibilità; modellare il proprio comportamento su criteri quali la parità e il rispetto, la dignità altrui e la tutela dei reciproci diritti; trasmettere comprensione emotiva. Inoltre, poiché l’individuo che si trovi coinvolto in una relazione di a. con un altro individuo in posizione di bisogno pone se stesso in una situazione non priva di rischi (coinvolgimento emotivo, spersonalizzazione, induzione di aspettative irrealistiche), è necessario che egli disponga di alcune condizioni personali quali: consapevolezza di sé, contatto con le proprie emozioni ed esperienze, autocontrollo, responsività.

Bibliografia

Rogers C. -​​ G. M. Kinget,​​ Psychothérapie et relations humaines: théorie et pratique de la thérapie non-directive, Louvain, Publications Universitaires, 1969-1971; Rogers C. R.,​​ La terapia centrata sul cliente,​​ Firenze, Martinelli, 1970; Carkhuff R.,​​ L’arte di aiutare,​​ Ibid., 1997; Rogers C. R.,​​ Terapia centrata sul cliente, Firenze, La Nuova Italia, 1997; Bruzzone D.,​​ Psicoterapia e pedagogia in Carl R. Rogers. Una ricerca sui contributi dell’approccio centrato-sulla-persona all’educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 447-465; Colasanti A. R. - R. Mastromarino,​​ L’ascolto attivo, Roma, IFREP (1999); Egan G.,​​ The skilled helper: a problem-management and opportunity-development approach to helping, Pacific Grove, California, Brooks-Cole, 2002; Di Fabio A.,​​ Counseling e relazione di a.,​​ Firenze, Giunti, 2003.

A. R. Colasanti




RELIGIONE

 

RELIGIONE

«Il più sicuro sostegno, la suprema dignità, la maggiore ricchezza, la più perfetta serenità di un uomo si fondano sulla r., cioè sul rapporto con la realtà ultima e più profonda» (Heiler, 1985, 9). Quest’affermazione di un grande studioso della r. trova nella​​ ​​ cultura attuale affermazioni di segno contrario: anche sull’onda dell’​​ ​​ ideologia la r. è spesso considerata con sospetto, accusata di alienare e illudere. Resta il fatto che la r. accompagna il cammino dell’uomo e lo sostiene in quel confronto mai risolto con il mistero che l’avvolge con il destino che l’attende. La sua valenza educativa nel bene e nel male resta incomparabile.

1.​​ Il​​ termine e l’uso consueto nella tradizione classica.​​ Già nell’antichità precristiana la r. designa il rapporto con il sacro, con il​​ numen.​​ Anzi la r. dice appunto la profonda riverenza, il turbamento di fronte al divino, alla sua misteriosa azione. Questo è vero per l’antichità classica: Cicerone vede nella r. «l’accurata osservanza di tutto ciò che attiene al culto degli dei» (De natura deorum,​​ 2, 72); questo atteggiamento è vero anche per la tradizione ebraica: a Mosè è ingiunto di togliersi i calzari per avvicinarsi al misterioso roveto ardente (Es 3,5). La tradizione cristiana ha preferito l’interpretazione di Servio che fa derivare la r. da​​ religare​​ come un unire di nuovo ciò che era separato.​​ ​​ Agostino dà ampia risonanza a quest’accezione perché interprete puntuale della sua dottrina della grazia, del peccato e in particolare del peccato originale. Resta comunque il fatto che la r. si porta obbligatoriamente sul doppio versante: del mistero, dell’arcano, della trascendenza; e dell’atteggiamento umano di ricerca, di trepidazione, di sgomento, che ne deriva.

