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QUALITÀ DELL’EDUCAZIONE

 

QUALITÀ DELL’EDUCAZIONE

È il complesso delle caratteristiche che l’educazione deve possedere per soddisfare i bisogni degli educandi.

1.​​ La polisemia del termine q.​​ Parlare di q. vuol dire per un verso riferirsi all’insieme di elementi concreti che costituiscono la natura di qualcuno o di qualcosa. Ma nel termine italiano si aggiunge un’altra connotazione che dice il grado di capacità, di utilità, di perfezione di qualcuno o di qualcosa. Risulta subito chiaro che ci troviamo di fronte ad un termine polisemico e oggi, in aggiunta, la parola q. assume tanta rilevanza culturale nelle sue due grandi specificazioni di «q. della vita» e di «q. totale». Con la prima si viene ad indicare l’insieme delle condizioni ambientali, sociali, culturali, lavorative che concorrono a determinare una vita umanamente degna. Con la seconda si intende un modello di gestione aziendale volto a migliorare l’efficienza del sistema in relazione alla soddisfazione del cliente.

2.​​ La q.d.e. Di questa si può parlare a priori alla luce di un concetto ideale di uomo e di educazione In tale caso si tratterà di stabilire le condizioni essenziali che occorrono perché si realizzi il fine educativo, inteso come promozione umana della persona. In questa linea di rapporto tra azione e finalità educativa la q.d.e. appare in primo luogo come affermazione dell’integralità​​ dell’educazione contro ogni suo riduzionismo ed unilateralismo.​​ In secondo luogo, la q.d.e. si manifesta come ricerca di coerenza​​ dell’azione educativa, nel senso che essa tenga il passo con lo sviluppo personale dell’educando; ordini i suoi interventi secondo esigenze concrete dell’esistenza; commisuri se stessa all’importanza ed ai valori personali che sono in gioco, senza stravolgimenti per difetto o per eccesso, per sottovalutazione o sopravvalutazione; ricerchi le relazioni e i rapporti tra interventi educativi e tra fattori della personalità. Inoltre, la q.d.e. può essere intesa come pertinenza ed efficacia​​ dell’azione educativa, nel senso che sia adeguata al fine da raggiungere.

3.​​ La q. totale. È un modello organizzativo che nasce negli Stati Uniti nella prima metà del sec. scorso e si sviluppa poi nel Giappone per affermarsi infine in tutto il mondo.​​ Nell’industria, dove si è originata, la q. viene intesa in base a una prospettiva non più interna all’azienda, ma esterna e si caratterizza per i seguenti spostamenti di accento: la priorità passa alla produzione della q. e alla sua programmazione rispetto al controllo; la q. come soddisfazione del cliente diviene più importante della q. come assenza di difetti; non importa tanto raggiungere dei requisiti prefissati e statici quanto puntare al miglioramento continuo; la q. non va considerata come una prerogativa esclusiva degli addetti ai lavori, quanto come un valore per l’intera umanità. Di fronte ai gravi problemi dell’educazione, molti pensano sia utile rifarsi al modello della q. totale. Infatti, secondo alcuni, esso avrebbe una prima ricaduta positiva​​ .sull’educazione perché risulterebbe in piena consonanza con due principi pedagogici,​​ tipici della coscienza pedagogica contemporanea: 1) che l’educando occupa il centro del sistema formativo; 2) e che l’autoformazione è la strategia principe del suo apprendimento. Ma contrasta con questa prospettiva il fatto che nel modello della q. totale si tratta di cliente e il fine di tutto è il successo dell’azienda nel mercato e non certo il «successo formativo» del soggetto che apprende, cresce e si sviluppa per essere pienamente persona. L’approccio della q. totale fornisce pure una linea di azione chiara per assicurare la efficacia e l’efficienza del sistema educativo, in quanto la validità dell’offerta e dei processi è ottenuta perseguendo la q. Con la sua logica dei rapporti interni, consente di motivare i formatori più adeguatamente: infatti, la strategia della q. totale si pone l’obiettivo di soddisfare pienamente i bisogni del lavoratore ai diversi livelli oltre che quelli dei clienti. Dal punto di vista procedurale, poi, con il principio, secondo il quale si deve far bene le cose la prima volta, in quanto è molto più dispendioso dover intervenire in un secondo momento per correggere un’azione non riuscita, l’approccio della q. totale mette in risalto il «costo della non q.» inteso come spreco di risorse per riparare le carenze di ciò che è stato già realizzato male. All’opposto di questa situazione, vi è l’altro principio del miglioramento continuo che significa una sollecitazione costante a non accontentarsi mai dei risultati raggiunti per cui il progresso è sempre dietro l’angolo. Ancora più radicalmente è avanzata l’idea della prevenzione che significa superare la logica di contare gli insuccessi alla fine dell’intervento educativo per sostituirla con quella di prevedere fin dall’inizio le condizioni che consentono di evitare gli insuccessi. E tutto ciò è possibile perché la creatività​​ è presente in tutti almeno come capacità di dare risposta a una esigenza. Contribuiscono anche nella medesima direzione sia il formare le persone a risolvere i problemi con i dati e i fatti​​ piuttosto che sulla base di impressioni e di sensazioni, sia l’abituarle a ragionare per cause​​ anziché per colpe. La q. totale fa molto affidamento sulle sinergie, sulla concentrazione di forze. È la logica che sottostà ai circoli della q. e ai gruppi di miglioramento, nella convinzione che un gruppo di persone che opera unito ottiene senz’altro esiti più soddisfacenti di un medesimo numero di soggetti che lavorano individualmente. Al tempo stesso ai singoli è chiesto di sviluppare responsabilità e autocontrollo. Da questo punto di vista è decisivo il superamento della separazione tra chi decide, chi esegue e chi controlla a favore della logica che chi esegue deve controllare le proprie prestazioni e deve contribuire con la propria esperienza al miglioramento continuo del funzionamento dell’organizzazione, operando insieme. Ma rimane che la trasposizione del modello della q. totale in educazione non è senza​​ problemi. Oltre a quello già accennato sopra, resta che la soddisfazione del cliente non può essere l’unico criterio di validità di un intervento educativo. I bisogni dell’educando da soddisfare non sono sempre e solo quelli che egli percepisce, ma è necessario spesso «educare» la sua domanda. In altre parole la q. totale è esposta al pericolo di dare ansa al soggettivismo e al relativismo. Ma più radicalmente, è da precisare che l’educazione non si può ridurre al soddisfacimento dei bisogni dell’educando. In questo quadro assumono una particolare rilevanza​​ concetti​​ come: la certificazione della q., cioè l’accertamento della congruenza di una specifica realtà scolastica con un insieme di requisiti di q. definiti e verificati da soggetti di parte terza (agenzie accreditate alla certificazione); l’assicurazione q., cioè l’insieme delle azioni necessarie per dare adeguata confidenza che un prodotto o servizio corrisponda a determinati requisiti di q.; la normativa ISO 9000 che definisce q. e assicurazione q. e dà indicazioni per la scelta del sistema q. più adatto per ogni tipo di impresa e di prodotto.

Bibliografia

Negro G.,​​ Q. totale a scuola, Milano, Il Sole 24 Ore, 1995; Malizia G. - C. Nanni,​​ La q.d.e.: gli antecedenti e le teorie attuali, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 4, 580-606; Sallis E.,​​ Total quality management in education,​​ London, Kogan Page, 3 ediz 2002; Ceriani A. - P. Giaveri,​​ I ruoli della q. nella scuola, Milano, Angeli, 2005.

G. Malizia




QUESTIONARI

 

QUESTIONARI

Insieme di quesiti, più o meno elaborati psicometricamente, su uno o più argomenti. Il q. è una delle forme più antiche di​​ ​​ test di personalità, nato per integrare, standardizzare e rendere più oggettivo il​​ ​​ colloquio psichiatrico e psicologico.

1.​​ Tipi di q.​​ Attualmente, i q. sono il tipo di strumento più diffuso per la misurazione di tratti della personalità normale, di psicopatologie, di stati di disagio, di interessi scolastici e professionali, di atteggiamenti sociali. Le loro caratteristiche strutturali li rendono particolarmente adatti ad essere utilizzati nella fascia di età compresa fra i 10 e i 70 anni, con costi gestionali minimi perché si prestano bene alla somministrazione collettiva e computerizzata e consentono un massimo di automatizzazione nell’attribuzione del punteggio e nell’elaborazione dei dati. Per la misurazione di caratteristiche della personalità normale, i q. più usati in campo internazionale sono il CPI (California Psychological Inventory) di H. Gough, che misura numerose caratteristiche descritte in termini di vita quotidiana e attinenti a comportamenti che interessano il lavoro e la socialità; il 16 PF. di R.B. Cattell per adulti e le analoghe forme per adolescenti (HSPQ), ragazzi (CPQ) e bambini (ESPQ), che misurano la «sfera della personalità normale», con riferimento a 16 variabili (o poco meno, a seconda dell’età dei soggetti) individuate fattorialmente; q. riferiti alla teoria dei Big Five (Comrey, Caprara e coll.). Accanto ai q. appena citati, che ambiscono a fornire una descrizione completa della personalità, numerosi strumenti hanno ambito più ristretto. Per es. si trovano q. che misurano dinamiche psicologiche in riferimento a varie teorie, che valutano le difese dell’Io o altri costrutti desunti dalla teoria psicoanalitica, che si riferiscono al costrutto psicologico del Sé, che valutano il​​ ​​ locus of control, i ruoli sessuali, il machiavellismo, la personalità «di tipo A», l’aggressività ecc. Il disagio psicologico viene valutato da altri q., il più famoso dei quali è il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI, MMPI 2, MMPI A), che considera varie patologie, applicando sistemi di assegnazione del punteggio che si sono andati accumulando nel corso di mezzo secolo (le «scale aggiuntive» di cui esiste almeno qualche verifica di validità sono decine). Q. che valutano disturbi clinici e di personalità in riferimento a nosografie contemporanee (DSM-IV e ICD-10) sono il Millon Clinical Multiaxial Inventory Manual, distribuito solo nei Paesi anglosassoni, e le varie forme dell’italiano TALEIA. Molto numerosi sono i q. per la valutazione di patologie specifiche o di stati di disagio particolari: ansia di stato e di tratto, ossessività, paure, problemi, depressione, stress,​​ ​​ burn-out​​ ecc. I q. attinenti al disagio psichico per bambini sono pochissimi: si può citare il CDS e il CDI (depressione), lo STAIC, le Scale psichiatriche di autosomministrazione per fanciulli e adolescenti (SAFA), il Q. Scala d’Ansia per l’età evolutiva (ansia). Quasi esclusivamente per ragazzi e adolescenti sono invece i q. che misurano​​ ​​ interessi scolastici professionali. In Italia i q. d’interessi più utilizzati, soprattutto in orientamento, sono quelli di G. F. Kuder, di J. L. Holland e di M. Viglietti. Tra i q. che misurano i​​ ​​ valori, si possono citare lo «Studio dei valori» di Allport, Vernon e Lindzey e la «Rassegna dei valori» di Rokeach, ambedue prevalentemente usati a scopo di ricerca. I q. che misurano​​ ​​ atteggiamenti sono per lo più costruiti in funzione di ipotesi di ricerca particolari. Fra quelli di interesse più generale si possono citare il Parental Attitude Research Instrument (PARI) e la scala di «Dogmatismo educativo» di De Grada, Ercolani, Ponzo ispirata al costrutto di dogmatismo di Rokeach. I q. sono anche utilizzati a scopo esplorativo, per raccogliere informazioni di varia natura, in alternativa a interviste standardizzate. In questo caso, di solito la sofisticazione psicometrica degli strumenti è minima: viene curata solo la validità di contenuto e non viene compiuta una verifica preliminare sperimentale della validità.

2.​​ Le scale di controllo.​​ I primi q. si collocavano nella tradizione della psicologia introspettiva: si ipotizzava che la risposta al quesito fosse una descrizione autentica e attendibile della realtà intrapsichica. Presto questa ipotesi fu abbandonata, principalmente per effetto delle ricerche sulle distorsioni indotte dalla «desiderabilità sociale» della risposta. Vennero conseguentemente introdotte varie forme di controllo: alcune prevalentemente finalizzate a eliminare gli effetti della desiderabilità sociale (per es. «scelta forzata»), altre principalmente finalizzate a evidenziare l’entità e la presenza di distorsioni di vario tipo. Nell’approccio della «scelta forzata», introdotto nel 1953 da Edwards nel suo Personal Preference Schedule (P.P.S.: misura l’intensità relativa di dinamiche psichiche riferite alla teoria di Murray), ogni quesito contiene due affermazioni, che si suppone siano di pari desiderabilità sociale ma diverse qualitativamente: il soggetto deve scegliere quella preferita. Questo metodo, adottato in alcuni q. di interessi (per es. Kuder) estendendo il gruppo di affermazioni a tre per item, probabilmente elimina l’effetto della desiderabilità sociale, ma suscita altri inconvenienti. Il soggetto deve esprimere una valutazione di gradimento relativo sulle affermazioni che gli sono presentate: ogni risposta è una graduatoria, che non dice la distanza di gradimento fra un elemento e l’altro. Il punteggio che ne risulta viene detto «punteggio ipsativo» e possiede caratteristiche metrologiche peculiari (per es. non è appropriato su questi punteggi calcolare coefficienti di correlazione o analisi fattoriale), in quanto espressione di una graduatoria interna agli interessi del singolo soggetto e non misura oggettiva e «trasversale». Ad es., se un q. a scelta forzata sugli interessi sportivi viene sottoposto a ragazzi e ragazze, può darsi che Maria, a cui di sport interessa molto poco, metta comunque al primo posto il calcio; Gianni invece, interessato a tutti gli sport, mette al primo posto la pallacanestro, al secondo il ping pong e al terzo il calcio, ma l’interesse che Gianni ha per il calcio è certamente superiore all’interesse che per il calcio ha Maria, costretta a scegliere fra oggetti di cui non le importa gran che. La tecnica della scelta forzata è stata abbandonata da Edwards, che pure l’aveva introdotta per primo, nella più recente edizione del suo q. di personalità (1967). Più largamente diffuso è il ricorso a scale di controllo, rivelative di risposte «non autentiche» per l’una o l’altra ragione. I prototipi delle scale di controllo sono le scale L e F introdotte nella prima edizione del MMPI (1940), successivamente integrate dalla scala K. La scala L segnala la tendenza del soggetto ad autoelogiarsi, la F ad autodenigrarsi. La scala K, analogamente alla L, segnala la tendenza ad autoelogiarsi, ma si basa su affermazioni più «sottili», meno esageratamente assertive di perfezione. I protocolli che hanno punteggi molto più alti della media in L o F vengono considerati inattendibili e i punteggi nelle altre scale non sono interpretati. I punteggi nella scala K possono invece essere utilizzati per «correggere» i punteggi di altre scale. Quest’ultima prassi è lasciata peraltro alla decisione dell’interprete del q., dato che la validità della scala K è stata provata una sola volta, su un campione statunitense, circa sessanta anni fa e, per es. in Italia, non è stata mai sottoposta a verifica. Scale di controllo analoghe sono presenti nel CPI e, limitatamente alla L, in alcuni dei q. di Cattell e di Eysenck. Le scale L, F e K si basano su una stima di incongruenza fra risposte al q. e realtà osservata nella media di più campioni della popolazione. Altre scale si basano sulla «coerenza» tra risposte date allo stesso quesito o tra risposte date a quesiti di significato opposto, oppure sulla frequenza «abnorme» di un particolare tipo di risposta: moltissimi «Vero», moltissimi «Falso», moltissimi «Non so». Scale di questo tipo sono state introdotte nel MMPI-2 (1990) e nei TALEIA (2007). Nella seconda edizione del CPI (1987) vengono presentate delle equazioni, derivate da ricerche su campioni statunitensi, che consentono l’individuazione di tre tipi di scarsa affidabilità: a) Imbrogliare per sembrare migliori (Fake good), b) Carenza di validità per altri motivi, c) Risposte a casaccio contrapposte a imbrogliare per sembrare peggiori. Le scale di controllo sono uno dei punti di forza della diffusione dei q. rispetto ad altri tipi di strumento (per es. i test proiettivi) che danno per scontata sia l’assenza o l’impossibilità di inganno, sia l’assenza di risposte date «a casaccio». Allo stato attuale, non solo è stata invece largamente provata la possibilità di rispondere in modo ingannevole a qualsiasi tipo di test o d’intervista, ma sono anche sempre più diffusi «libri di testo», corsi di preparazione per rispondere ai test più usati nei concorsi e nelle perizie e addirittura guide per la contraffazione della propria calligrafia.

Bibliografia

Nunnally J. C. - I. H. Bernstein,​​ Psychometric theory,​​ New York, McGraw-Hill,​​ 31994; Weiss D. J. (Ed.),​​ New horizons in testing.​​ Latent trait test theory and computerized adaptive testing, London, Academic Press, 1983; Lanyon R. I. - L. D. Goodstein,​​ Personality assessment, New York, Wiley,​​ 31997; Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Id.,​​ I test in psicologia,​​ Bologna, Il Mulino, 2006; Roccato M.,​​ L’inchiesta e il sondaggio nella ricerca psicosociale, Ibid., 2006; Boncori L.,​​ TALEIA-400A,​​ Trento, Erickson, 2007.

L. Boncori




QUINTILIANO Marco Fabio

 

QUINTILIANO Marco Fabio

Vissuto tra il 35 / 40 e il 95 d.C., retore romano, n. a Calahorra in Spagna.