2.​​ La ricerca recente.​​ La ricerca religiosa come analisi specifica e differenziata del fenomeno religioso, è tuttavia piuttosto recente. In termini generali si può dire che accompagna la progressiva contestazione o la presa di distanza della cultura moderna dall’unicità della tradizione cristiana. In ambito filosofico e ideologico la provocazione più sconcertante è data dalla pubblicazione dell’opera di Feuerbach –​​ L’essenza del cristianesimo​​ (1841) – proprio in quanto la r. è ridotta a fenomeno umano. Alla fine del secolo scorso la spinta data dalla concezione evoluzionistica della scienza ha fortemente stimolato la ricerca religiosa; ha indotto a risalire alle origini della r., a misurarne il progressivo evolversi, spesso in un quadro di precomprensioni che cercavano conferma nell’analisi storica, etnologica, filologica. La stessa esigenza di verifica critica ha investito la tradizione biblica e ha spinto a ricerche vaste e accurate circa l’intero orizzonte religioso, specialmente del Medio Oriente. Successivamente il differenziarsi dei metodi di ricerca nell’ambito delle scienze dello spirito con Dilthey, l’esigenza di rigore della scuola fenomenologica hanno spinto a specificare la ricerca e quindi anche a moltiplicare le scienze di analisi del dato religioso. L’accentuazione portata sul fenomeno come dato umano ha naturalmente il suo rischio: denunciato con veemenza da tutta una corrente – la teologia dialettica – che con Barth ha richiamato risolutamente il primato del divino e della Parola, screditando la r. come radicale fraintendimento (Barth, 1989).

3.​​ La progressiva articolazione della ricerca sulla r.​​ Naturalmente non è questa la sede per seguire neppure nelle grandi linee il dibattito, diversificato nelle discipline che di fatto ormai sono impegnate a decifrare il fenomeno religioso.

3.1.​​ Si dilata l’orizzonte di ricerca.​​ Si possono richiamare in sintesi i diversi ambiti di ricerca collegandoli alle istanze educative che li accompagnano. Innanzitutto il progressivo distanziarsi della cultura moderna dalla tradizione cristiana e, nell’ambito stesso dell’occidente, l’irrompere di civiltà diverse con proprie tradizioni anche religiose di remota antichità forzano l’orizzonte della ricerca oltre il dibattito teologico-biblico. La storia delle r. suscita vasto interesse, confronto aperto sui metodi e sugli obiettivi: in particolare si impone il compito di decifrare i fenomeni complessi che accompagnano la r.; la fenomenologia della r. tende a darvi interpretazione unitaria e plausibile avvalendosi anche di metodologie che si affermano in campo storico e filosofico. Donde il dibattito così vivo negli anni sessanta sui reciproci apporti e limiti della storia e della fenomenologia; vivace anche per merito degli studiosi di prestigio internazionale che vi prendono parte (Heiler a Marburgo, Bianchi in Italia, Van der Leeuwe in Olanda).

3.2.​​ Molteplicità e articolazione delle scienze della r.​​ Attualmente si va affermando la consapevolezza che l’interpretazione della r. rende indispensabile l’apporto concertato di molteplici scienze che si portano sul versante ermeneutico: tendono cioè a dare un’interpretazione unitaria e al fenomeno religioso (Eliade, Panikkar, Ries...) e al linguaggio che lo esprime (Marcel, Ricoeur, Ladrière...). L’attenzione portata sul soggetto in ambito educativo – recente svolta antropologica – ha suscitato ricerche vaste e articolate nell’ambito della psicologia religiosa. Così lo scadimento della pratica tradizionale religiosa, la perdita di rilevanza del «sacro» e la conseguente crisi delle istituzioni religiose, costituiscono quel fenomeno diffuso e complesso che va sotto il nome piuttosto generico di​​ ​​ secolarizzazione; una situazione in tanta parte inedita che ha dato incremento notevole alla ricerca socio-religiosa: alcuni studiosi sono notissimi in Italia (Acquaviva, Berger, Luckmann). Specificamente per quanto riguarda l’analisi dei processi interiori e degli itinerari educativi, le connessioni fra esperienza di fede e maturazione personale, studi interessanti sono venuti dalla​​ ​​ psicologia, soprattutto da quella di impronta umanistica, molto conosciuti in Italia (Allport, Erikson, Vergote, Godin). Più recentemente sono in atto ricerche circa le condizioni e i processi di maturazione specifica della fede a partire dall’idea di motivazione, dalla ricerca di significato sia in ambito psicologico che sociologico (Piaget, Keagan, Moran, Fowler, Oser, Nipkow). Per quanto concerne la ricerca filosofica un richiamo particolare meritano studiosi che hanno analizzato con novità e originalità l’esperienza umana nella sua dimensione specificamente religiosa.