1.​​ Vita.​​ Dopo aver compiuto gli studi a Roma esercita in Spagna l’insegnamento della Retorica. Condotto a Roma dall’imperatore Galba nel 68, è il primo maestro di Retorica stipendiato dallo Stato. È pure educatore dei pronipoti dell’imperatore Domiziano. Corona il suo insegnamento con la pubblicazione della​​ Institutio oratoria, l’opera che gli assegna un posto di particolare importanza nella storia dell’educazione umanistica.

2.​​ L’ideale dell’oratore. Q. è uno dei più fedeli interpreti di quell’ideale di​​ Humanitas, che ha nell’Orator​​ il suo paradigma più completo, e che alla tradizionale​​ virtus romana​​ associa l’apporto determinante della​​ ​​ paideia greca.​​ Continua così la tradizione di cui fu grande maestro​​ ​​ Cicerone (che Q.,​​ Inst. 10,1,112, dice non più solo nome di una singola persona, ma della stessa oratoria). È importante il contributo di Q. per il concetto stesso di​​ Orator, vale a dire per la dignità, la figura culturale e morale, la missione che gli è affidata. In lui Q. vuol raggiungere, per quanto umanamente possibile, la perfezione della formazione («Oratorem​​ instituimus illum perfectum... qualis fortasse nemo adhuc fuerit»). Per questo torna ripetutamente sulla completezza della sua formazione, accentuandone singolarmente due aspetti, ritenuti inscindibili, che perciò entrano nella stessa definizione dell’Orator: quello culturale (vir vere sapiens), che fiorisce nell’arte oratoria (dicendi eximia facultas) e quello etico (omnes animi virtutes; ratio rectae honestaeque vitae); anzi con una esigenza prioritaria della componente etica, tanto da ritenere che la stessa oratoria o sia virtù, o non sia neppure oratoria. Rivendica così per l’Orator​​ alcune caratteristiche che, in particolare gli stoici, attribuivano ai filosofi. Ciò è visto anche come un’esigenza della missione sociale che, secondo Q., compete all’Orator​​ e che, con una certa enfasi, sintetizza così: «regere consiliis urbes,​​ fundare legibus,​​ emendare iudiciis». La sua concezione della dignità dell’Orator​​ e della stessa oratoria ci fa paragonare la posizione di Q. nella Roma del I sec. d.C. a quella di Isocrate nell’Atene del IV sec. a.C.

3.​​ La formazione dell’oratore. L’oratoria, così considerata, costituisce la meta dell’educazione nella quale Q. si sente personalmente impegnato. Passati i tempi della Repubblica, in cui l’impegno politico dell’oratore era più immediato, e la formazione avveniva (come ci dice Tacito,​​ Dial. 34) nel contatto con i più famosi oratori nel vivo della lotta (pugnare in proelio disceret), ora è la scuola la palestra di quella formazione. Ma, oltre che essere meta, l’oratoria, liberata dal formalismo e dedita ai grandi valori, è per Q. anche dotata di per se stessa di una eccellente forza educatrice. Proprio in questa dimensione educativa Q. ci lascia l’eredità più preziosa. Un primo rilievo da fare è la visione globale e unitaria della formazione dell’oratore, che porta Q. a valorizzarne tutte le fasi; per cui non si accontenta di presentarci la metodologia dell’insegnamento della Retorica, che pure occupa la maggior parte della​​ Institutio oratoria, ma si preoccupa anche della formazione precedente, come pure della fase ultima della vita dell’oratore, in cui, oltre a dar risalto all’influsso costante della sua saggezza, suggerisce anche un prezioso coronamento come educatore a sua volta dei giovani. In questo quadro unitario cogliamo l’originalità di Q. nell’importanza data all’educazione nell’infanzia, che vede come condizione indispensabile alla stessa formazione dell’oratore (minora illa sed quae si neglegas non sit maioribus locus​​ / Proem.). Nell’infanzia evidenzia la malleabilità della natura, la forza e la persistenza delle prime impressioni. Di qui l’importanza dei primi anni; la fiducia nelle capacità della natura (pater de nato filio spem optimam capiat); la ricerca anche di una metodologia adatta attraverso il gioco; la scelta, per qualità morali e culturali, delle persone che si occupano del bambino; la stessa istanza sull’importanza della vita familiare e dell’influsso che essa esercita sulla prima educazione, destinato a durare tutta la vita. La fiducia nella​​ natura​​ umana (di rado totalmente refrattaria all’azione dell’educazione) si associa alla considerazione dell’arte dell’educazione. Essa non può essere efficace se non basandosi sulle doti di natura in ogni singolo individuo. Conoscerle e adeguarvisi è compito del maestro. Nella​​ relazione​​ maestro-discepolo​​ va cercata anche la risposta di Q. al problema della disciplina: la formazione dell’oratore non può venire che dall’azione concorde del maestro e del discepolo. Ciò si estende a un altro settore, in cui Q. si mette intenzionalmente in contrasto con una prassi da molti giustificata: quella delle punizioni corporali. Vi si oppone energicamente non solo perché essa può ottenere l’effetto contrario a quello voluto (cioè provocare odio anziché amore allo studio); ma in considerazione della dignità personale dell’alunno («in aetatem infirmam et iniuriae obnoxiam nemini debet numium licere»). Osserva pure che ciò può dipendere dalla cattiva scelta dei maestri. Un ultimo rilievo circa la scuola è la preferenza da Q. attribuita alla scuola pubblica su quella familiare, per il vantaggio offerto dal confronto con altri compagni, per il diverso dinamismo della vita scolastica, per lo stimolo dell’emulazione usata anche come mezzo disciplinare.

4.​​ Incidenza e risonanza. L’influsso esercitato da Q. si estende a tutta la successiva pedagogia umanistica. A lui si ispira s.​​ ​​ Girolamo nella sua​​ Lettera a Leta sull’educazione della figliola Paola. In particolare costituisce un punto di riferimento privilegiato degli Umanisti rinascimentali nel loro ritorno alla classicità. Sulla sua​​ Institutio oratoria​​ si basa soprattutto​​ ​​ Guarino Guarini nella sua organizzazione della scuola umanistica del ’400.

Bibl: a)​​ Fonti: Q.,​​ Institutio oratoria. Ediz. con testo a fronte a cura di A. Pennacini, Torino, Einaudi Gallimard, 2001, 2 voll. b)​​ Studi: Cerruti F.,​​ Una trilogia pedagogica ossia Q.,​​ Vittorino da Feltre e don Bosco, Roma, Scuola Tip. Salesiana, 1908; Gerini G. B.,​​ Le dottrine pedagogiche di Cicerone,​​ Seneca,​​ Q., Torino, Paravia, 1914;​​ Cousin J.,​​ Études sur Quintilien, 2 voll., Paris, 1936; Bianca G.,​​ La pedagogia di Q., Padova, CEDAM, 1963;​​ Galino M. Á.,​​ Historia de la educación. Edades antigua y media, Madrid, Gredos, 1988.

M. Simoncelli




RABELAIS François

 

RABELAIS François

n. a Chinon nel 1494 - m. a Parigi nel 1553, umanista francese e critico dei costumi del suo tempo.

1. Ammiratore di​​ ​​ Erasmo, fa parte della generazione di umanisti come Agrippa,​​ ​​ Vives e Budé, che tentano di fissare le basi per l’educazione dell’uomo nuovo. La sua originalità brilla nel suo stile esilarante e sarcastico. R. utilizza la lingua popolare dei chierici erranti del basso​​ ​​ Medioevo. Attraverso i giganti protagonisti della sua famosa opera​​ Gargantua e Pantagruel​​ (1533-1564) ridicolizza l’educazione medievale impartita nelle scuole e nelle università. Gargantua fu educato da un famoso sofista della Sorbona chiamato Thubal Holofernes, che gli fece apprendere il​​ Donato,​​ il​​ Faceto​​ e l’Alanus in parabolis,​​ fino ai tredici anni. Con questi studi Gargantua divenne ogni giorno più pedante e vanitoso, cosa che non passò inosservata a suo padre. Quella educazione ottundeva la gioventù e non era utile all’apprendimento; la soluzione era cambiare sistema e iniziare la rieducazione di suo figlio. Il nuovo maestro Ponocrate gli fece un lavaggio del cervello per eliminare le conoscenze apprese in precedenza. Il suo programma era quello sostenuto da tutti gli umanisti del tempo: gr., lat., ebreo e arabo,​​ ​​ arti liberali (lasciando da parte l’astrologia), studio dell’Antico Testamento,​​ educazione fisica (equitazione, corsa, nuoto, scherma), storia e medicina gr., lat. e araba.

2. La pedagogia di R. era sostenuta dai grandi pedagogisti del suo tempo e dai metodi intuitivi che essi preconizzavano. La sua abbazia di Thélème, simbolo dell’utopia di R., che aveva come motto «Fai ciò che vuoi», preludeva ai principi naturalistici di​​ ​​ Rousseau. Eudemone, protagonista ideale dell’opera di R., educato secondo i suoi principi pedagogici, sa pensare con giudizio e parlare con buon senso; non è superbo, ma è sicuro delle sue idee e del suo modo di agire. Quando Gargantua lo conosce, si rende conto di non aver imparato a parlare e piange disperato, coprendosi il volto con il cappello: il tempo impiegato per la sua educazione era stato inutile e doveva cominciare di nuovo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:,​​ Oeuvres complètes, par M. Huchon, Paris, Gallimard,​​ 2002. b)​​ Studi: Giraldi A.,​​ R. e l’educazione del principe,​​ Milano, APE, 1954; Leonarduzzi A.,​​ F.R. e la sua prospettiva pedagogica,​​ Trieste, Tip. Moderna, 1966; Cooper R.,​​ R. et l’Italie,​​ Genève, Droz, 1991; Bajtin M.,​​ La cultura en la Edad Media y en el Renacimiento: el contexto de F.R., Madrid, Alianza, 2005.

B. Delgado




RAGIONAMENTO

 

RAGIONAMENTO

Se un tempo il r. umano è stato ordinariamente campo di indagine della riflessione filosofica oggi è diventato anche oggetto di studio della ricerca psico-pedagogica interessata a scoprire le modalità concrete e le strategie per migliorare le potenzialità soggettive del r.

1.​​ Il r. sillogistico.​​ Sebbene la capacità di r. sia molto complessa, variegata ed estesa, la ricerca si è focalizzata spesso sul r.​​ sillogistico​​ perché permette un esame più controllato delle capacità razionali dell’uomo. Il sillogismo è un r. che si compone di due premesse ed una conclusione e si è soliti evidenziare la distinzione esistente tra r. induttivo e deduttivo. Il primo è anche indicato come​​ reasoning up:​​ il processo mediante il quale da esempi o esperienze particolari si giunge ad affermazioni generali. Il secondo è descritto come​​ reasoning down:​​ un processo mediante il quale da premesse generali si giunge ad affermazioni particolari. Il sillogismo​​ deduttivo​​ è corretto se la conclusione è valida ovvero se questa è inclusa nelle premesse. Se le premesse sono vere anche la conclusione valida sarà vera. Se le premesse sono false anche la conclusione che è valida sarà falsa. Nel sillogismo deduttivo è necessario distinguere validità da verità della conclusione. Il r. sillogistico deduttivo può assumere tre diverse forme: categoriale, lineare e condizionale. I sillogismi​​ categoriali​​ sono chiamati così perché gli operatori di quantità (alcuni, tutti e nessuno) sono presenti sia nelle premesse che nella conclusione. I sillogismi​​ lineari​​ permettono di ordinare in modo chiaro e preciso più informazioni fornite in un modo concatenato. I sillogismi​​ condizionali​​ sono rappresentati da eventi che sono dipendenti o conseguenti al verificarsi di altri. Essi sono espressi mediante le proposizioni «se» e «allora». La prima parte del sillogismo è chiamata «antecedente»; la seconda «conseguente». Sull’interpretazione del modo in cui la mente giunge a delle conclusioni valide e sicure si sono sviluppate recentemente tre teorie: a) la mente umana sarebbe «naturalmente» fornita delle regole della logica formale (Rips, 1983); b) la mente agirebbe con regole inferenziali «sensibili al contenuto» o regole che fanno riferimento a «schemi di un ragionare pragmatico» (Cheng-Holyoak, 1985); c) la mente nel ragionare seguirebbe «modelli di rappresentazione del mondo» piuttosto che le strutture del linguaggio utilizzato per descriverlo (Johnson-Laird - Byrne, 1991).

2. Il processo di induzione.​​ È così pervasivo nella vita di ogni giorno che si può dire che molte delle nostre conoscenze siano conclusioni di induzioni. La capacità della nostra mente di produrre generalizzazioni è fondamentale al nostro vivere e agire: ci permette di categorizzare esperienze e situazioni diverse, di agire velocemente sulla realtà individuando immediatamente le cause, gli elementi comuni o i principi che regolano certi eventi. L’induzione richiede due processi: la generazione dell’ipotesi e la sua valutazione. Data l’indefinibilità del numero di osservazioni necessarie per raggiungere una certezza e l’impossibilità di effettuarle tutte, non si è mai certi che l’ipotesi formulata sia corretta e il pericolo di errore non può mai essere evitato. In particolare si sbaglia nell’individuare leggi generali perché: a) si adottano strategie che tendono più a confermare che a rifiutare le ipotesi; b) si tende a cercare informazioni coerenti con le proprie convinzioni; c) la contiguità temporale porta facilmente al rilevamento di una relazione tra due stimoli o due esperienze; d) spesso eventi inaspettati sono presi maggiormente in considerazione se sono simili, ma un numero piccolo di eventi simili inaspettati può non essere sufficiente a suggerire l’esistenza di una condizione rilevante; e) la conoscenza valida in un dato momento struttura e limita le ipotesi.

3.​​ Il r. informale.​​ Molto comune nella vita quotidiana (ma frequente anche in molte aree di ricerca) sembra essere l’uso di un modo di ragionare​​ indicato come r. di ogni giorno o r. informale​​ (cioè non secondo le regole formali di una logica). Tale modo si esprime in un’affermazione (tesi) e in una sequenza di ragioni (argomentazioni) che intendono provare l’attendibilità dell’affermazione stessa. Le ragioni costituiscono il «perché» del r., la tesi il «che cosa». Quasi mai un r. informale possiede tutte le ragioni a favore né tutte le ragioni hanno la stessa forza probante, né le ragioni sono immutabili. Per questo l’attendibilità o la verità della conclusione non è sempre universalmente accettata, né può essere imposta con la forza di verità. In questo senso Polya (1958) parla di «plausibilità» o «non-plausibilità» di un r. Con ciò non si afferma che essa non potrebbe essere vera o che non possa essere utilizzata perché attendibile fino a prova contraria o che una conclusione possa essere migliore di un’altra che non gode di giustificazioni altrettanto forti ed evidenti.

4.​​ L’educazione della capacità di r.​​ La ricerca fornisce alcuni orientamenti per educare le capacità di un ragionare logico: a) avere fiducia nella ragione educando ad essere corretti nel ragionare; b) esercitare al r. stimolando l’esame e la validità intrinseca delle ragioni che vengono portate per una tesi; c) dare rigore logico al r.; d) valutare attentamente il peso e la varietà delle ragioni; e) conoscere non solo le regole di una logica formale, ma anche quelle del r. in specifiche aree, ecc. Ciò richiede un paziente controllo ed esercizio.

Bibliografia

Polya G.,​​ Les mathématiques et le raisonnement «plausible»,​​ Paris, Villards,​​ 1958; Johnson-Laird P. N.,​​ Modelli mentali,​​ Bologna, Il Mulino,​​ 1983; Rips L. J.,​​ Cognitive processes in propositional reasoning,​​ in «Psychological Review» 90 (1983) 38-71; Cheng P. W. - K. J. Holyoak,​​ Pragmatic reasoning schemas,​​ in «Cognitive Psychology» 17 (1985) 391-416; Johnson-Laird P. N. - R. M. J. Byrne,​​ Deduction,​​ London, Erlbaum, 1991; Garnham A. - J. Oakhill,​​ Thinking and reasoning,​​ Oxford, Blackwell, 1994.

M. Comoglio




RAGIONE / RAGIONEVOLEZZA

 

RAGIONE / RAGIONEVOLEZZA

1. R. è termine dai molteplici, spesso contrastanti, significati: filosofico, teologico, pedagogico, scientifico, ecc. Dal punto di vista pedagogico si può parlare di educare sia al​​ ​​ ragionamento che alla ragionevolezza, ma, più in particolare, della funzione della ragionevolezza nel processo educativo. All’uno e all’altra si riferiscono più voci del dizionario: educare alla r. speculativa (nel significato classico-cristiano), cioè alla sapienza e all’amore e ricerca della sapienza (​​ filosofia), alla contemplazione (teoria); ed educare alla ragion pratica (nel significato classico-cristiano) (​​ prudenza,​​ ​​ saggezza).

2. Il termine ragionevolezza esprime qualcosa di contiguo al concetto di prudenza-saggezza. A rigore, però, vi si distingue quale concetto pedagogico piuttosto empirico, strumentale, esperienziale. Non a caso lo si trova adottato ed elaborato in chiave empiristica da​​ ​​ Locke nei​​ Pensieri sull’educazione​​ (1693) e assunto da un educatore militante, s. G.​​ ​​ Bosco, come uno dei tre principi fondamentali del​​ ​​ sistema preventivo: «Questo sistema si appoggia tutto sopra la r., la religione e sopra l’amorevolezza» (1877). In ambedue gli autori esso è trattato prevalentemente dal punto di vista metodologico: educare​​ con​​ ragionevolezza, ragionevolmente, più che educare​​ alla​​ ragionevolezza. Il secondo tipo di considerazione, semmai, può essere proprio di un tipo di educazione di ispirazione illuministica, prevalentemente inglese, come educazione a una morale, a una religione, a un cristianesimo «senza misteri», «razionale» e «ragionevole» (above reason​​ e​​ reasonable).