4.​​ La dimensione religiosa nell’esperienza umana.​​ a)​​ L’istanza ermeneutica.​​ La riflessione attuale si è portata sul versante ermeneutico che analizza l’esistenza soprattutto nel rapporto interpersonale; si è concentrata sull’esperienza concreta, ne ha sondato lo spessore, ne ha perseguite le ramificazioni. Anche la ricerca religiosa si è sempre più consapevolmente orientata verso l’esperienza: ha inteso sondarne il mistero che la caratterizza, il richiamo alla trascendenza che l’attraversa. b)​​ I riferimenti qualificanti dell’analisi recente.​​ Schematicamente si possono delineare le tappe di una progressiva concentrazione sull’esperienza concreta per esplorarla nel presagio e legittimarla nell’opzione per la r. Risale a Kierkegaard la rivendicazione perentoria di una verità esistenzialmente significativa (Kierkegaard, 1962). Il rapporto religioso oltre che nella sua​​ verità​​ va verificato nella sua​​ significatività. A​​ conferire singolare risonanza al richiamo di Kierkegaard ha contribuito la svolta ermeneutica, impressa dalla riflessione heideggeriana. È sulla base di un certo progetto personale previo che si compie l’interpretazione della realtà (Heidegger, 1970). Precisamente la risonanza e il significato del rapporto religioso costituiscono l’orizzonte sollecitante di ricerca. Il contributo più significativo viene in proposito da G. Marcel. Egli argomenta da una considerazione attenta e vigile dell’esperienza umana, così come si lascia decifrare nella consuetudine anche quotidiana; si preoccupa di lasciarne affiorare tutte le ramificazioni e la complessità (Marcel, 1963). È in questa considerazione aperta, puntuale e consapevole che l’esperienza denuncia un margine insanabile di precarietà e appella alla trascendenza: ripiega nell’insignificanza, se non è «sostenuta dall’armatura del sacro». Il gesto e la parola umana sono in definitiva votati all’insignificanza, se non risultano ancorati ad un approdo definitivo: il rapporto con l’assoluto salva da una precarietà altrimenti irrecuperabile. Dunque una legittimazione tipicamente esistenziale, che porta la ricerca religiosa al suo nocciolo qualificante: il rapporto a tu per tu dell’uomo con Dio. E qui il maestro è indubbiamente​​ ​​ Buber. Gli stimoli che egli offre ad una rivisitazione dell’esperienza religiosa sono originali e spesso espliciti. Puntano soprattutto ad esplorare la novità e la ricchezza, l’intensità emotiva e il coinvolgimento esistenziale (Buber, 1993): del resto rimbalzati nella riflessione di altri interpreti contemporanei accreditati, quali Lévinas, Ricoeur, Ladrière. Il quadro dei riferimenti può opportunamente venir completato con l’analisi del processo interiore, che ragionevolmente sospinge la riflessione verso l’approdo religioso. Su questa traccia indicazioni preziose vengono offerte da M. Scheler, soprattutto in un’analisi rigorosamente conseguente dell’atto di fede. Secondo Scheler l’intuizione religiosa si afferma in una considerazione interiore, a verifica dello scarto fra aspirazione e risposta, che attraversa ogni esperienza umana autentica. Comprende tappe successive che vanno dall’insoddisfazione radicale che segna l’esistenza all’incontro con l’ultimo approdo, costituito da un Dio che entra in dialogo con l’uomo (Scheler, 1972). Il tema che a questo punto s’impone è quello del​​ ​​ linguaggio: come articolare ed esprimere un’esperienza che per tanti aspetti risulta al limite dell’interpretazione e della manifestazione; la consapevolezza della fede in particolare è alla ricerca di un proprio linguaggio che dia figura al rapporto interiore con Dio e ne consenta un’elaborazione razionalmente plausibile.