3. «Persuadere col ragionamento», «ragionar con i fanciulli» «creature ragionevoli», è il metodo che, secondo Locke, il padre dovrebbe praticare dopo che si sia assicurato la sottomissione del figlio con l’autorità. Non indica un «ragionare che muove da lontani principi», da adulti, ma l’adozione di​​ ragioni​​ su misura dei fanciulli, «adatte alla loro età e intelligenza, ed esposte con poche e semplici parole», «ovvie, al livello della loro mentalità e tali che essi le sentano e le tocchino con mano». Per questo, in sostanza, il mezzo «più semplice, facile ed efficace consiste nel porre sotto i loro occhi gli​​ esempi​​ di ciò che si vuole facciano o non facciano»,​​ «additati​​ nella condotta delle persone da loro conosciute e accompagnati da qualche​​ riflessione​​ sulla loro bellezza o sconvenienza» (Pensieri,​​ nn. 81-82).

4. Il discorso di don Bosco è teoreticamente meno elaborato ma contenutisticamente più ricco. La r.-ragionevolezza ispira diverse attività educative: a) «umanizzare» il giovane mediante il contatto concreto con i valori razionali e terreni: salute, istruzione, lavoro, inserimento sociale con precise capacità professionali e una sicura «onestà» personale e civile; b) creare solide «convinzioni» in campo religioso, morale, sociale, più pratico-vitali che astratte: pietà illuminata, controllo delle «passioni», ordine; c) «ragionare il giovane» con la fondatezza, l’essenzialità, la coerenza e la comprensibilità delle «motivazioni»; d) inoltre, «guadagnare il cuore del giovane», poiché il cuore, oltre che organo dell’amore e del volere, è principio dell’intendere e del comprendere; e) adottare metodi e mezzi educativi (disciplina, regolamenti, organizzazione della comunità educativa, interventi) ispirati a buon senso, semplicità, funzionalità, attenzione alle diversità delle «indoli».

Bibliografia

Sina M.,​​ L’avvento della r. «Reason» e «above reason» dal razionalismo teologico inglese al deismo,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1976; Pellerey M.,​​ La via della r.: rileggendo le parole e le azioni di don Bosco, in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 383-396.

P. Braido




RAMAKRISHNA Sri

 

RAMAKRISHNA Sri

n. nel 1836 a Kamarpukur, villaggio del Bengala - m. nel 1886 nel tempio di Dakshineswar (Calcutta), maestro spirituale indiano.

1. Nato come Sambhuchandra prende poi il nome di R. da «Rama», settima incarnazione di Vishnu e «Krishna» (o Krsna), ottava incarnazione di Vishnu; ambedue sono figure mitologiche dell’​​ ​​ Induismo e rappresentano il divino umanizzato. R. è uno dei personaggi più rilevanti del XIX sec. Il suo insegnamento eclettico risulta dalla penetrazione di varie esperienze mistiche ed appare sintesi riuscita dell’Induismo. R. sa appena leggere e scrivere quando a nove anni riceve il cordone braminico, cioè l’investitura che gli permette di celebrare il culto della famiglia. Successivamente diviene sacerdote.

2. Prima di diventare maestro spirituale, R. è il discepolo che segue scrupolosamente quanto esposto nei 64 principali libri dei Tantra, i testi canonici della setta induista di nome Sakta, e la disciplina della negazione, propria del sistema filosofico-religioso del Vedanta. Nell’aspirazione a Dio, si trova circondato da molti devoti ai quali non offre un sistema di insegnamento, bensì la spinta a condurre una vita intensa, fondata su solidi principi a cui si deve credere al di là delle alterne fortune. R. non ha lasciato testi scritti. I suoi insegnamenti sono stati trascritti e raccolti da discepoli fedeli, primo fra tutti​​ ​​ Vivekananda. Secondo R. tanto il monaco quanto l’uomo comune devono osservare la disciplina​​ ​​ yoga, la meditazione e la preghiera, intesi come mezzi per divenire esempi credibili e persistenti; nessuno può essere il guru di un altro uomo, solo Dio è il guru e il maestro dell’universo.

3. L’insegnamento di R. è uscito dai monasteri dell’India ed è in tutto il mondo motivo ispiratore di centri educativi, scuole, istituti di formazione, ospedali.

Bibliografia

Herbert J. et al.​​ (Edd.),​​ Alla ricerca di Dio,​​ Roma, Astrolabio, 1963; Chistolini S.,​​ R. Vivekananda Gandhi. Maestri senza scuola,​​ Roma, Euroma-La Goliardica, 1992; Isherwood C.,​​ R. e i suoi discepoli, Parma, U. Guanda, 2004.

S. Chistolini




RAPPORTO EDUCATIVO

 

RAPPORTO EDUCATIVO

Aspetto centrale dell’​​ ​​ educazione. La relazione, la comunicazione e l’interazione cui dà luogo o che lo esprimono, evidenziano infatti come l’educazione, anche quando è rivolta al proprio sé (auto-educazione), si pone sempre nell’orizzonte di un «vivere in r.», all’interno di processi storici e di progetti personali e comunitari, nella concretezza dell’interazioni e dei processi di comunicazione interpersonale e sociale, siano essi intenzionali o meno; all’interno di strutture ed istituzioni; nel concreto farsi di società storiche; nella continua interazione con l’ambiente; nella dinamica dei processi produttivi, culturali, civili.

1. Un modo di intendere l’intera azione educativa.​​ A ben vedere la funzione educativa non è tanto funzione dell’educatore o dell’educando, ma piuttosto funzione di un r. tra persone, finalizzata ad uno scopo comune, sociale oltre che personale. In tal senso secondo alcuni il r.e. costituisce il punto di partenza obbligato e realistico di ogni riflessione e di ogni​​ ​​ ermeneutica pedagogica. Tradizionalmente ci si fissava sulle figure ed i ruoli delle persone che entrano in r. È stato questo il luogo privilegiato delle trattazioni riguardanti l’​​ ​​ educatore,​​ ​​ l’educando ed i rispettivi ruoli e funzioni all’interno del processo di sviluppo, di apprendimento e di formazione. È pure in quest’ambito che tradizionalmente veniva ad essere posto il discorso relativo alle cosiddette​​ ​​ antinomie educative, cioè alla serie di contrapposizioni che di fatto o di diritto si giudicano presenti nel r.e. in atto.

2. La centralità della relazione e della comunicazione.​​ Al presente, molte di queste questioni sono riprese a partire dal fenomeno e dai processi della​​ ​​ comunicazione umana. L’accento, più che sulle persone, è posto sul processo. Più che al r., staticamente visualizzato nei suoi aspetti e nelle sue intersezioni, l’attenzione va in primo luogo ai flussi interattivi ed alle ripercussioni che essi hanno sulla crescita delle persone. Tale approccio ha il merito di porre l’educazione nel contesto del vasto mondo dei simboli e dei linguaggi, in quello della cultura e delle sue dinamiche, e nel complesso mondo delle relazioni interpersonali e sociali (anche se oscura un po’ la dimensione di soggettività personale propria dei partner​​ del r.). Peraltro grazie agli studi scientifici e filosofici sul​​ ​​ linguaggio e sull’intersoggettività, si è potuto mettere in luce come il r.e. concorra all’emergenza della soggettività ed identità individuale e comunitaria. Oltre ad essere in qualche modo costitutiva dell’io di coloro che entrano in r., seppure in diverso grado e modo, oltre a farsi noti a se stessi e riconoscersi reciprocamente, nel r.e. si partecipa alla creazione del comune patrimonio d’idee, di valori, di modelli di comportamento e di espressione che diciamo​​ ​​ cultura. In tal modo si mette in risalto come l’educazione diventi momento di costruzione della comunità e del sentimento della cittadinanza.

3.​​ Nell’ambito della comunicazione,​​ delle relazioni e dei r. interpersonali.​​ Come nota​​ ​​ Dewey, ogni genuina comunicazione ha una valenza educativa, in quanto permette un allargamento e un mutamento della propria esperienza, dando adito ad una modificazione più o meno ampia dell’atteggiamento, del comportamento e della sistemazione mentale ed affettiva, sia che si trasmetta o si riceva una comunicazione. All’interno del r.e. ogni azione educativa può essere considerata una comunicazione mediata da simboli. Una tale affermazione, nella sua generalità, ha il vantaggio di essere comprensiva della molteplicità di forme in cui si può tradurre l’intervento educativo e si può esprimere il r.e. Vi può infatti rientrare qualsiasi intervento che, come la comunicazione, può essere intenzionale o solo funzionale, codificato o non del tutto codificato, derivante da fonti anonime o da persone concrete, direttamente o indirettamente, tramite parole o con altri mezzi. In tal modo si evidenzia che il r.e. soggiace alle regole ed al gioco, alle strutture ed alle dinamiche caratterizzanti l’incontro e la comunicazione tra persone, con tutte le sue difficoltà, interferenze, guasti: fino alle forme di vera e propria incomunicabilità, soggezione psicologica, reificazione personale, od altre forme patologiche. Similmente l’educazione appare come una relazione ed un processo interattivo (o, se si vuole, transattivo) nel senso che gli interscambi non sono riducibili alle sole intenzioni o contenuti verbali, ma implicano la creazione di atteggiamenti e di comportamenti globalmente personali con reazioni psicologiche e reinterpretazioni di sé, più o meno vaste, da parte dei partner del r., seppure in diverso grado e modalità d’incidenza. Per designare le polarità del r.e., la pedagogia tradizionalmente, parla in modo schematico di «educatore» e di «educando». In effetti le due polarità personali del r.e. possono essere interpretate unidimensionalmente e singolarmente, cioè come un r. di io-tu, globale o sotto qualche aspetto, naturalmente nel concreto di una situazione di vita; ma possono essere interpretate e vissute pluridimensionalmente e collettivamente, ad es. come individuo-gruppo, insegnante-classe, gruppo-gruppo, collettivo, comunità educativa di educandi e di educatori. Nel r.e. non è senza incidenza la specificazione del «genere» maschile o femminile della relazione, la quale richiede pertanto una sua differenziazione nell’interazione educativa. Anzi non è possibile mettere tra parentesi il carattere strettamente intersoggettivo del r., vale a dire la coscienza e il fatto di trovarsi di fronte a persone che hanno il loro «nome» e «cognome», per cui in sede di pratica educativa e didattica sarà necessaria una precisa attenzione all’​​ ​​ individualizzazione e alla​​ ​​ personalizzazione del r. stesso, non mai del tutto sovrapponibile alla interazione di gruppo o alle dinamiche collettive.

4.​​ La specificità del r.e.​​ All’interno del mondo dei r. interpersonali, il r.e. si specifica per modalità particolari e per gli scopi che regolano la relazione e la comunicazione interpersonale. In primo luogo il r.e. presuppone una situazione relazionale fondamentalmente e specificamente​​ asimmetrica,​​ nel senso che i partner del r. non solo giocano ruoli ed assolvono funzioni diversificate, ma intervengono in condizione di disparità per ciò che riguarda le diverse esigenze vitali e per ciò che concerne esperienza di vita, attitudini, maturità personale, cultura. Si tratta di una disparità specifica, non assoluta, né necessariamente a tutti i livelli, e quindi con la possibilità che risulti inesistente o addirittura capovolta nel tempo o sotto qualche altro aspetto della vita personale. Ad un’attenta riflessione essa si mostra inoltre complementare, nel senso che nel r.e. può trovare esaudimento il bisogno-aspirazione dei partner di partecipare al patrimonio sociale di cultura e di sentirsi coinvolti nel comune e generale processo di trasformazione e di liberazione personale e comunitaria (che fa da orizzonte di senso al r.e.). In un tale contesto sono da assumere le espressioni di​​ ​​ Freire, altrimenti piuttosto eccessive nella loro perentorietà, secondo cui «nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, tutti si educano insieme nel r. con il mondo». In secondo luogo il r.e. (e la corrispettiva comunicazione e relazione) è da considerare come una​​ particolare «relazione di aiuto»​​ (​​ Rogers). Essa nasce da una «domanda» (più o meno implicita o chiara, individuale e spesso decisamente sociale) che appella ad un sostegno, ad un venire incontro in vista della promozione personale e della buona qualità della vita propria ed altrui («responsabilità educativa»), anche se più che una semplice «risposta» riveste le forme di una «proposta» che legge, interpreta, educa la domanda stessa in r. all’integralità delle istanze da essa avanzate. In tal modo l’aiuto diventa un voler il bene dell’educando. E ciò è constatabile nella​​ particolare tonalità affettiva​​ presente nel r.e., tale che fa parlare di «amore educativo» (con una sua base istintuale emozionale, denominabile​​ eros​​ educativo, e una sua espressione sentimentale, denominabile «affetto educativo»). Come in ogni altra forma di amore umano, specie quando il r.e. raggiunge una certa consistenza relazionale, è facile che in esso si producano momenti di dolore e di gioia, di sofferenza e di soddisfazione, di crisi e d’incomprensione profonda, di sentimento e di odio, di riconoscenza e di rancore, di attaccamento e di distacco, di gelosia e di indifferenza, di calore e di freddezza, di tenerezza e di aggressività, di incomprensione profonda e di finissima empatia, di momenti caldi e di routine noiosa, di differenza e di consonanza intellettuale ed emotiva, etica e religiosa, di vero e proprio transfert psicologico.

5.​​ I​​ caratteri del r.e.​​ L’evidenziazione delle peculiarità del r.e. permette di delineare agevolmente i suoi tratti essenziali. Esso va inteso anzitutto come un​​ r. teleologico,​​ cioè orientato secondo finalità, verso il conseguimento di obiettivi, con contenuti, appunto educativi, in quanto rivolti allo sviluppo e la formazione personale (e in tal senso differenziabili, almeno intenzionalmente e formalmente – anche se magari non materialmente – da finalità, obiettivi e contenuti di altro tipo, ad es. economici, politici, ecclesiali, ecc.). L’intenzionalità educativa può essere sperimentata e vissuta in forma cosciente ed esplicita, ma anche in forma implicita ed indiretta o anche sotto forma vitale, immediata e intuitiva; o ancora a livello di coscienza collettiva, cioè come modo culturale di comportamento (che si produce in costumi, usanze, comportamenti e che è oggettivata nelle istituzioni del sistema sociale di formazione). Essa specifica e regola la relazione, la comunicazione e la dinamica del r.e. È pure evidente che il r.e. si realizza quando c’è effettiva comunicazione ed interazione personale in un quadro intenzionalmente educativo. Il​​ carattere dialogale​​ del r.e. è oggi particolarmente sentito dalla coscienza contemporanea. Tuttavia, anche in questo caso, non significa che l’incontro non vada soggetto a tensioni tra le polarità del r.e. Anzi il carattere dialogale può conseguire alla decisione di dare sbocco positivo ad esse. In effetti fa parte del r.e. una intrinseca​​ dimensione dialettica:​​ ad es. nella linea del «controllo» lungo le polarità di dominanza-sottomissione, di autorità-libertà; oppure nella linea dell’«emozionalità» lungo le polarità di distacco-accettazione, di disistima, rifiuto, distacco o all’opposto di stima, calore, simpatia; o ancora nella linea della «possibilità di educazione» lungo le polarità di auto / etero-educazione, direttività / non direttività, educazione negativa / educazione positiva, auto-realizzazione / condizionamento. Il gioco dialettico del r.e. mette pure in luce l’aspetto dinamico​​ e​​ processuale​​ di esso, nel senso che si attua nel tempo, all’interno della vicenda storica delle persone e dei gruppi storici socialmente organizzati, e pertanto implica momenti privilegiati e di crisi; cicli e periodi soggetti a crescita ed a regressioni, a fissazioni e sviluppi; un laborioso apprendimento, pratico oltre che conoscitivo; una certa disciplina di vita, mentale, affettiva, volitiva e comportamentale; una gradualità ed un certo ordine di successione di contenuti, di atti, di metodi, di tecniche e di mezzi educativi; l’esperienza assimilativa ed elaborativa di quanto viene appreso; ed infine un certo residuo di tensione, non ulteriormente componibile, ma sempre suscettibile di trattamento in presenza di elementi di novità o di mutamento di intenzioni e di volontà. Ad evidenziare il carattere dinamico del r.e., nella tradizione pedagogica si è venuto a dire che etero-educazione ed auto-educazione stanno tra loro in r. inversamente proporzionale: la prima tende a diminuire e proporzionalmente l’altra ad aumentare. Al limite si può arrivare a dire che il r.e. sa che il suo «destino» è di «morire» come tale, quando e nella misura in cui ormai chi è soggetto educando ha competenza di guidare in proprio la crescita personale: un traguardo che non ha tempo stabilito, né unico. In molti casi il r. interpersonale continua. Quello che era l’educatore continua ad essere il padre, la madre, il sacerdote, l’amico, l’amica, il consigliere, il compagno, il concittadino con cui si fa strada insieme nella vita comune (e corrispettivamente quello che era l’educando continua ad essere il figlio, la figlia, ecc.).

6.​​ La situazionalità del r.e.: il fattore ambiente.​​ Nella sua dinamica il r.e. s’intreccia con i flussi comunicativi e con le procedure relazionali dell’ambiente in cui esso si compie come evento. L’attenzione all’​​ ​​ ambiente, non solo geo-fisico (l’habitat),​​ ma sociale, culturale, simbolico (vale a dire quello che si viene a creare nella mente di ognuno a seguito delle stimolazioni provenienti dalla comunicazione interpersonale e sociale) è caratteristica della tradizione pedagogica. Infatti il r.e. si dà sempre all’interno di situazioni di vita informali o appositamente strutturate; e quindi assume carattere differente a seconda di esse e del come esse sono vissute. Il r.e. si realizza normalmente in​​ ​​ istituzioni che accanto alla finalità educativa assolvono ad altre finalità (ad es., in famiglia, in parrocchia, nel sindacato, nel partito) o in istituzioni appositamente organizzate e strutturate (scuola, associazioni educative, giardini d’infanzia, collegi, convitti, università, convegni, seminari, corsi, lezioni) od anche in istituzioni non direttamente educative (associazioni sportive, associazioni ricreative, teatro, luoghi d’incontro, ecc.). Quanto alla dimensione storico-temporale si possono distinguere r.e. relativamente duraturi (come capita nel r. madre / figlio) e r.e. episodici, ma non per questo magari meno importanti o di minore efficacia educativa: si pensi a certi incontri, a certe conversazioni o dialoghi con amici, o con persone, o con grandi personaggi o «immaterialmente» con un libro e oggi «virtualmente» con le star della comunicazione tramite mass-media e new-media.