5.​​ La valenza educativa della r.​​ Anche la r. subisce l’urto spesso rude dei cambiamenti che attraversano il tessuto sociale e culturale. Nel giro di alcuni decenni è saltato il «sistema» che inquadrava l’esperienza religiosa. A torto o a ragione la r. ha perduto la sua indiscussa credibilità: lo studioso rileva di fatto un tracollo di plausibilità che, a livello educativo, rappresenta una considerazione decisiva (Milanesi, 1981). La risonanza che la r. assume nell’esperienza personale e collettiva non è esente da ambiguità. È fin troppo facile documentare strumentalizzazioni della r. nei rapporti interpersonali e comunitari. Proprio per la sua costitutiva esigenza di totalità e di radicalità la r. si presta a molti abusi. Bisogna riconoscere un’ambivalenza insita nel fatto religioso e una pluralità di emergenze che possono diversamente venir interpretate nelle molteplici situazioni storiche ed esistenziali. Già la tradizione biblica è portatrice di accentuazioni singolari su cui la ricerca anche filosofica ritorna. È nota la differenza fra tradizioni storiche e tradizioni profetiche nella r. biblica (Von Rad, 1974); il patto che soggiace alle tradizioni storiche vede Dio affiancarsi da alleato potente all’impresa epica di un piccolo popolo alla conquista della patria (Ricoeur, 1969) e colora la r. di un singolare rapporto di alleanza, stabilito quasi alla pari fra Israele e il suo Dio. Le tradizioni profetiche raccolgono più l’istanza interiore; il rapporto di intimità, guardano a Dio come all’amico e al confidente; ne presagiscono la presenza nei grandi segni sponsali e familiari, privilegiano il simbolo della paternità, nella ricerca recente reinterpretato perfino sulla traccia della riflessione psicoanalitica (Vergote, 1967). Altra ambivalenza è data dal riferimento che la stessa tradizione religiosa privilegia. C’è una tendenza a rifarsi alle origini, a garantire stabilità e sicurezza con una fedeltà al passato che può diventare anche spinta alla conservazione e resistenza al processo irrinunciabile della storia. Bergson ha visto bene quando ha voluto distinguere una doppia matrice della r.: quella statica e quella dinamica; ed è precisamente nell’analisi della risorsa innovativa​​ ​​ della matrice dinamica​​ ​​ che Bergson rileva la spinta più alta al processo di maturazione personale e collettiva che anima l’istanza religiosa. L’analisi del misticismo come fonte di rinnovamento per l’umanità gli ha dettato pagine suggestive e vere (Bergson, 1967). Nel contesto attuale è la distinzione fra sacro e profano che spinge la ricerca. L’ambito storico-esistenziale rappresenta un’esperienza indivisibile. La r. non può presumere uno spazio «separato», né appellarsi ad un ricorso «estraneo», pena l’emarginazione dalla percezione attuale che l’uomo ha di sé e della sua storia. Il perno della ricerca si porta allora sulla funzione e sul ruolo che la r. assume per il processo esistenziale e storico oltre che sulla concezione della trascendenza come dato interiore e costitutivo della vita.

Bibliografia

Acquaviva S. S.,​​ L’eclissi del sacro nella società industriale,​​ Milano, Comunità, 1961; Kierkegaard S.,​​ Diario,​​ Brescia, Morcelliana, 1962;​​ Marcel G.,​​ Le mystère de l’être,​​ Paris, Aubier, 1963; Bergson H.,​​ Les deux sources de la morale et de la religion,​​ Paris, PUF, 1967;​​ Vergote A.,​​ Psicologia religiosa,​​ Torino, Borla, 1967;​​ Ricoeur P.,​​ Le conflit des interprétations,​​ Paris, Seuil, 1969; Heidegger M.,​​ Essere e Tempo,​​ Milano, Longanesi, 1970; Feuerbach L.,​​ L’essenza del cristianesimo,​​ Milano, Feltrinelli, 1971; Allport G. W.,​​ L’individuo e la sua r.,​​ Brescia, La Scuola, 1972; Scheler M.,​​ L’eterno nell’uomo,​​ Milano, Fabbri, 1972; Rad G. von,​​ Teologia dell’Antico Testamento,​​ Brescia, Paideia, 1974; Milanesi G.,​​ Oggi credono così,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1981; Heiler F.,​​ Le r. dell’umanità,​​ Milano, Jaca Book, 1985; Barth K.,​​ L’epistola ai Romani,​​ Milano, Feltrinelli, 1989; Buber M.,​​ Il principio dialogico e altri saggi,​​ Torino, San Paolo, 1993; Trenti Z.,​​ Opzione religiosa e dignità umana, Roma, Armando, 2003; Filoramo G. (Ed.),​​ Storia delle r.​​ Mondo classico-Europa precristiana, Milano, Mondadori, 2005; Despland M., «R.», in​​ Dizionario delle r., Ibid., 2007.

Z. Trenti




RELIGIOSITÀ nuove forme

 

RELIGIOSITÀ: nuove forme

Espressioni e modalità di fede che si affiancano, e talvolta si contrappongono, alle religioni tradizionali.