7.​​ Condizioni e condizionamenti del r.e.​​ Per solito questa costitutiva ed originaria connessione del r.e. con il mondo della natura, della civiltà, delle strutture e delle istituzioni economiche, sociali, culturali, comunicative, politiche e religiose viene considerata quasi solo come limite e condizionamento del processo formativo e dell’intervento educativo. Altrettanto viene detto dell’apparato strutturale bio-psichico soggettivo. Ma tale modo di vedere è decisamente improprio. Infatti la​​ ​​ corporeità umana nella sua struttura biopsichica, l’ambiente geo-fisico originario o variamente manipolato dal lavoro umano, le istituzioni culturali, sociali, politiche, economiche, religiose, le strutture della comunicazione interpersonale e sociale, i processi storici di sviluppo, sono, in senso proprio, condizioni normali ed essenziali dell’essere e del porsi del r.e. Anzi si può affermare che il r.e. dilapida i propri tesori se non dispone di tempo e di luoghi, di mezzi e di strutture pertinenti per svilupparsi. È pur vero che tali condizioni, in sé normali, possono diventare in concreto sorgente di condizionamenti, d’impedimenti, di limiti e di determinismi, che interferiscono negativamente nel processo e nel r.e. o lo rendono perlomeno arduo, dando luogo a squilibri, fissazioni o regressioni di personalità; oppure a forme varie di handicap o di insensibilità, frigidità, inerzia, passività, fissazione, egoismo. Ad altro livello possono configurarsi come massicce interferenze sociologiche, culturali, economiche, politiche, istituzionali, tecniche, come quando parliamo di esclusione sociale, di massificazione, di omologazione, di manipolazione, di alienazione, di oppressione, di discriminazione, di pressione, di angoscia. Ma è nei confronti di tale fondamentale ambiguità delle possibilità e delle​​ ​​ risorse, che va esercitato il carattere correttivo, integrativo o promozionale dell’intervento educativo e della ricerca pedagogica (​​ autorità educativa e​​ ​​ interazione educativa).

Bibliografia

Franta H.,​​ Interazione educativa,​​ Roma, LAS, 1977; Postic M.,​​ La relazione educativa,​​ Roma, Armando, 1983; Pati L.,​​ Pedagogia della comunicazione educativa,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Porcheddu A.,​​ Insegnamento e comunicazione,​​ Teramo, Giunti e Lisciani, 1984; Perucca Paparella A.,​​ Genesi e sviluppo della relazione educativa,​​ Brescia, La Scuola, 1987; Caroni V. - V. Iori,​​ Asimmetria nel r.e.,​​ Roma, Armando, 1989; Bombi A. S. - G. Scittarelli,​​ Psicologia del r.e., Firenze, Giunti, 1998; Canevaro A. - A. Chieregatti,​​ La relazione di aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Roma, Carocci, 1999; Postic M.,​​ La relación educativa: factores institucionales, sociológicos y culturales, Madrid, Narcea,​​ 2000; Di Santo A. M. (Ed.),​​ Pensieri e affetti nella relazione educativa, Roma, Borla, 2002; Stella A.,​​ La relazione educativa. Complessità,​​ transazione e intenzione nel r. educatore-educando, Milano, Guerini, 2002; Masoni M. - B. Mezzani,​​ La relazione educativa, Milano, Angeli, 2004.

C. Nanni




rappresentazione della CONOSCENZA

 

CONOSCENZA:​​ rappresentazione della

Rispetto al passato, in cui prevaleva la ricerca di tipo filosofico sulla natura della c., gli studiosi contemporanei sembrano preferire la ricerca su come la c. sia rappresentabile, su come si trovi nella mente umana, su quanti e quali tipi di c. l’uomo disponga, su come la c. muti, si trasformi, venga acquisita o rimanga nella memoria a lungo termine. Possiamo immaginare la mente come la sede nella quale conserviamo, elaboriamo, organizziamo, inventiamo c. e informazioni. Nel 1972 Tulving ipotizzò un doppio archivio di c.:​​ episodiche​​ e​​ semantiche.​​ Le prime sarebbero c. che si riferiscono a esperienze personali spazialmente e temporalmente definite. Le seconde, di natura più astratta, esprimono l’essenza di qualcosa e su di esse si possono compiere operazioni logiche e inferenziali che non è possibile fare sulle prime. La distinzione di Tulving ha indotto gli studiosi ad analizzare altri tipi di c.

1.​​ Le c. dichiarative.​​ I vari tipi di c. riferentisi a «qualcosa» sono in genere indicati come c.​​ dichiarative.​​ Esse includono tutte le informazioni, sia sensoriali che semantiche che possediamo del mondo che ci circonda. Sono di diversa provenienza e di diverso livello di astrazione; possono appartenere ad un’identica area di significato o di oggetti ed essere in vario modo collegate tra loro o richiamarsi a vicenda. In ogni caso costituiscono la rappresentazione che abbiamo delle cose, degli eventi o delle situazioni del mondo e dell’ambiente nel quale viviamo. Hanno una importanza straordinaria perché ci permettono di muoverci velocemente nella grande complessità della realtà circostante, di categorizzare, di formulare ipotesi, di inferire, di comunicare, ecc. Paivio (Clark-Paivio, 1987) ha sostenuto che, oltre ad un archivio per le informazioni episodiche e semantiche, vi sia nella memoria anche un archivio di​​ immagini.​​ La sua tesi è sostenuta da varie ricerche, anche se non è mancato chi non ha condiviso questa posizione. L’esigenza di ipotizzare differenti processi ed archivi si è inizialmente fondata sulla constatazione che parole ed immagini hanno una realtà profondamente diversa. Le prime sono rappresentazioni simboliche di caratteristiche fonetiche; sono costituite da unità separabili e combinate secondo un ordine sequenziale. Il linguaggio verbale deve essere necessariamente sequenziale, pena la perdita di significato. Diverso è il codice visivo, dove le parti e le unità sono integrate, formano un continuo, sono analoghe agli oggetti reali, sono rappresentazioni olistiche e le varie parti non possono essere distinte, come invece accade per le lettere di una parola. L’uso di moderne metodologie di analisi ha fornito in questo campo dati di estremo interesse. Le rotazioni di immagini mentali hanno presentato caratteristiche assai simili a quelle che avvengono nella realtà. Il tempo necessario per esaminare un’immagine mentale si è dimostrato più o meno lungo a seconda della distanza dell’elemento da trovare dal punto di partenza. I processi connessi a compiti di immaginazione o percettivi, indagati mediante la tecnica del controllo del flusso ematico con emissione di positroni (PET) sembrano essere localizzati in specifiche parti della corteccia cerebrale (Kosslyn et al., 1993). Il movimento svolto o previsto è stato riscontrato corrispondente alla combinazione di vettori di cellule neuronali che indicano la direzione. In generale questo tipo di c. sembrerebbe globalmente possedere intrinsecamente le proprietà degli oggetti e degli eventi; avere una funzione importantissima per il riconoscimento di qualche cosa che viene percepito; mantenere informazioni che al momento dell’acquisizione possono essere riconosciute come poco importanti.

2.​​ Le c. semantiche.​​ Un secondo tipo di rappresentazione di c. è quella simbolica e riferibile all’area dei significati, ai contenuti semantici. La ricerca ha presentato molti modelli di rappresentazione semantica differenziantisi per l’ampiezza dell’unità che intendono rappresentare (parole, frasi, unità più complesse) e per il modo di rappresentarle. Tutti i modelli hanno la caratteristica comune di usare dei simboli: alcuni rappresentano le c. gerarchicamente a forma d’albero o di rete, altri attraverso un elenco a cui vengono associate procedure per la loro interpretazione. La proposizionale è stata la modalità più comune e diffusa. Questa modalità, rispetto a quella per immagini che mantiene «intrinsecamente» la struttura dell’oggetto rappresentato, usa un sistema arbitrario e simbolico e per questo mantiene «estrinsecamente» la struttura della c. rappresentata. A sostenere l’idea che la rappresentazione sia in grado di descrivere con una certa attendibilità le c. nella mente hanno contribuito diverse ricerche evidenziando come testi con lo stesso numero di parole richiedessero più tempo di lettura se contenevano un maggior numero di proposizioni oppure che il tempo di ricupero di parole lette in testi variasse a seconda che le parole si trovavano nella stessa proposizione o in proposizioni diverse. Questa modalità di rappresentazione ha avuto una grande diffusione sia nel campo della ricerca psicologica che educativa (costruzione delle mappe semantiche, educazione alla lettura e comprensione, apprendere da testo scritto), perché si è dimostrato un procedimento estremamente efficace e flessibile per rappresentare c. non riducibili a quelle concettuali, ma dotate di una complessità tale da essere assimilabili a quelle espresse in testi linguistici. La stessa linea di ricerca ha rilevato anche la presenza nella mente di c. complesse indicate con vari nomi:​​ script,​​ frame,​​ schemi,​​ mental model,​​ cognitive map.​​ Esse hanno in comune la particolarità di contenere le caratteristiche con cui un certo oggetto o evento abitualmente si presenta. Lo​​ script​​ ad es. rappresenta c. complesse costituite da una sequenza temporale di scene, il​​ frame​​ o lo schema rappresentano in genere scene (una stanza) che condividono elementi (muri, soffitto, pavimento, mobilio, quadri, luce, ecc.), forma (rettangolare o squadrata), grandezza (tra i 16 e i 25 mq.) ecc. I​​ mental model​​ rappresentano c. proposizionalmente descrivibili, ma per alcuni miste anche a rappresentazioni analogiche, varianti da persona a persona, da situazione a situazione, esperienze vissute.

3.​​ Le c. procedurali.​​ Dalle c. semantiche vanno distinte le c.​​ procedurali.​​ Esse riguardano azioni, cioè tutte quelle informazioni che una persona possiede relativamente al modo di fare qualcosa. Ad es., sono c. procedurali quelle suggerite da un insegnante ad un alunno perché impari ascrivere, a memorizzare, a calcolare. Le c.-azioni sono rappresentabili attraverso l’indicazione delle​​ procedure​​ che devono essere eseguite (Anderson, 1983). La ricerca su questo tipo di c. non è stata amplissima anche perché l’efficacia del suo uso è stata immediata e grandissima. Le evidenze più forti sono venute dall’osservazione delle persone affette da amnesia: esse perdono la memoria delle c. dichiarative, ma non di quelle procedurali. Anche gli errori commessi da studenti nelle prestazioni cognitive spesso rivelano un errore o un deficit nella c. procedurale che dovrebbe guidarli nella loro attività. La teoria della c. procedurale ha avuto anche una interessante applicazione nell’apprendimento di abilità. Secondo Anderson (1987) un’abilità verrebbe inizialmente appresa come dichiarativa e solo con l’esercizio e il transfer diventerebbe automatizzata e sarebbe archiviata nella memoria procedurale a lungo termine. L’automatizzazione nelle prestazioni spiegherebbe le differenze tra esperti e principianti. Gli esperti avendo automatizzato le c. dichiarative necessarie per l’esecuzione del compito possono attuare le loro prestazioni in modo più rapido alleggerendo il peso della memoria lavoro. Le conseguenze educative e le possibilità esplicative di molti comportamenti sono state amplissime. Nel campo educativo la teoria della c. procedurale offre un modello di riferimento per stabilire obiettivi di apprendimento, comprendere gli errori di prestazioni e suggerire come intervenire.

4.​​ La c. esplicita e la c. implicita.​​ Se invece di osservare le c. a partire dalla loro realtà, le si considera attraverso il modo in cui possono essere acquisite, esse si distinguono in esplicite e implicite. Le prime sono c. sia dichiarative che procedurali il cui momento di acquisizione è conscio e ricuperabile; le seconde, al contrario, sono quelle il cui ricordo non è posseduto dal soggetto anche se questi dimostra di possederle e di utilizzarle. Sebbene vi possa essere una relazione tra i due tipi di c., alcuni dati di ricerche sembrano dimostrare che esse sono mantenute in archivi diversi (Schacter, 1987; Schacter - Tulving, 1994).

5.​​ Conclusione.​​ La rappresentazione delle c. costituisce certamente la novità maggiore prodotta dalla ricerca cognitivista di questi ultimi decenni. Essa è anche al centro dell’interesse di un nuovo ambito di studi rappresentato dal connessionismo che invece di assumere come «paradigma» interpretativo la metafora del computer assume il cervello. Da questo punto di vista la c. è il prodotto di molte interazioni tra molti elementi semplici come i neuroni tali da formare delle «reti neurali».

Bibliografia

Tulving E. - W. Donaldson (Edd.),​​ Organization of memory,​​ New York, Academic Press, 1972;​​ Skill acquisition: compilation of weak-method problem solutions,​​ in «Psychological Review» 94 (1987) 192-210; Clark J. M. - A. Paivio, «A dual coding perspective on encoding processes», in M. A. McDaniel - M. Pressley (Edd.),​​ Imagery and related mnemonic processes: theories,​​ individual differences and applications,​​ New York, Springer-Verlag, 1987, 5-33; Schacter D. L.,​​ Implicit memory: history and current status,​​ in «Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition» 13 (1987) 501-518; Kosslyn S. M. et al.,​​ Visual mental imagery activates topographically organized visual cortex: PET investigations,​​ in «Journal of Cognitive Neuroscience» 5 (1993) 263-287; Schacter D. L. - E. Tulving (Edd.),​​ Memory systems 1994,​​ Cambridge, MIT Press, 1994.

M. Comoglio




RATIO STUDIORUM

 

RATIO STUDIORUM

Metodi e pratiche pedagogiche sperimentati ripetutamente nei collegi della Compagnia di Gesù (​​ Gesuiti) durante quattro secoli, che furono radunati e vagliati per costituire una norma strutturata della pedagogia, senza negare la convenienza degli opportuni accomodamenti ai luoghi, tempi e persone. Il preposito generale C. Acquaviva ordinò la sua redazione definitiva nel 1599; in essa s’integravano gli esperimenti pratici del Collegio di Messina e quelli del Collegio Romano, in accordo con la parte IV delle​​ Costituzioni. A​​ partire dal 1832, la​​ r.s.​​ dovette essere adattata per proteggerla dalle ingerenze dei poteri pubblici.

1.​​ Struttura fondamentale.​​ Questa impostazione degli studi divide l’insegnamento in tre tappe:​​ studi umanistici,​​ filosofia​​ e​​ teologia.​​ A​​ loro volta, gli studi umanistici si dividevano in tre categorie:​​ grammatica,​​ studi letterari​​ e​​ retorica.​​ La grammatica era divisa ancora in​​ infima,​​ media​​ e​​ suprema.​​ Ogni livello stabiliva gli autori classici che dovevano essere spiegati (Cicerone, Virgilio, Orazio, ecc.). Come materie complementari, la​​ storia​​ e​​ l’erudizione.​​ Il corso di​​ filosofia​​ si divideva in: 1)​​ logica​​ e​​ metafisica generale,​​ con​​ matematica elementare; 2)​​ cosmologia e psicologia,​​ insieme alla​​ fisica​​ e alla​​ chimica;​​ 3)​​ teodicea​​ ed​​ etica,​​ con l’aggiunta della​​ matematica​​ e della​​ storia naturale.​​ Gli studi di​​ teologia​​ erano impostati secondo la​​ scolastica,​​ in particolare​​ ​​ Tommaso d’Aquino, insieme alla​​ teologia​​ Positiva: Sacra Scrittura​​ (Nuovo e Vecchio Testamento),​​ Canoni​​ e casi di teologia morale (casus conscientiae).

2.​​ Fondamento pedagogico.​​ La r.s. è la risposta metodologica ad alcuni principi e finalità previ che costituivano l’ideale educativo dei primi gesuiti: l’umanesimo cristiano. Ignazio di​​ ​​ Loyola sperimentò il valore e la necessità della formazione accademica che lo preparò alla fondazione di un Ordine religioso eminentemente educativo. Ritenne basilare un atteggiamento attivo del discepolo, coadiuvato dall’esperienza del maestro, sottolineando perciò l’importanza della relazione maestro-discepolo, nonché il progredire dello studente grado per grado.

Bibliografia

a)​​ Fonti: R. atque institutio s. S. I.​​ (1586, 1591, 1599), Roma, IHSI, 1986, ediz. in MHSI, 129;​​ La «r.s.». Il metodo degli studi umanistici nei collegi dei gesuiti alla fine del secolo XVI,​​ a cura dei Gesuiti de «La Civiltà Cattolica» e di San Fedele, Milano, 1989. b)​​ Studi:​​ Trossarelli F.,​​ La pedagogia dei Gesuiti dalla tradizione ad oggi,​​ Roma, 1973; Bertrán M. Ma,​​ «Introducción», in C. Labrador et al.,​​ La «r.s.» de los jesuitas,​​ Madrid, Universidad Comillas,​​ 1986;​​ R. atque institutio studiorum Societatis Iesu. Introduzione e traduzione​​ di​​ A. Bianchi, testo latino a fronte, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002.

F.-J. de Lasala