1. La riscoperta del sacro, che sembra aver caratterizzato il tramonto del XX sec., è stata accompagnata dalla proliferazione di movimenti religiosi di varia matrice. Da un lato, infatti, si è assistito al sorgere di movimenti all’interno delle religioni tradizionali, che non tendevano a contrapporsi ad esse, ma anzi ne favorivano la purificazione e la trasparenza sia nel messaggio che nelle forme di aggregazione e di formazione, sgorgando da un autentico carisma e avendo come filo conduttore la comunione sincera fra i membri. Dall’altro lato, si è notato con sempre maggior frequenza il nascere di movimenti – tra i quali occorre collocare anche quelli di natura magica – che tendono a porsi in alternativa alle religioni localmente più diffuse e in particolare a quella cattolica, manifestando un atteggiamento talvolta coercitivo e ricorrendo a sollecitazioni non sempre oneste, che provocano disunioni familiari e alienazione ingiustificata dei propri beni.

2. All’origine di entrambe queste nuove forme di r. sembra che vada collocato il fenomeno della​​ ​​ secolarizzazione, che è caratterizzato da vari elementi che risultano essere nello stesso tempo negativi e positivi: straordinari progressi scientifici e tecnologici; conquista fiera della propria libertà; confinamento del dato religioso e del senso della vita nell’intimo della propria coscienza; svuotamento dei rapporti interpersonali e mancanza di calore umano; desiderio di fratellanza e di accoglienza; volontà di dominio delle energie non scientificamente controllabili; presunzione di possedere particolari doti di conoscenza e di padronanza della realtà.

3. Alcune forme della nuova r. non possono certamente essere chiamate cristiane, e neppure religiose, perché mancano in esse alcuni elementi che costituiscono in genere una religione: risposta al senso ultimo dell’esistenza; riconoscimento di un essere superiore e soprannaturale al di fuori e al di là del mondo (comunque egli venga chiamato); riti e pratiche che permettono di mettersi in contatto con tale essere soprannaturale. Ciò non toglie che esse abbiano di positivo il fatto di offrire uno spazio alla ricerca spirituale (anche se talvolta solo come segno di protesta e di insoddisfazione contro una società eccessivamente individualista e impersonale) e un ambiente caratterizzato da calore umano, da una buona accettazione personale, da spontaneità, da precise finalità da raggiungere.

4. Dinanzi a tali movimenti religiosi di «corto respiro», e che fondano le loro proposte sui «vuoti» lasciati dalle grandi religioni, c’è il rischio di assumere un atteggiamento di difesa negativa della propria fede e di un esasperato contro-proselitismo. Sembra, invece, necessaria un’azione positiva e capillare di formazione a tutti i livelli, accompagnata da una presentazione completa e aggiornata dei contenuti dottrinali e da concrete e impegnative iniziative di servizio. Ad essa va affiancata l’indicazione di modalità esistenziali che suscitino atteggiamenti di ascolto mutuo, di corresponsabilità nel creare comunità accoglienti e fraterne, di ricerca paziente e sincera delle risposte agli interrogativi sul senso ultimo della propria esistenza.

Bibliografia

Sudbrack J.,​​ La nuova r. Una sfida per i cristiani,​​ Brescia, Queriniana, 1988; Barker E.,​​ I​​ nuovi movimenti religiosi. Un’introduzione pratica,​​ Milano, Mondadori, 1992; Introvigne M.,​​ La questione della nuova r.,​​ Piacenza, Cristianità, 1993; Fizzotti E. - F. Squarcini (Edd.),​​ L’Oriente che non tramonta. Movimenti religiosi di origine orientale in Italia, Roma, LAS, 1999; Terrin A.N.,​​ Mistiche dell’occidente. New Age,​​ Orientalismo,​​ Mondo Pentecostale, Brescia, Morcelliana, 2001; Pavese A.,​​ Il libro nero della magia. Maghi,​​ truffatori,​​ ciarlatani & cialtroni in Italia oggi, Casale Monferrato (AL), Piemme, 2003; Id.,​​ Fede come terapia. Analisi psicologica della fede come strumento di guarigione fisica e spirituale in casi reali, Casale Monferrato (AL), Portalupi, 2005; Fizzotti E.,​​ Psicologia dell’atteggiamento religioso. Percorsi e prospettive, Trento, Erickson, 2006.

E. Fizzotti